Nella seconda metà del Cinquecento, a Siviglia il medico Nicolas Monardes sperimenta i semplici che arrivano dalle Americhe e li coltiva nel suo giardino; è il primo a descriverli in un'opera scientifica dal lunghissimo titolo che ben presto diventa un bestseller, tradotto e letto in tutta Europa. Linneo gli dedicherà il genere Monarda, una soave labiata dalle foglie profumate e dai bellissimi fiori. Ma indirettamente, lo celebra anche Monardella. Un giardino americano in calle de las Sierpes Nel 1503 a Siviglia nasce la Casa de contractacion, l'organismo per il quale devono passare tutte le merci americane, sulle quali va versata un'imposta del 20% (il quinto real). La Casa è anche un luogo di studio e formazione scientifica, attraverso il quale scorre un incessante flusso di materiali, curiosità e notizie etnografiche che conquistadores e trafficanti riversano sulla madre patria. A Siviglia arrivano sempre più numerose anche le piante americane (inizialmente dalle isole, poi dalla Tierra Firme, com'è chiamato il territorio continentale attorno al golfo dei Caraibi, quindi dal Perù e dalla Florida) che, oltre a suscitare curiosità, vengono immediatamente rivestite di ogni possibile potere taumaturgico. Tra i sivigliani che si appassionano della flora del nuovo mondo, c'è anche Nicolas Monardes, un medico coltissimo, che appena può trasferirsi in una casa con un terreno coltivabile, trasforma la prima in un gabinetto di curiosità, la seconda in un giardino di acclimatazione delle specie del nuovo mondo. Prova a seminare tutti i semi che riesce a procurarsi: coltiva soprattutto le piante medicinali che usa nel suo lavoro, ma anche piante da frutto, come la guaiava, e qualche ornamentale, come la hierba del sol (cioè il girasole Helianthus annuus) e i flores de sangre (ovvero i nasturzi Tropeolum majus). Già diffuso come ornamentale negli altri giardini della città, ma appassionatamente studiato da Monardes per le sue virtù medicinali, c'è anche il tabacco; il dottore è un estimatore anche del peperoncino - che a quanto racconta era già popolarissimo negli orti sivigliani, dove se ne coltivavano esemplari alti come un albero - migliore nel gusto e molto meno costoso del pepe. Si duole di non poter sperimentare l'ananas: gliene sono pervenuti solo esemplari seccati o in conserva (tra l'altro, piuttosto acida, per essere stata preparata con frutti poco maturi). Gioiose notizie del nuovo mondo Il giardino di Monardes non è sopravvissuto ai secoli, ma ne sappiamo qualcosa grazie a quanto racconta l'autore nel suo capolavoro, un libro con un titolo da fare invita a Lina Wertmuller: Historia medicinal de las cosas que se traen de nuestras Indias Occidentales, que sirven en medicina (1565-74, in tre volumi). Monardes è un vero uomo del suo tempo, con un piede nel passato e l'altro nel futuro. E' uno stretto seguace della teoria galenica, che ritiene che le malattie siano dovute a uno squilibrio dei quattro umori (bile nera, bile gialla, flemma, sangue) e vadano curate ristabilendo l'equilibrio; d'altra parte, non ha alcuna arroganza eurocentrica e pratica già il metodo sperimentale: interroga con passione soldati e avventurieri, clienti e viaggiatori per scoprire i segreti della farmacologia indigena del nuovo mondo; ma poi sottopone a verifica le proprietà medicinali delle sostanze medicinali americane (vegetali, ma anche sostanze di origine animale e minerale) provandole sui suoi pazienti nel corso di una carriera trentennale. Quando è possibile, coltiva le piante nel suo orto per avere sottomano il materiale fresco. Così ci racconta come, afflitto da un forte mal di denti, ricorre con successo a un cataplasma di foglie di tabacco e "carlo santo" (Aristolochia serpentaria) raccolte in giardino. L'Historia medicinal è un libro molto importante per la conoscenza della flora americana; per la prima volta vengono presentate al pubblico europeo in una pubblicazione scientifica quasi cento piante americane, selezionate per le loro virtù medicinali vere o presunte. Monardes ha anche uno scopo pratico immediato: in un momento di difficoltà economica - la sua impresa di import-export specializzata in farmaci americani ha appena fatto fallimento - vuole sia ristabilire la sua rispettabilità scientifica sia convincere i clienti delle virtù medicinali delle piante americane che sono, lo ribadisce a più riprese, molto più economiche di quelle che a caro prezzo i portoghesi trasportano dalle Indie orientali, ma anche più piacevoli e più efficaci. Riesce nel suo intento: non solo l'opera sarà un successo commerciale (tradotta in latino e nelle principali lingue europee, avrà 25 edizioni in sei lingue prima della fine del secolo), ma imporrà nell'immaginario collettivo europeo l'idea della favolosa virtù terapeutica delle piante europee; a dimostrarlo basta il titolo dell'edizione inglese, Ioyfull newes out of the newe founde worlde, "Gioiose notizie che arrivano dal nuovo mondo" (traduzione di J. Frampton, 1577). Ancora una volta non si tratta di un testo di botanica, ma di un manuale di farmacologia; tuttavia la descrizione delle essenze vegetali è chiara e precisa, almeno quando il medico sivigliano conosce direttamente la pianta; spesso in effetti in Europa erano commercializzate parti come cortecce e radici essiccate o prodotti come resine e balsami. Proprio con questi ultimi si apre il primo volume dove si parla di resine di origine vegetali quali copal, animé, tacamahaca e dei balsami del Perù e del Tolù; poi si passa ai purganti (che occupavano un ruolo centrale nella dottrina galenica, come restauratori dell'equilibrio tra gli umori), con l'olio del "fico dell'inferno" (Jatropha curcas), la "cañafístola" americana (Cassia grandis), considerata superiore a quella asiatica (C. fistula), le "nocciole purgative" (Jatropha multifida), ma soprattutto la radice di mechoacán (Convolvulus mechoacan), considerato il purgante ideale, molto preferibile alla gialappa (Exogonium purga) che per i suoi drastici effetti Monardes chiama "mechoacan furioso". Un capitolo a parte meritano il guayaco e il "palo santo" (Guaiacum officinale e G. sanctum), insuperabili contro la sifilide; il succedaneo americano (Smilax pseudo-china) della radice di China asiatica (S. china); le salsapariglie americane (Smilax spp.), di cui vengono esaminate diverse qualità. La trattazione del tabacco occupa da sola un trattatello con tanto di ricette degli svariati preparati; in ogni caso Monardes, pur considerandolo praticamente una panacea, lo raccomanda essenzialmente per impacchi o per clisteri ed è ben consapevole degli effetti stupefacenti del fumo, che accosta addirittura a quelli della coca. E' poi il primo a descrivere e introdurre nella farmacopea il sassofrasso (usato come succedaneo meno costoso del guayaco), la "cebadilla" (Schoenocaulon officinale), le cannelle americane Dicypelium caryophilatum e Canella alba, il pepe lungo (Piper angustifolium) - questi ultimi presentati come migliori e concorrenziali rispetto alle pregiate spezie asiatiche. Per un approfondimento su alcune specie medicinali descritte da Monardes, si rimanda al blog Plantas en America. Sebbene trattate più rapidamente, fanno la loro comparsa anche specie alimentari: il peperone, il mais, l'ananas, la guayaba, la granadilla, il fico d'India, la batata, la manioca e le noccioline americane, chiamate "frutto che cresce sotto terra". Tra le piante decorative, il girasole e la cappuccina, entrambe descritte in toni entusiastici. Altre notizie sulla vita di Monardes, piuttosto movimentata anche se non visitò mai l'America e non si allontanò dalla città natale se non per gli studi, nella biografia. Posso offrirvi una tazza di tè? Linneo che, presumibilmente aveva ricavato da Historia medicinal il nome specifico della nocciolina americana, Arachis ipogea (= "leguminosa che cresce sotto terra"), non mancò di dedicare un genere (in Species Plantarum, 1753) al medico spagnolo. Contrariamente a quanto si sostiene in alcune pubblicazioni, non si tratta di una delle tante specie descritte nel libro (che provenivano essenzialmente dalle Antille, dall'istmo di Panama e dal Perù, tranne tre dalla Florida), ma è ovviamente americano: Monarda, famiglia Lamiaceae (o Labiate), comprende una quindicina di specie di erbacee annuali o perenni, originarie delle praterie nordamericane. Conosciute in Europa almeno dal Seicento - furono tra quelle introdotte dai Tradescant - alcune di esse sono comunque piante medicinali, con le quali si preparano profumate tisane, molto più piacevoli dei drastici purganti prediletti dal dottore spagnolo. M. dydima, comunemente nota come tè degli Oswego, ha anche avuto un ruolo nella storia statunitense; quando, con il famoso Boston tea party, iniziò il boicottaggio del tè importato dalla Compagnia delle Indie, per un breve periodo fu usata come succedaneo, secondo l'uso appunto degli indiani Oswego. M. didyma e M. fistulosa sono anche splendide piante da giardino, soprattutto grazie ai numerosi ibridi orticoli. Come al solito, approfondimenti nella scheda. La nostra storia tuttavia non finisce qui. Nel 1834 il tassonomista George Bentham, in suo lavoro dedicato alle Labiate (Labiatarum genere et species) distacca dal genere Pycanthemum alcune specie e crea il genere Monardella (cioè "piccola monarda"), per la somiglianza nell'aspetto generale con Monarda fistulosa. Così al dottor Monardes riesce il colpaccio: due dediche al prezzo di una! Anche per Monardella, si rinvia alla scheda.
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Per onorare il suo medico, invece di erigergli una statua, un re battezza una pianta con il suo nome. E riesce nel suo intento; come noterà Linneo, i monumenti si perdono, le piante rimangono. Così anche noi, anche se non sappiamo più niente di lui, dopo duemila anni celebriamo il medico Euforbo con il genere Euforbia, e anche il re Giuba con il genere Jubaea. E' meglio una statua o una pianta? L'imperatore Augusto, uno di quelle persone acciaccate dotate di una "cattiva salute di ferro" e destinate a seppellire tutta la famiglia, nel 23 a.C. venne colpito da una grave affezione epatica, tanto che se ne temeva la morte. Il suo medico Antonio Musa gli salvò la vita prescrivendogli una cura idroterapica a base di bagni freddi; riconoscente, l'imperatore, oltre a concedergli la cittadinanza romana, lo onorò con una statua di bronzo. Anche il fratello di Antonio Musa era medico: sia chiamava Euforbo ed era al servizio di Giuba II (Juba), re di Mauretania. In polemica con Augusto, quest'ultimo onorò il suo medico con un dono speciale: ribattezzò euphorbion una pianta medicinale, scoperta da Euforbio nella catena dell'Atlante, il cui lattice era dotato di potenti virtù medicinali. Anzi in onore di entrambi, la pianta diventerà Euphorbia regis-jubae, l'euforbia del re Giuba; il nome è tuttora usato, anche se probabilmente la specie scoperta da Euforbo è piuttosto E. resinifera. Passano i secoli. Della statua di Antonio Musa non rimane neppure il ricordo; arriviamo al 1753, quando Linneo, ufficializzando il nome Euphorbia in Genera Plantarum scrive: "Dov'è adesso la statua di Musa? E' perita, svanita! Ma quella di Euforbo perdura, è perenne, e nessuno potrà mai distruggerla". Due generi celebrativi: Euphorbia e Jubaea In effetti è davvero indistruttibile il genere Euphorbia, che con le sue duemila specie non solo è uno dei più vasti dell'intero regno di flora, ma soprattutto quello più polimorfico. La sua capacità di adattamento fa sì che includa erbacee, suffrutici, carnose piante grasse cactiformi, addirittura alberi perenni. Molte si sono insinuate nei nostri giardini e nelle nostre case, e in questo periodo natalizio furoreggia nelle vesti della stella di Natale Euphorbia pulcherrima. Di questa e di almeno alcune delle tante specie si parla nella scheda. Ma anche re Giuba - che tra l'altro era appassionato di scienze naturali e scrisse libri sull'argomento - oltre che dal nome specifico di Euphorbia regis-jubae, è onorato dal nome di un genere, Jubaea. In effetti, questa splendida palma cilena, che gli fu dedicata all'inizio dell'Ottocento dal botanico tedesco K.S. Kunth, è ben degna di onorare il sovrano-naturalista. Altre notizie sull'unica specie del genere, Jubaea chilensis, nella scheda. Anzi, un secolo dopo l'omaggio a Giuba è addirittura raddoppiato, grazie al naturalista italiano Odoardo Beccari, grande esperto di palme, che nel 1913 creò il genere Jubaeopsis, "di aspetto simile a Jubaea". Anche in questo caso è un genere monotipico, che ci porta in Sud Africa con l'unica specie Jubaeopsis caffra, su cui trovate qualche notizia nella scheda. L'unico a rimanere con un pugno di mosche alla fine fu proprio Antonio Musa. E' vero, esiste un genere Musa (quello a cui appartiene il banano) e addirittura una famiglia Musaceae, ma non hanno niente a che fare con il fratello di Euforbo. In effetti, questo nome è una latinizzazione del termine arabo mauz, "banana", arrivato in Occidente già nel Medioevo tramite le traduzioni di testi medici e botanici arabi, primo fra tutti il Canone di Avicenna (XI secolo). Insomma, concludiamo con Linneo: le piante sono più durature del bronzo! Lo storico della scienza D. Sutton l'ha definito "una delle opere di storia naturale più durature che siano mai state scritte [...] che ha formato le basi del sapere occidentale per i successivi 1500 anni". E' innegabile: con la Materia medica del greco Dioscoride, che aveva già alle spalle quasi un millennio di storia, hanno fatto i conti tutti gli studiosi che tra Quattrocento e Seicento hanno fondato la botanica moderna. Ripercorriamo le tappe della storia di questo long seller e scopriamo anche il genere che ne celebra l'autore, Dioscorea. Prima vita: la composizione In un momento imprecisato della terza metà del primo secolo (tra il 50 e il 70 d.C.) un medico greco, nato in Cilicia, Dioscoride Pedanio, scrive il trattato Περὶ ὕλης ἰατρικῆς Peri hules iatrikēs, più noto con il titolo latino De materia medica ("Sulle sostanze medicinali"). L'argomento è l'illustrazione delle sostanze vegetali, animali, minerali utilizzate in campo medico; il testo, distribuito presumibilmente in cinque volumi, tocca oltre 800 sostanze, tra cui 583 piante, delle quali vengono forniti la denominazione, se possibile la distribuzione geografica, una breve descrizione della parte utilizzata, il procedimento di raccolta, preparazione, somministrazione, le indicazioni terapeutiche e la posologia. Dioscoride aveva a lungo viaggiato e nella sua opera confluiscono le conoscenze degli autori che lo avevano preceduto, la sapienza popolare e le sue stesse esperienze come medico-erborista. Polemizzando con i contemporanei che esponevano le sostanze in ordine alfabetico, adotta per il suo trattato un ordine logico, difficile da cogliere per noi, ma che doveva basarsi sulle loro proprietà mediche. Il primo libro tratta le sostanze aromatiche e oleose; il secondo gli animali, i cereali, le erbe orticole e piccanti; il terzo radici, succhi, erbe e semi usati come cibo o medicamento; il quarto i narcotici e i veleni; il quinto i vini e le sostanze minerali. Il focus è sull'uso medico; le descrizioni quindi sono essenziali e, presumibilmente, non erano accompagnate da illustrazioni. Una sintesi delle poche informazioni biografiche pervenuteci su Dioscoride nella biografia. Seconda vita: il Dioscoride greco Soprattutto nella parte orientale dell'impero, l'opera di Dioscoride si afferma come testo di riferimento; lo attestano le citazioni in altri autori, come Galeno, medico di M. Aurelio, e i relativamente numerosi manoscritti. Ma il successo vuol dire anche rimaneggiamenti. L'ordine scelto da Dioscoride rendeva l'opera difficile da consultare; nel IV secolo Oribase, medico dell'imperatore Giuliano, ne predispose un indice. Forse in Italia venne confezionato un estratto, che comprende una parte delle notizie sulle piante, riorganizzate in ordine alfabetico. Accompagnato da miniature che ritraevano le piante, questo Erbario alfabetico è la fonte di due spettacolari codici: il Dioscoride di Vienna e il Dioscoride napoletano. Il Dioscoride di Vienna è considerato da molti il più bel manoscritto antico a noi pervenuto; fu donato alla principessa bizantina Anicia dal popolo di Costantinopoli verso il 512-513; è il più antico erbario figurato della cultura occidentale, con 383 disegni di piante. Dopo complesse vicende, fu acquistato e portato a Vienna dall'ambasciatore imperiale a Costantinopoli, Ogier Ghiselin de Busbecq. Il Dioscoride di Napoli, più recente ma dipendente dallo stesso archetipo (ovvero dal medesimo manoscritto precedente, oggi perduto), comprende 170 pagine illustrate. E' stato recentemente oggetto di una importante pubblicazione a cura dell'Università di Napoli e della casa editrice Aboca. Molti materiali nel sito della Biblioteca nazionale di Napoli. Entrambe sono opere spettacolari, più pensate come oggetti di lusso che come libri di studio o consultazione, in cui le illustrazioni prevalgono sul testo. Terza vita: il Dioscoride latino Anche nella parte occidentale dell'impero, l'opera di Dioscoride circolò dapprima nella versione greca; tuttavia nella tarda antichità incominciarono ad esserne tratte traduzioni in latino; ce ne sono pervenuti alcuni manoscritti, risalenti al VII-X secolo (senza figure). Ma anche in Occidente abbondano i rimaneggiamenti. Uno dei più antichi è il Liber medicinae ex herbis foemininis, un testo anonimo forse del III secolo, che estrae la descrizione di una settantina di piante, accompagnate da illustrazioni. Intorno al XII secolo, forse in connessione con la scuola di Salerno, viene approntata una versione in ordine alfabetico (Dioscorides alfabeticus), che interpola all'opera di Dioscoride notizie tratte da molte altre fonti. Questa edizione diventerà quella più diffusa (non ci sono manoscritti della vecchia traduzione latina posteriori al X secolo) e sarà glossata intorno al 1300 da Pietro da Abano. La versione glossata da Pietro sarà anche il primo Dioscoride stampato (nel 1478 da Medemblik, a Colle Val d'Elsa). Citato anche da Dante, nel Medioevo dunque Dioscoride è conosciuto attraverso questa versione spuria ed ampiamente citato - o meglio copiato - nelle enciclopedie come lo Speculum naturae di Vincenzo da Beauvais, nei manuali medici e nei ricettari farmaceutici. Le miniature che accompagnano i manoscritti medioevali sono spesso di grande qualità artistica, ma molto fantasiose. Quarta vita: il Dioscoride arabo Anche più vitale si rivelava intanto Dioscoride in un'altra area, quella dell'Oriente islamizzato. Il testo è trasmesso attraverso una complessa trafila di traduzioni, dal greco al siriano, dal siriano all'arabo, dall'arabo al persiano. Anche nel mondo islamico abbondano le opere più o meno rimaneggiate, tra cui erbari con illustrazioni non molto più attendibili di quelle occidentali. Ma Dioscoride è anche un autore di prestigio, che ispira molte opere originali in campo medico, a partire dal IX secolo. Tutti i grandi nomi della medicina araba gli pagano un debito. Ad esempio, per limitarci a un nome noto anche in Occidente, Ibn Sina (da noi chiamato Avicenna) trae da De Materia medica gran parte del capitolo sui semplici del suo Canone di medicina. Quinta vita: il Rinascimento E' stato sostenuto che il Rinascimento non aveva bisogno di riscoprire Dioscoride perché non era mai stato dimenticato. Ma, come abbiamo visto, quello che circolava nel Medioevo occidentale era un Dioscoride di seconda o terza mano. Era ora di tornare al testo autentico: come diceva Leonhardt Fuchs, perché bere l'acqua inquinata quando si può attingere alla fonte? Due generazioni di studiosi sono impegnate a ritrovare il vero De Materia medica liberandolo dalle parti spurie. La prima è rappresentata dai filologi come Ermolao Barbaro che nel 1481 predispone una nuova traduzione partendo dal testo greco, corredata di un commento; pubblicata molto più tardi, sarà seguita nel secondo decennio del Cinquecento da nuove traduzioni come quella di Ruel in Francia o di Marcello Adriani in Italia. La seconda, dopo il 1530, è quella dei medici e dei naturalisti, che intendono tornare a Dioscoride per rivitalizzare la pratica medica e lo studio delle piante. De materia medica diventa un testo canonico dell'insegnamento della medicina e tutto il gotha della medicina (e della botanica, che al tempo erano la stessa cosa) del '500 tiene lectiones su Dioscoride: tra gli altri, Francesco Frigimelica, Gabriele Falloppio, Ulisse Aldrovandi, Luca Ghini in Italia; Guillaume Rondelet in Francia; Valerius Cordus in Germania; Caspar Bauhin in Svizzera. Il culmine di questo filone sono probabilmente i Commentari a Dioscoride di Pietro Andrea Mattioli (1544). Vista l'importanza assunta da Dioscoride nella formazione dei futuri medici, l'obiettivo fondamentale dei medici-botanici della generazione di Fuchs è identificare correttamente, descrivere e classificare le specie trattate dal medico greco, mentre cresce l'interesse per le piante in sé, non solo per il loro uso farmaceutico. Su questa via, anche se Dioscoride è ancora un punto di riferimento, incominciano ad emergerne i limiti in modo sempre più clamoroso: i botanici tedeschi o olandesi hanno molta difficoltà a ritrovare la flora dell'Europa centro-settentrionale in un manuale di farmacologia nato nel Mediterraneo orientale; non parliamo poi delle nuove piante che arrivano grazie alle scoperte geografiche. Brasavola (1500-55) dirà esplicitamente che Dioscoride avrà forse descritto l'1 per cento delle piante del pianeta (era molto, molto ottimista!); Monardes si chiederà retoricamente come avrebbe potuto conoscere le piante del Nuovo Mondo. Ma, prima di finire definitivamente nello scaffale dei classici, ancora all'inizio del Settecento, quando ormai la strada maestra della botanica passa attraverso le ricognizioni sul campo, Dioscoride ha ancora un sussulto: tra il 1701 e il 1702, Joseph Pitton de Tournefort parte appositamente alla volta del Levante per una spedizione sulle sue orme, allo scopo di identificare correttamente le piante descritte nel De Materia medica (ne identificherà circa 400, intorno al 45%); ancora alla fine del secolo, John Sibthorp riprenderà la ricerca con due spedizioni botaniche il cui frutto sarà uno dei capolavori della botanica di primo Ottocento, la Flora Graeca (1806-40). Finalmente, la Dioscorea Sarebbe strano se un personaggio di tale importanza nella storia della botanica non fosse celebrato da un nome di genere. Infatti, ci pensò il solito Plumier, che gli dedicò il genere Dioscorea, confermato poi da Linneo. E' un genere molto importante, tanto che le specie di uso alimentare sono ben note con il nome volgare igname. Detta anche yam, è una pianta alimentare essenziale per la sopravvivenza di oltre 100 milioni di persone, la cui coltura occupa 5 milioni di ettari in 47 paesi dell fascia tropicale e subtropicale. Ricco di carboidrati e povero di proteine, secondo B. Laws (autore di 50 piante che hanno cambiato il corso della storia) il suo consumo è tuttavia anche una delle concause della sottoalimentazione dei paesi più poveri del mondo. Dal punto di vista botanico, Dioscorea è un grande genere con oltre 600 specie (alcune delle quali di uso ornamentale), che ha anche dato il proprio nome alla famiglia delle Dioscoreaceae. Come sempre, altri approfondimenti nella scheda. Il cordigliere André Thevet soggiorna dieci settimane in Brasile, incontra i cannibali tupinambo, raccoglie informazioni etnologiche e naturalistiche e di ritorno a Parigi diventa famoso con un instant book sulla "Francia degli antipodi". Con le sue realistiche e spesso precise descrizioni di una trentina di specie esotiche, per 150 anni il suo libro diventa il testo di riferimento per la flora brasiliana; e Linneo dà il suo nome all'ahouai, la pianta usata dagli indigeni della baia di Rio per uno spicciativo divorzio alla tupinambo. Dieci settimane in Brasile Nel 1494, con il trattato di Tordesillas Spagna e Portogallo, con la benedizione di Papa Borgia, si spartiscono il nuovo mondo. Ovviamente le altre potenze non sono felici di essere tagliate fuori: è nota la battuta di Francesco I di Francia che chiese di vedere "la clausola del testamento di Adamo che lo esclude da questa spartizione". Ecco allora che nel 1555 suo figlio Enrico II dà il suo consenso a una spedizione segretissima che dovrebbe portare alla creazione di una colonia, chiamata pomposamente "Francia antartica" (cioè Francia degli antipodi) nella baia di Guanabara, in Brasile (dove qualche anno più tardi nascerà Rio de Janeiro). Tra i seicento uomini che, guidati dall'ammiraglio di Villegaignon, partono alla volta del Brasile c'è anche André Thevet, un frate francescano con la passione dei viaggi - è appena rientrato da un viaggio di quattro anni nel Levante. In Brasile invece rimarrà solo dieci settimane, poi, fatto il pieno di curiosità con cui nutrire la fame di esotismo dei futuri lettori, si dà malato e rientra in patria. Abbandoniamo anche noi al loro destino i pionieri della Francia antartica, che naufragherà ben presto forse ancora più per le lotte intestine tra cattolici e ugonotti che per il contrattacco portoghese, e seguiamo Thevet in Francia. Appena tornato a casa, il frate - oltre a coltivare nel suo orto i semi di tabacco che ha portato con sé, (come ho raccontato in questo post) si dedica alla confezione di un instant book sul viaggio e sulle curiosità brasiliane, che uscirà nel 1557 con il titolo Les singularitéz de la France Antartique ("Le cose singolari della Francia antartica"). Benché criticato pesantemente dai dotti, che lo accusano di ignoranza, plagio, impudenza, il libro è un successo a corte e tra i lettori curiosi, anche grazie alle 41 incisioni che ritraggono con efficacia drammatica animali, piante e riti indigeni. Tra i posteri lo apprezzeranno soprattutto gli etnologi, per la qualità delle informazioni sui tupinambo, la tribù indigena che viveva nella baia di Guanabara; e i botanici, per le ricche e precise notazioni sulla flora della zona. In effetti, Thevet, per niente affidabile quando parla per sentito dire (o meglio per plagio manifesto), si rivela ben informato sul mondo tupinambo: nei due mesi e mezzo trascorsi in Brasile qualcosa avrà visto di persona, molto gli sarà stato riferito dai truchements, i marinai che vivevano con i locali e facevano da interprete. In ogni caso, è il primo europeo a descrivere spesso con accuratezza diverse piante del nuovo mondo, con precise informazioni etnobotaniche sui loro usi, soprattutto alimentari e medicinali. E non c'è da stupirsene, se pensiamo che il frate proveniva da una famiglia di barbieri-chirurghi. Le piante citate sono almeno una trentina. Tra quelle alimentari sfilano la manioca, la patata dolce, il mais a chicchi bianchi e a chicchi neri (i tupinambo ne ricavano una bevanda per le feste), il platano (Musa paradisiaca subsp. normalis), l'hoyriti (Allagoptera arenaria, una palma endemica del Brasile), l'amahut (Cecropia sp.), l'ananas "meravigliosamente eccellente per la dolcezza e per il sapore più carezzevole dello zucchero fine", due varietà di fagioli, il peperoncino che i tupinambo commerciano con gli europei. Una tavola ritrae la raccolta degli anacardi. Nel capitolo sulla guerra ecco il genipat (Genipa americana), usato per tingersi il corpo prima delle battaglie, come pure l'usub (Bixa orellana, la pianta da cui si ricava l'annatto); l'hairi (Astrocaryum aculeatissimus) e una canna marina (Gynerium sagittatum) con cui si fabbricano arco e frecce. Tra le piante medicinali l'hyvourahé (Chrysophyllum glyciphloeum), usato contro le malattie veneree; Cnidoscolus urens, contro il male agli occhi; l'hiboucouhu (presumibilmente Bicuiba oleifera), antisettico contro le piaghe dovute alla pulce Tunga penetrans; Carapa guaianensis, da cui si ricava un olio così eccellente contro le ferite che ne Thevet ne ha portato "una certa quantità tornando qui, che ho distribuito tra i miei amici". E poi naturalmente c'è il petun, il tabacco che gli indigeni - ma rigorosamente solo i maschi - fumano sotto forma di rudimentali sigari; il pernambuco o pau de brasil (Paubrasilia echinata), il ricercatissimo albero che ha dato il nome al Brasile stesso; e ancora l'albero delle zucche (Crescentia cujte) dai cui frutti gli indigeni ricavano le maracas. Fonti A. Thevet, Les singularitez de la France antartique, Heritiers de Maurice de la Porte, Paris 1558 F. C. Hoehne, Botanica e agricultura no Brasil no século XVI, 1937, ora in http://www.brasiliana.com.br/obras/botanica-e-agricultura-no-brasil-no-seculo-xvi Frutti pericolosi Secondo Thevet, i Tupinambo non avevano un carattere molto accomodante (celebri le sue pagine sui loro riti cannibalici). Se litigavano con qualcuno, non esitavano a rivolgersi a uno stregone che lo facesse morire. Qui veniva molto utile un albero chiamato ahouaï "che porta un frutto velenoso e mortale, della grandezza di una castagna media, che è un vero veleno, soprattutto la mandorla. I mariti che anche per una leggerezza sono arrabbiati contro le mogli, gliene danno, e le mogli ai mariti". Ma non l'avrebbero mai somministrato a un estraneo, anzi facevano molto attenzione che i bambini non si avvicinassero. Una volta levato il nocciolo velenoso, con i frutti a forma di delta facevano dei sonagli da usare come cavigliere. I botanici del Cinquecento e del Seicento, come Clusius, Jean Bauhin e Tournefort attingeranno ampiamente dal testo di Thevet per la descrizione delle piante americane. Linneo non poteva mancare di onorarlo con un nome di genere, e scelse proprio la pianta degli uxoricidi, battezzata Thevetia ahouai (in Genera Plantarum, 1757). Come molte Apocynaceae, a cominciare dal nostro oleandro, tutte le specie del genere Thevetia sono tossiche, ma estremamente ornamentali; anche se oggi è stata assegnata a un altro genere, vale la pena di citare la bellissima Cascabela thevetia, che probabilmente molti conoscono con il vecchio nome T. peruviana. Indirettamente, Thevet ha anche dato nome alla tevetina, un glicoside estratto da alcune specie di Thevetia, usato come cardiotonico. Altre informazioni sulla romanzesca vita del frate etnobotanico nella sezione biografie; approfondimenti su Thevetia (e sulla sorella gemella Cascabela) nella scheda. Con 5 milioni di morti all'anno (secondo le stime dell'OMS) ne uccide più di cicuta, aconito, stramonio, veratro e tutte le piante tossiche messe insieme. Eppure quando il tabacco arrivò in Europa fu celebrato come panacea capace di guarire tutti i mali. Tra i suoi celebratori, l'ambasciatore Jean Nicot che riuscì a promuoverlo alla corte di Francia, instaurando una moda e guadagnandosi (forse un po' abusivamente) l'onore di divenire patrono del genere Nicotiana. La miracolosa erba d'India Nel 1559 il re di Francia Enrico II inviò a Lisbona in qualità di ambasciatore l'umanista Jean Nicot, per risolvere alcune questioni relative ai diritti di dogana e soprattutto per negoziare il fidanzamento tra la figlia Margherita e il giovanissimo re portoghese, don Sebastian. Sul piano diplomatico la missione fu un totale fallimento, ma fu proficua sul piano culturale: Nicot inviò in Francia marmi, libri preziosi, spezie e piante esotiche. In effetti Lisbona nel Cinquecento era uno dei principali porti di accesso delle novità botaniche che affluivano in Portogallo dalle Indie orientali e occidentali. Così l'ambasciatore spedì in patria (in particolare al suo protettore, il cardinale di Lorena) nuove varietà di aranci, limoni e fichi, il fico d'India, l'indaco e soprattutto i semi di una pianta medicinale di cui vantava le virtù quasi magiche. Questa "erba d'India - magnificava Nicot - è dotata di meravigliose proprietà verificate contro il Noli me tangere [tipo di ulcere] e le fistole considerate inguaribili dai medici, e allo stesso tempo è un rimedio rapido e singolare contro le ferite". Anche se a questo punto realtà e leggenda incominciano ad intrecciarsi inesorabilmente, è certo che nel 1560 alcuni semi pervennero al cardinale di Lorena e, attraverso di lui, alla regina madre Caterina de' Medici (nel frattempo divenuta vedova) che provò le virtù della pianta per curare le terribili cefalee del figlio Francesco II. In tal modo lanciò a corte la moda di fiutare le foglie ridotte in polvere della magica erba, che incominciò ad essere conosciuta in Francia con molti nomi: herba reginae, herbe à la reine ("erba della regina"), Medicée, herbe à l'ambassadeur ("erba dell'ambasciatore"), ma soprattutto herbe à Nicot, herba nicotiana. Sarà quest'ultimo nome ad affermarsi in Francia; nel 1572 nell'edizione accresciuta di L'Agricolture et Maison Rustique di C. Estienne, Jean Liébault dedica parecchie pagine a quella che chiama ormai Nicotiana; ci informa che è efficacissima per curare piaghe, verruche, ragadi alle dita e ai talloni, che può essere usata fresca o secca (in impiastri), in polvere o in preparazioni come acqua distillata, olio, unguento, balsamo (degli ultimi due fornisce dettagliate ricette). In campo botanico il nome sarà ufficializzato nel 1586 da Jacques Daléchamps, nel suo Historia generalis plantarum, in cui la pianta è denominata Nicotiana sive tabacum ("Nicotiana ovvero tabacco"). Da lì al Nicotiana tabacum di Linneo il passo è breve! Questioni di precedenza Allora, tutto a posto? un nome di pianta dedicato alla persona giusta? Non proprio. Intanto, Nicot non è lo scopritore del tabacco, che era noto agli europei fin dal primo viaggio di Colombo; addirittura uno dei suoi compagni, Rodrigo de Jerez, prese il vizio del fumo dagli indigeni di Cuba (cosa che al suo ritorno gli costò l'arresto da parte dell'Inquisizione e una detenzione di sette anni). La prima approssimativa descrizione risale al 1495, per opera del frate Romano Pane, che aveva accompagnato Colombo nel secondo viaggio. Con buona pace dell'Inquisizione, il consumo del tabacco (l'etimologia del nome è discussa) si diffuse rapidamente in Spagna e Portogallo, tanto che già nel 1533 è attestato un mercante di tabacco a Lisbona. Gli si attribuivano d'altra parte tante virtù medicinali da farlo considerare una vera panacea; il suo maggiore estimatore fu il medico Nicolas Monardes in Historia Medicinal de las cosas que se traen de nuestras Indias Occidentales (1574), secondo il quale poteva curare qualcosa come 36 malattie! Nel frattempo attraverso le Fiandre, che al tempo erano un possedimento spagnolo, il tabacco cominciava ad essere conosciuto nel resto d'Europa. La prima descrizione "scientifica" si deve a Rembert Dodoens nel suo erbario (Cruydeboeck, 1554), che tuttavia non descrive Nicotiana tabacum, ma N. rustica. Nella sua grande opera rimasta inedita, Fuchs descrive invece entrambe le specie. La prima immagine stampata di N. tabacum arriva nel 1570, in Stirpium adversaria nova di Pena e de L'Obel. Allora Nicot è stato il primo in Francia? Neppure questo è vero. Tra la fine del 1555 e l'inizio del 1556 il francescano André Thévet per dieci settimane visse a Fort Coligny, un forte che i francesi avevano costruito sulla costa brasiliana, in un fallimentare tentativo di colonizzazione; durante il breve soggiorno raccolse una massa di informazioni etnografiche, geografiche, zoologiche e botaniche. Malato, tornò in patria e scrisse Singularitéz de la France antartique ("Cose singolari della Francia antartica", 1558) in cui riferì come gli indiani Tupinamba coltivassero il tabacco, preparassero e fumassero rudimentali sigari; per quanto non fosse entusiasta di questa abitudine - quando aveva fatto qualche tiro gli era venuta una sincope! - ne portò con sé alcuni semi, che seminò nel suo orto a Angouleme, ribattezzando la pianta herbe angoulmoisine; usò anche il nome pétun (derivato dal tupi petyma, petyn) che ebbe una certa diffusione in Francia. Quando Thévet scoprì che uno che, contrariamente a lui, non era mai stato neppure in America, si era attribuito il merito della diffusione della pianta e le aveva dato il suo nome, andò su tutte le furie. Inutile: ormai lo scippo era stato perpetrato! D'altra parte, neppure lui avrebbe dovuto vantarsi di aver introdotto la pianta in Francia: nel 1525 il cartografo Pierre Grignon aveva visto in una bettola di Dieppe un marinaio che fumava la pipa (un oggetto talmente nuovo e inconsueto che sulle prime l'aveva scambiato per un calamaio). I marinai, accaniti fumatori di pipa, furono del resto tra i principali diffusori del tabacco, tanto che già nel 1542 per opera di marinai portoghesi aveva fatto il suo ingresso in Giappone, dove entrò rapidamente a far parte della cerimonia del tè. Altre informazioni sull'ambasciatore Nicot, come sempre, nella sezione biografie. Calmi, ragazzi: c'è una pianta per tutti Per una terza ragione, l'attribuzione a Nicot di Nicotiana tabacum è abusiva: come egli dichiara espressamente, la pianta di cui inviò in semi in Francia nel 1561 era originaria della Florida; si trattava dunque di Nicotiana rustica; è ancora più tossica di N. tabacum (contiene 9 volte più nicotina di quest'ultima) ed era usata dagli indigeni americani sia come erba sciamanica sia per vari usi medici. La pianta introdotta da Thévet, importata come abbiamo visto dal Brasile, è invece proprio Nicotiana tabacum. Inoltre, ai due possiamo far risalire la diversa connotazione sociale del tabacco da fumo (introdotto dal "plebeo" Thévet) e del tabacco da fiuto (introdotto a corte dal nobile Nicot): almeno fino a tutto il Settecento, l'uno vile abitudine delle classi più basse, il secondo consumo raffinato delle élites. Nonostante la frustrazione di Thévet per lo scippo, alla fine c'è una giustizia botanica: Nicot ha legato il suo nome al dono avvelenato del tabacco (e all'alacaloide che ne viene ricavato, la nicotina), mentre Thévet (lo vedremo meglio in questo post) si è visto assegnare la Thevetia, per aver descritto l'ahouai (Thevetia ahouai) una pianta altrettanto velenosa, ma ben meno pericolosa, ornamento dei giardini tropicali. Ma dato che questa è una storia di equivoci e inganni, anche il petun sopravvive sotto le mentite spoglie di un'altra solanacea, la Petunia. Quanto alla Nicotiana, oltre essere alla base della discutibile ma lucrosissima industria del tabacco, grazie a diverse specie ed ibridi è una magnifica pianta da giardino, che nelle notti estive emana un dolce profumo per attirare le falene. Altre informazioni soprattutto sulle specie ornamentali nella scheda. Un botanico che vive in provincia può competere con i suoi contemporanei per preparazione e erudizione, ma non ha né le occasioni né le conoscenza giuste per vedere pubblicare la sua opera, che spesso è condannata a rimanere allo stadio di manoscritto, quasi una curiosità preservata in una biblioteca locale. A ricordarlo solo qualche erudito, anch'egli legato al piccolo luogo. Insomma, un botanico endemico! Ne è un esempio il farmacista di Grenoble Pierre Bérard. A ricordarlo, non poteva che essere un endemismo, l'intrigante Berardia. Pierre Bérard, chi era costui? Con il nome endemismo ci si riferisce a una specie animale o vegetale limitata a un ambiente geografico circoscritto, per l'estremo adattamento a tale ambiente o per la presenza di barriere naturali, geografiche che ne impediscono l'espansione. Proporrei di estendere il concetto ai botanici. Con l'espressione "botanico endemico" mi riferisco a botanici che sono nati e vissuti in un luogo di cui hanno studiato la flora; scelte personali o circostanze avverse, biografiche culturali storiche, li hanno mantenuti relegati per sempre nella loro piccola patria. In questo senso, il piemontese Carlo Allioni potrebbe rientrare nella categoria: nato e vissuto a Torino, ha dedicato il suo lavoro scientifico principalmente alla flora piemontese; ma d'altro canto l'amicizia con Linneo, l'appartenenza alle maggiori accademie scientifiche del tempo, la risonanza europea delle sue opere, ne fanno una figura di rilevanza europea. Un esempio molto più calzante è quello di Pierre Bérard, maestro farmacista di Grenoble vissuto nella prima metà del Seicento. Nel corso della sua lunga vita, affiancò all'attività professionale approfonditi studi botanici, condotti attraverso sia lo studio della letteratura scientifica del tempo, sia l'esplorazione del territorio, grazie alla quale individuò e descrisse molte specie fino ad allora ignorate. Fu anche in corrispondenza con molti botanici del suo tempo (francesi, ma anche spagnoli, italiani, tedeschi). Come altri botanici contemporanei, ebbe l'ambizione di scrivere una grande opera che raccogliesse tutte le specie descritte nei grandi repertori - primo fra tutti il Pinax di Gaspard Bauhin - integrandole con nuove acquisizioni; fu così che mise insieme un manoscritto di sette volumi in folio, contenenti 6000 piante, concluso nel 1653 con il titolo Theatrum botanicum. Non sappiamo in seguito a quali circostanze, l'opera non venne pubblicata. Possiamo però ipotizzare che diversi elementi abbiano contribuito all'endemismo del povero Bérard: la stampa di un'opera di tali dimensioni era costosissima ed evidentemente all'autore mancavano i mezzi, la forza (all'epoca aveva già superata i settant'anni), i contatti giusti; non era sostenuto da un'Università (un farmacista era considerato un semplice artigiano), da un'Accademia, dal potente di turno. Almeno a livello locale, non fu dimenticato del tutto: qualche anno dopo la sua morte Guy Alliard (1635-1716, storico endemico?), autore del Dictionnaire historique, chronologique, géographique, généalogique, héraldique, juridique, politique et botanographique du Dauphiné ricavò dal Theatrum botanicum le voci dedicate alla flora del Delfinato, grazie alla collaborazione del figlio di Pierre, Jacques Bérard, priore a Serres. D'altra parte anche l'opera di Alliard venne pubblicata solo nella seconda metà dell'Ottocento. Nel 1780 il manoscritto del Theatrum botanicum fu acquistato dalla Biblioteca di Grenoble e rimase inedito. Nella sezione biografie le poche notizie su Pierre Bérard che sono riuscita a rintracciare. Per un botanico della provincia, una pianta di qui A sottrarre almeno un poco Bérard all'oblio totale fu un altro botanico quasi endemico, Dominique Villars (1745-1814), grande esperto della flora del Delfinato, che affiancava alle spedizioni botaniche le ricerche nei polverosi scaffali delle biblioteche; fu folgorato dall'opera di Bérard, tanto da scrivere nella prefazione della sua Histoire des plantes de Dauphiné (1786-89): "Quest'opera era senza dubbio la più completa della sua epoca, ed è una grande sfortuna per i botanici in generale e per questa provincia [cioè il Delfinato] in particolare che non sia stato stampato. Sarebbe stata di maggior valore della Historia Plantarum di Jean Bauhin, di quella di Lione [non sono riuscita a identificare quest'opera], del teatro di Parkinson, persino della storia delle piante di Ray, anche se sono arrivate molto dopo di lui". Propose così di dedicare a Bérard una pianta alpina, Arctium lanuginosum Lam., di cui era stato recentemente riconosciuta l'appartenenza a un genere distinto: "Ho dato il nome di Berardia a questa pianta allo scopo di conservare ai posteri il nome di un sapiente botanico di Grenoble che l'aveva bene conosciuta e le cui opere non sono state stampate... Lasciamo l'omaggio di questo nome a un botanico della provincia". Da quel momento, Bérardia subacaulis (Asteraceae), un endemismo che vive nei macereti calcarei delle Alpi Occidentali (Delfinato, Alpi Marittime, Alpi Cozie), si è assunta il compito di ricordare il suo altrimenti dimenticato dedicatario. E lo fa benissimo, lei che è così tenace da vivere in condizioni proibitive ed è così antica che, secondo il botanico tedesco H. Merxmuller, è contemporanea del sollevamento che ha dato origine alle Alpi. Gli approfondimenti nella scheda. Nel Settecento il medico e botanico Kniphof tenta per primo di sfruttare commercialmente il metodo della stampa naturale. Perfeziona la tecnica, riuscendo a produrre tavole qualche volta di una precisione insuperata, qualche volta stile "mostro di Frankestein". I lettori apprezzano, i colleghi pure e uno di loro gli dedica il fiammeggiante genere Kniphofia. Un metodo alternativo per ritrarre le piante Visti i costi e l'impegno richiesto da un'opera botanica illustrata, i botanici cominciarono presto a pensare a sistemi alternativi; un'idea in teoria semplice, ma difficile da mettere in pratica, era utilizzare le piante stesse come matrici naturali, stampando la loro impronta con diverse tecniche. L'idea risale ancora al Medioevo e fu applicata variamente nel Rinascimento; nel codice Atlantico, Leonardo da Vinci stampò una foglia di salvia, dopo averla cosparsa di una mistura di olio e nerofumo (di cui fornisce anche la ricetta). Nel Cinquecento il profumiere fiorentino Zenobio Pacini, per identificare le piante usate nella sua professione, realizzò un erbario pressando tra due fogli di carta piante inchiostrate da entrambi i lati. Tecniche simili usò nel Seicento il botanico napoletano Fabio Colonna. In tutti questi casi, di ciascuna pianta veniva realizzato un singolo esemplare, destinato a uso privato. Il primo a pensare a un utilizzo commerciale della "stampa naturale" fu il medico e botanico tedesco Johann Hieronymus Kniphof. In effetti, nel Settecento, anche grazie alle numerose introduzioni di nuove, magnifiche piante da Americhe, Asia e Africa, l'interesse per la botanica era sempre più diffuso e esisteva un vasto pubblico potenziale per belle opere illustrate dai costi non proibitivi. Nel 1733 l'allora giovane medico fece stampare un Kräuter-Buch, cioè un libro sulle piante officinali, dal titolo Botanica in originali, das ist Lebendig Kräuter-Buch ("Botanica in forma originale, cioè Erbario vivo"), accompagnato da 200 tavole realizzate con piante appiattite, seccate, inchiostrate quindi stampate in bianco-nero con un torchio da stampa su carta sottile ma robusta, tale da ricevere facilmente l'impronta dell'esemplare vegetale. Alcune copie - quelle più costose - erano poi dipinte a mano. La tecnica da lui usata (sebbene nota nelle linee generali) si avvaleva di alcuni "segreti di bottega" che ancora oggi rimangono misteriosi. Il prodotto dovette avere un certo successo se nei vent'anni successivi Kniphof continuò ad accrescere il suo erbario, ricavandone due nuove edizioni, davvero imponenti, questa volta in latino, utilizzando (fu tra i primi a farlo) la nomenclatura linneana e le descrizioni di Species Plantarum. Il frontespizio, debitamente incorniciato da foglie e fiori stampate secondo la nuova tecnica, è un vero e proprio manifesto pubblicitario: "Botanica in forma originale o Erbario vivo, nel quale sono presentate le elegantissime immagini delle piante indigene e esotiche, stampate in inchiostro con un procedimento peculiare e laborioso, con i loro nomi secondo il metodi di Linneo e Ludwig, illustri botanici del nostro tempo". L'edizione del 1747 (stampata a Erfurt da Funke) comprendeva 1185 tavole, quella del 1757-64 (stampata a Halle da Trampe) 1200. Altre informazioni sugli studi botanici di Kniphof nella sezione biografie. Fedeltà alla natura o mostro di Frankenstein? Il lavoro di Kniphof fu lodato (tra gli altri, dallo stesso Linneo) per la fedeltà ineguagliata alla natura. Né la xilografia né la calcografia, le due tecniche di stampa allora usate nell'illustrazione botanica, potevano eguagliare la resa della tessitura delle foglie (vedi nella gallery le immagini del luppolo e del pomodoro); con le piante minute, con foglie, fiori e semi piccoli, la tecnica era al suo meglio, garantendo davvero una riproduzione diremmo oggi quasi fotografica. Ma con esemplari con fiori più grandi, foglie carnose, potremmo dire più tridimensionali, gli effetti erano ben diversi: la pianta appiattita e costretta nelle due dimensioni appare imbalsamata, rigida e deformata. E' anche vero che confrontando le tavole delle diverse edizioni (tuttavia in rete è disponibile una versione digitalizzata solo della prima edizione, per quelle successive sporadiche tavole) si nota un netto progresso (nella gallery si confronti l'aquilegia del 1733 con quella, in bianco e nero, della terza edizione). Inoltre i ritocchi di colore spesso coprono e di fatto eliminano i dettagli della tessitura, più rispettati dalla stampa in bianco e nero (si veda la tavola della fritillaria). Ma soprattutto il metodo è economicamente poco efficiente: dopo poche stampe l'esemplare inchiostrato si deteriora e va sostituito, il che significa anche che non esistono due esemplari del libro esattamente uguali. Non sappiamo quale fosse la tiratura di ciascuna edizione, ma sicuramente le copie non erano molte, come possiamo dedurre dal fatto che oggi dell'edizione di Halle non esisterebbero più di 10 copie complete. Per farvi un'idea dell'operazione, dei suoi successi e dei suoi limiti, comodamente dallo schermo del vostro computer, grazie all’Herzogin Anna Amalia Bibliotek di Weimar, potete sfogliare le tavole della prima edizione tedesca. Le mie sensazioni sono state contraddittorie, miste di ammirazione e disagio. Qualcuno vuole provare? Nonostante i problemi, il metodo della stampa naturale continuò ad essere usato, seppure sporadicamente, soprattutto nell'area tedesca ed elvetica; un esempio di poco successivo è Ectypa vegetabilium di Christian Friedrich Ludwig (citato insieme a Linneo nel frontespizio di Botanica in originali), ancora stampato da Trampe. Nell'Ottocento, dopo l'invenzione della stampa litografica, Alois Auer Ritter von Welsbach (1813-1869) riprese e perfezionò il procedimento, avvalendosi di impronte impresse su piombo o gomma, da cui poi venivano ricavate le matrici; una tecnica simile fu utilizzata verso fine secolo anche dall'illustratore botanico Henry Bradbury. Al di là delle opere di botanica, il natural printing o eco-printing, in italiano stampa naturale, è una tecnica tuttora diffusa, praticata con diversi livelli di sofistificatezza da bambini, hobbisti e artisti. I curiosi troveranno moltissime informazioni nel sito dell'attivissima Nature Printing Society, inclusi una stupefacente gallery e video dimostrativi. E se volete assolutamente provare, nel documento collegato trovate anche semplici istruzioni fai da te. Quanto a me, ho usato questa antica tecnica per decorare fogli di carta inconsapevole di tanta storia, come il M. Jourdain di Molière, che scoprì di aver sempre scritto in prosa senza saperlo. Fonti The story of nature prints, http://ngm.nationalgeographic.com/2012/10/leaves/nature-prints Nature printing, http://mediengeschichte.dnb.de/DBSMZBN/Content/EN/MakingOnesMark/02-naturselbstdruck-en.html Propagating Eden: Uses and Techniques of Nature Printing in Botany and Art, http://www.ipcny.org/sandbox/wp-content/uploads/2014/06/23.-Propagating-Eden-Brochure-Entire-PDF.pdf Kniphofia o Tritoma? Nelle due edizioni latine di Botanica in originali una tavola ritrae quella che Linneo aveva denominato Aloe uvaria. Conrad Moench in Methodus Plantas horti botanici et agri Marburgensis, 1794, riconobbe che essa apparteneva a un nuovo genere, che dedicò a Kniphof, ribattezzando la pianta Kniphofia alooides (oggi Kniphofia uvaria). Blunt e Stern, autori di The Art of botanical illustration, sostengono che ci sia una certa ironia nell'accostamento tra il "tetro metodo di illustrazione botanica" messo a punto da Kiniphof e gli allegri e brillanti fiori della Kniphofia. Non particolarmente amante di quest'ultima, trovo invece un tratto comune nella rigidità di entrambi. Ma inorridisco nell'immaginare la bella infiorescenza appiattita sotto il torchio di quel torturatore di piante! Comunque ci fu chi cercò di strappargli l'onore. Nel 1804 Ker Gawler ribattezzò la pianta Tritoma (cioè "con tre tagli", alludendo ai tre spigoli vivi all'estremità delle foglie di Kniphofia uvaria); ma arrivava in ritardo e ad essere considerato valido fu il nome attribuito da Moench, anche se di tanto in tanto il vecchio sinonimo Tritoma compare ancora in cataloghi di bulbi, libri o pagine web. Altre informazioni sul genere Kniphofia, in particolare sulla sua introduzione in Europa, nella scheda. Chi è l'autore di un'opera a cui hanno messo mano decine di persone? Chi l'ha concepita? Chi ne ha dettato il testo? Chi l'ha scritta materialmente? Chi l'ha rivista? Chi ne ha curato l'editing e la stampa? Ripercorrendo la storia di un eccezionale testo botanico di fine Seicento, l'Hortus Malabaricus, probabilmente non troveremo la risposta, ma conosceremo indiani, portoghesi, olandesi che lavorano insieme alla prima opera etno-botanica della storia. Molti avrebbero meritato di dare il proprio nome a un genere, ma alla fine ci sono riusciti solo in tre, e più fortunati sono stati gli ultimi arrivati, i Commelin, che hanno dato il loro nome al notissimo genere Commelina. Prima tappa: 1670-1675, Cochin, Malabar Nel 1602 a Amsterdam viene fondata la Compagnia olandese delle Indie Orientali (Vereenigde Geoctroyeerde Oostindische Compagnie, meglio nota con la sigla VOC); per circa 150 anni - fino all'affermazione dell'Inghilterra come superpotenza coloniale - essa avrà il monopolio del commercio delle spezie lungo le rotte che collegano l'Europa al Capo di Buona Speranza, all'India e all'Indonesia. Nei luoghi strategici vengono creati avamposti commerciali, che sono allo stesso tempo porti, empori e fortezze. Uno di essi è Cochin, sulla costa indiana del Malabar, strappato nel 1663 ai Portoghesi. A differenza di questi ultimi, che avevano cercato di imporre la religione cattolica, gli olandesi calvinisti si dimostrano molto più tolleranti. Anche i rapporti con il sovrano del Malabar (detto Samoothirippadu, che nelle lingue occidentale diventa Zamorin) sono relativamente positivi. E' in questo contesto che Hendrik van Rheede, governatore del Malabar olandese tra 1670 e il 1677, progetta un'opera senza precedenti: esplorare e catalogare l'intera flora locale, allo scopo fondamentale di individuare piante medicinali utili contro le malattie tropicali. L'aspetto più originale, che sicuramente contribuisce alla riuscita del progetto, è il coinvolgimento dell'intellighenzia locale; l'opera è affidata a un'équipe di 15-16 persone che comprende medici e studiosi indiani, capeggiati dal medico ayurvedico Itty Achudan; un disegnatore, il frate carmelitano Johannis Mathei, noto come padre Matteo; traduttori dalla lingua locale (il malayam) al portoghese, dal portoghese all'olandese e infine dall'olandese al latino (lingua della redazione finale). Essenziale - per assicurare i contatti con l'équipe indiana e permettere il lavoro di raccolta degli esemplari - è anche la benevola assistenza del re di Cochin e dello Zamorin di Calcutta. Per due anni, il territorio viene accuratamente esplorato da un centinaio di raccoglitori; ciascun esemplare è portato a Cochin e accuratamente disegnato da padre Matteo; quindi Achudan detta in malayan la descrizione della pianta, corredata di note mediche e etnografiche (spesso tratte da manoscritti su foglie di palma, tramandati di generazione in generazione nella sua famiglia di medici); il suo lavoro è discusso con gli altri membri dell'équipe e validato dalla supervisione di tre medici-bramini. Alla fine, vengono catalogate e descritte circa 800 piante; gli esemplari, inseriti in fogli di carta corredati con i nomi in malayam, latino, olandese e altre lingue e accompagnati dai disegni e dalle descrizioni vengono quindi spediti a Amsterdam, per essere trasformati in un'opera a stampa. Seconda tappa: 1678-1703, Amsterdam, Paesi Bassi Prima che il materiale così raccolto sia pubblicabile occorre ancora molto lavoro e il coinvolgimento di molte altre persone (medici, botanici, incisori, tipografi...). L'intero testo deve essere rivisto da botanici e medici europei; bisogna realizzare le tavole calcografiche e curare la stampa; insomma per completare l'opera, che alla fine comprenderà 12 volumi di circa 200 pagine ciascuno, in folio, con 794 calcografie (712 delle quali a doppia pagina), saranno necessari altri venticinque anni; il primo volume esce nel 1678, l'ultimo nel 1703. Van Reede nel 1678 rientra ad Amsterdam e affida la redazione dell'opera, iniziata in India dal suo collaboratore, il pastore Johannes Casearius, a Arnold Seyen, professore di medicina a botanica a Leida. Poco dopo la pubblicazione del primo volume, questi però muore. Il principale curatore dell'opera a questo punto diventa il botanico dilettante Jan Commelin che, in collaborazione con diversi studiosi, redigerà i volumi 2-11 e parzialmente il volume 12. Saranno 25 anni di lavoro che si interromperà solo con la morte. Il poco che ancora rimane sarà portato a termine dal nipote, Caspar Commelin, che redigerà anche un indice plurilingue delle specie citate. Jan Commelin era un mercante di prodotti farmaceutici che, grazie al successo commerciale, aveva fatto carriera fino a diventare borgomastro della città di Amsterdam; appassionato di botanica, gli era stata affidata la direzione dell'Hortus medicus della capitale olandese quindi la sovrintendenza di tutte le aree verdi della città. Il nipote era un medico e botanico che, in un certo senso, aveva "ereditato" dallo zio la carica di direttore dell'Hortus medicus, ne terminò le opere e insegnò medicina e botanica all'Università di Amsterdam. Altre notizie sui due botanici olandesi nella sezione biografie. Linneo consultò e apprezzò il grande libro sulla flora del Malabar: anzi arrivò ad affermare che a suo parere le uniche descrizioni affidabili era quelle dell'Hortus Elthamensis di Dillenius, del Nova plantarum americanarum genera di Plumier e dell'Hortus malabaricus di van Reede; anzi queste ultime erano le più accurate delle tre. Non stupisce quindi che nell'assegnare il nome a piante del subcontinente egli abbia ripreso molti nomi dell'Hortus malabaricus; K. S. Manilal, studioso e curatore delle edizioni moderne inglese e malayan dell'opera ha calcolato che Linneo ha riutilizzato 258 nomi malayan. Fonte: B. Dharmapalan, Hortus Malabaricus, Celebrating a Tricentennal of a Botanic Epic, http://nopr.niscair.res.in/bitstream/123456789/14856/1/SR%2049(10)%2026-28.pdf Casearia, ovvero amici filosofi Tra i tanti personaggi che abbiamo incontrato in questa storia, cinque hanno avuto l'onore di dare il loro nome a un genere. Nella lotteria del Who's who della botanica, l'assegnazione non sempre corrisponde però ai meriti. L'ideatore (che viene sempre citato come "autore" dell'opera, di cui probabilmente non ha scritto una riga), Hendrik van Rheede si è visto assegnare Rheedia, un genere di alberi tropicali della famiglia delle Clusiacaee oggi non più accettato (è sinonimo di Garcinia); ha dato anche il nome specifico a Entada rheedi, una Fabacaea di origine africana dagli enormi baccelli. Ugualmente sfortunato Itty Achudan; nell'Ottocento Carl Ludwig Blume - un botanico olandese di origine tedesca che aveva lavorato a lungo nell'Asia olandese - gli dedicò il genere Achudemia, che tuttavia oggi è considerato una sezione del genere Pilea (Urticacaee). Più fortunato nella memoria postuma Johannes Casearius, il giovane pastore al quale van Rheede aveva affidato la versione latina dell'opera. Ma sfortunatissimo nella vita reale: la morte precoce gli impedì di andare oltre il secondo volume. Il suo contributo avrebbe potuto essere ben più importante, visto che gli si deve anche la stesura del disegno generale, esposto nella prefazione. Giovanissimo studente di teologia a Leida (all'epoca doveva essere sui diciotto anni) gli era capitata la ventura di condividere l'abitazione con Spinoza; il filosofo prese a esporgli gli elementi essenziali della filosofia di Descartes, che più tardi pubblicò nella sua unica opera edita in vita, I principi della filosofia di Cartesio (1663). In una lettera ad un altro membro del suo circolo, Simon de Vries, lo invita a non essere geloso di Casearius e della sua intimità con lui; dice anzi di odiarlo per il suo infantilismo e la sua superficialità, ma di amarlo per il suo talento, che fa bene sperare per il futuro. Casearius frequentò ancora Spinoza per qualche tempo; poi, dopo aver completato gli studi di teologia a Leida e Utrecht, divenne pastore ad Amsterdam e si sposò. Nel 1668 come pastore della VOC fu inviato a Cochin e collaborò con van Rheede all'edizione latina di Hortus Malabaricus fino al 1677, quando morì di dissenteria a poco più di trent'anni. Memore del suo contributo, il botanico austriaco von Jacquin volle dedicargli Casearia, un importante genere di alberi tropicali della famiglia Salicaceae (un tempo Flacourtiaceae). Ampiamente distribuito nella fascia tropicale e subtropicale di America, Asia, Africa e isole del Pacifico, comprende 180-200 specie di arbusti o alberi, alcuni dei quali di notevoli dimensioni. Come altre piante di questa famiglia, contengono principi attivi e alcune specie sono state ampiamente utilizzate nella medicina popolare in America e in Asia, in particolare come antisettici, cicatrizzanti e anestetici. Ad esempio, C. sylvestris, un grande arbusto nativo delle Antille, dell'America centrale e della parte settentrionale di quella meridionale, dove è noto con vari nomi, tra cui il brasiliano guacatonga, ha una lunga storia di usi medicinali in tutti i paesi in cui vive: la sua corteccia e le sue foglie sono state usate per combattere le ulcere, i morsi di insetti, addirittura le piaghe della lebbra. C. decandra, un alberello deciduo diffuso dai Caraibi al Brasile, ha invece frutti eduli, che vengono raccolti in natura e consumati a livello locale. Ugualmente eduli sono i frutti della sudamericana C. rupestris, un albero molto ornamentale delle foreste semidecidue, con una elegante chioma piramidale. Qualche approfondimento nella scheda. Chi sono i petali di Commelina? Ma il genere più noto e familiare è indubbiamente toccato agli ultimi venuti, ovvero ai due Commelin, zio e nipote, che sono per altro anche i più illustri nella storia della botanica come fondatori dell'Orto botanico di Amsterdam. Già Plumier nel 1703 dedicò loro il genere Commelina (famiglia Commelinacae), celebrandoli come autori di un'altra opera comune ai due, il catalogo dell'Hortus medicus di Amsterdam. Probabilmente l'assegnazione si basa sul fatto che il fiore della specie da lui descritta (si tratta presumibilmente di Commelina erecta) in apparenza ha due soli petali, ciascuno dei quali rappresenta uno dei due botanici olandesi. Linneo - che usò come specie di riferimento Commelina communis - confermerà l'omaggio, ma con una precisazione: questa pianta può bene rappresentare i Commelin, perché ha due petali vistosi, mentre il terzo è insignificante; i primi due stanno per due illustri botanici (Jan e Caspar), mentre il terzo per un altro Commelin (Caspar il giovane, morto a trent'anni) a cui la morte non ha permesso di fare nulla. Il genere Commelina è diffuso in tutta l'area tropicale e subtropicale, comprende circa 170 specie e ha dato il proprio nome alla famiglia delle Commelinacaee. Per altre notizie, si rimanda alla scheda. Nel Cinquecento nel curriculum di ogni futuro medico c'era l'accurato studio dei testi di medicina e farmacologia ereditati dall'antichità, che di ogni pianta indicavano le virtù e gli usi. Ma come essere certi che a un dato nome greco o latino corrispondesse davvero la pianta giusta, conosciuta con infiniti nomi volgari? Fuchs risolve il problema con una trovata degna dell'uovo di Colombo; e si guadagna per sempre la riconoscenza dei botanici e il nome di uno dei generi più amati, una vera superstar del giardinaggio: la Fuchsia. Piante ritratte dal vero La conoscenza delle piante era essenziale per la medicina; infatti da esse - i semplici, come venivano chiamate - veniva ricavata la maggior parte dei medicamenti. Dunque non solo era importante conoscerne le diverse virtù medicamentose, ma bisognava distinguerle con sicurezza. Tuttavia le confusioni erano all'ordine del giorno: la stessa pianta veniva chiamata con nomi diversi nelle varie regioni e anche la più accurata delle descrizioni era spesso insufficiente per un riconoscimento sicuro; impossibile poi usare i "sacri testi" della medicina classica ignorando a quale pianta reale corrispondessero i nomi greci e latini di Dioscoride piuttosto che Plinio. Il medico e botanico tedesco Leonhardt Fuchs risolve il problema in modo semplice e geniale: accompagnare le descrizioni delle piante e i loro nomi nelle varie lingue con illustrazioni dal vero, dettagliate ed affidabili. Già prima gli herbaria (cioè i libri di descrizioni di piante e delle loro proprietà medico-farmacologiche) erano spesso illustrati; ma le illustrazioni era irrealistiche, grossolane, spesso ricavate dalle descrizioni stesse, quindi creavano più dubbi di quanti non ne risolvessero. La novità del libro di Fuchs De historia stirpium commentarii insignes ("Notevoli commenti sulla storia delle piante"), pubblicato nel 1542, consiste sostanzialmente nella qualità delle illustrazioni delle piante, per la prima volta ritratte dal vero con grande precisione; per la loro realizzazione il botanico diresse una piccola équipe di artisti: il pittore Albrecht Meyer disegnava le piante dal vero, ritraendone i particolari nelle diverse stagioni; il copiatore Heinrich Füllmaurer trasferiva i disegni su tavole di legno; l'incisore Vitus Adelphus Spreckle incideva le matrici e colorava le incisioni ad acquarello (il libro era stampato in bianco e nero, ma in alcuni esemplari, più costosi, le xilografie erano successivamente colorate a mano). Per la prima volta nella storia del libro, i nomi degli artisti che avevano collaborato alla realizzazione dell'opera è riportato del testo, in cui sono presenti anche i loro ritratti. L'eccezionale qualità delle illustrazioni di De historia stirpium è frutto di tre circostanze: il perfezionamento dell'arte della stampa, che ormai permetteva di stampare da matrici di legno (xilografia) con incisioni di notevole qualità e finezza; l'ideale del naturalismo, diffuso dal Rinascimento, che propugnava una riscoperta diretta della natura, da studiare di per se stessa e non come specchio del creatore; l'esigenza pratica di dotare gli studenti di medicina e i medici praticanti di uno strumento efficace. In effetti, Fuchs era un medico rinomato e un professore universitario. Le tavole del testo di Fuchs sono importanti nella storia dell'illustrazione botanica, perché in qualche modo ne fissano le convenzioni che - con minime modificazioni - rimarranno invariate per secoli: la pianta viene disegnata intera, con tanto di radici, nel momento del suo massimo rigoglio, completa di fiori in boccio, fiori sbocciati, frutti. Esse in effetti costituirono un modello, molto imitato quando non semplicemente riprodotto con vere operazioni di pirateria editoriale. A oltre due secoli dalla loro realizzazione, saranno ancora utilizzate nel 1774 in un'opera di Salomon Schinz. Un peperoncino latino L'opera è meno innovativa per i contenuti. Fuchs - anche se dichiarava di partire dalle proprie esperienze di medico e da conoscenze dirette - per la descrizione delle piante note e delle loro proprietà si rifaceva ai testi classici; del resto, una delle sue aspirazioni era che gli studenti e i medici potessero identificare con certezza le piante descritte dagli antichi, in primo luogo Dioscoride. Su questa strada commise anche errori, ad esempio identificando piante tedesche con piante mediterranee, che semplicemente non conosceva. Il libro descrive 497 piante, accompagnate da 517 illustrazioni e ordinate in ordine alfabetico sulla base del nome greco. Ogni voce ha una struttura ricorrente da cui ben si può notare il carattere prescientifico dell'opera:
Tra le circa cento piante descritte per la prima volta, De historia stirpium contiene anche la più antica descrizione di alcune piante americane: il mais (chiamato Turcicum frumentum), quattro varietà di peperone o peperoncino, alcuni tipi di zucche, un fagiolo americano, una specie di Tagetes. E' curioso che anche in questo caso Fuchs assimili queste piante a specie descritte dagli autori classici e non sembri conoscerne la provenienza: le zucche e il fagiolo americano sono semplicemente inseriti nei generi corrispondenti del vecchio mondo, il Tagetes (chiamato già con il nome latino Tagetes indica) è assimilato a una specie di Artemisia (e il nome è collegato alla divinità etrusca Tages). Il caso più divertente è quello del peperoncino, identificato con una pianta descritta da Plinio con il nome siliquastrum, grazie al fatto che la bacca è grande (siliquastrum significa letteralmente 'con un grande baccello'). Quanto al mais, Fuchs deve rassegnarsi ad ammettere che gli antichi non lo conoscevano (è descritto nell'ultima parte del volume, dove egli elenca le specie prive di nome greco), ma pensa che arrivi dalla Grecia, ai suoi tempi sottomessa dai turchi (donde il nome Turcicum frumentum, il nostro granoturco). Pur con questi limiti, il testo è un caposaldo della nascente botanica e ottenne un immediato successo, tanto che già l'anno successivo l'autore ne predispose un'edizione ridotta (quindi più maneggevole e meno costosa) in lingua tedesca, Neue Kreüterbuch (1543). Di entrambe le versioni e delle traduzioni che ne vennero ricavate in olandese, francese, tedesco, spagnolo uscirono ben 39 edizioni nel corso della vita di Fuchs (che morì nel 1566). Quanto alle incisioni, furono largamente riprodotte e plagiate per almeno duecento anni. Approfondimenti sulla vita di Fuchs nella sezione biografie. Un fiore rosa fucsia Un personaggio del calibro di Fuchs non poteva essere ignorato dal buon padre Plumier, che nel suo Nova plantarum americanarum genera (1703) aveva celebrato i big della botanica dedicando loro molte delle nuove piante scoperte nei suoi viaggi nelle Antille. Anzi, bisognava scegliere una pianta degna di tanto personaggio. La sua scelta cadde sulla magnifica Fuchsia triphylla flore coccineo (oggi Fuchsia triphylla). Intorno al 1788 le prime fucsie arriveranno nei giardini inglesi; e sarà fuchsiomania, che da allora non è mai cessata. Per altre notizie sul genere Fuchsia, si rimanda come sempre alla scheda. Il vecchio Fuchs ha avuto anche l'onore di battezzare un giovanissimo colore: nel 1859 il chimico francese François-Emmanuel Verguin produsse sinteticamente una nuova anilina che chiamò fuchsina; anche se poco dopo il nome fu cambiato in magenta, per celebrare la battaglia di Magenta del 4 giugno 1859, il color fucsia è rimasto; e come la pianta da cui prende il nome, è amatissimo, soprattutto dalle ragazzine. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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