Non risulta che Claude Aubriet abbia mai dipinto una Aubrieta, ovvero un'aubrezia. Ma sicuramente queste piante dai colori accesi sarebbero piaciute a questo pittore, disegnatore dal tratto severo quando illustrava le opere dei suoi committenti botanici, ma colorista dai colori fin troppo esuberanti quando poteva scatenarsi nelle più decorative tavole su pergamena destinate al gabinetto reale o ai suoi clienti privati. Del resto, originario soprattutto dei Balcani e dell'Anatolia, questo genere è perfettamente adatto a celebrare il pittore che accompagnò Tournefort in Levante e disegnò per lui tante piante greche e anatoliche. Nasce l'illustrazione botanica scientifica Con tante avventure da raccontare, parlando del viaggio al Levante di Tournefort, c'è un aspetto che non ho potuto sufficientemente valorizzare: il fatto che della spedizione facesse parte anche un pittore naturalista, l'abilissimo Claude Aubriet. Prima di allora, erano stati piuttosto alcuni naturalisti, versati anche nell'arte del disegno, ad accompagnare la raccolta di piante con i propri disegni dal vivo (il caso più notevole è quello di Charles Plumier); diverso ancora il caso di Mark Catesby, pittore trasformatosi in cacciatore di piante, al servizio di una clientela avida di novità. Il viaggio al Levante è invece la prima spedizione scientifica in cui c'è una divisione dei compiti: i due botanici Tournefort e Gundelsheimer raccolgono, riconoscono e preservano gli esemplari (al primo spetta anche di descriverli), mentre il pittore li disegna. Per ora si tratta di schizzi veloci, in inchiostro di china, con poche sommarie note sui colori (quando i primi arriveranno a Parigi, Fagon si dirà deluso della loro qualità); più tardi, nell'agio del laboratorio di pittore, con l'ausilio degli esemplari essiccati, si trasformeranno in illustrazioni e quindi in incisioni. In effetti i tempi stanno cambiando: i botanici ora lavorano con l'occhio al microscopio e sono spesso i particolari più minuti a permettere di distinguere una specie dall'altra. Le tavole botaniche incominciano a prendere l'aspetto che conservano ancora oggi: c'è l'esemplare completo di tutte le sue parti, radice compresa, al momento della fioritura (per le angiosperme); a fianco, in scala ingrandita, quei particolari che permettono l'identificazione, spesso in dissezione (il fiore, l'ovario, le antere, i semi, il frutto, il rovescio di una foglia, e così via). Un momento importante di questa evoluzione è proprio la collaborazione tra Tournefort e Aubriet. Tournefort sta lavorando ai suoi Elements de botanique e si convince che "senza l'arte del disegno è impossibile che una descrizione sia perfettamente intellegibile". Gli serve un bravo illustratore. Tra le persone che ruotano attorno al Jardin des Plantes c'è anche il "miniaturista del Re" Jean Joubert che, per contratto, deve eseguire ogni anno 24 tavole di soggetti naturalistici per il gabinetto reale. Tournefort nota il talento del suo aiutante, il giovane Claude Aubriet. E' a lui che affida le illustrazioni degli Elements, guidando, si può dire, il pennello e l'occhio del giovane artista: Aubriet osserva, schizza, disegna, Tournefort spiega, indirizza l'osservazione, corregge. Nascono così le 451 tavole che corredano gli Elements e, più tardi, l'edizione latina, Istitutiones rei herbariae. Pur non mancando di pregi estetici, esse colpiscono soprattutto per la naturalezza, l'accuratezza del disegno, l'estrema precisione dei particolari utili alla classificazione. L'illustrazione botanica ha raggiunto la maturità, le esigenze estetiche sono passate in secondo piano rispetto all'esattezza scientifica. Dal contatto quotidiano e dal lavoro comune è nata anche un'amicizia, testimoniata dagli scambi epistolari tra i due. Quando a Tournefort viene ordinato di recarsi in Levante, scegliere Claude come compagno di viaggio è quasi automatico. Sarà un'esperienza estremamente formativa per il giovane pittore: educato come miniaturista, deve invece allargare i suoi soggetti anche alle mappe, ai paesaggi, alle architetture, alle medaglie e ai reperti archeologici, alle figure umane (con le quali, confessa al maestro Joubert, si trova a disagio). Deve anche imparare a schizzare in fretta, a china, finché le piante sono fresche, annotando con un sistema in codice i colori. Ne disegna moltissime (al Musée National d'Histoire Naturelle sono conservate più di 500 sue tavole di piante del Levante, più una quarantina di animali); solo alcune andranno a illustrare la Relation du voyage du Levant di Tournefort: sono quelle delle specie più notevoli, quelle che il botanico ha deciso di descrivere dettagliatamente. Di molte altre ha indicato solo il nome (progettava di scrivere una Histoire des plantes du Levant, che non poté neppure cominciare, a causa della morte precoce); e sono proprio i disegni accuratissimi di Aubriet a permettere di identificarle. Al servizio del Re e della scienza Al rientro a Parigi, Aubriet è impegnato a trasformare gli schizzi fatti durante il viaggio in tavole in bianco e nero e a colori (dipinge a tempera sia su carta sia su vélin, la pergamena più fine e di più alta qualità). Nel 1706, alla morte di Joubert, gli succede come miniaturista del Re. Al titolare dell'incarico spetta un alloggio nel Jardin des Plantes e un villino a Passy, in cambio di 24 tavole all'anno, dipinte su vélin (ce ne sono rimaste 394). Insomma, quasi una sinecura che permette a Aubriet di continuare a collaborare con i botanici del Jardin des Plantes e anche di dipingere per collezionisti privati. Per il re dipinge piante (327 tavole), ma anche soggetti zoologici, tra cui alcune farfalle (forse scoprendo così la sua vocazione di entomologo). Dopo la morte di Tournefort, collabora con Sébastien Vaillant, per il quale esegue 354 tavole per Botanicon parisiense (pubblicato in Olanda nel 1727). In quest'opera spinge ancora oltre la precisione miniaturista delle immagini, che possiamo pienamente apprezzare in piante minute come le briofite, di cui ritrae i minimi particolari servendosi di un microscopio. Per Antoine de Jussieu dipinge 166 tavole originali, 123 delle quali dedicate ai funghi (un soggetto all'epoca relativamente poco studiato). Tra i collezionisti privati che acquistano i suoi lavori, il più notevole è Michel Bégon, per il quale esegue 106 disegni, 59 dei quali su vélin; tra di essi, molte farfalle. Ma intanto Aubriet, collaborando con tanti naturalisti, ha scoperta un'altra vocazione; quella di entomologo. Da una parte collabora con Réaumur con alcune tavole per Mémoires pour servir à l'Histoire des insectes, dall'altra incomincia a allevare farfalle e a annotare metodicamente il momento della schiusa, la durata delle fasi della metamorfosi, le piante nutrici, il momento del volo, disegnando gli insetti in tutte le fasi della loro vita. Frutto di trent'anni di lavoro, le sue osservazioni dovrebbero trasformarsi in una grande opera che, al momento della morte dell'artista, è ancora allo stadio di manoscritto; l'unica testimonianza che ce n'è rimasta è il catalogo di un libraio olandese che lo mise in vendita nel 1765, molti anni dopo la morte di Aubriet; era una grossa raccolta di 2000 fogli di diverso formato, cui si univano 158 tavole di farfalle contenenti 1350 figure. Se tutto ciò è andato perduto (o giace, chissà, dimenticato in qualche collezione privata), c'è rimasto un centinaio di tavole di farfalle disegnate per Bégon e una trentina per il re Luigi XV. Anche in queste tavole, l'intento di documentazione scientifica è in primo piano, anticipando i criteri attuali: invece di dipingere le farfalle su uno sfondo naturale, in mezzo a fiori e piante, come facevano tutti i suoi contemporanei (la più nota è Maria Sybilla Merian), Aubriet monta le specie con le ali aperte, viste sia dall'alto sia dal basso, nelle due forme sessuali; disegna in dettaglio uova, bruchi e crisalidi. E' una disposizione sistematica, che si ripete con rigore in tutte le tavole. A chi fosse interessato a saperne di più, segnalo questa pagina del blog di Jean-Yves Cordier, dove sono riportate anche tutte le tavole di Aubriet sulle farfalle conservate al Musée National de Sciences Naturelles. Per qualche informazione in più sulla vita di Aubriet, che morì in età veneranda nel 1742, rimando alla sezione biografie. Aubrieta o la forza degli errori: errare humanum est? Come abbiamo anticipato, a Aubriet è legato uno dei generi più popolari, ovvero l'aubrezia, regina indiscussa di giardini rocciosi e muretti primaverili. A dedicargli questo omaggio fu Michel Adanson (che sicuramente conobbe Aubriet di persona, quando entrambi collaboravano con Réaumur), che nel 1763, in Familles des plantes, creò il genere Aubrieta staccandolo da Alyssum. Ma per chissà quale malignità della sorte, alla forma corretta si sono affiancate e sovrapposte grafie errate quali Aubrietia o Aubretia; da quest'ultima deriva il nome comune aubrezia. Errore tenace, direi travolgente: digutandi in Google il corretto Aubrieta ho ottenuto 646.000 risultati contro i 738.000 dell'erroneo Aubretia. Appartenente alla famiglia Brassicaceae. il genere Aubrieta comprende una dozzina di specie di piccole erbacee perenni rupicole con foglie persistenti grigio-verdi e fiori sgargianti, soprattutto nelle tonalità del blu, del porpora e del viola. Originario del Mediterraneo orientale, è presente soprattutto in Anatolia e nella penisola balcanica: zone esplorate anche da Tournefort, Gundelsheimer e Aubriet, che però probabilmente ne mancarono la fioritura, visto che i fiori sbocciano all'inizio della primavera. Due specie (A. deltoidea e A. columnae) fanno anche parte della flora spontanea italiana (entrambe sono molto rare da noi e endemiche di piccole aree). L'identificazione delle diverse specie pone molti problemi ai botanici, sia per l'alto grado di variabilità delle singole specie, sia per le differenze poco nette tra una specie e l'altra. Un vero rebus è poi l'origine delle decine e decine di varietà orticole che rallegrano i nostri giardini: commercializzate a volte semplicemente come Aubrieta, a volte come A. deltoidea, a volte come A. x cultorum, sono probabilmente il frutto di ripetuti incroci non documentati tra varie specie, iniziati fin dal 1700 quando la pianta incominciò a diventare popolare. Il risultato è una scelta vastissima, con una ricca gamma di colori (dal lilla chiaro al viola intenso, dal rosa al malva, dal carminio al rosso profondo; c'è anche qualche varietà bianco puro), con portamento più o meno compatto, strisciante o ricadente, foglie talvolta variegate in bianco, argento e panna; non manca qualche forma a fiore doppio. In più la coltivazione è semplice: basta avere un muretto al sole e si può dire che fanno tutto da sé. Qualche approfondimento e una lista delle cultivar più interessanti nella scheda.
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Nel corso di quella che è considerata la prima spedizione scientifica dell'età moderna, Joseph Pitton de Tournefort, insieme ai suoi compagni Andreas Guldelsheimer e Claude Aubriet, esplora le isole greche del mare Egeo, visita Costantinopoli, per poi raggiungere Trebisonda navigando lungo la costa meridionale del mar Nero, e di qui l'Armenia ottomana, la Georgia e l'Armenia persiana. Ovunque, raccoglie preziose informazioni geografiche, archeologiche, etnografiche. E, ovviamente piante. Alla fine il bottino ammonterà a oltre 1300 specie, di cui un terzo ignote alla scienza, e 25 nuovi generi. Uno sarà dedicato al compagno di viaggio Gundelsheimer, ribattezzato alla latina Gundelius per fare da padrino a Gundelia. Quanto a Claude Aubriet e al genere che lo celebra, aspettate il prossimo post. In viaggio per la gloria del Re Sole E' con entusiasmo che, sul finire del 1699, Joseph Pitton de Tournefort accoglie l'ordine reale di partire per il Levante. Tuttavia, due preoccupazioni lo convincono che è meglio trovare dei compagni di viaggio: da una parte, la prospettiva di cadere malato lontano da casa, in un paese di cui non conosce la lingua, dove vengono praticate chissà quali barbare cure; dall'altra, la consapevolezza che, tra le sue tante abilità, non c'è quella del disegno. Ad accompagnarlo saranno uno dei suoi allievi, il medico tedesco Andreas Gundelsheimer, e Claude Aubriet, il pittore che aveva illustrato i suoi Elements de botanique. A volere fortemente il viaggio e a convincere il re sono stati il protomedico Fagon, protettore e estimatore di Tournefort, e il segretario di stato, il conte di Pontchartrain; e qualche parte nel progetto l'ha giocata anche l'abate Bignon, nipote del ministro e segretario dell'Accademia delle scienze. Il principale obiettivo scientifico è identificare sul campo le specie descritte da Teofrasto e Dioscoride, ancora così importanti per la medicina del tempo; ma si dovranno anche raccogliere ogni genere di notizie sulla geografia antica e moderna, gli usi e i costumi, la religione, i commerci, a maggior gloria del re e a beneficio degli interessi anche economici della Francia. Le informazioni raccolte, insieme al resoconto del viaggio, raggiungeranno periodicamente la Francia sotto forma di 22 ampie lettere inviate da Tournefort al ministro; è su questa base che al rientro in patria egli stenderà Relation d'un voyage du Levant fait par ordre du roy . Anche nella redazione finale questo bellissimo racconto di viaggio mantiene in molte sue parti la freschezza della forma epistolare, che, al là di un certo sovraccarico di erudizione, trasmette viva al lettore la personalità del suo autore, osservatore attento e lucido, ma anche uomo di spirito sempre pronto a ironizzare in primo luogo su stesso. Alla scoperta delle isole greche Il tre amici il 9 marzo 1700 si mettono in viaggio alla volta di Marsiglia; il 23 aprile si imbarcano sulla nave commerciale L'Esprit, che con una navigazione fortunata e rapidissima, senza scali, in una settimana li porta a La Canea, nell'isola di Creta. All'esplorazione dell'isola (celebrata nei testi antichi per la sua ricchezza di specie officinali) dedicano tre mesi, per poi spostarsi nell'arcipelago delle Cicladi. Seguendo in itinerario condizionato dagli imbarchi (approfitteranno anche di una nave corsara) e dalle condizioni meteorologiche, in circa otto mesi visiteranno ben 34 tra isole e isolotti, quasi tutte quelle all'epoca permanentemente abitate. E' un viaggio naturalistico (raccolgono centinaia di piante, esplorando anche montagne e luoghi impervi, interrogano la popolazione sui nomi locali, nella speranza di ritrovare qualche traccia delle denominazioni antiche), un'esplorazione geografica (non mancano mai di ascendere alla cima più alta di ciascuna isola, per fare il punto e correggere le carte), un viaggio turistico e archeologico (visitano ogni curiosità degna di nota, dai resti della civiltà greca ai monasteri, dal presunto labirinto di Gortyna a Creta alla splendida grotta di Antiparo). Tournefort raccoglie notizie sulle produzioni locali (come la resina di terebinto e il ladanum, una sostanza usata in profumeria estratta dal Cistus ladanifer), sulle risorse economiche, sull'amministrazione turca, sulla religione ortodossa, sulla composizione delle comunità locali e persino sugli abiti delle donne; non mancano mai informazioni sul cibo e sui vini. E' la prima vasta ricognizione delle isole greche di epoca moderna: con il viaggio di Tournefort, all'immagine idealizzata della Grecia sorta dalla lettura dei classici, incomincia a sostituirsi quella della Grecia reale, un mondo spesso miserabile, ignorante, superstizioso; Tournefort osserva con occhio impietoso e giudica lucidamente con un pizzico di sciovinismo l'arroganza e la rapacità dei funzionari turchi, la passività dei greci, la sporcizia, le campagne devastate dalla guerra, la miseria che regna quasi ovunque, in contrasto con la ricchezza della Chiesa che, grazie alla manomorta, possiede quasi sempre le terre migliori. Gli intrepidi viaggiatori sopportano con buon umore le vicissitudini del viaggio: a Thermia, scambiati per banditi, rischiano il linciaggio; a Raclia, poco più di uno scoglio, rimangono bloccati senza né cibo né acqua; a Stenosa sono ridotti a nutrirsi di lumache di mare; a Joura non osano chiudere gli occhi per il terrore che i topi che infestano la cappella dove si sono ritirati per la notte gli mangino le orecchie; a Zia il loro sonno è interrotto da lamenti angosciosi (non sono né fantasmi né pirati, ma una colonia di foche); a Nio sono abbandonati dai marinai, timorosi di una presunta incursione corsara; più volte rischiano il naufragio. Dall'Anatolia all'Armenia e ritorno Nel marzo 1701, dopo aver svernato tre mesi a Mykonos, si rimettono in viaggio verso Istanbul. Qui, grazie all'ambasciatore francese, si aggregano alla carovana di un pasha turco diretto a Erzrum, capitale dell'Armenia ottomana. Navigando lungo la costa meridionale del mar Nero (ma i pernottamenti a terra e le lunghe soste permettono di erborizzare e di fare qualche puntata all'interno) dopo un mese esatto (23 maggio 1701) raggiungono Trebisonda. Mentre la carovana riposa, i tre infaticabili botanici vanno alla ricerca di piante rare al monastero di Sumela: costruito su uno strapiombo che "metterebbe in difficoltà il più abile dei funamboli", nonostante le vertigini li delizia con le sue foreste di conifere che non hanno nulla da invidiare a quelle delle Alpi. Ma non possono trattenersi, perché il visir è già ripartito alla volta di Erzrum; si affrettano a raggiungerlo: viaggiare da soli sarebbe troppo pericoloso, perché le strade sono infestate dai briganti. Superando le montagne della Catena Pontica, penetrano nell'Armenia ottomana. Per la prima volta, Tournefort ha l'impressione di essere davvero in Levante. E' un paesaggio aspro e roccioso dove, nonostante la stagione avanzata, domina ancora la neve. Durante la marcia, suscitando lo stupore e l'ilarità dei mercanti che seguono la carovana, scendono spesso da cavallo per raccogliere ogni erba interessante; capita persino di erborizzare al lume della luna. Il 15 giugno sono a Erzrum, dove si fermeranno tre settimane. Le sorgenti dell'Eufrate, dove si sono spinti in compagnia di un vescovo armeno, nonostante l'area sia infestata da bande curde, fanno da scenario all'avventura più esilarante; mentre bevono quelle freschissime acque, mescolate con il vino per mitigarne il gelo, i temuti curdi si manifestano e sembrano moltiplicarsi. Sarà vero o sono loro che ci vedono doppio, tanto più che la paura spinge a replicare le bevute? I curdi ci sono davvero, ma sono amici del vescovo e tutto finisce bene. Quando sentono che una carovana di mercanti è in partenza per Tiflis, la capitale della Georgia, allora sotto l'impero persiano, afferrano l'occasione al volo e, muniti di un salvacondotto dell'amico pasha, si aggregano. A Kars, la frontiera tra i due imperi, sono trattenuti per due giorni da un funzionario che li scambia per spie russe; superato quest'ultimo ostacolo, entrano in territorio persiano, dove sono deliziati dalla disponibilità degli abitanti, tanto diversi dai sospettosi e rigidi turchi. Le ubertose e ben coltivate campagne georgiane, tanto in contrasto con la rocciosa e spoglia Armenia ottomana, fanno loro pensare di essere nel più bel paese della Terra, anzi in un lembo del Paradiso terrestre. Da Tiflis proseguono per l'Armenia: a Echmiadzin rendono omaggio al patriarca armeno, poi continuano fino a Erevan. A dominare il paesaggio è la cima dell'Ararat: secondo le voci che raccolgono, è negata all'uomo per volere divino perché, sotto cumuli di neve, ancora vi giace l'arca di Noè. Ma la montagna sembra a due passi, e come potrà resistere al suo richiamo quell'alpinista ante litteram che è Tournefort? I tre, concordi, giurano che devono arrivare almeno a toccarne le nevi; e, nonostante una scalata difficilissima, ci riusciranno. Sulla strada del ritorno, diretti di nuovo a Erzrum dove hanno lasciato quasi tutti i bagagli, poco dopo aver superato la frontiera turca, al passaggio di un guado Tournefort rischia di annegare. Dopo un breve soggiorno a Erzrum, dedicato soprattutto alla raccolta di semi, è ora di tornare a casa. Il cammino sarà lungo, ma a Tournefort pare già di vedere i campanili della dolce terra di Francia. Partiti a fine settembre, dopo aver attraversato l'intera Anatolia, passando da Tokat, Ankara e Bursa, arriveranno a Smirne a metà dicembre. L'inverno è dedicato a escursioni archeologiche e alla visita di alcune isole del Dodecanneso. E' soltanto il 23 aprile 1702 che si imbarcano sulla Soleil d'oir: al contrario di quello d'andata, il viaggio di ritorno sarà reso lungo e penoso dal maltempo; costretti prima a uno scalo a Malta, dopo 40 giorni di navigazione devono sbarcare a Livorno, da cui una feluca li porterà a Marsiglia. E' il 3 giugno 1702. Il bottino botanico (per tacere dell'enorme mole di notizie di altro genere) è immenso: 1356 specie, un terzo delle quali non ancora descritte, e 25 nuovi generi. I semi di molte germineranno e prospereranno al Jardin des plantes; vorrei ricordarne almeno tre, oggi molto amate nei giardini: i due rododendri originari delle rive del mar Nero, Rhododendron ponticum e R. luteum, e il popolarissimo Papaver orientale. Gundelsheimer e la Gundelia Tra i generi nuovi c'è anche Gundelia, e questa è la storia del suo "battesimo". Durante la marcia da Trebisonda a Erzrum, i tre botanici sono colpiti da un bellissimo cardo; il primo a segnalarlo è Andreas Gundelsheimer. E' dunque giusto che la nuova pianta porti il suo nome. Ma come trasformare il suo barbarico cognome in un accettabile nome latino? Gli amici discutono un po', finché si convincono che il nome giusto è Gundelia. E proprio mentre i musicisti che accompagnano il pasha intonano una marcia (certo di buon auspicio) si brinda al nuovo genere, ma solo con acqua: cosa opportuna e benvenuta, aggiunge Tournefort, per una pianta che vive nei luoghi più aridi e rocciosi. Prima di congedarci dai tre allegri viaggiatori, due parole su Gundelsheimer. Bavarese, aveva studiato in Olanda e in patria, dove si era laureato in medicina. Aveva vissuto per qualche tempo anche in Italia, per trasferirsi a Parigi proprio per frequentare le lezioni di Tournefort. Dopo il viaggio in Oriente, divenne medico militare e servì dapprima nell'esercito francese (combatté anche in Piemonte durante la guerra di successione spagnola). Tornato in Germania, divenne medico personale dell'elettore di Brandeburgo. Fu tra gli ideatori del Museo di anatomia di Berlino. Morì in ancora giovane età durante l'assedio di Stettino. Qualche informazione in più nella biografia. Ma torniamo a Gundelia (il genere è stato accettato e ufficializzato da Linneo in Species plantaurm 1753). Anche se in epoca recente sono state avanzate altre proposte, la maggior parte degli studiosi lo considera un genere monotipico con una sola specie molto variabile, G. tournefortii. E' un'Asteracea spinosa che assomiglia molto a un cardo, diffusa in una vasta area che dal Medio Oriente arriva all'Asia centrale e all'Afghanistan. In primavera germoglia da una rosetta di foglie; poi, man mano che la stagione avanza, la pianta ingiallisce e diventa sempre più spinosa; quando è quasi secca, basta un soffio di vento per staccarla dalle radici: è una strategia per favorire la diffusione dei semi. Per questa particolarità, in Palestina è soprannominata "cardo che rotola". I germogli giovani e i capolini immaturi sono molto apprezzati nella cucina di diversi paesi; il sapore viene descritto come intermedio tra l'asparago e il carciofo. Nella medicina tradizionale, le sono attribuite anche diverse proprietà officinali. Qualche approfondimento nella scheda. |
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November 2024
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