Per circa due secoli, l'isolotto artificiale di Dejima fu l'unico punto d'incontro tra il Giappone e l'Occidente; tra mille limitazioni, fu soprattutto grazie ai medici della VOC, la Compagnia olandese delle Indie orientali (e ai loro interpreti giapponesi), se da una parte il Giappone scoprì qualcosa della scienza e della tecnologia europee, dall'altra filtrarono in Europa le prime notizie sulla cultura e la natura giapponesi. Il pioniere di questo incontro difficile fu Engelbert Kaempfer, che alla fine del Seicento lavorò come medico e chirurgo a Dejima per due anni e mezzo, osservando, annotando, disegnando tutto il possibile con occhio di curioso e rigore di scienziato. Del Giappone del suo tempo gli interessava tutto, ma riservò uno spazio particolare alla flora, scrivendo la primissima Flora japonica, con circa 200 specie. Tra tutte, la più famosa è Ginkgo biloba; e si deve proprio a Kaempfer il piccolo errore di trascrizione che ha trasformato il giapponese ginkio in ginkgo, traendo in inganno Linneo, grande ammiratore del pioniere degli studi nipponici, cui dedicò il genere Kaempferia. La strada per il Giappone passa dalla Persia Quando il medico tedesco Engelbert Kaempfer arrivò in Giappone per prendere servizio nella minuscola stazione commerciale di Dejima, situata in un isolotto artificiale nella baia di Nagasaki (ne ho parlato qui) era un già un viaggiatore di lungo corso. Il suo vero cognome era Kemper, ma più tardi lo cambiò in Kaempffer o Kempfer, che significa «guerriero, combattente», quasi un emblema del suo carattere. Nato nella contea di Lippe, un piccolo stato periferico della Germania settentrionale, incominciò i suoi vagabondaggi da studente, passando da un'università all'altra finché su laureò in filosofia a Danzica; continuò poi gli studi in medicina a Cracovia e Köningsberg. Nel 1681 si trasferì a Stoccolma; entrato in contatto con politici influenti, fu assunto come medico e segretario di legazione della seconda ambasciata svedese in Persia, guidata da Ludvig Fabritius, un militare e diplomatico di origine olandese. Il lungo viaggio tra Stoccolma e Isfahan, la capitale della Persia safavide, durò quasi esattamente un anno, da marzo 1683 a marzo 1684. Lungo il cammino, che portò la delegazione ad attraversare la Finlandia, la Livonia, l'impero russo, per poi navigare sul mar Caspio e percorrere l'Iran settentrionale, animato da una forte curiosità intellettuale e probabilmente già intenzionato a trasformare le sue avventure in un libro di viaggi, Kaempfer raccolse ogni possibile informazione, visitò siti storici e curiosità naturali (tra cui i campi petroliferi di Badkubeh, oggi Baku), prese misure e tracciò mappe, disegnò oggetti, intervistò ogni sorta di informatori. Kaempfer rimase a Isfahan circa venti mesi (marzo 1684-novembre 1685), imparò il persiano e il turco, e visitò sistematicamente la città, compresi diversi giardini, facendo molti disegni. Come membro della legazione svedese, ebbe accesso alla corte, dove poté osservare edifici, costumi, rituali, comportamenti. Al termine della missione decise di non rientrare in Svezia, ma di cercare un ingaggio nella VOC, che aveva una base commerciale anche a Gamron (oggi Bandar Abbas) sul golfo Persico. Per raggiungerla si aggregò a una carovana; durante il viaggio visitò Shiraz, il monte Benna e Persepoli. Qui abbandonò i compagni di viaggio per studiare le antiche rovine: misurò meticolosamente gli edifici, trascrisse alcune iscrizioni e fu il primo a notare che i caratteri avevano forma di cuneo. Giunto a Bandar Abbas negli ultimi giorni del 1685, vi rimase bloccato per due anni e mezzo, anche se la detestava con tutto il cuore: «È la città più infertile, arida, calda, pestilenziale del mondo, quella che più assomiglia all’inferno di tutto il globo» . In quel clima infernale Kaempfer si ammalò gravemente; per riprendersi, andò a passare i mesi estivi in montagna; quindi visitò le piantagioni di palma da dattero, raccogliendo informazioni sulle caratteristiche botaniche, la coltivazione, l’importanza commerciale. Solo dopo vari mesi, fu assunto come medico della base della VOC. Per circa un anno, dal giugno 1688, lavorò come medico di bordo sulla Copelle, una nave della VOC che commerciava nei porti indiani; nell’agosto 1689, era a Batavia, dove presentò domanda senza successo per essere assegnato all’ospedale della Compagna. Pensava di rimanere a Giava, di cui conosceva la ricchezza floristica, ma quando gli venne offerto il posto di chirurgo a Dejima, accettò. Sarebbe rimasto in Giappone due anni, dal settembre 1690 all’ottobre 1692. A caccia di piante giapponesi La condizione degli olandesi a Dejima era di semiprigionia: non potevano uscire liberamente dall'isola, ogni loro movimento era sorvegliato (per ogni olandese c'erano almeno dieci sorveglianti, tutti a carico della VOC), non avevano contatti al di fuori della stazione, era loro negato l'accesso a qualsiasi oggetto considerato sensibile dalle autorità (vietatissime le mappe). Nonostante tutti questi limiti, Kaempfer seppe sfruttare ogni occasione per raccogliere una grande messe di informazioni sulla vita quotidiana, i costumi, la religione, la storia naturale. Conquistò l’amicizia (e le confidenze) di varie persone con cure gratuite, medicine, lezioni di medicina e matematica. Di grande aiuto fu l'assistenza del giovane Imamura Iensei, che gli fu affiancato come interprete e allo stesso tempo come apprendista di medicina e chirurgia occidentali; il ragazzo, colto, abile e intelligente, imparò rapidamente l’olandese, e rimase a fianco di Kaempfer, cui era legato da grande venerazione, fino alla fine del suo soggiorno a Dejima, accompagnandolo anche nei due viaggi a Edo. Grazie a lui, altri interpreti, pazienti, medici che praticavano la medicina occidentale, Kaempfer poté procurarsi libri (compresa un’enciclopedia illustrata), mappe, disegni, oggetti di varia natura, sebbene in teoria fosse vietato. Anche il suo amore per le piante, molto ammirato dai giapponesi, funzionò come una sorta di passaporto, che gli permetteva di dedicarsi a indagini su oggetti sensibili in tutta tranquillità: «Sistemavo apertamente erbe, fiori e rami verdi accanto ai miei strumenti, e mentre li misuravo, li esaminavo, li descrivevo e li disegnavo, ne approfittavo per descrivere e disegnare tutto quello che volevo». Nella primavera del 1691 e del 1692, i due viaggi a Edo, durante i quali la delegazione olandese attraversò il Kyushu per imbarcarsi alla volta di Osaka e quindi percorse il Tokaido, la più celebre e affollata strada dell’antico Giappone, gli permisero di conoscere di persona alcune delle regioni più importanti del paese e di raccogliere campioni di animali e piante: attività non proibita, anzi apprezzata dai giapponesi, tanto che i suoi accompagnatori (e sorveglianti), incluso il governatore, spesso gli portavano qualche pianta. Per rendersi indipendente dagli interpreti, con il suo talento per le lingue imparò le frasi necessarie per informarsi su dati come il periodo di fioritura o la fruttificazione. Kaempfer lasciò Dejima il 30 ottobre 1692 e rientrò in Olanda via Giava circa un anno dopo. Non avendo completato gli studi di medicina, per poter esercitare la professione in Europa si iscrisse all’Università di Leida, dove ottenne la laurea magistrale. Forse sperava di inserirsi nell’ambiente accademico olandese o tedesco, ma non gli fu possibile. Nel 1694, dopo un’assenza di ventitré anni, ritornò in patria e dovette rassegnarsi a vivere in una realtà provinciale, prima nella cittadina di Lemgo, poi al servizio del conte di Lippe. Gli impegni professionali gli lasciarono poco tempo per rivedere i suoi scritti, senza contare un matrimonio infelice sfociato in una causa legale; riuscì solo a completare e a veder pubblicata Amoenitates exoticae, una raccolta di saggi in cinque parti, le prime quattro dedicate alla Persia, la quinta al Giappone. Quest’ultima comprende saggi su argomenti come l’agopuntura, l’uso della moxa, il tè, il sakoku (termine introdotto proprio da Kaempfer), e una Flora japonica con la descrizione di circa 200 piante; i limiti delle sue finanze gli permisero però di far stampare solo 28 dei suoi numerosissimi disegni. A ricordarci l’importanza del suo contributo alla conoscenza della flora nipponica, le venti specie giapponesi che portano l'epiteto kaempferi; tra di esse Larix kaempferi, Rhododendron kaempferi, Broussonetia kaempferi. Fu il primo a descrivere e disegnare piante oggi notissime come Ginkgo biloba, Pittosporum tobira, Ophiopogon japonicum. Talvolta gli si attribuisce l’introduzione del primo ginkgo in Europa, ma in realtà i due esemplari più antichi, che si trovano rispettivamente a Utrecht e Geetbets, furono piantati almeno trent’anni dopo . Si deve invece a lui (o al tipografo che compose Amoenitates exoticae) l’errore di trascrizione a causa del quale il giapponese ginkio divenne ginkgo. Rimasero manoscritti i due progetti più ambiziosi di Kaempfer: la relazione completa dei suoi viaggi e il libro sul Giappone Huetiges Japan («Il Giappone di oggi»). Dopo la sua morte, avvenuta nel 1716, gli erbari e i manoscritti furono acquistati dal medico e collezionista inglese Hans Sloane, che finanziò la pubblicazione dell'edizione inglese curata dal naturalista svizzero Johann Caspar Scheuchzer, History of Japan (1727). Quasi trent’anni dopo il viaggio giapponese e undici anni dopo la morte di Kaempfer, l’opera ebbe un successo sensazionale e presto fu tradotta in altre lingue europee, forgiando per almeno un secolo l'immagine del Giappone in Occidente. Non meno profondo e permanente fu l’impatto sulla cultura europea delle pagine dedicate alla corte persiana e alle antichità di Persepoli. Una sintesi della vita di questo grande viaggiatore nella sezione biografie. Kaempferia, profumi tropicali La Flora japonica contenuta in Amoenitates exoticae costituisce la fonte principale di Linneo per le piante giapponesi; morto nel 1778 e già malato da tempo, egli infatti non poté giovarsi delle ricerche dell’allievo Carl Peter Thunberg. Non stupisce dunque la sua dedica del genere Kaempferia a quel pioniere dello studio della flora nipponica, così motivata in Hortus Cliffortianus: «Ho dedicato questo genere al curiosissimo viaggiatore Kaempfer, al quale dobbiamo la conoscenza delle piante giapponesi e la loro accurata descrizione». Il genere Kaempferia L. (famiglia Zingiberaceae) comprende una quarantina di specie di piante erbacee originarie dell’Asia tropicale e subtropicale (India, Indocina, Cina meridionale, Malaysia, arcipelago indonesiano), con centro di diversità nel bacino del Mekong. Di piccole dimensioni, hanno radici rizomatose aromatiche che producono da una o poche foglie ovoidali o tondeggianti raccolte a rosetta, che in alcune specie sono marcate d’argento o porpora; i fiori, che in genere spuntano al livello del terreno, in alcune specie prima delle foglie, sono profumati e relativamente vistosi. Diverse specie fanno parte della farmacopea tradizionale o sono usate come spezie: ad esempio, le foglie di K. galanga (il cui aroma ricorda quello di Alpinia galanga, del resto appartenente alla stessa famiglia) sono un ingrediente comune della cucina di Giava e Bali, mentre le radici hanno proprietà antibatteriche, digestive e diuretiche. Alcune specie sono coltivate come piante d’appartamento; una delle più notevoli è K. elegans, una piccola erbacea non più alta di 20 cm, apprezzata, più che per i piccoli fiori lilla, per le foglie vistosamente marcate d’argento. K. pulchra è simile, ma con marcature scure. Qualche informazione in più nella scheda.
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Nel Seicento, l'Olanda vive il suo secolo d'oro. E' il paese più prospero d'Europa, all’avanguardia nei commerci, nelle scienze, nella cultura, nell’arte. E nei giardini: gli olandesi, sfruttando la loro secolare esperienza nel sottrarre terra al mare, ridisegnano la natura e creano un nuovo modello di giardino, in cui le siepi sagomate dalle forbici dei giardinieri disegnano stanze, padiglioni, teatri di verzura. A differenza del giardino all’italiana, in cui il verde domina, il giardino barocco olandese è colmo di fiori, con parterre multicolori simili ai tappeti persiani tanto amati da Vermeer o Rembrandt. Molti mercanti che si sono arricchiti con i traffici o le industrie investono il loro denaro in tenute di campagna che spesso ospitano vasti giardini, uno status symbol del loro potere e della loro ricchezza. Non possono mancare collezioni di piante esotiche: sono alla base della prosperità dell'Olanda e sono anche il simbolo del suo dominio sul mondo, il segno tangibile di quel nuovo Eden, paradiso in terra ricostruito, che per qualche decennio i Paesi Bassi si illudono di essere. E così non è un caso se Paul Hermann, il più importante botanico olandese del secolo, battezza Paradisus batavus, "Paradiso olandese", il suo libro dedicato alle rarità coltivate in quei giardini. Rarità che molto ha contribuito a introdurre in Europa, prima come esploratore del Capo di Buona Speranza e dell'isola di Ceylon, poi come direttore dell'Orto botanico di Leida. Linneo lo stimava tanto da proclamarlo "principe dei botanici" e da dedicargli, complice Pitton de Tournefort, il genere Hermannia. Sud Africa, Ceylon... Leida Nel 1658, dopo una lunga guerra in cui intervenne a fianco dei sovrani locali (che ancora non sapevano che stavano per sostituire un occupante con l'altro), la VOC (Verenigde Oost-Indische Compagnie, Compagnia olandese delle Indie orientali) espulse definitivamente il Portogallo da Ceylon (oggi Sri Lanka). Da quel momento, esercitò il monopolio del commercio della cannella dell'isola, la migliore in assoluto. Ma impiegati e ufficiali si ammalavano con allarmante frequenza di malattie sconosciute in Europa che i farmacisti e i chirurghi al servizio della Compagnia non sapevano come curare; le medicine portate dall'Europa nel clima tropicale non sempre servivano e perdevano presto la loro efficacia; era urgente studiare la flora locale alla ricerca di piante medicinali alternative. Un influente uomo politico, Hieronymus van Beverningh, che era anche un accanito collezionista di piante esotiche, e il prefetto dell'orto botanico di Leida Arnold Seyen raccomandarono il giovane medico tedesco Paul Hermann (1646-1695), da poco laureato alla prestigiosa università di Padova; si dice fosse interessato alle piante fin da bambino, quando, a dieci anni, rischiò di annegare per esaminare delle piante acquatiche. I suoi sponsor speravano che, oltre a soddisfare gli obiettivi della Compagnia, potesse anche arricchire le loro collezioni. Dunque, in un certo senso Hermann è il primo cacciatore di piante al servizio di un orto botanico. Partito per Ceylon all'inizio del 1672, ad aprile approfittò dello scalo al Capo di Buona Speranza per raccogliere piante sudafricane; e altrettanto fece durante il viaggio di ritorno, nel marzo del 1680. A parte il precedente della piccola raccolta di Justus Heurnius (che però era un teologo, non un botanico), si tratta del primo contatto di un botanico europeo con la flora del Capo. Con gli esemplari raccolti (circa 800, secondo la testimonianza di Linneo) formò un erbario; spedì semi e bulbi in Olanda, e altri li affidò al chirurgo di bordo Hieremias Stolle, di ritorno in Europa. Questi a sua volta li passò all'anatomista danese Thomas Bartholin che nel 1775 pubblicò la breve nota "Plantae novae Africanae", la prima pubblicazione a stampa dedicata esclusivamente a piante sudafricane. A Ceylon, come "medico ordinario e medico capo" della VOC, Hermann si stabilì a Colombo, sede del quartier generale della Compagnia; creò e diresse un ospedale, esplorò assiduamente la flora dei dintorni, annotando i nomi locali e le proprietà medicinali delle piante. Con questi materiali mise insieme diversi libri di erbari e almeno un volume di illustrazioni (non è certo se di sua mano o di altri anonimi disegnatori); inoltre inviò più volte bulbi e semi in Olanda. Sebbene siano limitate alla zona intorno a Colombo (gli olandesi controllavano solo alcune aree costiere) e includano anche diverse specie coltivate introdotte, le sue raccolte sono impressionanti per quantità e per la qualità delle annotazioni, senza contare l'eccezionale valore storico, trattandosi del primo studioso europeo a esplorare la flora dell'isola, ai suoi occhi un vero Eden. Intorno al 1674 visitò anche brevemente il Malabar dove forse incontrò van Rheede, che potrebbe averlo consultato per il progetto che poi divenne Hortus malabaricus. L'esplorazione della flora singalese diede grande fama a Hermann, tanto che nel 1678, alla morte di Arnold Seyen, i rettori dell'Università di Leida decisero di chiamarlo a succedergli come professore di botanica e prefetto dell'Orto. Hermann accettò e tra la fine del 1679 e l'inizio del 1680 lasciò Ceylon per tornare in Olanda. Nelle sue lezioni, fu il primo botanico olandese a prestare attenzione alla tassonomia; creò anche un proprio sistema, basato sui frutti, che univa e modificava quelli di Ray e Morison. Oltre che a Leida, fu adottato in altri orti botanici, tra cui Uppsala ai tempi di Rudbeck il vecchio. Deciso a fare dell'Orto di Leida il migliore d'Europa, solitamente dedicava le pause accademiche a viaggi in altri paesi europei per consultare colleghi e appassionati e procurarsi piante; nel 1682 fu in l'Inghilterra, dove visitò tra l'altro gli orti botanici di Oxford e Chelsea, e ne riportò più di 200 piante vive (soprattutto nord americane); nel 1688 andò a Parigi ad incontrare Tournefort; qui strinse amicizia con l’inglese William Sherard, che decise di seguirlo a Leida. Dal 1686, assunse anche l'insegnamento di medicina pratica. Durante la sua gestione, l'orto botanico di Leida divenne il principale centro europeo di acclimatazione e diffusione delle piante provenienti dalle colonie americane, africane e asiatiche. Oltre alle sue introduzioni dirette dall'India e dal Sud Africa, poté sfruttare i suoi contatti con la VOC e con i principali collezionisti olandesi, nonché con l'Inghilterra e la Francia, per triplicare le collezioni (il suo catalogo del 1687 registra tremila specie, contro le circa 800 di inizio secolo); molte erano subtropicali o tropicali. Nel 1681, fu tra i primi a sperimentare una serra riscaldata. Olanda, un secondo Eden? Hermann morì nel 1695 a soli 49 anni (qui una sintesi biografica), lasciando incomplete e inedite diverse opere; l’unico suo libro pubblicato in vita fu infatti il catalogo dell’orto botanico di Leida (1687). Quella a cui teneva di più, e a cui lavorava da diversi anni, era Paradisus batavus, un catalogo illustrato delle piante di recente introduzione nei giardini olandesi. Già nel 1689 l'affezionato Sherard ne aveva pubblicato l’indice, e alla morte inaspettata del maestro e amico si assunse il compito (ingrato, visto lo stato del manoscritto) di curarne la pubblicazione; a spese della vedova di Hermann, l’opera uscì in una prima edizione relativamente economica in ottavo nel 1695, e in una seconda più pregevole edizione in quarto nel 1705 . Entrambe comprendono un centinaio di calcografie, su disegni in gran parte di mano dello stesso Hermann; per numerose specie, si tratta della prima immagine a stampa. Nonostante sia un lavoro diseguale (a causa della morte dell’autore, le piante sono trattate in modo variamente esteso e in alcuni casi l'illustrazione è priva di note d'accompagnamento) è di estremo interesse per la storia dell’introduzione delle piante orticole; tra di esse, come ho raccontato in questo post, le prime due orchidee tropicali coltivate in Europa. Ma è anche un documento in presa diretta della civiltà olandese del giardino nel secolo d’oro. Tra i giardini citati, oltre agli orti botanici di Leida e Amsterdam e a quelli principeschi di William e Mary (divenuti sovrani d’Inghilterra nel 1689, in seguito alla gloriosa rivoluzione), quelli di importanti uomini politici: il suo protettore Hieronymus van Beverningh, il segretario degli stati d’Olanda Simon van Beaumont, il pensionario di Haarlem Gaspar Fagel, il ciambellano Willem Bentinck (poi primo duca di Portland). Per questi uomini di potere, i giardini e il collezionismo di piante esotiche e rare avevano un preciso significato ideologico: come leggiamo in Den Nederlandtsen Hovenier , il popolare manuale di giardinaggio scritto da Jan van der Groen (circa 1635-1672), capo giardiniere dello statolder, la caduta di Adamo aveva reso imperfetta la natura, ma l’arte, la domesticazione e l’ordine potevano restituire la perfezione perduta e i giardini erano la prova materiale della riuscita dell’impresa. Il titolo del libro di Hermann, Paradisus batavus «paradiso olandese», si rifà esplicitamente a questa ideologia. Nel 1717, le note di campo scritte da Hermann a Ceylon furono pubblicate, sempre da Sherard, sotto il titolo Musaeum Zeylanicum. Ma per la storia della botanica sono molti più importanti gli erbari. Hermann aveva raccolto centinaia di esemplari sia per sé, sia per i suoi sponsor; al rientro da Ceylon, consegnò almeno un libro d’erbario a Beverningh e un altro a Jan Commelin, direttore dell'orto botanico di Amsterdan. Dopo la sua morte, la vedova, probabilmente per finanziare la stampa di Paradisus batavus, vendette il resto all’asta. Per cinquant’anni, se ne perse ogni traccia, finché nel 1744 giunsero nelle mani del farmacista reale danese August Günther cinque volumi, quattro d’erbario e uno di disegni. Günther li prestò a Linneo, che se ne servì sia per la sua unica pubblicazione sulla flora asiatica, Flora Zeylanica, sia per le piante singalesi di Species plantarum. Dopo diversi altri passaggi, il prezioso erbario fu acquistato da Joseph Banks e fa oggi parte delle collezioni del Natural History Museum di Londra. Il volume appartenuto a Commelin fu invece studiato dal botanico olandese Johannes Burman per il suo Thesaurus Zeylanicus. Deliziose (e misconoscite) Hermanniae Hermann era stimatissimo dai botanici della generazione immediatamente successiva: Boerhaave lo definì «incomparabile per la conoscenza delle piante», Johannes Burman lo chiamò «sommo lume dell’Università di Leida». Quanto a Linneo, che premise a Flora Zeylanica una biografia di Hermann così elogiativa da sconfinare nella agiografia, lo salutò «principe dei botanici», un titolo che di solito riservava a se stesso, e scrisse: «Non c’era al mondo un botanico pari a Hermann per i meriti e le scoperte» . Grande stima ne aveva anche Tournefort che gli dedicò il genere Hermannia , sulla base dell’unica specie allora nota (nome attuale Hermannia hyssopifolia), una delle acquisizioni sudafricane di Hermann; il genere fu poi fatto proprio da Linneo . Hermannia L. della famiglia Malvaceae è un grande genere soprattutto sudafricano, dunque perfetto per celebrare il primo esploratore della flora del Capo. A parte una specie australiana e pochissime specie distribuite tra Messico e zone adiacenti degli Stati Uniti, buona parte delle circa 160 specie sono africane, 81 delle quali endemiche del Sud Africa, soprattutto delle province del Capo occidentale e settentrionale. Il genere è molto vario, e si è adattato a un’altrettanto grande varietà di ambienti. Sono piante erbacee o piccoli arbusti, spesso striscianti. Le specie che vivono nel veld tendono a lignificare alla base e a formare un fusto legnoso sotterraneo, in grado di superare i periodi di siccità o anche gli incendi. Anche se sono poco utilizzate nei giardini, molte specie sono assai decorative grazie alle masse di fiori penduli a campana, spesso in delicati colori pastello. Ne troverete una piccola selezione nella scheda. Quando il suo nome viene proposto come naturalista della spedizione Bougainville, Philibert Commerson ha già 39 anni; non può più contare sulla forza fisica che, giovane, gli ha permesso di percorrere più volte, erborizzatore solitario, le Alpi e i Pirenei. Accetta solo a condizione di essere accompagnato da un servitore a carico della Corona. Così, all'imbarco dell'Etoile si presentano in due, Commerson e Baret. In definitiva, sarà questa scelta a impedire a Commerson di tornare in Francia, dove pure lo aspetta un bimbo, e a fare di lui il primo esploratore della flora delle isole Mascarene e di Madagascar. Inoltre, farà sì che le circostanze della sua vita privata incuriosiscano i posteri molto di più della pur formidabile attività scientifica: negli ultimi anni, non si contano i romanzi, le biografie, gli articoli dedicati a Baret, mentre di Commerson come naturalista si occupano solo gli specialisti. Nella nomenclatura botanica, le cose vanno all'opposto: il genere Baretia, che avrebbe dovuto ricordare Baret anche nel regno di Flora, non è valido, al contrario di Commersonia, omaggio di una coppia di colleghi altrettanto sfortunati. Giovinezza di un botanico fanatico Il 21 marzo 1773 l'Accademia delle scienze parigine ammette tra i suoi membri due botanici: il giovane Antoine-Laurent de Jussieu, che ha appena presentato una memoria sulla famiglia dei Ranuncoli, e Philibert Commerson, che, per quanto ne sanno gli accademici, è ancora a Mauritius a raccogliere piante. Non si potrebbero immaginare due modi più diversi di essere botanici, anzi di "vivere" la botanica. Jussieu, oltre che l'erede della più illustre famiglia di botanici di Francia, dunque un uomo di potere che sa usare tutti gli agganci per perseguire il successo personale, è un tassonomista, uno che passerà tutta la vita studiare esemplari d'erbario, a confrontare, a scrivere (e con quali grandiosi risultati!). Commerson, oltre ad essere un ousider, un eremita, un uomo isolato e fuori degli schemi, è soprattutto un instancabile raccoglitore, un erculeo creatore di erbari che ammassa esemplari a migliaia. Certo, ha scritto molto anche lui, ma senza mai pubblicare nulla, un po' per perfezionismo, un po' per sfortuna. Infatti, quando arriva quella nomina è già morto da otto giorni. Aveva appena 46 anni. Non solo i suoi manoscritti rimarranno incompleti, ma le sue raccolte andranno in parte disperse o saranno trascurate da chi avrebbe dovuto pubblicarle, non ultimo proprio Antoine-Laurent. L'ultima sventura di una vita difficile. Ma andiamo con ordine. Philibert Commerson è nato nel 1727 in una cittadina della Bresse; è il figlio maggiore di un notaio e maggiorente locale, che vorrebbe seguisse le sue orme. Ma Philibert, già innamorato della natura, vuole diventare medico e naturalista. Dopo uno scontro che non dovette essere facile, il padre cede e gli permette di studiare medicina a Montpellier. Qui le sue doti sono apprezzate da Antoine Gouan, ma il suo fanatismo, che lo spinge a saccheggiare l'orto botanico dell'università per arricchire il proprio erbario, spinge il conservatore, François de Sauvage, a vietargliene l'ingresso. Commerson continuerà a rifornirsi, scalando le mura del giardino nottetempo. Ma sull'esempio di Sauvage creerà uno splendido erbario di sole foglie delle piante che crescono nei dintorni di Montpellier. Dopo esserci laureato, prima di tornare a casa va a erborizzare tra Cevenne, Savoia e Svizzera. Passa da Ferney a fare visita a Voltaire, che vorrebbe assumerlo come segretario; ma Commerson rifiuta: quel filosofo ha una faccia da birbante; meglio tornare nella Bresse, raccogliendo piante lungo la strada. E' medico, ma non esercita la professione. A trent'anni, dipende ancora dai genitori. Nella casa paterna di Châtillon-les-Dombes crea un orto botanico privato, visita i giardini e gli orti botanici della regione, e intesse una rete di corrispondenti con cui scambia semi ed esemplari. Il suo nome incomincia ad essere conosciuto tanto che Linneo, anche grazie al suo buon amico Gouan, gli chiede di raccogliere e descrivere le piante marine, le conchiglie e i pesci del Mediterraneo per il gabinetto di curiosità della regina di Svezia; non sappiamo in che modo Commerson assolse l'incarico, ma al Museo di Stoccolma è ancora conservata la sua bella collezione di pesci. Un editore gli propone di pubblicare uno studio di ittiologia, ma Commerson declina. Tutto il tempo che può lo dedica alle raccolte sul campo, e lo fa nel suo solito modo eccessivo. Lasciamo la parola al suo futuro cognato, il curato François Beau: "Per otto o nove anni consecutivi, ha trascorso le estati alternativamente nelle Alpi e nei Pirenei per cercare piante e insetti in queste montagne che ha percorso almeno tre o quattro volte; viveva di pane e di latticini che acquistava dai pastori e dormiva sulla paglia nelle loro capanne". Al ritorno, alle fatiche della raccolta seguono, altrettanto forsennate, quello dello studio. A raccontarcelo è l'amico Lalande: "Passava settimane intere, giorni e notte, senza interruzione, senza sonno e senza riposo, concentrato nelle ricerche di botanico, nell'esame e nella sistemazione delle ricchezze che aveva raccolto erborizzando o che aveva ottenuto dai suoi corrispondenti. Spesso all'alba era ancora lì, con la sua lampada accesa, senza essersi accorto che era rinato il giorno". La famiglia pensa che è ora che metta la testa a posto e gli combina un matrimonio. La prescelta è Antoinette Vivante Beau, la figlia di un altro notaio. La coppia va a vivere nel villaggio di Toulon-sur-Arroux, nel Charolais, dove François Beau è curato. Il matrimonio è straordinariamente felice e Commerson sembra trovare un equilibrio tra la vita del medico di villaggio e la passione botanica. Ma dopo due anni, Antoinette muore dando alla luce il piccolo Archambault. Philibert cade nella depressione più nera, che alterna a fiammate di furore botanico. Intermezzo: lo svelamento di Baret A strapparlo al suo malinconico ritiro pensa un conterraneo e amico d'infanzia, l'astronomo Jêrome de Lalande, che sta facendo una brillante carriera scientifica nella capitale. Così nel 1764 Commerson si trasferisce a Parigi e va ad abitare non distante dal Jardin des Plantes, mentre il piccolo Archambaud, che adesso ha due anni, rimane al paese, affidato allo zio materno. Meno orso di quanto potremmo pensare, il botanico si inserisce abbastanza bene negli ambienti scientifici parigini: frequenta i naturalisti del Jardin des Plantes e Lalande lo introduce nei circoli dei matematici e degli astronomi. Gli fa conoscere l'accademico e medico Pierre-Isaac Poissonnier, ispettore della marina e delle colonie; probabilmente grazie a lui Commerson è scelto come naturalista della spedizione Bougainville. Per quest'ultima egli redige un programma di ricerche così articolato da apparire troppo ambizioso persino a lui, e si dimostra molto abile a negoziare le sue condizioni: la nomina a botanico del re, uno stipendio di tutto rispetto, un servitore a carico della corona. Durante una delle sue escursioni solitarie, è stato ferocemente morso da un cane e la ferita non è mai guarita del tutto; è claudicante e ha bisogno di assistenza per la raccolta e il trattamento degli esemplari. Riprendiamo dunque il filo del racconto dove lo avevamo lasciato nel post dedicato alla spedizione Bougainville. Commerson e Baret si imbarcano tra gli ultimi. Il botanico ostenta di non conoscere il giovane servitore: Jean Baret gli si è presentato a Rochefort e ha chiesto di assumerlo, spinto dal desiderio di avventura. I due si sistemano nella cabina ceduta dal capitano e durante la traversata ne escono raramente: Commerson soffre atrocemente di mal di mare, l'ulcera alla gamba si è aggravata e deve essere continuamente assistito. Sulle vicende successive, possediamo diverse versioni. Cominciamo da quella di Bouganville, non necessariamente la più vera, ma quella ufficiale. Come già sappiamo, durante gli scali in America Baret assiste instancabile Commerson, trasporta cibo, armi e munizioni, raccoglie e sistema gli esemplari. Si arrampica agile e audace sulle montagne dello Stretto di Magellano. Alla fine, le raccolte americane di padrone e servitore ammonteranno a 1800 esemplari. Il colpo di scena avviene a Tahiti. Non appena i due mettono piede a terra, sono circondati da una folla che grida: "Vahinè! Una donna!" e cerca di aggredire Baret; reimbarcato in tutta fretta, da quel momento non lascia più la nave. Turbato dagli eventi, Commerson fa poche raccolte; nei suoi taccuini, di Tahiti rimangono soprattutto alcuni disegni etnografici. Bougainville sembra prenderla con calma, ordina un'inchiesta discreta, e solo molti giorni dopo, mentre le navi sono ancorate di fronte a Espiritu Santu, va sull'Etoile a interrogare Baret, che, in lacrime ammette di essere una donna e gli propina una storia degna di un romanzo larmoyant. Nata in Borgogna, rimasta orfana, era stata ridotta in miseria da un processo; per sottrarsi ai suoi persecutori si era travestita da uomo e si era trasferita a Parigi dove aveva servito come lacchè un Ginevrino. Quando ha saputo della spedizione intorno al mondo, per desiderio di avventura e curiosità femminile si è presentata a Commerson poco prima della partenza; il suo padrone non sa nulla, lo ha ingannato nel desiderio di essere la prima donna a fare il giro del mondo. Bougainville la prende con filosofia, accontentandosi di separarla da Commerson facendola trasferire sulla Boudeuse. Secondo il chirurgo dell'Etoile, François Vivès (che detestava cordialmente Commerson), voci sulla vera natura di Baret circolavano già durante la traversata dell'Atlantico e in Sud America, ma lo smascheramento sarebbe avvenuto solo nella Nuova Irlanda, dove la ragazza sarebbe stata rapita e spogliata da un gruppo di marinai. Anche Nassau-Siegen e Duclos-Gouyot collocano lo svelamento in Nuova Irlanda, ma senza riferirne i particolari. D'altra parte, alcuni tahitiani riferirono a Cook, che visitò l'isola due anni dopo Bougainville, che tra i francesi c'era una donna, il che prova che il sesso di Baret era noto almeno a loro, e forse anche ai marinai. Alcuni commentatori hanno sostenuto che Bougainville scoprì chi era Baret già a Rio e per questo fece mettere agli arresti Commerson; è altamente improbabile: in tal caso avrebbe fatto sbarcare la ragazza, rispedendola in Francia con la prima nave disponibile. E' però verosimile che la sua versione sia stata concordata con Commerson o confezionata dallo stesso Bougainville per scagionare il più possibile il naturalista, che rischiava la carriera e anche un processo, visto che la legge proibiva a qualsiasi donna di trattenersi su una nave militare. Il racconto di Jean / Jeanne Baret in effetti è del tutto falso. Nata in un villaggio non troppo lontano da Toulon-sur-Arroux, era entrata al servizio di Commerson come domestica probabilmente dopo la morte della moglie di lui; intelligente e curiosa, ben presto imparò a preparare, organizzare e classificare gli esemplari, divenendo il braccio destro del suo padrone. E' assai probabile che ne sia divenuta anche l'amante, visto che quando Commerson si trasferì a Parigi e la portò con sé, era incinta di padre ignoto. Alla nascita, il bambino fu affidato all'assistenza pubblica e morì poco dopo. Una conferma inequivocabile del legame è nel testamento che Commerson dettò prima di partire per il giro del mondo, con cui lasciò a "Jeanne Baret, conosciuta con il nome di Bonnefoi, mia governante" la somma forfettaria di 600 lire. Resta da chiarire se l'idea di far travestire Jeanne da uomo in modo che potesse continuare ad assistere il suo padrone fu di lui, di lei o di entrambi. Lucile Allorge, che tende a presentare Commerson come un timido che gioca al cinico per nascondere la sua debolezza, ritiene che una scelta tanto audace vada ascritta totalmente a Jeanne, una donna coraggiosa, decisa, devota al suo Philibert fino all'abnegazione. In una lettera al cognato, Commerson sostiene di aver cercato di dissuaderla, sottolineando tutti i pericoli del viaggio. Certo, Jeanne era una donna ammirevole, come scrive apertamente lo stesso Bougainville: "Sarà la sola del suo sesso e io ammiro la sua risolutezza, tanto più che si è sempre comportata con la saggezza più scrupolosa. La Corte, credo, le perdonerà di aver infranto le ordinanze". Ma anche Commerson, lo abbiamo visto, non era tipo da farsi spaventare dalle convenzioni. Una destinazione non prevista: le Mascarene e Madagascar Come abbiamo visto, dopo Tahiti gli scali furono pochissimi e le raccolte di Commerson si limitano a una ottantina di esemplari della Nuova Irlanda, cui sia aggiungono poche piante raccolte a Giava. L'8 novembre 1768 la Boudeuse e l'Etoile gettano l'ancora all'Ile de France, oggi Mauritius. Qui, a togliere dall'imbarazzo Bougainville, Commerson e Baret, interviene una vecchia conoscenza parigina del naturalista: Pierre Poivre, che da poco più di un anno si è trasferito a Mauritius come Intendente delle isole di Francia e Borbon. Accanto alla sua residenza, sta creando il primo orto botanico dei tropici, il Jardin de Pamplemousses, un giardino di acclimatazione dove fa affluire piante provenienti dal maggior numero possibile di paesi tropicali, nella speranza di lanciare l'economia delle isole e di spezzare il dominio olandese delle spezie. Invita Commerson a rimanere per collaborare con lui; gli offre una casa e emolumenti maggiorati del 30 per cento. A sedurre il botanico, più dei vantaggi materiali, sono le collezioni di quel favoloso giardino e ancor più la prospettiva di riprendere l'esplorazione: oltre alle Mascarene, il Madagascar, dove Poire progetta una spedizione. Dunque, non può che accettare, tanto più che a Parigi potrebbe attenderlo un'inchiesta, forse addirittura un processo. Così, quando Bougainville riparte, a bordo non ci sono più Philibert e Jeanne. La piccola équipe scientifica della spedizione si è sciolta: sono rimasti a Mauritius anche l'astronomo Pierre-Antoine Véron, e l'ingegnere Charles Routier de Romainville, che presto ripartirà per colonizzare le Seychelles. Véron, che è figlio di un giardiniere, è divenuto l'amico più caro di Commerson, che nel 1770 apprenderà con grande dolore la notizia della sua morte a Timor, dove si è recato nella speranza di assistere al transito di Venere. Commerson riprende le raccolte con l'entusiasmo della giovinezza, anche se la forza fisica e la salute non sono più quelle; al suo fianco, assistente non più clandestina, c'è sicuramente Jeanne. Si interessa a tutto, e sostiene l'intraprendente Poivre in tutti i suoi progetti. L'Ile de France è di per sé un campo di ricerca appassionante, con la sua ricchezza di endemismi; ma è anche il punto di arrivo di piante esotiche portate da viaggiatori vecchi e nuovi, come l'Hortensia (oggi Hydrangea macrophilla), forse portata qui dal Giappone da marinai olandesi; o il seducente coco de mer, arrivato dalle Seychelle, che Commerson battezza audacemente Ladoicea callypige, per quel seme che evoca le natiche femminili. Quando la gotta non lo costringe a rimanere a letto, batte palmo palmo l'isola e erborizzando per monti e per valli raccoglie almeno mille esemplari. Ora lo affiancano ben due disegnatori, Paul Philippe Sanguin de Jossigny, un militare giunto nell'isola come aiutante del governatore, e Pierre Sonnerat, il nipote di Poivre. Il giovane è qui come segretario dello zio, ma si appassiona di scienze naturali e diventa di fatto l'allievo di Commerson cui mette a disposizione il suo talento di disegnatore. Dopo vari rinvii, dovuti soprattutto alla sua cattiva salute, nell'ottobre 1770 Commerson, insieme a Joissigny, si imbarca per il Madagascar, dove nello stesso periodo si trova anche Sonnerat, come scrivano di una nave militare. E' stupefatto della ricchezza e della varietà della flora dell'isola, che da sola gli sembra riunire più specie di quante ne abbiano descritte tutti i botanici, Linneo compreso. Jeanne è rimasta a Mauritius, ma come assistente Commerson si è procurato un giovanissimo schiavo nero, un bambino non più grande di suo figlio Archambaud. Anche se il soggiorno nell'isola è di soli due mesi e il botanico deve limitarsi ad esplorare il dintorni di Fort Dauphin, raccoglie quasi 500 esemplari. Una ferita lo costringere a rientrare, ma la nave su cui viaggia incappa in una burrasca ed è costretta a rifugiarsi a Bourbon (oggi La Réunion). E' un nuovo territorio da esplorare e ben accolto dai locali, Commerson prolunga il soggiorno per undici mesi, aggiungendo 600 esemplari alla sue collezioni. E' così instancabile che Jossigny scrive inutilmente a Poivre per essere esonerato; il bottino sarà di circa 600 esemplari. Il momento più memorabile è la grande spedizione al "Vulcano di Bourbon", oggi Piton de la Fournaise, insieme a Jossigny e al sedicenne Jean-Baptiste Lislet Geoffroy, un ragazzo nato a Bourbon che in seguito diventerà uno scienziato e il primo membro dell'Accademia delle scienze nato nelle colonie. Ritornato all'Ile de France all'inizio del 1772, Commerson ha il dispiacere di assistere alla partenza di Poivre, che è stato richiamato in Francia. E' ormai molto malato e non può unirsi a lui, tanto più che a bordo non c'è posto per le sue casse. Il nuovo sovrintendente, Maillard de Melle, che lo detesta, lo priva dell'alloggio e sopprime il suo stipendio e quello di Jossigny. Assistito da Jeanne, che è sempre rimasta al suo fianco, muore il 13 marzo 1773, all'età di 46 anni. Jeanne è rimasta senza mezzi; per qualche tempo lavora in una taverna, poi si sposa con un soldato. Forse nel 1774 o nel 1775 può ritornare con il marito in Francia, completando il suo giro del mondo. Porta con sé le 34 casse dei materiali di Commerson, che consegna al Jardin des Plantes. Quindi rivendica la sua parte di eredità e va a stabilirsi con il marito in Dordogna. Nel 1785, il re le concede una pensione con questa motivazione: "Jeanne Barré, grazie ad un travestimento, circumnavigò il globo su uno dei vascelli comandati da Bougainville. Si dedicò in particolare ad assistere Commerson, dottore e botanico, e condivise con grande coraggio il lavoro ed i pericoli di costui. Il suo comportamento fu esemplare e Bougainville le riconobbe numerosi meriti". Alla morte, nel 1807, lascia tutto ciò che possiede a Archambaud, il figlio di Commerson. Candida Commersonia di Natale Chi dovrebbe occuparsi di pubblicare i materiali di Commerson è proprio Antoine-Laurent de Jussieu, che ne ha per così dire ereditato la cura dallo zio Bernard. In altre faccende affaccendato, non lo farà mai, utilizzandone solo una piccola parte, molti anni dopo, in Genera plantarum (1789). In compenso, botanici e zoologi non si fanno troppi scrupoli a saccheggiare i materiali del botanico scomparso e a pubblicarli come propri. L'enorme erbario (più di seimila esemplari e 3000 specie) andò in parte disperso, in parte fu riordinato e pubblicato da Lamarck, in parte rimase inedito. Il giudizio di Cuvier sulla questione è una condanna inappellabile: "Commerson era un uomo infaticabile e della scienza più profonda. Se avesse potuto pubblicare le sue osservazioni, occuperebbe uno dei primi posti tra i naturalisti. Sfortunatamente, è morto senza poter completare la redazione dei suoi scritti e coloro a cui sono stati affidati i suoi manoscritti e i suoi erbari li hanno trascurati in modo colpevole". Commerson creò moltissimi generi botanici, molti dei quali dedicati a amici o studiosi che stimava; solo una piccola parte fu pubblicata, anche se ne rimangono validi circa quaranta. Tra quelli mai pubblicati e quindi non riconosciuti, anche i due generi che volle dedicare alle due donne della sua vita. Per ricordare la moglie, scelse un bellissimo albero del Madagascar con più fiori che foglie e frutti che racchiudono due noccioli uniti in forma di cuore e lo battezzò Pulcheria commersonia; il nome non è stato mantenuto nella nomenclatura botanica e la specie che designa non è stata identificata con certezza. A Jeanne, salutata come "Amazzone dei botanici", "fanciulla armata di arco e frecce come Diana, ma di condotta delicata e rigorosa come Atena", dedicò invece Baretia bonafidia, oggi Turraea casimiriana, un endemismo delle Mascarene. Anche questo nome dunque non è riconosciuto; solo di recente, nel 2012, un'équipe di ricercatori ha voluto rimediare con la dedica di Solanum baretiae, una specie scoperta in Ecuador caratterizzata da un numero variabile di foglie che allude alla scelta di Jeanne di infrangere le regole della sua epoca, facendosi uomo per amore dell'uomo amato e della scienza. A ricordare Commerson, oltre a un centinaio di specie con l'epiteto commersonii, ha pensato una coppia di botanici sfortunata quanto lui: Johann Reinhold e Georg Forster, i due botanici padre e figlio della seconda spedizione di Cook. Anche le collezioni di Forster padre andarono disperse, e la sua opera più importante fu pubblicata postuma molti anni dopo la sua morte. Quanto a Georg, morì giovane in modo tragico. I due pubblicarono insieme la specie tipo, Commersonia echinata (il nome attuale è C. bartramia), raccolta a Tahiti, ma secondo una lettera di Forster figlio a Voss, il padre non vi ebbe parte; fu Georg a completarne la descrizione insieme a Sparrman. Commersonia, della famiglia Malvaceae, è un genere di circa venticinque specie di alberi e arbusti la cui area di distribuzione coincide con almeno una parte del teatro delle ricerche di Commerson: è presente soprattutto in Australia, il centro di diversità con una ventina di specie, ma anche nelle isole del Pacifico, comprese Tahiti e le Vanuatu, nel sud-est asiatico e in Madagascar. La specie più diffusa è C. bartramia, presente in Australia, nelle isole del Pacifico, in Indocina e nella Cina meridionale; è un arbusto o un piccolo albero con chioma espansa, molto attraente per le foglie cordate simili a quelle del tiglio e i densi corimbi di piccoli fiori bianchi a stella. In Australia è chiamato kurrajong di Natale (questo nome di solito indica alberi del genere Brachychiton, un'altra Malvacea) sia per la stagione della fioritura sia per il colore candido. Come omaggio ai viaggi di Commerson, aggiungo C. obliqua, un endemismo delle Vanuatu (l'arcipelago dove Bougainville ebbe il colloquio rivelatore con Baret), e C. madagascariensis, l'unica specie malgascia. Altre notizie nella scheda. E' piuttosto inconsueto che un botanico affermato, professore universitario e membro dell'Accademia delle scienze del proprio paese, a cinquant'anni suonati parta per una pericolosa spedizione scientifica ai tropici. Eppure il professor de Vriese, quando il parlamento olandese gli chiede di andare in missione in Indonesia, non esita a partire, forse affascinato dalla prospettiva di vedere nel loro ambiente naturale le piante che studia da sempre in erbari e serre. Non sa ancora che il prezzo da pagare sarà la sua stessa vita. Rivolgetegli un pensiero quando ammirate la fioritura delle piante che lo celebrano, le bellissime Vriesea. L'uomo giusto al momento giusto Impressionato dalle rivoluzioni che scuotono l'Europa, nel marzo 1848 il re d'Olanda Guglielmo II decide di trasformare il paese in una monarchia costituzionale. A capo della commissione che dovrà elaborare il testo della nuova costituzione, non esista a nominare Johan Rudolph Thorbecke, il leader dei liberali; proclamata il 3 novembre dello stesso anno, la costituzione prevede tra l'altro elezioni dirette con voto segreto, limitazioni del potere del sovrano, maggiore autonomia delle province, libertà di religione. Per la prima volta, il parlamento ottiene la giurisdizione sulle colonie, fino ad allora sotto l'esclusiva autorità del re. In Indonesia, i liberali al potere, fautori del liberismo economico, vorrebbero spezzare il sistema delle coltivazioni forzate, introdurre un'economia basata sul lavoro libero e aprire le Indie olandesi al capitale privato. Al di là delle petizioni di principio, devono muoversi con cautela perché dal batig slot, ovvero dai proventi versati al tesoro da quelle colonie, dipende larga parte del bilancio statale. Una soluzione per alleggerire le terribili condizioni dei contadini giavanesi, senza mandare in crisi il bilancio olandese, potrebbe essere l'introduzione di coltivazioni coloniali più redditizie, come sta facendo in quegli anni l'Impero britannico in India. E' in questo contesto che il governo olandese nel 1852 invia in Perù il botanico J.C. Hasskarl per cercare di procurarsi pianticelle di Cinchona, la pianta da cui si ricava il chinino, da introdurre a Giava; nel 1854 egli è di ritorno in Indonesia con un carico di virgulti che trapianta nell'orto botanico di Bogor/Buitenzorg. Non è un'iniziativa isolata. Nel 1857 il parlamento olandese decide di inviare in Indonesia un esperto di agronomia tropicale per studiare l'economia agricola delle isole e valutare le strategie migliori per affrancarla dal regime delle coltivazioni forzate. La scelta cade su Willem Hendrik de Vriese, professore di botanica dell'università e direttore dell'orto botanico di Leida. Come leggiamo nell'atto di nomina, approvato dal re, egli dovrà individuare le produzioni esotiche più adatte ai diversi climi delle isole e ricercare le piante native più utili per "le arti e il commercio". De Vriese era la persona perfetta per questo compito, per la sua profonda conoscenza della flora indonesiana e per i numerosi studi dedicati alle piante esotiche utilitarie. Medico, aveva insegnato botanica dapprima ad Amsterdam, poi a Leida, dove era succeduto a Reiwardt. Già esperto di piante esotiche, aveva particolare dimestichezza con la flora indonesiana per aver catalogato le piante raccolte dal suo predecessore e aver curato la pubblicazione del suo diario di viaggio in Plantae Indiae Batavae Orientalis : quas, in itinere per insulas archipelagi indici Javam, Amboinam, Celebem, Ternatam, aliasque, annis 1815-1821 exploravit Casp. Georg. Carol. Reinwardt (1856). Tra il 1855 e il 1856 pubblicò anche un'opera illustrata in tre volumi di orticultura e floricoltura (Tuinbouw-flora van Nederland en zijne overzeesche bezittingen) in cui le piante esotiche hanno larga parte. Gli si devono anche due importanti monografie su Rafflesia e sulle Marattiaceae (con Pieter Harting); era anche un esperto di felci e orchidee. Negli anni cinquanta, egli dedicò poi una serie di saggi a importanti piante tropicali di cui propugnava l'introduzione nelle colonie olandesi: nel 1855 Cinchona, nel 1856 Vanilla e Cinnamomum camphora. Un faticoso periplo tra le isole Il 28 ottobre 1857 de Vriese si imbarcò a Marsiglia alla volta dell'oriente; lo accompagnava il chimico de Vry, incaricato di studiare i principi attivi della Cinchona coltivata a Bogor. La prima tappa fu Ceylon, dove il botanico olandese studiò le piantagioni di caffè, all'epoca tra le più importanti del mondo; solo qualche anno più tardi, devastate da Hemileia vastatrix, sarebbero state sostituite dal tè. All'inizio dell'anno, via Singapore, si spostò a Giava, che visitò quasi per intero nel corso del 1858 e della prima metà del 1859; a questo punto si unì a Johannes Elias Teijsmann, il capo giardiniere di Buitenzorg/Bogor, con il quale visitò la parte orientale dell'isola e la desolata Madura. Teijsmann sarà ancora il suo compagno di viaggio in una impegnativa spedizione nelle Molucche, sulla quale siamo più informati grazie alla relazione che ce ne ha lasciato. Imbarcatisi a Surabaya il 15 dicembre, all'inizio del 1860 i due viaggiatori fecero scalo per qualche giorno a Makassar nell'isola di Celebes (oggi Sulawesi); si spostarono subito a Timor, dove si trattennero appena un giorno a Kupang, per poi passare a Dili e alle isole Banda: una visita doverosa, anche se ormai avevano perso l'importanza strategica che avevano rivestito per gli olandesi nell'arco di due secoli. Dal 1621 al 1810, come unico luogo al mondo dove si coltivava Myristica fragrans, avevano garantito all'Olanda il lucroso monopolio della produzione di noce moscata e macis. Un monopolio infranto dall'occupazione britannica del 1810: restituendo le isole dopo il Congresso di Vienna, gli inglesi si erano premurati da fare incetta delle preziose pianticelle, trapiantate con successo a Ceylon e in altre colonie. Ormai più importante la tappa successiva, Ambon, antico centro del commercio delle spezie, promettente per il suolo fertile e la varietà di ambienti naturali. Nei primi mesi del 1860, i due botanici vi stabilirono il loro quartier generale per l'esplorazione delle Molucche settentrionali. La prima spedizione fu dedicata alla piccola isola di Saparua ma soprattutto a Ceram (oggi anche Seram), dove de Vriese e Tejismann poterono dismettere i panni di agronomi e ispettori per tornare ad essere botanici. Ancora in gran parte ricoperta dalla foresta pluviale, questa isola dove gli animali e le piante dell'Asia si incontrano con quelli dell'Australia, con un clima caldo umido e un'intricata topografia montagnosa, dovette essere per de Vriese quasi il luogo dei sogni, dove studiare nel loro ambiente naturale le piante che amava di più: in primo luogo le felci, una delle sue specialità (oggi nell'isola si calcola ne vivano oltre 700 specie), ma anche le orchidee e le piante officinali, la cui ricognizione era uno degli obiettivi della sua missione. Nei mesi successivi fu la volta di Buru, quindi Ternate (in entrambe queste isole scalarono anche alcune cime), Tidore, Halmahera e numerosi isolotti. Ad aprile erano a Bacan, quindi, ormai sulla via del ritorno si spostarono a Celebes, dove si trattennero fino a giugno, visitando molte località delle regioni settentrionali. Alla fine del mese, erano di ritorno a Surabaya. Dato che da questo momento si separò da Tejismann, conosciamo meno dettagliatamente i viaggi successivi di de Vriese. Nella seconda parte del 1860 fu in Borneo e poi di nuovo a Giava, dove visitò le regioni centrali trascurate l'anno precedente; poi si spostò a Sumatra, dove si trovava all'inizio del 1861. Fu da Sumatra che probabilmente si imbarcò per l'Olanda, con la salute ormai compromessa da un'avventura tanto faticosa per un uomo che aveva superato la cinquantina. Al suo rientro in patria, nel marzo 1861, ebbe il dolore di perdere la moglie; ormai gravemente malato, non poté né riprendere la carriera universitaria né pubblicare i risultati della sua missione, morendo dieci mesi dopo il ritorno. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Intanto, il progetto di valorizzare le Indie orientali olandesi con l'introduzione di nuove specie andava avanti. Pur tra polemiche e mille difficoltà, la sperimentazione della coltivazione di Cinchona proseguì con successo e entro fine secolo l'Olanda si era assicurata il monopolio della produzione mondiale di chinino; intorno al 1860, a Sumatra arrivò il cacao e all'inizio del Novecento l'albero della gomma, Hevea brasiliensis. A guadagnarci, però, non furono certo i contadini indonesiani. Vriesea, bellezza tropicale Molto prima della faticosa missione che gli sarebbe costata la salute e la vita, il professor de Vriese si era già fatto un nome negli ambienti della botanica europea. Infatti, nel 1843, quando egli insegnava ancora a Amsterdam, John Lindley, separando da Tillandsia una specie brasiliana, T. psittacina, creò il genere Vriesea in suo onore con la seguente dedica: "Ho così colto l'opportunità di onorare i meriti del dottor W. de Vriese, professore ad Amsterdam, un eccellente botanico e fisiologo". Vriesea è oggi uno dei generi più importanti e il secondo per numero di specie della famiglia Bromeliaceae (circa 250). Per lo più epifite, vivono in foreste umide anche d'altura dal Messico al Brasile. Dato che si adattano bene alla limitata luminosità delle nostre case, sono anche una tra le più popolari piante d'appartamento, grazie alla bellezza della foglie, spesso elegantemente variegate, e delle infiorescenze a forma di spiga, che si fanno notare per le brattee dai colori squillanti da cui sporgono i fiori tubolari, spesso in colore contrastante; un'accoppiata frequente è data dal rosso e dal giallo. Anche se alcune specie (come V. carinata o V. hieroglyphica) sono abbastanza coltivate, a dominare il mercato sono soprattutto gli ibridi; da questo punto di vista, del resto, tra le Bromeliaceae Vriesea vanta un duplice primato: è stato il primo genere ad essere ibridato con successo, ed attualmente è quello con un maggior numero di ibridi. Per la cronaca, il primo fu prodotto in Belgio nel 1879 da Eduard Morren, curatore dell'Orto botanico di Liegi incrociando V. psittacina e V. carinata. Altre notizie nella scheda. A fare da sfondo alla nostra storia è un braccio di ferro diplomatico, fatto di mosse e contromosse, una guerra di spie che per quasi un secolo contrappose l'orso russo e il leone britannico. E' il Grande gioco, che ragazzini abbiamo imparato a conoscere dalle pagine del romanzo di Kiplig Kim. Tra le prime pedine di quel gioco, a muoversi sulla scacchiera del torneo delle ombre, come lo chiamarono i russi, sono due agenti britannici e un generale russo spericolato, ovvero il nostro protagonista, Vassilij Perovskij. Come protettore delle scienze (ma gli scienziati che lavoravano per lui erano anche, a tutti gli effetti, addestratissime spie), si è guadagnato il genere Perovskia, che dopo un giallo durato dieci anni torna a recuperare il suo nome, mentre non ha mai spesso di donarci le sue azzurrissime fioriture. Inizia il Grande gioco A partire dagli anni '20 dell'Ottocento, e poi per tutto il secolo, Gran Bretagna e Impero russo furono divisi da una sorda rivalità per l'egemonia sul Medio Oriente e l'Asia centrale. Combattuta, più che sul piano miliare, su quello diplomatico, con un ruolo importantissimo dello spionaggio, fu come una sottile partita a scacchi, fatta di mosse e contromosse: gli inglesi la chiamarono the Great Game, il "Grande gioco", i russi Turniry tenej, il "Torneo delle ombre". Uno dei primi atti di quella partita fantasmatica fu la crisi di Khiva. Situato nell'attuale Uzbekistan, Khiva, insieme a Bukhara, Kazakh e Kokand, era uno dei khanati indipendenti dell'Asia centrale. La Russia aspirava ad annetterli al proprio impero, la Gran Bretagna voleva a tutti i costi preservarne l'indipendenza, convinta che la conquista di quei territori avrebbe fornito allo zar una testa di ponte verso l'Afghanistan, da dove avrebbe potuto minacciare direttamente gli interessi inglesi in India. Posto in posizione strategica tra mar Caspio, Mare d'Aral e bacino dell'Amu Daria, il khanato di Khiva sollecitava la cupidigia russa per ragioni geopolitiche, ma anche economiche: vi veniva prodotto un cotone di ottima qualità, reso tuttavia costoso dal lungo viaggio attraverso le steppe kazake. Inoltre i russi mal tolleravano l'aggressività del khanato, che si rivolgeva sia contro gli altri staterelli dell'area, sia contro la Russia, con la devastazione dei villaggi di frontiera e la cattura di un numero crescente di russi, poi venduti come schiavi. La questione degli schiavi russi offriva allo zar il migliore dei casus belli. Se ne rese perfettamente conto il Foreign Office, che mise in moto il Grande gioco per cercare di eliminare un pretesto tanto perfetto. Su ordine dell'agente britannico in Afghanistan, la vigilia di Natale del 1839, il capitano James Abbott, travestito da afgano, lasciava Herat per raggiungere Khiva, dove giunse alla fine del gennaio 1840. Nonostante i sospetti sulla sua identità, riuscì ad ottenere un'udienza dal khan Quli Bahadur e a convincerlo ad affidargli una lettera per lo zar sulla questione degli schiavi. Tuttavia, mentre tentava di raggiungere Fort Aleksandrovsk in Russia, egli fu tradito dalla guida, derubato, sequestrato, e rilasciato solo mesi dopo, quando i banditi ebbero capito con chi avevano a che fare. Nel frattempo, non avendo sue notizie, i suoi superiori avevano inviato a Khiva un secondo agente, il luogotenente Richmond Shakespear, che, molto più abile o fortunato di Abbott, riuscì a convincere il khan a liberare tutti i cittadini russi sotto il suo controllo e a introdurre la pena di morte per chi continuasse a possedere schiavi russi. Il 15 agosto 1840 Shakespear raggiunse Fort Aleksandrovsk in compagnia di un contingente di russi liberati dalla schiavitù. Il pretesto era stato eliminato, ma troppo tardi: la mossa britannica era stata anticipata da quella russa. Infatti, come Londra sospettava, a San Pietroburgo era già stata scelta l'opzione militare. Fin dal marzo 1839, lo zar aveva ordinato un attacco a Khiva, con l'obiettivo non di annettere il khanato, ma di deporre il khan ostile per sostituirlo con un fantoccio manovrato dalla Russia. A giugno, due reggimenti furono inviati sul fiume Emba, dove venne anche costruito in forte che avrebbe costituito una testa di ponte per il grosso della spedizione; quest'ultima sarebbe partita da Orenburg, situata circa 1500 km a nord di Khiva, per raggiungere la quale era necessaria una lunga marcia attraversando le steppe kazake. Scartata la torrida estate, si decise di far muovere le truppe d'inverno, una stagione solitamente non troppo inclemente in quella regione, che offriva il vantaggio di porre meno problemi di approvvigionamento dell'acqua. Quanto al cibo e al foraggio, i russi avrebbero dovuto portarli con sé in ogni caso. La spedizione partì infine da Orenburg il 16 novembre 1839; comprendeva 3000 effettivi, 2000 ausiliari, 10000 cammelli, 2000 cavalli e migliaia di carri con le vettovaglie, cui vanno aggiunti un numero imprecisato di cammellieri e carrettieri reclutati più o meno a forza tra la popolazione locale. A comandarla, il protagonista della nostra storia, il generale Vasilij Aleksejevič Perovskij. Va detto subito che l'impresa si rivelò un disastro: l'inverno giunse prima del previsto e fu caratterizzato da nevicate e freddo eccezionali. I soldati russi, proprio come era successo a Napoleone nella campagna di Russia qualche anno prima, dovettero fare i conti con il generale inverno. A decimarli non furono le truppe nemiche (non ci fu nemmeno una battaglia), ma la neve, la fame, il freddo, lo scorbuto. All'inizio di febbraio (negli stessi giorni in cui Abbott cercava faticosamente di convincere il khan), Perovskij dava l'ordine di rientrare. A maggio quanto rimaneva del suo distaccamento faceva ritorno a Orenburg, dopo aver perso almeno 1000 uomini e quasi tutti i cammelli. Fu così che nella partita del Grande gioco il primo tempo se lo aggiudicò la Gran Bretagna. Per annettersi Khiva, la Russia dovette attendere fino al 1873. Un generale spericolato E' ora di concentrarci sul nostro protagonista, il generale Perovskij. La sua vita sembra uscita da un romanzo, di quelli che scriveva suo nipote Aleksej Tolstoj, per non parlare del più illustre cugino di questi, Lev Tolstoj. Era uno degli undici figli nati dalla relazione extraconiugale tra il conte Aleksej Razumovskij, ministro dell'Educazione nazionale, e Maria Sobolevsakaja, una donna colta con fama di filosofa. Non potendo trasmettere loro il proprio cognome, il padre li aveva chiamati Perovskij, nome tratto da una delle tenute di famiglia, Perovo. Ammessi alla nobiltà dagli zar che successivamente servirono, alcuni dei fratelli Perovskij furono personaggi di primo piano della vita russa: Lev fu ministro dell'interno, Aleksei un notevole scrittore (con lo pseudonimo Anton Pogorelskij); una delle sorelle, Anna, sposò il conte Konstantin Tolstoj, da cui ebbe il famoso scrittore Aleksej Tolstoj. Come i fratelli, anche il nostro Vasilij ebbe un'ottima istruzione; iniziò la carriera militare a sedici anni con il grado di capocolonna. Era un giovane ufficiale dalle abitudini eccentriche, come quella di non separarsi mai dalla sua pistola; spesso infilava un dito nella canna e camminava con la pistola carica appesa al dito; una volta accidentalmente partì un colpo, strappandogli una falange. Da quel momento, Perovskij prese a indossare un ditale d'oro, da cui pendeva un occhialino. Nel 1812 (all'epoca aveva solo 17 anni) venne fatto prigioniero dei francesi nel corso della battaglia di Borodino; le sue vicissitudini avrebbero ispirato le avventure di Pierre Bezuchov in Guerra e pace. Liberato, riprese la carriera militare; inizialmente fu attratto dai decabristi, ma poi si legò sempre più all'imperatore Nicola I, che lo nominò aiutante di campo. Il 14 dicembre 1825, in piazza del Senato, mentre difendeva l'imperatore dalla folla inferocita, fu colpito alla schiena da un tronco. Nominato maggiore generale, poi aiutante generale, si distinse nella guerra russo-turca del 1828-29; si racconta che quando una bomba cadde di fronte a lui e a un gruppo di ufficiali, disse semplicemente "Appoggiati", e, appoggiatosi alla montagna, attese con calma lo scoppio, senza fare troppo caso alle schegge che piovevano da ogni parte. In quella guerra fu ferito gravemente e dovette rinunciare al servizio attivo, anche se continuò a servire lo zar come direttore della cancelleria del quartier generale della marina. Nel 1833, con il grado di tenente generale, fu nominato governatore militare di Orenburg, una posizione chiave, come già si sarà capito, per la penetrazione russa in Asia centrale. Oltre a capeggiare la sfortunata spedizione a Khiva, represse con il pugno di ferro le rivolte dei Baschiri e promosse l'esplorazione del territorio, guadagnandosi anche la fama di protettore della scienza. Intendiamoci: Perovskij era sicuramente un uomo colto, ma per lui, come per il sovrano che serviva, le spedizioni scientifiche erano un tassello del controllo economico e militare di un'area ancora ben poco conosciuta e malamente documentata dalle carte, nonché una premessa indispensabile per ogni ulteriore espansione. Tra gli studiosi protetti di Perovskij, il più noto è senza dubbio l'etnologo e lessicografo Vladimir Dal' (1801-1872), che in precedenza era stato militare e arrivò a Orenburg come funzionario del Ministero degli Interni con "incarichi speciali". Negli otto anni (1833-1841) in cui collaborò con Perovskij, visitò in lungo e in largo la regione, raccogliendo testimonianze linguistiche, materiali folclorici e ampie collezioni di animali e piante. Le sue erano spedizioni geografiche e scientifiche, ma anche missioni più o meno spionistiche in un territorio spesso ostile dove la presenza militare diretta non era consigliabile. Non a caso, Perovskij lo volle con sé nella spedizione di Khiva; il suo compito principale avrebbe dovuto essere mappare un territorio per il quale esistevano solo carte molto imprecise, verificando se c'era un collegamento tra il mar Caspio e il mare d'Aral e se era possibile individuare o anche realizzare vie d'acqua navigabili, attraverso le quali il cotone uzbeko potesse raggiungere la Russia in modo più rapido ed economico. Il disastro dell'operazione militare lasciò questi obiettivi allo stadio di progetti. Quanto a Perovskij, dopo il fallimento della spedizione a Khiva, fu momentaneamente richiamato, ma rimase nelle grazie dello zar, tanto da diventare membro del Consiglio di Stato. L'insuccesso non aveva comunque messo fine alle ambizioni russe, che tentarono una strategia diversa. A partire dal 1847, vennero costruite due piazzeforti sul lago d'Aral, a Raymsk e Kazalinsk, provocando le reazioni dei canati di Khiva e Kokand. In questo nuovo quadro, l'esperienza di Perovskij tornava utile; fu così che nel 1851 ritornò a Orenburg, nelle vesti di governatore generale delle province di Orenburg e Samara. Durante il suo secondo mandato iniziò l'esplorazione del bacino del Syr e del lago di Aral, per mezzo di imbarcazioni costruite a Orenburg o giunte dall'estero, smontate e trasportate pezzo per pezzo fino all'Aral a dorso di cammello. Nel 1853 si prese la soddisfazione di prendere la fortezza di Ak-Mecet, ribattezzata in suo onore Perovsk; riuscì poi a negoziare un trattato favorevole con il suo vecchio nemico, il khan di Khiva. Poco dopo si ritirò per ragioni di salute. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Il giallo del genere Perovskia L'intreccio tra esplorazione geografica, spedizioni scientifiche, spionaggio ed espansione militare è ben visibile anche nella biografia di un altro protetto di Perovskij, il naturalista Grigorij Karelin, che visitò il governatorato di Orenburg più volte e fu ospite del generale durante il suo primo mandato. Precedentemente aveva partecipato all'esplorazione del bacino del Caspio, con un ruolo a metà tra il geografo-naturalista e la spia; del resto in origine egli era un funzionario del Dipartimento asiatico del Ministero degli esteri. Insomma un'altra pedina del Grande gioco, un collega dei britannici Abbott e Shakespear. Si deve proprio a Karelin se Perovskij è entrato nell'olimpo dei dedicatari di un genere botanico. Fu lui nel 1841 a intitolargli Perovskia, con la seguente motivazione: "Ho dedicato questo genere in onore di V.A. Perovskij, uomo molto illustre, fautore delle scienze, governatore militare della provincia di Orenburg". Il genere Perovskia, della famiglia Lamiaceae, comprende nove specie (più un ibrido) di suffrutici a foglia caduca originari di zone aride e rocciose dell'Asia centrale, con qualche propaggine in Iran e nell'Himalaya occidentale (ovvero, molto opportunamente, il territorio dove si giocarono le principali partite del Grande gioco). Per i botanici però è stato anche il protagonista di un'altra più incruenta partita, che ha rischiato di cancellarlo dalla tassonomia (o per lo meno, di ridurlo al rango di sinonimo). Nel 2004 un'équipe di studiosi statunitensi e messicani pubblicò uno studio che destò grande scalpore: poiché tutte le evidenze dimostravano che l'importantissimo genere Salvia era polifiletico (dunque artificiale), per risolvere il problema proposero di allargarne i confini, includendo cinque piccoli generi minori che vi risultavano annidati, due dei quali molto importanti per giardinieri e coltivatori: appunto Perovskia e Rosmarinus. In forza di questa proposta, che fu largamente accettata, Perovskia atriplicifolia diventava Salvia jangii e (ahi dolore!) Rosmarinus officinalis si trasformava in Salvia rosmarinus. Anche se questa è ancora la situazione registrata in molte fonti, incluso Plants of the World on line, il quadro da allora è ulteriormente cambiato. Nel 2012 tre ricercatrici dell'Università di Mainz pubblicarono un articolo in cui sostenevano che la proposta di un grande genere Salvia andava rigettata; semplificando e sintetizzando, facevano notare che se Perovskia e Rosmarinus erano davvero annidate nel gruppo (clade) di Salvia cui erano stati assegnati, avrebbero dovuto essere più recenti delle altre specie dello stesso gruppo, mentre risultava vero il contrario. Sarebbe stato più opportuno, concludevano, ripristinare i generi satelliti e dividere ulteriormente Salvia. Le ricerche sono continuate e hanno confermato questa linea; in un articolo del 2017 altri ricercatori tedeschi affermano tranquillamente "E' ora di dividere Salvia" e propongono di suddividerlo in sei generi, due dei quali sono appunto Perovskia e Rosmarinus. Negli anni in cui i tassonomisti così dibattevano, complice il riscaldamento globale, almeno una specie di Perovskia, appunto P. atriplicifolia, diventava una star dei giardini di fine estate. E' un grande arbusto eretto (anche se, senza sostegni, tende ad afflosciarsi) con fusti e foglie quasi argentei che tra fine estate e inizio autunno si ricopre letteralmente di spighe di fiori azzurri, richiamo irresistibile per api e farfalle. Estremamente rustica, resistente alla siccità, di abitudini parche, è a suo agio nelle aiuole assolate anche con suolo povero, Del resto arriva dalle steppe e dagli altopiani dell'Afganistan, del Pakistan e dell'Himalaya occidentale, anche se è per lo più nota come "salvia russa". Qualche informazione in più sulle sue numerose cultivar e sulle altre specie nella scheda. Anche se per volontà dell'imperatrice, dell'ammiragliato e dell'Accademia delle Scienze, si era trasformata in una impresa monstre con molti obiettivi collaterali, lo scopo principale della Grande spedizione del Nord era pur sempre riprendere e completare quanto era stato fatto da Bering con la prima spedizione in Kamčatka: confermare che non c'era continuità territoriale tra Asia e America e raggiungere il continente americano, in vista di un possibile insediamento russo. Affidata a Bering in persona, l'impresa, dopo una preparazione decennale, per una serie di coincidenze, errori e fatalità si volse tuttavia in catastrofe, con la morte di ben 30 dei 74 membri dell'equipaggio della nave ammiraglia. Tra i sommersi, lo stesso Bering, morto nell'isola che oggi porta il suo nome insieme a un terzo dei suoi uomini. Tra i salvati, il naturalista tedesco Georg Wilhelm Steller, il primo scienziato ad esplorare la fauna e la flora dell'Alaska (sia pure per sole dieci ore); come medico di bordo, se non riuscì a salvare il capitano, strappò alla morte molti compagni, senza mai smettere, in condizioni difficilissime, di studiare e catalogare la natura dell'isola dove erano stati gettati dalla malasorte. Sono celebri soprattutto le sue scoperte zoologiche, con la prima segnalazione della lontra marina e di vari animali che oggi portano il suo nome. Fu tuttavia anche un grande botanico, con notevoli contributi anche alla conoscenza delle flore della Siberia e della Kamčatka. A ricordarlo nella tassonomia botanica fu Linneo, che volle dedicargli il genere Stellera, che oggi comprende una sola specie, l'asiatica S. chamaejasme. Ma, dato che anche i botanici giocano con gli anagrammi, va aggiunto l'indiretto omaggio di Restella. Dieci anni di preparazione... Nel 1728, appena rientrato dalla prima spedizione in Kamčatka, Vitus Bering propose di organizzarne una seconda, con l'obiettivo di raggiungere le coste americane. Dopo alcuni anni di dilazioni, in cui la lista degli scopi da perseguire non fece che crescere, infine nel 1732 fu posto a capo della gigantesca Grande spedizione del Nord, di cui coordinò tutti i distaccamenti. A lui in persona fu affidato il comando di quello più importante, il cui compito, facile a dirsi e difficile da conseguire, era appunto navigare verso est partendo dalla Kamčatka fino ad incontrare le coste americane. Rinunciando all'idea (che comunque venne messa in campo) di raggiungere la penisola circumnavigando il globo per la via di Capo Horn, si decise di inviare uomini e mezzi via terra, attraversando la Siberia. Le navi necessarie alla spedizione sarebbero state costruite sul posto, ovvero a Okhotsk, l'unico porto russo sul Pacifico. Guidati da Bering e dai suoi secondi Spanberg e Čirikov, i distaccamenti che avrebbero esplorato il Pacifico si misero in marcia tra febbraio e aprile 1733; a percorrere l'enorme distanza ci vollero oltre due anni. Dopo un primo inverno trascorso a Tobolsk, Bering stabilì infine il suo quartier generale a Yakutsk. Dovendo fare i conti, oltre che con la mancanza di strutture, con l'inerzia quando non con l'ostilità delle autorità locali, dovette trattenersi qui circa tre anni per predisporre le attrezzature e le provviste e sorvegliare la costruzione delle imbarcazioni che avrebbero risalito il fiume Lena e l'allestimento dei collegamenti con Okhotsk, dove già era stato spedito Spanberg. Solo nell'estate del 1737, dopo essere stato raggiunto anche dal distaccamento dell'Accademia, Bering partì per Okhotsk. Ma il naturalista che lo avrebbe accompagnato nell'ultimo viaggio non fu uno dei professori dell'Accademia, bensì il medico tedesco Georg Wilhelm Steller, aggregatosi alla spedizione come membro aggiunto solo in un secondo tempo. E' ora dunque di fare entrare in scena il nostro protagonista, e che protagonista! Figlio di un organista e cantore luterano, nato nel 1709 a Windsheim in Franconia con il nome di Georg Wilhelm Stöller, fu destinato dalla famiglia a divenire pastore; dapprima seguì i corsi di teologia a Wittenberg, ma ben presto li abbandonò per la sua vera vocazione, le scienze naturali. Si spostò così a Berlino dove si laureò in medicina presso l'Obercollegium. Fresco di laurea, nel 1734, inseguendo il suo "desiderio insaziabile di visitare paesi stranieri", si imbarcò come medico di bordo su una nave militare russa; si racconta che, giunto a san Pietroburgo senza un soldo e senza appoggi, fosse caduto in tale miseria da essere costretto a dormire nei portoni. Un giorno, mentre visitava l'orto botanico, si sarebbe imbattuto per caso nell'arcivescovo Feofan Prokopovič, stretto collaboratore di Pietro il Grande e uno dei fondatori dell'Accademia delle scienze, che, colpito dal suo fluente latino, lo assunse come medico personale. Ma la storia vera è probabilmente meno romantica: forse quell'incontro casuale ci fu davvero, ma a conquistare la fiducia dell'ecclesiastico contribuirono le lettere di raccomandazione del professore di Berlino di Stöller, Friedrich Hoffmann, membro corrispondente dell'Accademia russa delle Scienze. Il giovane medico tedesco, che nel frattempo aveva cambiato il cognome da Stöller a Steller (più facile da trascrivere in cirillico), lavorò per due anni per l'ecclesiastico che lo introdusse negli ambienti accademici; un altro tedesco, Johann Amman, che insegnava botanica all'Accademia, lo prese come proprio assistente. Con il titolo di membro aggiunto, Steller poté così presentare la sua candidatura per partecipare come volontario alla spedizione in Kamčatka, che venne accettata nel gennaio 1737. Prima di partire per l'Oriente, egli si sposò con la giovane vedova di un altro studioso tedesco, Daniel Gottlieb Messerschmidt, che aveva esplorato la Siberia per sette anni, non sappiamo se più attratto dalle grazie di lei o da quelle dei quaderni di campo che il primo marito le aveva lasciato in eredità. Poté partire solo un anno dopo, nel gennaio 1738; aveva sperato di avere la compagnia della sposa Brigitta, ma, giunta a Mosca, la giovane donna rifiutò di proseguire. Steller si rassegnò così a continuare il viaggio da solo. Al contrario dei professori dell'Accademia, che viaggiavano in comode e calde carrozze o slitte, riveriti e serviti da decine di servitori, si muoveva con un piccolo calesse, con un equipaggiamento spartano, provvedendo a tutto da sé. Ma in questo modo era anche molto più veloce e dopo un anno e mezzo li raggiunse a Enisejsk. Steller era un ottimo naturalista, che si era preparato al suo compito leggendo tutto il leggibile sulla natura siberiana, ma era anche uno spirito libero e un caratteraccio, dipinto da qualche biografo come un attaccabrighe per non dire un asociale; Gmelin fu ammirato dalla sua preparazione e dal suo ardore scientifico, ma anche scioccato dalle sue abitudini e dal suo aspetto poco presentabile: "Non si preoccupava certo dei suoi vestiti. Dato che in Siberia è necessario portare con sé il proprio equipaggiamento, lo aveva ridotto a una bussola. Aveva rinunciato al vino e beveva tanto la birra quanto l'acquavite nella medesima tazza. Aveva un solo piatto dal quale mangiava qualsiasi cibo. Per questo non aveva bisogno di un cuoco e cucinava tutto da sé, accontentandosi di pochissimo e magari cucinando insieme zuppa, verdure e carne. Non usava né parrucca né cipria e qualsiasi tipo di calzatura gli andava ugualmente bene. Le più povere condizioni di vita non sembravano dargli fastidio, anzi più c'erano contrattempi, più sembrava contento. D'altra parte, nonostante il completo disordine del suo modo di vivere, si è sempre dimostrato estremamente meticoloso nelle sue osservazioni e instancabile in tutte le sue imprese". Gmelin fu dunque felicissimo di spedirlo immediatamente in Kamčatka, dove non aveva alcuna intenzione di andare di persona e già aveva inviato il suo allievo Krašeninnikov. Dopo solo sette settimane trascorse con Gmelin e Müller a Eniseisk, nel marzo 1739 dunque Steller ripartì: dedicò la primavera e l'estate all'esplorazione della regione del Baikal e, dopo aver trascorso l'inverno a Irkutsk, si unì al gruppo accademico che doveva esplorare la Kamčatka; oltre a lui ne facevano parte l'astronomo Louis de l'Isle de la Croyère, l'artista Johann Christian Berkan (1709-1751) e lo studente A. P. Gorlanov. Nell'agosto 1740, il gruppo arrivò infine a Okhotsk dove Steller incontrò per la prima volta Bering e gli comunicò il suo vivo desiderio di esplorare terre sconosciute. Dieci ore di esplorazione e un tragico epilogo Torniamo dunque a Bering e ai suoi lunghissimi preparativi. Quando egli giunse a Okhotsk, nel corso del 1737, dovette subito far fronte ai soliti problemi logistici; il più grave era la mancanza di legname, visto che negli anni precedenti erano già state costruite, oltre alla nave appoggio Fortuna, che assicurava il collegamenti con la Kamčatka, i vascelli Gavril, Nadezda e Arkangel Mikhail, che sotto il comando di Spanberg sarebbero stati inviati ad esplorare le Curili. Non mancavano anche fibrillazioni nell'ammiragliato, visto che i costi e gli anni (inizialmente ne erano stati preventivati quattro) erano lievitati a dismisura. Soltanto nel 1740 furono infine pronte le due navi destinate al viaggio americano: la San Pietro (Sv. Petr) comandata dallo stesso Bering e la San Paolo (Sv. Pavel), affidata a Čirikov. Nel frattempo, Steller era arrivato in Kamčatka, dove un po' bruscamente aveva imposto la sua autorità a Krašeninnikov. Giunto qui nel settembre 1740, trascorse l'inverno nel forte di Bolšeretsk, dove, oltre a dedicarsi a studi naturalistici e etnografici, aprì la prima scuola destinata alla popolazione locale, verso la quale, al contrario dell'"imperialista" Krašeninnikov, aveva un atteggiamento aperto e solidale. Insieme a lui, nel febbraio 1741 fece una spedizione in slitta fino al Capo Lopatka, nel corso della quale ebbe a scoprire il primo degli animali marini che porta il suo nome, il leone marino di Steller, Eumetopias jubatus. Intanto Bering con la San Pietro e la San Paolo si era spostato nella baia dell'Avača sulla costa pacifica della Kamčatka, dove su suo ordine era stata creata una base con infrastrutture portuali, abitazioni e magazzini (dal nome delle due navi sarebbe stata chiamata Petropavlovsk; oggi è la capitale e la principale città della penisola). A febbraio scrisse a Steller, invitandolo a unirsi alla sua spedizione come medico di bordo e mineralista; non c'è bisogno di dire che Steller accettò con entusiasmo e all'inizio della primavera raggiunse la baia dell'Avača in slitta. Dopo dieci anni di preparativi, la seconda spedizione in Kamčatka stava finalmente per cominciare, segnata fin da subito da contrattempi e errori che si rivelarono fatali. In primo luogo, la partenza fu ritardata dall'attesa della nave d'appoggio Nadezda, prima trattenuta in porto da una tempesta poi incagliata in un banco di sabbia (privando in tal modo la spedizione dei biscotti che avrebbero permesso di svernare in America). Questo primo incidente ne causò un secondo: le provviste rimanenti dovettero essere trasportate via terra da Bolšeretsk; mancando di uomini, slitte e cani, Bering obbligò al servizio forzato alcuni Coriachi che, allontanati da casa e costretti a una semi schiavitù, si ribellarono, uccidendo sette russi. Seguì una spaventosa spedizione punitiva, che comportò la deportazione dei maschi adulti, l'uccisione di donne e bambini, la fuga o il suicidio di chi non voleva cadere in schiavitù. Uno choc per Steller, un luterano educato al pietismo, che perse ogni stima e rispetto per il comandante. Aggiungiamo un'ultima circostanza. Come vedremo, molti giorni preziosi furono sprecati su una rotta sbagliata, alla ricerca della mitica Terra di Joao da Gama (o Gamaland), un inesistente territorio che avrebbe dovuto trovarsi a nord tra l'Asia e l'America; inesistente ma indicato nella mappa predisposta dal geografo ufficiale della spedizione, Louis de l'Isle de la Croyère, e dai suoi fratelli Guillaume e Joseph-Nicolas. Finalmente le due navi partirono da Petropavlovsk il 4 giugno 1741. Dopo aver seguito per nove giorni una rotta in direzione sudest, dove si supponeva trovarsi Gamaland, virarono verso nordest. Il 20 giugno si imbatterono in una fitta nebbia in cui si persero di vista. Čirikov, mantenendo la rotta a nordest, dopo circa un mese avvistò terra (presumibilmente una piccola isola di fronte all'isola Principe di Galles, nell'Alaska sudorientale); inviati a terra successivamente due uomini, che non fecero ritorno, rinunciò a sbarcare, e, dopo aver avvistato la penisola di Kenai e l'isola di Afognak, dal momento che a bordo incominciava a imperversare lo scorbuto, attraverso le isole Aleutine fece rotta per la Kamčatka, dove era di ritorno in ottobre. Pochi giorni dopo, proprio di scorbuto morì de l'Isle de la Croyère, che era imbarcato sulla San Paolo. Al contrario del suo secondo, dopo la separazione delle due navi, Bering si ostinò a ricercare la Terra di Joao da Gama, indotto in errore anche da Steller che, osservando le alghe portate dalla corrente e la presenza di uccelli terrestri, credette prossima una terra in direzione sudest. Dopo altri quattro giorni perduti, cambiata finalmente rotta, la San Pietro il 16 luglio avvistò in lontananza un'alta montagna coronata di neve, che il capitano chiamò Monte Sant'Elia in onore del santo la cui festa cadeva il 20 luglio, giorno in cui finalmente toccarono terra in una piccola isola, che è stata identificata con Kayak Island, nel golfo d'Alaska. Bering intendeva fermarsi solo il tempo necessario per rinnovare le provviste di acqua dolce; Steller, incredulo, lo pregò prima con le buone poi con le cattive di permettergli di esplorare l'isola. Dopo un violento diverbio, in cui il naturalista minacciò Bering di deferirlo al senato di San Pietroburgo, il comandante si piegò e gli concesse... dieci ore! Dieci ore di esplorazione scientifica costate dieci anni di preparazione, come ebbe più tardi a scrivere l'amareggiato Steller. Come non capirlo! Ma proviamo a metterci nei panni di Bering: sapeva che il tempo per completare il viaggio senza mettere a repentaglio la nave e i suoi uomini era ormai agli sgoccioli. Bisognava rientrare alla base entro ottobre, per evitare di incappare nelle tempeste che a partire da quel mese rendevano impossibile la navigazione nel Pacifico settentrionale; inoltre ogni viaggio per mare che si prolungasse per più di due mesi metteva gli uomini a rischio di ammalarsi di scorbuto (una malattia devastante causata dalla carenza di vitamina C, le cui cause all'epoca erano ancora ignote o mal comprese). Dunque la sua fretta è più che comprensibile. In ogni caso, il nostro naturalista mise a frutto il poco tempo a disposizione e in quella mezza giornata si diede alla raccolta frenetica di piante, minerali e animali. L'incontro con quella che sarebbe stata chiamata ghiandaia di Steller (Cyanocitta stelleri) gli confermò che avevano toccato il continente americano, per la sua somiglianza con la ghiandaia americana (Cyanocitta cristata), che gli era nota grazie alle sue letture. Fu anche il primo scienziato europeo a vedere le lontre marine (che, come scopriremo nei prossimi post, occuperanno un ruolo importante nella storia dell'esplorazione russa del Pacifico settentrionale). Durante la sua escursione, Steller vide anche in lontananza i fumi di un insediamento indigeno e chiese al capitano di inviare una barca ad esplorarla; la risposta di Bering fu assai poco diplomatica: "Porta subito il tuo culo a bordo, se non vuoi che ti lasci a terra". Steller dovette ubbidire. Una volta salito sulla nave con le sue preziose raccolte, dovette subire un ultimo oltraggio: senza fare una piega, Bering fece voltare fuori bordo un esemplare di Rubus spectabilis (salmonberry), che gli sembrava perfettamente identico ai lamponi di casa. Il viaggio di ritorno cominciò così con il comandante e il suo naturalista ai ferri corti, potremmo dire separati in cabina, visto che Steller condivideva la cabina di Bering. Dopo aver costeggiato l'Alaska meridionale, la rotta seguì la cresta delle isole Aleutine, dove in brevissime soste Steller ebbe modo di raccogliere altri esemplari naturalistici e oggetti etnografici. Poté anche osservare molti animali marini. Intanto, uno dopo l'altro, gli uomini cominciarono ad ammalarsi di scorbuto. Il primo a morire fu il marinaio Nikita Šumagin, che venne sepolto in una di quelle che Bering in suo ricordo battezzò isole Šumagin. Mentre l'autunno incombeva e i venti battevano la nave, le condizioni a bordo erano sempre più drammatiche. Quando raggiunsero quella che credevano la costa della Kamčatka, su 78 uomini, 12 erano già morti e 49 ammalati; solo una decina di uomini aveva forze sufficienti per manovrare la nave, che il 10 novembre fece naufragio sulle scogliere in un'isola sconosciuta (oggi porta il nome di Bering). Lotta per la sopravvivenza e scoperte scientifiche Il primo a scoprire che non si trattava della Kamčatka fu proprio Steller, vedendo piante e animali che non aveva incontrato nel continente. Grazie a ciò che aveva appreso sia dalle letture sia dai contatti con le popolazioni native, incominciò subito a cercare piante capaci di combattere lo scorbuto; con un miscuglio di erbe, foglie e bacche, riuscì a mantenere in buona salute se stesso e il proprio servitore, mentre gli ufficiali rifiutavano di cibarsi di quell'intruglio. E così, si continuava a morire. Allo scorbuto e alla scarsità di cibo, si aggiungeva l'inclemenza del clima invernale, con temperature sempre più basse e tempeste devastanti (una delle quali finì di distruggere la San Pietro) e le incursioni degli animali selvatici, come le volpi artiche che non esitavano a penetrare nell'accampamento di quegli sventurati e ad azzannare quelli che lottavano tra la vita e la morte, come Bering (che morì l'8 dicembre; altri 17 uomini subirono la stessa sorte). Vedendo che si manteneva in buona salute, i suoi compagni incominciarono a prendere sul serio Steller e ad accompagnarlo a caccia o alla ricerca di erbe. Insieme a tre di loro, egli scavò nella sabbia dei rifugi dove dormire al riparo delle volpi; riuscì a cacciare queste ultime dal campo e a salvare i superstiti nutrendoli con biscotti intinti in grasso di foca e carne di lontra (efficace contro lo scorbuto perché relativamente ricca di vitamina C). Durante l'inverno, diresse la costruzione di un accampamento scavato nella neve. Nonostante tutte queste incombenze, non tralasciò le osservazioni naturalistiche; ad esempio, costruì un capanno proprio nel mezzo di una colonia di foche, dove poté osservarle non visto per sei giorni. La scoperta più sensazionale fu certamente la ritina di Steller (Hydrodamalis gigas), un gigantesco sirenide lungo fino a 8 metri, un esemplare del quale fornì abbondante cibo e calorie ai naufraghi. Purtroppo, per la caccia eccessiva, questa specie si estinse pochi anni dopo. Quando riconobbe in alcuni uccelli una specie che aveva già notato in Kamčatka (un altro degli animali che porta il suo nome, l'edredone di Steller, Polysticta stelleri) capì che la terra ferma non doveva essere lontana e stimolò i compagni a raddoppiare gli sforzi per mettersi in salvo. A primavera l'abilissimo carpentiere della San Pietro, utilizzando quanto rimaneva della nave, riuscì a costruire un battello più piccolo, battezzato con lo stesso nome. Lasciata l'isola Bering il 14 agosto 1742, dodici giorno dopo i 46 superstiti toccavano in salvo la baia dell'Avača. Le avventure di Steller non erano finite: mentre lavora ai suoi manoscritti (la relazione di viaggio, il trattato sugli animali marini De bestiis marinis, la descrizione delle numerose specie di animali e piante raccolte durante il viaggio e nell'isola Bering), continuò ad esplorare la Kamčatka e alcune delle isole Curili; in urto con l'amministrazione locale per le sue simpatie verso i nativi, fu posto sotto accusa e richiamato a San Pietroburgo; mentre era già sugli Urali, fu arrestato e ricondotto a Irkutsk. Scagionato, riprese il viaggio verso occidente ma morì a Tyumen a soli 37 anni. Una sintesi della sua vita avventurosa e travagliata nella sezione biografie. Stellera, una bellezza pericolosa Steller è noto soprattutto per le importanti scoperte zoologiche, ma quelle botaniche non sono ttrascurabili. Nelle poche ore trascorse in Alaska (durante la sosta a Kayak il 20 luglio e anche più brevemente tra il 30 e 31 agosto a Nagai Island) raccolse e descrisse 143 piante. Non meno significative sono le sue ricerche botaniche nell'isola Bering, in Kamčatka e in Siberia. Tra le piante che lo ricordano nel nome specifico Arabis stelleri, Cassiope stelleriana, Lagotis stelleri, Veronica stelleri, Limnas stelleri, Cryptogramma stelleri. Anche se Steller non poté pubblicare né le sue ricerche né il racconto del proprio viaggio, dopo la sua morte i suoi diari furono pubblicati da Pallas (Reise von Kamtschatka nach Amerika mit dem Commandeur-Capitän Bering) e gli diedero fama europea. Tra i suoi ammiratori, lo stesso Linneo che in Species plantarum (1753) gli dedicò il genere Stellera. Molto più tardivo l'omaggio del botanico russo Nikolaj Turčaninov che nel 1840 lo omaggiò con un secondo genere Stellera; poiché non valido per la regola della priorità, nel 1849 lo sostituì con l'anagrammatico Rellesta (oggi considerato un sinonimo di Swertia). Stellera L. (famiglia Thymelaeaceae) è un genere monospecifico, rappresentato unicamente da S. chamaejasme. Originaria delle regioni montane dell'Asia centrale e meridionale (inclusa la Siberia) è una perenne semilegnosa o un arbustino che, almeno nelle fioriture, ricorda l'affine Edgeworthia con infiorescenze globose assai decorative in diverse sfumature di colori (solitamente rosa, ma anche bianche o gialle). Molto attraente, è adatta ai giardini rocciosi, sebbene la sua coltivazione sia tutt'altro che facile. L'intera pianta è tossica, tanto che anche i suoi fiori sono evitati dagli insetti e nei pascoli di alta montagna del Tibet cinese la sua diffusione è considerata un problema per gli animali. Nonostante ciò, la medicina tradizionale cinese la utilizza da secoli come antinfiammatorio e oggi se ne studiano le proprietà antitumorali. Inoltre in Tibet dalle sue radici si ricava una carta di alta qualità, sottile e allo stesso tempo robusta, oltre che inattaccabile da muffe e insetti. Qualche approfondimento nella scheda. Restella: un anagramma vegetale La storia tassonomica del genere Stellera è assai travagliata; Linneo gli aveva assegnato due specie (S. chamaejasme e S. passerina, oggi Thymelaea passerina) cui se ne aggiunsero via via altre, fino a raggiungere una dozzina di specie. Più recentemente, con l'eccezione appunto di S. chamaejasme, sono state tutte riassegnate ad altri generi. Uno di essi, indirettamente, si ricollega ancora una volta al nostro eroe. Nel 1886 Eduard August von Regel aveva denominato Stellera alberti un arbusto raccolto da suo figlio Johann Albert durante una spedizione in Asia centrale; nel 1941, la botanica russa Evgenija Pobedimova la separò da Stellera e la attribuì al nuovo genere Restella (anagramma di Stellera). Anche Restella Pobed. appartiene ovviamente alla famiglia Thymelaeaceae, e anch'esso comprende una sola specie, appunto R. alberti. E' un bellissimo arbusto dagli sfolgoranti fiori giallo zolfo, endemico di poche località della catena del Tien Shan in Uzbekistan; benché raro, non è a rischio perché le aree in cui vive sono protette. Anche in questo caso, qualche informazione in più nella scheda. Per completezza d'informazione, segnalo che a Steller sono state dedicati indirettamente altri due generi: nel 1893 da van Thiegem Dendrostellera e nel 1950, nuovamente da Pobedimova, Stelleropsis; entrambi oggi sono confluiti in Diathron. Estremo lembo orientale della Siberia, la Kamčatka è una penisola lunga circa 2000 km, stretta tra il golfo d'Okhotsk a occidente e l'oceano Pacifico ad oriente. Anche oggi quasi disabitata (con un territorio poco maggiore di quello italiano, conta circa 300.000 abitanti), con un clima subartico e paesaggi mozzafiato, dominati dai numerosissimi vulcani, è un paradiso della biodiversità, con ambienti geologici unici, un fitto manto forestale, una ricchissima fauna - famosi su tutti gli orsi, che ne sono un po' il simbolo - e una flora varia e diversificata. Nel XVIII secolo, era abitata da circa 50.000 persone di etnia itelmena, che vivevano di caccia e pesca; la penetrazione dell'impero russo, che vi inviò nuclei di cosacchi e impose un tributo in pellicce ai locali, era iniziata da pochi decenni. Il primo a studiarla in modo sistematico fu Stepan Krašeninnikov, il più promettente degli studenti che parteciparono alla Grande spedizione del Nord. Secondo il progetto iniziale, a esplorare la penisola avrebbero dovuto essere i professori del distaccamento dell'Accademia, ma essi preferirono rimanere in Siberia e inviare al loro posto l'allievo. Giunto in Kamčatka nell'autunno del 1737, egli nell'arco di tre anni ne percorse in un lungo e in largo il territorio, raccogliendo una grande massa di informazioni benché lavorasse in condizioni difficilissime. Soltanto alla fine del 1740 arrivò da San Pietroburgo Georg Wilhelm Steller, che prese su di sé il comando della missione e gli ingiunse di rientrare nella capitale. L'arroganza del tedesco non lo ha tuttavia privato della gloria di essere stato il primo naturalista ad esplorare e descrivere la Kamčatka; gli si deve infatti Opisanie zemli Kamčatki, "Descrizione della terra di Kamčatka", il primo resoconto geografico, etnografico, linguistico e naturalistico della penisola, per la cui redazione Krašeninnikov poté avvalersi anche dei materiali di Steller. Titolare della cattedra di botanica e scienze naturali e curatore dell'Orto botanico dell'Accademia di San Pietroburgo, fu tra i primi russi ad essere ammesso in questa istituzione all'epoca ancora dominata da studiosi stranieri. A ricordarlo, oltre a diverse località della Kamčatka, il nome specifico di varie piante che fu il primo a descrivere, e il genere Krascheninnikovia, dedicatogli da un altro esploratore delle terre russe, Johann Anton Güldenstädt. Krašeninnikov l'esploratore Dominata da vulcani attivi, ricca di fiumi dalle acque purissime, con un manto forestale che offriva rifugio e alimento a una abbondante fauna selvatica, all'inizio del XVIII secolo la Kamčatka era abitata da circa 50.000 nativi che vivevano di caccia e di pesca. I russi li chiamavano Kamčadal, ma essi si definivano Itelmen. I primi nuclei russi, costituiti da distaccamenti militari di cosacchi incaricati di imporre ai nativi un tributo in pellicce, vi arrivarono nel corso del Seicento, creando piccoli insediamenti soprattutto sulla costa occidentale. Il più importante era il forte di Bolšeretsk, in realtà un minuscolo accampamento fortificato che nel 1728, quando Bering vi giunse durante la Prima spedizione in Kamčatka, contava appena 14 abitazioni. Proprio muovendo da Bolšeretsk Bering e i suoi uomini tra l'autunno e l'inverno 1728-29 compirono una difficile marcia attraverso le montagne per raggiungere la costa orientale, dove la primavera successiva costruirono la nave con la quale avrebbero esplorato il Pacifico settentrionale alla ricerca del passaggio a Nord est. Era il primo contatto scientifico con la penisola, sufficiente a mostrarne il grande interesse geologico e l'enorme potenziale naturalistico e economico (vale la pena ricordare che le pellicce erano la prima voce nelle esportazioni dell'Impero russo). L'esplorazione sistematica del suo territorio fu dunque uno dei principali obiettivi scientifici della Seconda spedizione in Kamčatka; ad occuparsene avrebbero dovuto essere i professori del distaccamento dell'Accademia, ma le cose andarono diversamente. Infatti, quando giunsero a Yakutsk, dove si trovava il quartier generale di Bering, Müller e Gmelin cambiarono programma. Il primo era seriamente ammalato, mentre il secondo aveva perso buona parte delle sue raccolte in un incendio. Decisero così di rimanere in Siberia e di inviare in avanscoperta in Kamčatka il loro studente più promettente, Stepan Petrovič Krašeninnikov, che intendevano raggiungere in un secondo tempo. Cosa che non avvenne mai. Fu così che il primo studioso a esplorare la penisola, e più tardi a pubblicare i risultati nella sua lingua madre, non fu uno dei numerosi scienziati tedeschi che dominavano l'Accademia della scienze, ma un figlio della grande madre Russia. In tal modo, il viaggio in Kamčatka di Krašeninnikov costituisce una tappa importante della nascita della scienza russa e della sua emancipazione dai mentori occidentali. In una Russia che non aveva conosciuto né il Rinascimento né la Rivoluzione scientifica, non esisteva infatti personale scientifico formato. Per sopperire in tempi rapidi a questa lacuna, su suggerimento di Leibnitz, con il quale si era intrattenuto a lungo durante il suo viaggio in Europa, Pietro il Grande volle creare l'Accademia russa delle Scienze (l'atto di fondazione è del 1724, poco prima della morte dello zar), che era allo stesso tempo una società scientifica e un centro didattico, da cui dipendevano un ginnasio e un'università. Le lezioni, in lingua latina, erano tenute dagli accademici, tutti stranieri provenienti da università dell'Europa occidentale; nel disegno di Pietro, in tal modo sarebbe stata formata una leva di giovani studenti russi che sarebbero diventati gli studiosi di domani, nonché i tecnici e i funzionari necessari al progresso del paese. Capiamo dunque bene perché la seconda spedizione in Kamčatka, cui l'Accademia fornì personale e supporto scientifico, accanto a tecnici e studiosi stranieri, come lo stesso Bering, danese, oppure il francese de l'Isle de la Croyère e i tedeschi Müller, Gmelin e Steller, abbia visto la partecipazione di un gruppetto di promettenti studenti russi, provenienti dai ranghi del ginnasio o dell'università dell'Accademia, oppure dalla migliore delle scuole moscovite, l'Accademia slavo-greco-latina. La spedizione, in tal modo, fu anche un gigantesco laboratorio didattico in cui gli studenti apprendevano il metodo e il linguaggio scientifico affiancando i propri professori sul campo. Uno di loro era il nostro protagonista, Stepan Petrovič Krašeninnikov. Figlio di uno soldato povero, si era distinto tra gli studenti dell'Accademia slavo-greco-latina, che offriva un corso di studi ancora tradizionale, basato essenzialmente sullo studio delle lingue classiche e della logica aristotelica. Proprio in vista della spedizione, nel 1732 (all'epoca era ventenne) fu inviato a San Pietroburgo dove venne istruito dai professori che poi avrebbe accompagnato nella spedizione, in particolare Gmelin e Müller. Partito con loro nell'agosto 1733, li accompagnò fino a Yakutsk; durante il lungo viaggio, durato circa tre anni, fece osservazioni meteorologiche con Gmelin e fu coinvolto in diverse escursioni a breve raggio, in cui via via affinò la sua capacità di studiare un territorio in ogni suo aspetto, dalla geografia alla geologia, dagli animali e dalle piante alle risorse economiche, senza trascurare la storia, gli usi, i costumi e le lingue delle popolazioni locali (campo in cui dimostrò un'eccezionale attitudine). Tra l'altro, fu incaricato di studiare due caverne e dipinti rupestri nei pressi di Krasnoyarsk e nel luglio 1735 diresse la sua prima spedizione indipendente, in cui esplorò e studiò le sorgenti calde sul fiume Onon. Il progetto iniziale prevedeva che tutto il gruppo proseguisse con Bering e si imbarcasse per la Kamčatka; come ha già anticipato, Müller e Gmelin rimasero invece in Siberia e ordinarono a Krašeninnikov di recarsi in Kamčatka a preparare il campo dove lo avrebbero raggiunto in un secondo tempo. Nel luglio 1737 Krašeninnikov partì dunque con il gruppo di Bering per Okhotsk, raggiunto dopo un faticoso cammino di 47 giorni; si imbarcò quindi con gli altri sulla nave Fortuna in direzione di Bolšeretsk, ma, poiché il battello era sovraccarico, dopo nove ore in balia delle onde, per proseguire si dovette buttare a mare buona parte dei bagagli (Krašeninnikov perse così le provviste per due anni e una parte dell'attrezzatura). Appena sbarcati, nell'ottobre 1747, sperimentarono anche gli effetti di un terremoto, uno tsunami con epicentro nelle Curili, la lunga dorsale di isole che unisce la Kamčatka al Giappone. Mentre il resto della spedizione proseguiva il suo cammino verso la costa orientale, dove sarebbero state costruite le navi per l'esplorazione del Pacifico settentrionale, Krašeninnikov rimase a Bolšeretsk per preparare il campo base e iniziare l'esplorazione della penisola. Era una regione difficile e ostile (oltre a terremoti e al clima rigido, erano frequenti le ribellioni dei locali, poco disposti ad assoggettarsi al tributo imposto dai russi), ma estremamente varia e interessante da ogni punto di vista; intanto, una geologia peculiare con circa 160 vulcani, 29 dei quali attivi, campi di geyser, fonti di acque termali; una grande ricchezza di acque, con migliaia di corsi d'acqua alimentati da oltre 400 ghiacciai e centinaia di migliaia di laghi; un clima fondamentalmente subartico, ma con forti differenze, tra le valli e le cime, le zone interne e quelle costiere, tra la fredda costa orientale e la più mite costa occidentale; ambienti naturali altrettanti vari, in cui alla tundra arida e alle torbiere si alternano praterie erbose, boscaglie e foreste di conifere e latifoglie; una fauna estremamente ricca (lo è ancora oggi, e tanto più lo era trecento anni fa) con numerosi mammiferi, tra cui l'orso, il re e il simbolo animale della penisola, uccelli stanziali e di passo, un eccezionale patrimonio ittico. Appena giunto a Bolšeretsk, Krašeninnikov si attivò per preparare il terreno per l'arrivo dei professori, creando un campo base che includeva un piccolo giardino di acclimatazione per le piante, secondo le indicazioni di Gmelin. Dedicò questi primi mesi a brevi escursioni nella regione più meridionale, quindi nella primavera del 1738, accompagnato da un interprete e da un drappello di soldati, partì per la prima delle undici spedizioni nel corso delle quali avrebbe battuto in lungo e in largo la penisola. Percorse sia lunghi tratti della costa sia l'interno da sud a nord, per un totale di oltre 3500 km. Fu così in grado di descrivere le quattro penisole orientali della Kamčatka e i golfi da esse formati, i maggiori vulcani (tra cui il vulcano attivo più alto d'Eurasia, Ključevskaja Sopka, 4688 metri), i campi di geyser delle valli dei fiumi Paužetka e Banna. Seguirono numerose escursioni minori e una seconda lunga spedizione, iniziata nell'autunno del 1739, in cui Krašeninnikov risalì il fiume Bystra, per poi raggiungere le sorgenti del fiume Kamčatka che scese fino al forte cosacco di Nižne-Kamčatsk, dove raccolse informazioni sull'aurora boreale, chiaramente visibile nel marzo di quell'anno. I suoi informatori erano sia i pochi russi presenti nell'area, sia soprattutto i locali, da cui acquistava manufatti e che interrogava sulle pratiche di caccia e pesca, oltre ad osservarne gli usi e i costumi, secondo le precise indicazioni di Müller. Ovviamente, durante i suoi viaggi non mancava mai di raccogliere esemplari naturalistici che poi inviava a Gmelin, accompagnati da lettere-relazione in latino. Nel settembre 1740, giunsero a Bolšeretsk de l'Isle de la Croyère e Steller. Krašeninnikov, dopo tre anni di esplorazione solitaria, si ritrovò all'improvviso nei panni dello studente. Il tedesco infatti era stato incaricato di prendere il comando delle operazioni in Kamčatka e non senza arroganza ordinò al giovane russo di consegnargli i suoi materiali e di obbedire ai suoi ordini. Nell'inverno del 1740, Krašeninnikov mosse ancora una volta a nord, con l'intento di studiare i Coriachi (stanziati a nord della Kamčatka) e ebbe modo di osservare l'eruzione del vulcano Tolbačik. Tra l'inverno e la primavera del 1741, esplorò insieme a Steller la zona a sud di Bolšeretsk; durante questo viaggio, furono i primi naturalisti a vedere un raro mammifero marino poi denominato "leone marino di Steller", Eumotopias jubatus. Nel frattempo però erano giunti nuovi ordini da San Pietroburgo e Steller ingiunse a Krašeninnikov di raggiungere Gmelin e Müller in Siberia e di rientrare con loro nella capitale. Krašeninnikov l'accademico Krašeninnikov obbedì, ma senza fretta. Lasciata la penisola nel giugno 1741, arrivò a Turinsk, dove lo aspettavano i professori, solo ad ottobre, muovendosi lentamente per arricchire le sue collezioni. Insieme ai suoi maestri, svernò a Yakutsk, dove si sposò con la figlia del governatore locale. Ripercorrendo in parte il cammino dell'andata per completare le raccolte e le osservazioni, il gruppo, che ora includeva anche la neosposa, giunse finalmente a San Pietroburgo nel febbraio 1743. La lunga avventura in Oriente aveva fornito allo studioso russo gli strumenti e le credenziali per entrare nel mondo accademico. Due mesi dopo il suo ritorno, insieme ad altri studenti che avevano partecipato alla spedizione, sostenne un esame orale di botanica e latino, di fronte a una commissione costituita da Gmelin e da Siegesbeck, all'epoca curatore dell'orto botanico dell'Accademia. Nel 1745 venne accolto nell'Accademia come professore aggiunto, discutendo una tesi di dottorato su alcuni pesci della Kamčatka; iniziò anche a lavorare all'orto botanico come assistente di Siegesbeck, che poi sostituì quando questi fu costretto a dimettersi (1747). Krašeninnikov divenne così uno dei primi membri russi dell'Accademia delle scienze. Nel 1749 fece parte della commissione incaricata di respingere le "scandalose" tesi dell'antico maestro Müller, che aveva sostenuto (a ragione) l'origine vichinga dei fondatori della Russia, che egli respinse con forza insieme a Lomonosov e altri studiosi russi. Nel 1750 divenne titolare della cattedra di botanica e scienze naturali e qualche mese dopo fu nominato rettore dell'Università. Intanto, nel 1745 Steller era morto in Siberia, lasciando un manoscritto tanto ricco quanto indecifrabile, in cui al latino si alternavano il russo e il tedesco. L'Accademia decise di consegnarlo a Krašeninnikov, l'unica persona in grado di venirne a capo, per il perfetto dominio delle tre lingue, la sua lunga esperienza in Kamčatka e la collaborazione con lo stesso Steller. Integrando le note del tedesco con le proprie copiose osservazioni, intorno al 1748 Krašeninnikov incominciò così a scrivere un'opera sulla Kamčatka, che uscì nel 1755, poco dopo la sua morte, con il titolo di Opisanie zemli Kamčatki, "Descrizione della terra di Kamčatka". Di carattere enciclopedico, è divisa in due tomi, il primo dedicato alla geografia, alla fauna e alla flora, il secondo alla storia, alla cultura e alle lingue dei popoli nativi. Il primo tomo si apre con una sezione sulle caratteristiche generali della penisola e delle terre confinanti, con particolare attenzione ai fiumi; segue una sezione dedicata alla storia naturale, con approfondimenti sui vulcani, i geyser, gli animali e le piante, il commercio delle pellicce di zibellino, le maree. Nel capitolo dedicato alle piante, oltre a descrivere numerose specie fin ad allora sconosciute alla scienza, si dimostra soprattutto attento al loro uso come medicinali o alimenti, sulla base delle informazioni raccolte dai nativi. Analogamente, anche il secondo tomo è diviso in due parti: la prima descrive i popoli della penisola, le loro usanze, le loro lingue; la seconda espone la storia della conquista russa e le condizioni di vita dei russi e dei locali. Incuriosito e a volte indignato dai costumi di questi ultimi, Krašeninnikov oscilla tra la condanna per ciò che gli appare rozzo o lascivo e l'ammirazione per la libertà e la totale sintonia con il mondo naturale. Nazionalista e convinto assertore dell'imperialismo russo, non manca la difesa del "mite" dominio russo, condita con elogi cortigiani dell'imperatrice (all'epoca regnava Elisabetta, la figlia di Pietro). Accanto alla stesura di quest'opera, negli anni di San Pietroburgo, il principale interesse di Krašeninnikov fu la botanica, cui dedicò quasi tutti gli articoli pubblicati negli Atti dell'Accademia delle scienze. Studiò la flora dei dintorni di San Pietroburgo, lasciando un manoscritto che molti anni dopo fornì materiali a Grigorij Sobolevskij per la sua Flora petropolitana (1799). Nel 1752 visitò il lago Ladoga e Novgorod per studiarne la flora; i materiali da lui raccolti, sistemati da David de Gorter seguendo il sistema linneano, vennero pubblicati nel 1761 sotto il titolo Flora ingrica. Probabilmente minato dai lunghi anni trascorsi in Siberia, morì appena quarantaquattrenne, subito dopo aver terminato la prefazione di Opisanie zemli Kamčatki; secondo la testimonianza di un contemporaneo, si spense proprio il giorno in cui terminò la stampa del suo capolavoro. Nel 2015 le sue avventure in Kamčatka sono state raccontate nel documentario Expedition to the End of the Earth con la regia di A. Samoilov. Una sintesi della sua vita come sempre nella sezione biografie. Krascheninnikovia, una lanosa pianta delle steppe Come pioniere dell'esplorazione della Kamčatka, Krašeninnikov è ricordato da un certo numero di nomi geografici della regione e delle aree limitrofe, come il vulcano Krašeninnikov o la penisola Krašeninnikova. Gli è stato dedicato anche un asteroide e il nome specifico di qualche animale (ad esempio, il salmonide Salvelinus malma krascheninnikova) e di una decina di piante, come Gipsophila krascheninnikovii o Astragalus krascheninnikovii. Nel 1772, un altro grande protagonista dell'esplorazione dell'Impero russo, Johann Anton Güldenstädt (il primo a studiare sistematicamente il Caucaso) volle onorarlo con il genere Krascheninnikovia (famiglia Amaranthaceae). Una seconda dedica giunse molti decenni dopo (1840) da parte del botanico Nikolaj Stepanovič Turčaninov, che intorno agli anni '30 dell'Ottocento ripercorse alcuni dei territori siberiani visitati da Krašeninnikov e dai suoi maestri durante la Grande spedizione del Nord. Anche se la grafia è lievemente diversa, questo genere Krascheninikovia (famiglia Dianthaceae) non è valido per la regola della priorità. Krascheninnikovia Guldenst. è un piccolo genere di arbusti tipico delle steppe aride e fredde dell'emisfero boreale. Il numero di specie è discusso (da uno a tre), perché quella più diffusa, K. ceratoides, è estremamente variabile, con numerose varietà a diffusione locale che in passato sono state considerate specie a sé. Oggi le si riconoscono fondamentalmente due sottospecie: l'euroasiatica K. ceratoides sub. ceratoides e l'americana K. ceratoides sub. lanata. La prima è presente dall'Europa centrale all'Asia nord-orientale, con alcune colonie isolate in Marocco, Egitto e Spagna (relitti di una fase interglaciale a clima più freddo e arido); la seconda negli altopiani e nei deserti freddi dell'America nord-occidentale, dal Canada al Messico settentrionale, con una presenza particolarmente significativa in California. Si tratta di un arbusto o suffrutice alto circa un metro, eretto o prostrato, con piccole foglie tomentose dalle forme assai variabili; le infiorescenze sono dense spighe allungate, con numerosi fiori maschili protetti da grandi brattee lanose e pochi fiori femminili raggruppati in posizione terminale, con brattee più piccole. I semi sono provvisti di lunghi peli setosi bianchi che ne favoriscono la dispersione grazie al vento. La sottospecie americana, nota con il nome comune winter fat, ha un ruolo ecologico molto importante come foraggio per gli erbivori selvatici soprattutto nella stagione invernale. Oggi è talvolta anche coltivata per la bellezza delle foglie argentee, ma anche per le soffici fioriture. Qualche approfondimento nella scheda. La "Grande spedizione del Nord", promossa dalla zarina Anna Ivanovna, fu una delle maggiori imprese scientifiche del Settecento, secolo per altro così ricco di grandi viaggi di scoperta. Nell'arco di dieci anni (1733-1743), mobilitò direttamente oltre cinquecento persone, chiamate in primo luogo a mappare le coste settentrionali e orientali dell'Impero russo, ma anche a esplorare le risorse umane e naturali del vastissimo territorio al di là degli Urali. In questo primo post dedicato alla grande impresa, seguiremo le avventure di uno dei "distaccamenti" di terra, quello che sotto la guida di tre professori dell'Accademia russa delle scienze fu incaricato di studiare le regioni interne della Siberia fino alla penisola di Kamčatka, dove i russi avevano iniziato la loro penetrazione da pochi decenni. Il nostro primo protagonista è il giovane professore tedesco Johann Georg Gmelin (quando iniziò la spedizione aveva appena 23 anni), i cui studi sulla geologia, la meteorologia, i fossili, la fauna e la flora siberiana segnarono una tappa fondamentale della conoscenza dell'Asia settentrionale. Scienziato poliedrico, fu un grande botanico, cui si deve la scoperta di almeno 500 specie nuove per la scienza; la sua fondamentale Flora sibirica è importante anche per molte intuizioni che fanno del suo autore uno dei precursori della fitogeografia e dell'evoluzionismo. La Russia esce dall'isolamento: una spedizione titanica La politica dello zar Pietro il Grande (1672-1725) fu guidata dalla ferma volontà di fare uscire la Russia dall'isolamento, inserendola stabilmente tra le grandi potenze europee. Nell'ambito di questo grande progetto, essenziale fu la creazione di una flotta che garantisse all'impero russo nuovi sbocchi sul mare, fin ad allora limitati al mar Bianco, inagibile per quasi metà dell'anno a causa dei ghiacci. A sud, il mare d'Azov, porta del Mar Nero, fu oggetto di una lunga contesa con l'impero ottomano; a nord-ovest, il Baltico fu strappato al dominio svedese e Pietro volle vi si affacciasse la sua capitale, san Pietroburgo, la "finestra della Russia sull'Europa". Ma lo zar era deciso anche ad esplorare le potenzialità del mare orientale, ovvero del lontanissimo oceano Pacifico. I russi erano giunti sulle sue sponde per via terra, navigando lungo i fiumi siberiani, e nel 1647 vi avevano fondato il primo avamposto, Okhotsk; era poi iniziata, tra mille difficoltà, la penetrazione nella regione e l'esplorazione della penisola di Kamčatka. Diverse domande rimanevano ancora senza risposta: in primo luogo, l'Asia e l'America erano separate o erano collegate in qualche modo? in secondo luogo, se erano separate, esisteva una via di comunicazione tra l'Oceano Artico e l'Oceano Pacifico? Insomma, il famoso passaggio a nord-est era leggenda o realtà? Infine, era possibile trovare una via di comunicazione diretta con il Giappone e magari la Cina? Per rispondere a questi interrogativi, nel 1724, Pietro incaricò Vitus Bering (1681-1741), un abile navigatore danese al servizio della Russia, di guidare la prima spedizione navale russa, passata alla storia con il nome di "Prima spedizione in Kamčatka" (1725-30). Muovendo da Okhostk, dove erano state costruite le navi che parteciparono alla missione, Bering esplorò le coste settentrionali del Pacifico fino alla penisola dei Ciukci e attraversò lo stretto che porta il suo nome; anche se non aveva avvistato la costa americana, ritenne di avere prove sufficienti per affermare che i due continenti non erano collegati. Proseguì quindi l'esplorazione verso sud, mappando le coste meridionali della Kamčatka. I risultati erano incoraggianti, ma non definitivi. Era dunque il caso di allestire una seconda spedizione, molto più ampia e ambiziosa; a ordinarla, riprendendo il progetto del grande zio, fu la zarina Anna Ivanovna (che regnò del 1730 al 1740). Nuovamente sotto il comando di Bering, è nota come "Seconda spedizione in Kamčatka", ma anche, per le sue proporzioni colossali, "Grande spedizione del Nord". Durò infatti dieci anni (1733-1743), coinvolse direttamente circa 500 persone tra ufficiali, marinai, scienziati, geodeti, militari e personale di servizio, ma indirettamente forse 3000; fu allo stesso tempo una spedizione navale, geografica, naturalistica e etnografica. Le sue implicazioni politiche erano tali che i progressi e i risultati vennero considerati segreto di stato. Grandiosa negli obiettivi e nei mezzi finanziari, si articolò in otto distaccamenti indipendenti, sei marittimi e due di terra. I primi quattro (distaccamenti del Nord) percorsero e tracciarono la costa russa e siberiana dell'Oceano Artico dal mar Bianco alla foce del fiume Kolyma; condotti con grande impiego di uomini e mezzi, produssero risultati straordinari, in particolare la mappatura di 13.000 km di costa, ma costarono anche enormi perdite, come la morte per fame e scorbuto, nell'inverno del 1735, di 40 su 53 uomini del distaccamento del tratto Lena-Kolyma. Inoltre i ghiacci impedirono ai navigatori russi di spingersi oltre il Capo Baranov, facendo fallire il progetto di ricongiungersi al distaccamento di Bering. A questo ultimo era stato infatti assegnato il comando, oltre che dell'intera spedizione, del quinto distaccamento (primo distaccamento del Pacifico), che doveva riprendere e completare gli obiettivi della prima spedizione, tracciando la rotta per il nord America; sulle sue drammatiche vicende, che coinvolsero anche alcuni naturalisti, tornerò in un altro post. Più felici furono invece gli esiti del secondo distaccamento del Pacifico, guidato da Martin Spanberg, con i compiti di esplorare le isole Curili e cercare una rotta diretta per il Giappone: gli obiettivi vennero brillantemente completati e si aggiunse l'esplorazione della costa di Sakhalin. Il primo distaccamento di terra aveva il compito di testare la navigabilità dei fiumi da Verchneudinsk a Okhotsk; il secondo, guidato da tre professori dell'Accademia delle Scienze russa, doveva studiare le popolazioni e le risorse naturali della Siberia e della Kamčatka e raccogliere esemplari per la collezione privata (Kunst kamera) dell'imperatrice. Gmelin e il Distaccamento dell'Accademia Seguiamo dunque le avventure di questo ultimo gruppo, il più importante per la storia della botanica, poiché segnò l'esordio dello studio della flora siberiana. Ne facevano parte tre professori, cinque studenti, quattro geodeti, un interprete, due pittori e dodici soldati - compreso un tamburino - comandati da un caporale. I professori, tutti stranieri, erano l'astronomo francese Louis de l'Isle de la Croyère (1685-1741), lo storico tedesco Gerhard Friedrich Müller (1705-1783) e il naturalista e botanico Johann Georg Gmelin, anch'egli tedesco (1709-1755). In un secondo momento, oltre a un terzo pittore e un secondo interprete, si aggregarono alla spedizione anche lo storico Johann Eberhard Fischer (1697-1771) e il naturalista Georg Wilhelm Steller (1709-1746). Partiti da San Pietroburgo l'8 agosto 1733, vi rientrarono quasi dieci anni dopo, il 17 febbraio 1743 (diversi membri rimasero anzi in Siberia fino al 1746-47). Va ancora sottolineato che, con l'eccezione del "maturo" de l'Isle, erano tutti giovani o giovanissimi: al momento della partenza, Müller e Steller avevano 27 anni, Gmelin 23, Krasheninnikov, il più dotato degli studenti, 21. Dei novellini rispetto allo sperimentato de l'Isle, che aveva già partecipato a esplorazioni astronomiche e geodetiche nella Russia settentrionale e almeno inizialmente guidò il gruppo; tuttavia Müller e Gmelin sollevarono critiche sulla correttezza delle sue osservazioni, al punto che nel 1737 egli si separò dagli altri per unirsi a Steller nell'esplorazione della Kamčatka. Li ritroveremo entrambi come membri della tragica ultima missione di Bering. Fu dunque l'energico e carismatico Müller a imporsi come leader, tanto più che trovò nel conterraneo (e quasi coetaneo) Gmelin più un amico fraterno che un collaboratore. Il distaccamento esplorò la vastissima area che si estende da ovest a est dagli Urali centrali e meridionali alla Jakuzia e alla Transbaikalia, e da sud a nord dalla Siberia meridionale ai bacini dei fiumi Irtyš, Ob', Enisey e Lena. Müller, il solo dei capi ad aver percorso l'intero itinerario, dichiarò di aver coperto in dieci anni 35.000 verste (ovvero circa 37.000 km). I risultati, in termini di rilievi topografici, osservazioni meteorologiche, informazioni sulla cultura materiale e spirituale delle popolazioni native, valutazione delle risorse economiche e umane, documentazione dei monumenti archeologici, raccolta di esemplari naturalistici e artefatti etnografici, sono incalcolabili e esulano dagli scopi di questo blog. Mi limiterò dunque alla botanica, dunque alle ricerche del naturalista ufficiale del gruppo, Johann Georg Gmelin. Va comunque detto subito che, scienziato completo, anche se il suo compito principale era studiare la flora e la fauna siberiane, si interessò ugualmente di rilevazioni meteorologiche, di geologia e in particolare dei fenomeni carsici e delle rocce vulcaniche e metamorfiche, dello studio dei fossili (elaborando anche una procedura per l'osservazione e la raccolta dei resti di mammut), nonché della popolazione locale e della sua interazione con l'ambiente. Determinò le coordinate di diverse località e soprattutto fornì la prima descrizione dell'ambiente naturale siberiano; fu il primo naturalista a studiare gli effetti sulla flora e sulla fauna delle temperature sottozero e a descrivere il permafrost. Inoltre seppe affrontare con coraggio e determinazione una delle peggiori disavventure che possa capitare a un botanico. Nel novembre 1736, mentre si trovava a Jakutsk, sul fiume Lena, dove Bering aveva fissato il suo quartier generale, la casa dove abitava bruciò, mandando in fumo le sue raccolte e i suoi quaderni di campo; senza lasciarsi scoraggiare, Gmelin a partire dall'estate seguente ricostruì le collezioni, esplorando prima i bacini della Lena e dello Enisej, poi, tornando verso occidente, la Siberia meridionale e il versante asiatico degli Urali. Tornato a Pietroburgo nel 1743, poi in Germania nel 1747, poté così esporre le sue osservazione nella fondamentale Flora sibirica (1747-1769), la prima in assoluto dedicata a questa vasta regione, dove descrisse 1178 specie, 500 delle quali nuove per la scienza. L'opera è importante anche per le numerose conclusioni innovative: Gmelin sottolineò da una parte la cesura tra la flora europea e quella siberiana, dall'altra l'analogia tra la flora asiatica e quella nordamericana, individuando nel fiume Enisej la frontiera naturale tra le due regioni. La grande varietà delle piante e degli animali nei vari ambienti siberiani, in un'epoca in cui nessuno metteva in dubbio che le specie fossero immutabili e create una volta per tutte da Dio, lo spinse a postulare la variazione delle specie come adattamento alle condizioni ambientali, anticipando tanto la fitogeografia quanto l'evoluzionismo. Scritta in latino e pubblicata a San Pietroburgo, Flora sibirica comprende quattro volumi; gli ultimi due uscirono postumi a cura del nipote di Gmelin, Samuel Gottilieb, a sua volta botanico e esploratore (morto tragicamente nel corso della spedizione di Pallas, come ho raccontato in questo post). Un quinto volume, dedicato alle crittogame, fu scritto dall'allievo Stepan Petrovič Krašeninnikov, ma rimase manoscritto. Inoltre Gmelin raccontò il suo viaggio in Reise durch Sibirien von dem Jahr 1733 bis 1743 (1751–1752), pubblicato a Tubinga dove era professore di medicina e direttore dell'orto botanico. Il lavoro, molto importante anche per le numerose proposte innovative in campo economico e sociale, ispirate a uno spirito già illuministico, venne tradotto in molte lingue europee, ma non in russo, dal momento che gli ambienti di corte non apprezzarono le sue critiche all'arretratezza, all'ingiustizia sociale, alla corruzione generalizzata e alla gestione farraginosa che caratterizzavano l'impero russo, bollando il libro come "antirusso". Una sintesi della vita di Gmelin nella sezione biografie. Gmelina: bellezza e utilità Anche se, avendo utilizzato la nomenclatura prelinneana, poche delle denominazioni introdotte da Gmelin sono tuttora valide, la sua importanza come padre fondatore della flora siberiana fu immediatamente riconosciuta. Sono almeno una sessantina le piante che lo ricordano nel nome specifico; tra le altre, Larix gmelinii, Angelica gmelinii, Centaurea gmelinii, Tussilago gmelinii. Linneo aveva in grande stima del collega tedesco, che fu anche suo corrispondente; di lui disse che aveva scoperto più piante di ogni altro botanico. Nella prima edizione di Species Plantarum (1753) volle dunque onorarlo dedicandogli Gmelina, sulla base dell'indiana G. asiatica. Egli, dunque, non scelse una delle numerose specie "scoperte" da Gmelin, ma una pianta che il nostro mai vide o conobbe. Il genere Gmelina, della famiglia Lamiaceae (precedentemente Verbenaceae) comprende una trentina di specie distribuite tra l'India e la Cina meridionale e l'Australia settentrionale e le Fiji. La maggior parte sono alberi di alto fusto, spesso con radici a contrafforte, ma le specie più note sono arbusti o piccoli alberi. Molto apprezzate per la crescita veloce e l'eccellente legname, alcune sono anche state importate in altri paesi tropicali sia come ornamentali sia come alberi da legname. La più importante è sicuramente G. arborea, presente in natura in gran parte dell'India, ma anche in Cina meridionale e nel sud est asiatico ed introdotta in paesi africani come Nigeria e Sierra Leone. Il suo legname è infatti leggero ma robusto, facilmente lavorabile, e adatto alla fabbricazione di oggetti di varia natura, inclusi alcuni strumenti musicali. Per il notevole impatto estetico delle fioriture, che avvengono prima che la pianta rimetta le foglie, e per la gradevole ombra, viene spesso utilizzata anche nei giardini e nelle alberate cittadine. I frutti, prodotti in abbondanza, sono eduli e hanno proprietà medicinali. Due specie di dimensioni contenute, G. ellittica e G. philipinnensis, occasionalmente anche usate come arbusti ornamentali per climi caldi, sono utilizzate come bonsai. Presentano infatti diversi motivi di interesse: il contrasto tra le foglie giovanili trilobate e quelle mature obovate; la bella forma espansa della chioma; la spettacolare fioritura con lunghe infiorescenze pendule giallo brillante che qualcuno paragona al becco di un pappagallo (da cui il nome inglese di G. philippinensis, Parrot's Beak Tree). Decorative sono anche le bacche, prima verdi poi giallastre, Qualche approfondimento sul genere e cenni ad altre specie nella scheda. Tra fine inverno e inizio della primavera, i profumatissimi fiori di Edgeworthia crysantha danno spettacolo: come le Daphne, di cui sono parenti, fioriscono infatti sui rami nudi, cosicché le dorate infiorescenze globose non passano certo inosservate. In Cina, in Giappone e in altri paesi dell'estremo oriente i suoi rami, estremamente fibrosi, sono sfruttati da secoli per produrre una carta assai pregiata e resistente, tanto che nel paese del Sol Levante è stata tradizionalmente usata per le banconote. A questa pianta singolare ha prestato il suo nome un personaggio altrettanto fuori del comune: Michael Pakenham Edgeworth, alto funzionario del Servizio Civile del Bengala e "gentleman botanico amatore", come amava definirsi, durante la sua lunga carriera nell'India settentrionale praticò con passione la ricerca botanica, in cui fu pioniere di un approccio ecologico e della documentazione fotografica. Del resto proveniva da una famiglia d'eccezione, numerosi esponenti della quale si distinsero in diversi campi. La più nota è probabilmente la sorellastra Maria Edgeworth, autrice di romanzi per adulti e bambini e di opere didattiche, in cui il metodo scientifico è applicato all'educazione. Non a caso, C.D.F. Meissner creò il genere Edgeworthia sia in onore di Michael, per il suo contributo alla conoscenza della flora indiana, sia in memoria di Maria, per il suo amore contagioso per le scienze naturali. Una didattica innovativa e un ambiente familiare stimolante Coltivare la botanica e dedicare il proprio tempo libero alla raccolta di piante non era un passatempo così inconsueto tra i funzionari che nell'Ottocento l'impero britannico inviava nei quattro angoli dei suoi crescenti possedimenti coloniali. Ma forse anche in questo quadro la figura di Michael Pakenham Edgeworth, che definiva se stesso gentleman-amateur botanist e servì il Civil Bengal Service dal 1831 al 1859, rimane singolare per l'ampiezza e la competenza, ben più che da dilettante. L'amore per la scienza in generale e per la botanica in particolare era indubbiamente l'eredità di uno straordinario ambiente familiare. Il padre, Richard Lovell Edgeworth (1774-1817), proprietario terriero, uomo politico, inventore, membro dell'influente circolo illuministico della Lunar Society of Birmingham, si sposò quattro volte e mise al mondo ventidue figli. In contatto con le migliori menti della sua generazione, per questa nidiata, insieme alle sue mogli, in particolare alla seconda, Honora Sneyd (1751-1780), creò un sistema educativo detto "educazione pratica", basato sul coinvolgimento diretto dei bambini, l'apprendimento attraverso il divertimento, l'esperienza e la sperimentazione; ispirato, più che a Rousseau, a Locke e a Kant, è la traduzione didattica del metodo scientifico e si rivolge, senza distinzione, tanto alle bambine quanto ai bambini. La sua principale artefice fu senza dubbio Honora che lo espose insieme al marito nella prima edizione di Pratictical education (1780), sotto forma di romanzo filosofico sulla scia dell'Emile di Rousseau. Dopo la sua morte precoce di tubercolosi, la sua opera fu continuata dalla sorella Elisabeth (1753-1797), terza moglie di Edgeworth, e dalla figliastra Maria Edgeworth (1768-1849), celebre romanziera, che nel 1798 pubblicò l'edizione definitiva di Practical education. Maria fu un'autrice prolifica (scisse dieci romanzi e diverse raccolte di racconti) e molto celebre alla sua epoca, la prima donna, nel 1842, ad essere ammessa alla Royal Irish Academy. Mentre i suoi romanzi per adulti dipingono in tono critico e satirico la società irlandese del tempo, la sua copiosa produzione per l'infanzia ha un esplicito intento didattico, in cui si riflette l'amore per la scienza ereditato dal padre e dalle matrigne. Nell'approccio degli Edgeworth, il giardinaggio e la botanica avevano un ruolo non secondario. A Edgeworthstown, la tenuta dove si trasferirono nel 1772, venne creato un parco di gusto paesaggistico che includeva però anche un giardino formale dove i bambini erano incoraggiati a coltivare le propre aiuole; benché non considerata una vera scienza, alla stregua della fisica o della chimica, la botanica aveva un ruolo didattico rilevante come fonte di osservazioni e esperienze dirette e come addestramento alla classificazione. Per tutta la vita, Maria rimase una giardiniera entusiasta, oltre a dirigere la tenuta con maggiore abilità dei fratelli maschi, in collaborazione con l'ultima moglie del padre, Frances (Fanny) Beaufort. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Quarta moglie di Richard Beaufort, anche Fanny fu una donna di talento, sebbene in un altro campo. Era un'eccellente pittrice; infatti, conobbe il marito nel 1798, quando le fu chiesto di illustrare una raccolta di racconti per l'infanzia di Maria. La sua specialità era proprio il disegno botanico; di lei ci è rimasta una collezione di un centinaio di tavole ad acquarello, oggi conservata nella Hungtington Library in California. Interessata alla botanica fu anche sua sorella Henriette Beaufort, autrice di Dialogues on Botany for the Use of Young Persons, un'esposizione divulgativa del metodo linneano, pubblicata nel 1819 sotto il nome di Maria Edgeworth, all'epoca già celebre. Per concludere con questa famiglia fuori del comune, vale la pena ricordare che un nipote di Maria, Francis Ysidro (1845-1926), figlio del fratellastro Francis Beaufort, fu un illustre matematico ed economista: forse qualcuno avrà sentito nominare le serie di Edgeworth, usate nel calcolo delle probabilità, e la scatola di Edgeworth, uno strumento grafico per determinare le condizioni di equilibrio in un'economia di scambio. Un gentiluomo amante della botanica Fu in questo ambiente, eccezionalmente stimolante, che nacque nel 1817, ventiduesimo di quella nidiata, Michael Pakenham Edgeworth. Educato nel metodo paterno, sviluppò la capacità d'osservazione, l'originalità di pensiero, lo spirito critico e la passione per la scrittura fluviale (ne riparleremo); dalla madre vennero l'abilità nel disegno e l'amore per le piante. Approfondì poi gli studi in Inghilterra e all'Università di Edimburgo, dove si specializzò in lingue orientali. ma seguì anche studi di botanica. Dopo essersi perfezionato all'East India College, nel 1831 entrò al servizio della Compagnia delle Indie e fu inviato nell'India settentrionale (provincia del Bengala nord-occidentale). La sua prima sede fu Ambala (Haryana), cui seguirono tre località dell'Uttar Pradesh, Muzaffarnagar, Saharanpur e Banda. Quando lavorava a Mazaffaenagar, muovendo da Ambala, relativamente vicina al Kashmir, erborizzò nell'Himalaya, dove incominciò da osservare la correlazione tra piante e suolo; la sua comunicazione su questo argomento alla Royal Asiatic Society (1839) ne fa un precursore dell'ecologia. Le sua importante collezione di piante himalayane, incrementata dalle raccolte di William Hay, che raccolse per lui nei dintorni di Simla, e di Lance che esplorò il distretto di Lahual e Spiti, fu inviata a Bentham, che ne pubblicò una parte. A Saharanpur poté incontrare altre persone che condividevano la sua passione; qui nel 1817 la Compagnia aveva trasformato il precedente giardino di un capo locale in un orto botanico di acclimatazione, secondo per importanza solo a quello di Calcutta, che ebbe tra l'altro un ruolo decisivo nell'introduzione della coltivazione del tè in India. All'epoca era diretto da Hugh Falconer, che divenne amico di Edgeworth. Egli poté contare anche sulla collaborazione dell'eccellente raccoglitore indiano Murdann Alì, l'unico indigeno che per le sue conoscenze fosse considerato un vero botanico dagli spocchiosi (e razzisti) britannici. Il lungo soggiorno a Banda gli consentì di inventariarne in modo quasi completo la flora locale (il risultato fu Catalogue of Plants found in the Banda district, 1847–49). Nel 1849 fu uno dei cinque Commissari incaricati di definire l'annessione del Punjab; ricoprì incarichi di una certa importanza, terminando la sua corriera come Capo della Polizia del Punjab. Durante il suo soggiorno indiano, viaggiò estesamente soprattutto nel nord del paese, interessandosi, oltre alla botanica, alla cultura e alle lingue indiane, pubblicando tra l'altro una grammatica e un dizionario del kashmiri. Membro della Royal Asiatic Society e della Linnean Society dal 1842, ebbe numerosi corrispondenti, tra cui Hooker, Darwin e Wallich. Oltre che in India, raccolse anche a Ceylon e a Aden, dove fu di passaggio nel 1846 di ritorno in India; mentre la nave faceva rifornimento, approfittò della sosta di sole due ore per erborizzare nei pressi dell'albergo in due stazioni in cui suolo sembrava particolarmente promettente; il risultato furono 40 specie, 11 delle quali nuove per la scienza. Degno erede di una famiglia di scrittori, Edgeworth era un grafomane, come attestano le numerosissime lettere a familiari e corrispondenti, e soprattutto il diario scritto durante gli anni indiani, oltre 8000 pagine manoscritte oggi oggetto di un progetto di pubblicazione on-line, di inestimabile valore storico. Lasciato il servizio nel 1859, si stabilì a Londra. Oltre a diverse comunicazioni alla Linnean Society sulle piante indiane, collaborò al primo volume della Flora of British India (1874-77) di W.D. Hooker, per il quale scrisse le parti dedicate alle famiglie Frankeniaceae, Caryophyllaceae, Zygophyllaceae, Geraniaceae. Nel 1877 pubblicò un interessante monografia sui pollini, Pollen. Spirito aperto e sperimentatore, Edgeworth fu anche tra i pionieri della fotografia, che incominciò a praticare alla fine degli anni '30 su incoraggiamento di un amico di famiglia, il fisico e inventore David Brewster. Fu tra i primissimi ad usare le fotografie per documentare le piante, tanto che possiamo quasi considerarlo il padre della fotografia botanica. Morì nel 1881. Una sintesi biografica nella sezione biografie. Carte pregiate e fiori dorati Tra i primi esploratori di un'area floristica poco nota e interessante per trovarsi al confine tra le flore delle pianure dell'India settentrionale e himalayana, Edgeworth scoprì e in alcuni casi pubblicò numerose specie inedite. Lo ricordano quindi numerose specie come Primula edgeworthii (oggi P. nana), Rhododendron edgeworthii o Platanthera edgeworthii. Quasi contemporaneamente gli furono dedicati due generi Edgeworthia: nel 1841 dal tedesco Carl Daniel Friedrich Meisner (famiglia Thymelaeaceae) e nel 1842 dall'amico Hugh Falconer (famiglia Sapotaceae). A essere valido è ovviamente il primo. Nel pubblicarlo, il botanico tedesco citò espressamente come dedicatario Michael Pakenham Edgeworth, ma aggiunse che egli intendeva anche onorare la memoria di Maria "una donna devota alla natura e alle scienze naturali, che è diventata cara a tutte le persone colte grazie alle sue opere che testimoniano una rara profondità e completezza di mente e di spirito". Edgeworthia Meisn. è un piccolo genere di cinque specie affine a Daphne, da cui si distingue per alcuni particolari della struttura dei fiori, diffuso nell'India e nella Cina himalayna, con alcune specie presenti in Bhutan, Nepal, Myanmar. Una specie si è naturalizzata in Giappone e negli Stati Uniti. Meisner stabilì il genere sulla base dell'unica specie allora nota, E. gardneri, precedentemente pubblicata da Wallich come Daphne gardneri, una pianta himalayana che vive nelle foreste dell'India Nord Orientale, molto adatta a celebrare un esperto di flora del subcontinente. Tuttavia è cinese, ma largamente introdotta in altri paesi orientali, la specie più nota, E. crysantha. Di grandissima importanza culturale ed economica, è una delle piante da cui in oriente si ricavano le carte più pregiate. Infatti ha rami assi fibrosi e flessibili, al punto che possono essere persino annodati. Una particolarità rara tra le dicotiledoni, la tendenza dei rami a dividersi in tre, le ha dato il nome con cui in Giappone è nota sia la pianta sia la carta che se ne ricava, mitsumata, letteralmente "con tre rami". Di alta qualità e resistente agli attacchi degli insetti, è tradizionalmente usata per la carta moneta. E' una delle famose "carte giapponesi" (washi) usate nel restauro librario; ha fibre non molto lunghe, ma fini e flessibili, che la rendono il supporto preferito per la calligrafia e la pittura. E. crysantha è per altro una specie di altissimo valore ornamentale, un alberello dal bel portamento con rami setosi che a fine inverno si ricoprono, prima di emettere le foglie, di singolari grappoli quasi sferici di fiori gialli intensamente profumati. Sono disponibili anche varietà giallo crema, come 'Creme Snow', arancio, come 'Akebono', rosso aranciato come 'Red dragon'. Qualche approfondimento nella scheda. Quando nel 1793 la spedizione Entrecasteaux collassa e gli ufficiali monarchici istigano gli olandesi ad arrestare i loro compagni repubblicani, tra i naturalisti l'unico a sfuggire a questa sorte è Louis-Auguste Deschamps. Durante il lungo periplo non sembra essersi distinto per particolare zelo naturalistico, ma ora accetta con entusiasmo la proposta del governatore van Overstraten di esplorare l'interno dell'isola. Sicuramente fa collezioni importanti, ma quando rientra in Francia la sua nave viene intercettata dagli inglesi, che sequestrano tutti i suoi materiali. Deschamps vivrà ancora a lungo la vita un po' oscura del medico e dell'erudito di provincia, ma il sogno di essere il primo a scrivere una Flora di Giava è ormai tramontato per sempre. Unica traccia del suo lavoro pionieristico un manoscritto, che dopo oltre secolo di oblio è stato studiato solo negli anni '50 del Novecento, rivelando che il botanico francese fu il primo a vedere e disegnare una Rafflesia. A ricordarlo il genere Deschampsia, che comprende aeree graminacee molto interessanti anche in giardino. Dalla spedizione di soccorso all'esplorazione di Giava Durante la spedizione Entrecasteaux, Louis-Auguste Deschamps sembra l'unico a non integrarsi, a non fare gruppo con i suoi compagni naturalisti. Gli altri a Parigi hanno fatto parte degli stessi ambienti - le societés savantes e i club rivoluzionari -, hanno le stesse idee politiche e stringono forti vincoli d'amicizia. Deschamps invece appartiene a un'illustre famiglia della nobiltà di toga di Saint-Omer, è monarchico, non sembra avere legami né personali né familiari con l'ambiente scientifico parigino, anche se all'inizio del 1791 è stato ammesso alla Societé d'Histoire naturelle. Non sembra neppure essere acceso dal fuoco sacro della ricerca che spinge gli altri a scontrarsi con il comandante e a prendere anche troppi rischi, come capita a Riche; è quasi defilato, in secondo piano. In Tasmania, quando per sfruttare al massimo il poco tempo disponibile, i naturalisti si dividono in tre squadre, non ne dirige nessuna. La Billardière - ma probabilmente è accecato dalla passione politica e dal rancore - ne mette addirittura in dubbio la competenza sia come chirurgo sia come naturalista. Sicuramente dovette invece fare la sua parte, in particolare in Nuova Caledonia dove sappiamo raccolse una notevole collezione. Quando a Giava gli echi degli eventi francesi scatenano la lotta aperta tra monarchici e repubblicani, Deschamps è il solo naturalista a non essere arrestato come agitatore rivoluzionario, sia che il comandante d'Auribeau ne conosca le idee, sia che egli si sia apertamente schierato dalla parte degli ufficiali controrivoluzionari. Ed è a questo punto, quando l'avventura dei suoi compagni finisce nell'angoscia della prigionia, che comincia la sua vera storia. Si trova anche lui a Semarang quando il governatore olandese van Overstraten gli propone di entrare al suo servizio per esplorare l'interno dell'isola, in vista della stesura di una storia naturale di Giava. Deschamps non si lascia sfuggire l'occasione di essere praticamente il primo naturalista occidentale a visitare la grande isola e tra il 1794 e il 1798 è impegnato in quattro intense campagne di esplorazione. Nel 1794, per prendere confidenza con il territorio, batte i dintorni di Ungaran, nella regione centrale. L'anno successivo, tra maggio e novembre 1795, un lungo giro lo porta prima nella regione centrale quindi lungo la costa sud, quindi di nuova nella piana centrale, infine sulla costa nord, fino a rientrare a Semarang, dove risiede tra un viaggio e l'altro, trascorrendo la stagione delle piogge a riordinare e classificare le raccolte. La campagna del 1796 lo vede raggiungere Surabaya navigando lungo i fiumi Solo e Mas, quindi esplorare la costa orientale, la parte più a est della costa meridionale (dove raccoglie tra l'altro una nuova specie di Passiflora e una Limonia) e l'isola di Madura, prima di ritornare nella regione centrale e rientrare a Semarang. Nel 1797 si dirige invece a occidente lungo la costa nord, per poi attraversare l'isola e raggiungere il settore centrale della costa sud, dove visita tra l'altro l'isola di Nusa Kanbangan; quindi muovendosi in diagonale verso nord ovest, tocca Bandung, Buitenzorg e Batavia. E' di fatto l'ultimo grande viaggio, cui nel 1798 seguirà solo una breve escursione nei dintorni di Buitenzorg. Durante questi lunghi e faticosi viaggi, in cui è accompagnato da disegnatori e portatori messi a disposizione dal governatore, scala montagne, visita boschi di teak e piantagioni di pepe, raccoglie informazioni sul bohun upas (Antiaris toxicaria, considerato l'albero più velenoso del mondo), esplora crateri, grotte e fonti termali, raccogliendo piante ma anche animali (a quanto pare, soprattutto pesci). Su quello che succede in seguito abbiamo due versioni. Secondo alcuni biografi, rientrò in Francia nello stesso 1798; molto più probabilmente, rimase invece a Giava fino al 1802, lavorando come medico a Batavia. In effetti, nel frattempo la situazione era cambiata: in Olanda era stata proclamata la Repubblica Batava e gli olandesi, da nemici della Francia e alleati della Gran Bretagna, si trovavano ora sul fronte opposto. A partire dal 1800, il porto di Batavia fu sottoposto al blocco navale britannico. Nel 1802 a cambiare la situazione intervennero due eventi: in primo luogo, l'amnistia concessa da Napoleone agli immigrati che non avessero impugnato le armi contro la repubblica; in secondo luogo, la pace di Amiens tra Francia e Regno Unito. Non sappiamo se nel frattempo Deschamps si fosse ufficialmente dichiarato immigrato; in ogni caso il nuovo quadro politico gli offriva l'occasione di tornare in patria senza rischi politici; partì dunque portando con sé i diari di campagna, numerosi disegni e presumibilmente le sue ricche collezioni naturalistiche. Tuttavia nello stretto della Manica la nave su cui viaggiava fu fermata dai britannici e tutto gli fu sequestrato. Come già La Billardière, anch'egli si rivolse a Banks per ottenerne la restituzione, ma nonostante le rassicurazioni di quest'ultimo, senza esito. Deschamps visse ancora a lungo. Tornato a Saint Omer, servì come chirurgo nell'ospedale cittadino; privo dei diari e delle collezioni, dovette rinunciare a scrivere la progettata Flora javanica, accontentandosi di una memoria sull'upas bohun e di alcuni articoli sui costumi di Giava. Gli rimase la passione per la botanica: raccolse un notevole erbario delle piante della regione (che i suoi eredi lasceranno alla biblioteca della città natale) e collezionò piante esotiche (come dimostrano alcuni acquisti di piante grasse messicane e fucsie sudamericane). Una sintesi della sua lunga vita (mori nel 1842) nella sezione biografie. Di manoscritti e erbari a lungo si perse ogni traccia, ma a Giava come a Londra girava la voce che durante il soggiorno nell'isola Deschamps si fosse imbattuto in una pianta straordinaria. Solo molti anni dopo John Reeves acquistò all'Indian House un pacco di documenti e piante essiccate che nel 1861 donò al Natural History Museum. E lì le carte giacquero a lungo; l'erbario andò perduto, mentre il manoscritto - consistente nei diari di campo di Deschamps, in un elenco delle specie raccolte e in un abbozzo di Flora Javanica, con diversi disegni - fu esaminato solo nel 1954 da C.A. Backer. Tra quei disegni, inequivocabile, l'immagine di un bocciolo di Rafflesia, che Deschamps vide nel 1797 nell'isola di Nusa Kanbangan. Anche se i botanici discutono di quale specie si trattasse (R. keithii secondo alcuni, R. horsfieldii secondo altri), è in ogni caso la prova che il primo occidentale a vedere e studiare un esemplare di questo stupefacente genere non fu né Horsfield né Arnold, ma proprio il nostro sfortunato Deschamps. Deschampsia, dai ghiacci dell'Artide ai giardini naturali Nel 1812, quando presumibilmente Deschamps si era ormai rassegnato alla sua vita di oscuro medico di provincia, il botanico Palisot de Beauvois gli dedicò il genere Deschampsia, separandolo dal linneano Aria, con le seguenti parole: "Dal nome di M. Deschamps, medico a Saint Omer, uno dei sapienti naturalisti nominati per la spedizione alla ricerca dello sfortunato La Pérouse". Tra il percorso esistenziale di Deschamps e quello di Palisot de Beauvois osserviamo coincidenze che non possono essere casuali: entrambi nobili e monarchici, si trovavano all'estero negli anni rivoluzionari e subirono qualche anno di esilio prima di poter ritornare in patria (Palisot nel 1798, Deschamps, come abbiamo visto, nel 1802). Inoltre, erano entrambi originari dell'Artois. Il genere Deschampsia, della famiglia Poaceae, comprende una trentina di specie di graminacee per lo più perenni ampiamente distribuite dalle zone artiche a quelle temperate fresche nonché nelle montagne tropicali, in pascoli umidi e radure boschive, in genere in terreno acido. Sono piante cespugliose che formano densi ciuffi di foglie lineari o oblunghe, da cui spuntano aeree infiorescenze a nuvola. Molte specie hanno un importante ruolo ecologico, come ospiti e cibo delle larve di diversi lepidotteri. La specie più nota è l'ubiqua D. caespitosa, il cui areale comprende entrambe le coste degli Stati Uniti, alcune zone del Sud America, l'intera Eurasia, l'Africa tropicale e l'Australia. Già ammirata da Karl Foerster che ne selezionò alcune varietà, questa specie molto variabile è di grande interesse in giardino, grazie al contrasto tra il fogliame verde scuro e le vaporose e aeree infiorescenze, soprattutto per le cultivar con spighette giallo-argenteo, come 'Goldschleier', o giallo-dorato come 'Goldtau' o 'Schottland', che crescono bene anche all'ombra. D. anctartica, una delle due sole piante superiori che vivono nel continente antartico, vanta invece il record di essere la monocotiledone più meridionale del mondo, capace di sopravvivere fino a -30°, nei lunghi inverni artici con luce minima o assente, grazie a un gene che inibisce la ricristallizzazione del ghiaccio. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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