Se il professor Moris poté completare la ricognizione della flora sarda nonostante i crescenti impegni accademici e politici lo trattenessero a Torino, gran parte del merito va al giardiniere Domenico Lisa, che lo sostituì nel lavoro sul campo. Non minore fu il contributo di Maddalena Lisa Mussino, moglie di Domenico, che disegnò e dipinse la maggior parte delle illustrazioni di Flora sardoa. Questa grande artista fu l'ultima esponente dello straordinario gruppo di disegnatori che tra il 1753 e 1868 realizzò un'opera che ha pochi uguali nella storia dell'illustrazione botanica, Iconographia taurinensis. A Domenico - ma io credo un po' anche a Maddalena - è stato dedicato il genere Lisaea. Le raccolte di Domenico... Nella primavera del 1828, il professor Moris, ammalato, lasciò la Sardegna per andare a curarsi in Piemonte. A continuare le ricerche rimase però Domenico Lisa, che già era stato suo compagno nelle spedizioni dei due anni precedenti. Nell'estate di quell'anno Lisa visitò il nord dell'isola, un'area che era rimasta fuori dalle escursioni di Moris, rientrando poi a Cagliari attraverso l'altopiano centrale. Tra le località toccate nel suo ampio giro, Porto Torres, Alghero, Nurra, Porto Conte, Asinara, Sassari, l'isola della Maddalena, Vignola, Tempio, Luogosanto, il monte Limbara, Olbia, Tavolara, il Monte Albo di Siniscola, Orosei, Galtellì, Nuoro, il Monte d’Oliena, Tonara, Monti di Sadali e Maracalagonis, Serrenti. Negli anni successivi, Lisa tornò almeno altre tre volte in Sardegna. Nel 1837 visitò le isole di Maddalena, Budelli, Barrentini. Nel 1840, partendo questa volta da Porto Torres anziché da Cagliari, tornò a percorrere la Sardegna settentrionale e centro-settentrionale, dedicando però maggiore attenzione alla costa (zona malsana per la malaria) e alle isole minori. Le località citate nel suo itinerario sono Porto Torres, Sassari, Scala di Giocca, Torralba, Tempio, Aggius, Limbara, La Maddalena, l'isola dei Cappuccini, Olbia, Capo Figari, le isole di Figarolo e Tavolara, S. Teodoro, Siniscola, il Monte Albo, Orosei, Galtellì, Nuoro, il Monte d’Oliena, Orgosolo, Urzulei, con rientro a Porto Torres attraverso Aggius, Limbara, Tempio, Torralba, Sassari. Nel 1852 Moris lo inviò un'ultima volta in Sardegna, per completare le ricerche in vista del terzo volume di Flora sardoa. Le zone citate per questa spedizione sono Bonorva, Silanus, Nuoro, Galtellì, Onifai, Orosei, Dorgali e le sue montagne, Flumineddu di Dorgali, il Monte d’Oliena, Orgosolo, Urzulei, i monti di Nuraminis. Indubbiamente il contributo di Lisa fu importante, e Moris lo riconobbe esplicitamente sia citandolo con elogio nella prefazione di Flora sardoa sia dedicandogli Oenanthe lisae, un endemismo sardo noto come finocchio acquatico. Ma non fu il solo merito del giardiniere torinese, che continuava degnamente la tradizione dei colti erbolai dell'orto del Valentino. Entrato in servizio nel 1821, oltre che all'esplorazione della Sardegna partecipò anche alla ricognizione floristica delle valli piemontesi. Nel 1852 divenne custode e giardiniere capo, carica che mantenne fino alla morte nel 1862. Curò con competenza le collezioni di fanerogame del giardino e l'allestimento degli esemplari dell'erbario. Come botanico, si interessò a un gruppo di piante allora ancora poco studiato, i muschi, dedicando loro una monografia (Elenco dei muschi raccolti nei dintorni di Torino, 1837). Allestì anche un erbario personale ricco di circa 2000 esemplari che alla sua morte volle legare all'istituzione dove aveva servito per quarant'anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ... e gli acquarelli di Maddalena Ma è ora di parlare di un altro membro della famiglia Lisa il cui contributo a Flora Sardoa non fu meno importante. Mi riferisco a Maddalena Lisa Mussino (1805-1869), moglie di Domenico e autrice della maggior parte delle tavole che illustrano l'opera. Grazie a lei, facciamo un breve excursus sugli illustratori botanici che operarono nell'arco di un secolo e mezzo presso l'orto torinese, creando quella splendida opera collettiva che va sotto il nome di Iconographia taurinensis. Si tratta di 7470 tavole disegnate e acquarellate, raccolte in 64 volumi, che illustrano le piante coltivate nel giardino botanico torinese oppure le specie di nuova scoperta. L'idea di far ritrarre le piante del Regio orto botanico fu del primo direttore, Bartolomeo Caccia, che fece venire da Milano il pittore botanico Giovanni Battista Morandi, il quale realizzò circa quattrocento tavole acquarellate. Tuttavia, Iconographia taurinensis esordì ufficialmente solo nel 1752, grazie a Vitaliano Donati, che affidò la realizzazione delle tavole a Francesco Peyroleri (1710?-1783). Come ho già raccontato in questo post, Peyroleri era un vero fils du jardin; entrato al servizio dell'istituzione torinese da ragazzo come garzone, aveva sviluppato un notevole talento per il disegno, tanto che proprio per lui fu creata la nuova figura professionale di "disegnatore delle cose botaniche" o "olitore botanico". Fu attivo almeno fino al 1773, operando al fianco prima di Donati e poi di Allioni, per il quale disegno anche le tavole di Flora pedemontana. Con Peyroleri, Iconographia taurinensis (cui contribuì con diverse migliaia di tavole) divenne un affare di famiglia; Francesco fu affiancato dal figlio, che dipinse alcune tavole ma poi si specializzò nell'incisione, e dal nipote Giovanni Battista Bottione. Istruito dallo zio, Bottione gli succedette nel 1783 e fu attivo fino a fine secolo. A sua volta egli insegnò il mestiere alla figlia Angela Maria (che preferiva firmarsi Angelica), sposata Rossi, cui l'incarico fu affidato ufficialmente nel 1807. E finalmente entra in scena la nostra Maddalena Mussino; nata nel 1805, arrivò al giardino botanico poco più che bambina nel 1816 come apprendista della cugina Angela. Le prime tavole che possiamo attribuire a lei con una certa sicurezza risalgono al 1825. Da quel momento per un decennio affiancò la maestra (sono opera comune i volumi XLIX-LIV), fino al 1838 quando le subentrò come disegnatrice. Il suo contratto prevedeva l'esecuzione di quaranta disegni ogni anno, ritraendo dal vero in particolare le specie esotiche che fiorivano nelle serre del Giardino. Si devono integralmente alla sua mano i volumi LV-LXIV, per un totale di oltre 1200 tavole. Alla sua morte, nel 1868, il ruolo di disegnatore fu soppresso, e con esso ebbe termine anche Iconographia taurinensis. La collaborazione di Maddalena con Moris per quella che sarà Flora sardoa inizia nel 1827. Sulla base di alcune lettere di Moris, risulta che la giovane donna raggiunse il marito a Cagliari nella primavera di quell'anno e si trattenne nell'isola almeno fino a settembre; con grande soddisfazione del professore, ritrasse dal vero con grande esattezza una cinquantina di specie nuove o non presenti nell'iconografia. Quando poi Moris allestì Flora sardoa, Maddalena contribuì con 81 delle 111 tavole. I suoi disegni si distinguono per la finezza e la precisione del tratto, non disgiunte da una certa freschezza. Va anche sottolineato che fu la prima artista del gruppo torinese ad affiancare ai tradizionali pigmenti naturali alcuni pigmenti artificiali, come possiamo anche rilevare dai colori luminosi e brillanti dei suoi acquarelli. Una dedica ambigua Nel 1844 Pierre Edmond Boissier, un botanico svizzero allievo di de Candolle, dedicò a Domenico Lisa il genere Lisaea. Al solo Domenico? La motivazione desta qualche perplessità: "Dedicato all'illustre Lisa benemerito per i suoi studi sui muschi italiani, illustratore della flora piemontese e sarda". Come andrà inteso il latino illustrator? in senso reale o metaforico? Viene il sospetto che Boissier abbia confuso marito e moglie; è strano, visto che era di casa in Italia ed era passato anche da Torino. In ogni caso, il dedicatario ufficiale è Domenico, e a questo mi attengo, anche se vorrei difendere la causa di Maddalena. Il genere Lisaea, della famiglia Apiaceae, poco noto e non molto studiato, comprende tre specie di annuali erbacee diffuse tra il Mediterraneo orientale e l'area irano-caucasica, in ambienti aridi anche d'altura. Hanno foglie pinnate, fiori solitamente bianchi e caratteristici frutti spinosi che li distinguono dai generi affini come Turgenia. Qualche informazione in più nella scheda.
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Grazie alla grande variabilità morfologica e geologica del territorio, la flora sarda è particolarmente varia; inoltre, come avviene spesso nelle isole, è ricca di endemismi (circa 340 su un totale di 2410 entità, ovvero il 15% del totale). La Sardegna è dunque di grande interesse per i botanici anche oggi; tanto più lo era all'inizio dell'Ottocento quando era un territorio pressoché inesplorato per la scienza. Niente da stupirsi dunque se il giovane medico Giuseppe Giacinto Moris, appassionato botanico formatosi all'Orto di Torino, quando il governo piemontese lo spedì a Cagliari ad insegnare chirurgia, fece di tutto per non farsi sfuggire l'occasione di essere il primo a scrivere una Flora Sardoa. Fu l'impresa della sua vita: prima sette anni di ricerca sul campo in cui visitò quasi ogni angolo dell'isola, poi la pubblicazione di tre volumi (un quarto rimase inedito) protrattasi per oltre un ventennio. Capace e intraprendente direttore dell'Orto botanico di Torino per quasi quarant'anni, Moris fu anche senatore del Regno. A ricordarlo, oltre ai nomi specifici di diverse delle piante, la rara Morisia monanthos, endemica di Corsica e Sardegna. Un territorio tutto da scoprire Nei primi decenni dell'Ottocento, per un botanico entusiasta c'era ancora molto da scoprire anche nella vecchia Europa. Una delle aree pressoché inesplorate era la Sardegna che, al contrario delle regioni continentali degli stati sabaudi, era stata toccata solo marginalmente dalla grande ricognizione botanica promossa da Allioni e dai suoi allievi. Unica eccezione, le ricerche del medico Michele Antonio Plazza (1720-1791), titolare della prima cattedra di Chirurgia all'Università di Cagliari, che erborizzò nel Cagliaritano e nel sud dell'isola e fu in corrispondenza con Allioni; quest'ultimo, sulla base delle sue raccolte, nel 1759 pubblicò Fasciculus stirpium Sardiniae in Diocesi Calaris lectarum, il primo vero studio sulla flora sarda, in cui esaminò 136 specie (tutte abbastanza comuni). Plazza probabilmente intendeva scrivere egli stesso una flora sarda, ma il suo manoscritto, in cui le specie descritte sono 818, rimase inedito fino all'inizio del Novecento. Agli inizi degli anni '80, nel corso del suo viaggio mediterraneo, anche il celebre botanico norvegese Martin Vahl toccò rapidamente l'isola, dove scoprì una nuova specie di sparto o ginestra, di cui inviò un campione a L'Héritier de Brutelle (si tratta di Genista ephedroides DC, un endemismo sardo). Dunque, nel 1822, quando arrivò a Cagliari per assumere la cattedra di clinica medica, il ventiseienne medico Giuseppe Giacinto Moris, aveva un'intera flora da esplorare e da scoprire. Allievo prima di Balbis, che aveva acceso in lui l'entusiasmo per la botanica, poi di Capelli (direttore dell'orto torinese dal 1817 al 1831) probabilmente iniziò i suoi viaggi botanici fin da subito, e sicuramente dal 1823. Non era un compito facile: quasi non esistevano strade (la costruzione della Carlo Felice, che per la prima volta collegò il nord e il sud dell'isola era appena iniziata, e sarebbe stata terminata solo nel 1830), non c'erano alberghi, imperversavano il tifo e la malaria, non mancavano banditi e briganti. Bisognava dunque muoversi a cavallo, dormire all'aperto o chiedere ospitalità ai maggiorenti locali. Nelle sue prime spedizioni, Moris ebbe il sostegno di alcuni membri della Reale Società Agraria Economica di Cagliari, in particolare il canonico Murcas, Preside del Collegio dei Nobili e l'Intendente generale Greyffier, entrambi appassionati di botanica. Ma soprattutto trovò un compagno e un amico in Alberto La Marmora (1779-1863). Militare di carriera, quest'ultimo, sospettato di aver preso parte ai moti del 1821, era stato costretto alle dimissioni e esiliato in Sardegna, di cui cominciò a studiare la geologia, l'archeologia, la storia e a tracciare nuove carte, divenendo in breve il fondatore degli studi sardi in tutti questi campi. Un'esplorazione in profondità e un'opera fondamentale La prima spedizione documentata di Moris è del maggio 1823, quando insieme a Greyffier e La Marmora, muovendo da Cagliari visitò Aritzo e il Gennargentu. A giugno, ancora con La Marmora, era la volta di Domusnovas e del Sulcis. L'anno successivo, come riferisce in una lettera a Capelli, fu nelle zone più insalubri dell'isola (non sappiamo esattamente dove), forse in compagnia di Philippe Thomas, membro di una famiglia di botanici svizzeri, che in quel periodo viveva a Cagliari. Fino a quel momento, Moris, che era in Sardegna a insegnare chirurgia, non aveva alcun incarico ufficiale come botanico. Deciso a continuare le sue ricerche con l'obiettivo di scrivere una flora della Sardegna, attraverso Capelli incominciò a fare pressioni sul governo di Torino per essere esonerato dall'insegnamento e essere ufficialmente incaricato di esplorare la flora sarda; chiedeva anche finanziamenti, testi scientifici aggiornati e personale di supporto. La dispensa dall'insegnamento giunse nell'agosto del 1824 e all'inizio del 1825 da Torino arrivò Carlo Giuseppe Bertero, però non nelle vesti di aiutante, come credeva Moris, ma come direttore della missione; sebbene i rapporti personali tra i due fossero eccellenti e basati sulla stima reciproca, si generò una situazione equivoca cui mise fine lo stesso Bertero che preferì rientrare a Torino dopo pochi mesi. In ogni caso i due botanici piemontesi, sempre in compagnia di La Marmora, tra maggio e giugno avevano visitato il Sulcis e Iglesias. Partito Bertero, Moris continuò l'esplorazione con La Marmora, visitando Ogliastra, Fonni e nuovamente il Gennargentu. Fu durante una di queste escursioni che capitò un gustoso incidente riferito da La Marmora: Moris aveva raccolto numerose Malvaceae e le aveva disposte con cura in mezzo a fogli di carta in una cartella che portava sul dorso; avendo visto una pianta interessante, scese da cavallo, e, passandosi una briglia sotto il braccio per evitare che l'animale si allontanasse, si inginocchiò per raccogliere l'esemplare; nello sforzo, la cartella si aprì e venne a trovarsi proprio sotto il muso del cavallo che ne approfittò per farsi una bella scorpacciata. Il materiale raccolto incominciava ad essere ingente e, nonostante l'aiuto di Thomas, Moris si trovò in difficoltà. Fortunatamente, da Torino giunse l'incarico ufficiale e anche il sospirato assistente, nella persona di Domenico Lisa, giardiniere dell'Orto torinese, che sarebbe stato suo compagno nelle campagne del 1826-1827. Quella del 1826, con Lisa e La Marmora, fu un lungo giro di due mesi (maggio-luglio) nella Sardegna centrale, toccando tra le altre località Carloforte, Monte Arcuentu, Capo Frasca, Uras, Morgongiori, Flumentorgiu, Laconi, Gennargentu, Aritzo, Tonara, Desulo. Ancora più ampia fu la spedizione del 1827. Partiti da Cagliari l'ultima settimana di aprile, i tre compagni attraversarono l'intera isola, visitando Arbus, Ales, Santu Lussurgiu, Planargia, Bosa, Sindia, Bonorva, Monte Santo, Ozieri, Monte Rasu. Qui Moris e Lisa si separarono da La Marmora, continuando verso nord con un itinerario che non conosciamo con precisione. Del resto, oltre a quelle citate negli itinerari, molte altre località furono visitate da Moris, come risulta dalle note dell'erbario (nella cartina, sono indicate con un quadretto scuro). Malato, nella primavera del 1828 Moris rientrò a Torino, affidando a Lisa la continuazione del lavoro sul campo. Ancora a Cagliari, nell'aprile 1827 aveva in parte anticipato i risultati delle sue ricerche, pubblicando in contemporanea nella capitale sarda e a Torino Stirpium sardoarum elenchus, che contiene la descrizione di 1246 piante vascolari e la diagnosi di 26 specie nuove, seguito a giugno da un'Addenda e a dicembre da una seconda serie, con ulteriori 157 specie e la diagnosi di 17 specie nuove. A Torino nel 1829 diede poi alle stampe una terza serie, con altre 76 specie vascolari e un'ampia lista di crittogame. In tutto le specie descritte sono 1482. Moris non sarebbe più tornato in Sardegna, anche se le ricerche nelle zone che aveva dovuto tralasciare continuarono grazie a Lisa (ne parlerò in un altro post) e al sardo Simone Masala, che negli anni '60 raccolse molti esemplari nel Sarcidano e nell'area di Cagliari. Nel 1829 Moris fu nominato professore di medicina presso l'Università di Torino e nel 1831 succedette a Capelli come direttore dell'orto botanico torinese. Membro di molte istituzioni, senatore del Regno dal 1848, fu sempre più coinvolto in impegni accademici e amministrativi che rallentarono quella che riteneva la vera missione della sua vita: la stesura della Flora sardoa. Uscita nell'arco di un ventennio (nel 1837 il primo volume, tra il 1840 e il 1843 il secondo, tra il 1858 e il 1859 il terzo) è un'opera imponente, estremamente accurata nelle descrizioni e nelle determinazioni (a tal fine, Moris visitò importanti erbari a Parigi e Ginevra) e di grande pregio estetico, grazie alle 111 tavole che la illustrano, preparate sotto la sua stretta supervisione. La maggior parte è dovuta a Maria Maddalena Lisa Mussino, disegnatrice dell'orto torinese e moglie di Domenico Lisa. L'autore delle altre è John C. Heyland, disegnatore botanico che collaborò con celebri botanici dell'epoca, tra cui de Candolle. In tutto le specie descritte sono 1141, Benché incompleta (si limita alle fanerogame), Flora sardoa è un'opera fondamentale che divenne un punto di riferimento per tutti gli studi successivi, avendo anche il merito di stimolare l'interesse per la peculiare flora dell'isola e i suoi numerosi endemismi. Morisia, la pianta che si semina da sé Nelle opere maggiori e nei numerosi contributi usciti in diverse riviste, Moris pubblicò circa un centinaio di nuove specie. Sono numerose quelle che lo ricordano nel nome specifico, tra cui la bellissima Paeonia morisii Cesca, Bernardo & N.G. Passal. (anche se questa denominazione non è universalmente riconosciuta) e la rara Genista morisii Colla, limitata alla Sardegna sud-occidentale. Tra le specie più rare della nostra flora, inserite nella lista rossa, si fregiano del suo nome Borago morisiana e Dianthus morisianus. Nel 1832 lo svizzero Jacques Etienne Gay gli dedicò un nuovo genere endemico dell'area sardo-corsa, Morisia, famiglia Brassicaceae, anticipando di due anni l'omonimo Morisia, famiglia Cyperaceae, creato da Nees von Esembeck. A essere valido è dunque il primo, anche se nel 1838 de Candolle propose di cambiarlo in Morisea o Morisina per evitare confusioni con Morysia (genere oggi disusato, dedicato al collezionista francese Charles de Saint Morys). Morisia è un genere monospecifico rappresentato unicamente da M. monanthos, una specie endemica della Sardegna e della Corsica, che cresce in luoghi preferibilmente umidi e freschi, formando localmente colonie anche estese. E' un'erbacea perenne bassa, con rosette di foglie pennate con foglioline più o meno triangolari e fiori eretti a quattro petali giallo oro. La sua particolarità sta nel metodo di disseminazione; dopo la fioritura, i peduncoli si ripiegano verso il basso spingendo i frutti nel suolo, dove avverrà la maturazione e quindi la germinazione dei semi. E' considerata un paleo endemismo di origine nordafricana. Altre informazioni nella scheda. Arrivano dalle foreste pluviali dell'Asia e dalle praterie del Mediterraneo Molineria e Molineriella, i due generi dedicati a Ignazio Molineri, giardiniere dell'orto botanico di Torino, appassionato ricercatore di piante che contribuì forse più di ogni altro alla conoscenza della flora piemontese. Gli resero omaggio botanici del calibro di Allioni - che assistette per decenni, prestandogli i suoi occhi acuti -, Balbis e Parlatore. Una dinasty dell'orto botanico di Torino Tra i dedicatari dei nomi botanici, sono relativamente rari gli esponenti di una categoria senza la quale nessun giardino, tanto meno un orto botanico, potrebbe prosperare e addirittura sopravvivere: quella dei giardinieri. Tra le fortunate eccezioni, Ignazio Molineri che a cavallo tra Settecento e Ottocento lavorò all'orto botanico di Torino per un quarantennio, percorrendo tutte le tappe della carriera da apprendista a giardiniere capo. Approfittiamone per conoscere più da vicino lui e i suoi compagni di lavoro in un giardino di fama europea, ma di dimensioni modeste e soprattutto di scarsi mezzi finanziari (ancora nell'Ottocento, i curatori lamentavano che i finanziamenti non erano neppure sufficienti per un adeguato riscaldamento delle serre, per non parlare dell'acquisto di piante esotiche). Intorno al 1730 (l'orto era stato istituito nel 1729) il personale era costituito da Sante Andreoli o Andreola, "giardiniere di botanica o erbolaio", Pietro Cornaglia, aiuto giardiniere e erbolaio in seconda, e due garzoni, Francesco Peyroleri e un altro di cui non conosciamo il nome, cui potevano aggiungersi all'occasione avventizi e lavoratori a giornata. Accanto alle competenze orticole necessarie per dirigere il lavoro di assistenti e garzoni, all'erbolaio era richiesta una perfetta conoscenza pratica e teorica delle piante, soprattutto officinali; tra i suoi compiti infatti rientrava la raccolta in natura di piante, sia per accrescere le collezioni, sia per fornire i semplici destinati allo studio e alla coltivazione; inoltre doveva assistere il professore di botanica e direttore dell'orto supportandolo durante le lezioni di materia medica. Non a caso, Bartolomeo Caccia (1695-1746, il primo direttore dell'orto di Torino), in assenza di personale già formato nella capitale sabauda, fece venire Andreoli dall'orto botanico di Padova; appartenente a una famiglia di giardinieri dell'istituzione patavina, egli era già in età avanzata e quindi Caccia ritenne opportuno affiancargli Pietro Cornaglia, che poi alla morte di Andreoli, di cui non conosciamo con precisione la data, gli succedette come primo erbolaio. Cornaglia accompagnò Donati in diversi viaggi; in particolare nel 1751 fu con lui ad erborizzare in val di Susa, sul Moncenisio, in Moriana, in Tarantasia, sul Gran San Bernardo e in Val d'Aosta. Quanto a Francesco Peyroleri, che intorno al 1750 fu nominato secondo erbolaio, avendo dimostrato un notevole talento per il disegno, la sua attività principale divenne quella di "disegnatore delle piante botaniche". Autore di centinaia di tavole dell'Iconographia taurinensis, d'altra parte Peyroleri partecipò attivamente all'esplorazione botanica del territorio sabaudo, anche per procurarsi le piante vive da ritrarre; ancora nel 1764 (all'epoca si avvicinava ai sessant'anni) lo troviamo come compagno di viaggio di Bellardi tra Val d'Aosta e Savoia (ne ho parlato in questo post). Ma sulla figura del disegnatore, che andava ormai differenziandosi da quella di giardiniere, avremo occasione di tornare in un'altra occasione. E' ora infatti che entri in scena il nostro protagonista. Cornaglia era originario di Montaldo di Mondovì, un paesino di montagna descritto dai contemporaneo come "selvaggio e alpestre"; com'era uso all'epoca, scelse come collaboratori alcuni parenti. Il primo fu un nipote, Paolo Cornaglia, che nel 1759 fu aggregato come giardiniere alla spedizione di Donati in Oriente; purtroppo, come ho raccontato in questo post, non andò più lontano di Venezia, dove giunse già malato e morì. Ben più fortunate furono le vicende dei fratelli Molineri, che di Cornaglia erano cugini. Il primo ad arrivare a Torino dalla nativa Montaldo fu Pietro (nato nel 1736), che percorse una dopo l'altra le tappe ormai istituzionalizzate della carriera di giardiniere dell'orto torinese: nel 1758 fu assunto come garzone straordinario; nel 1761 divenne allievo; nel 1777 aiutante erbolaio; nel 1781 (e fino alla morte, 1800) giardiniere capo o custode. Qualche anno dopo lo raggiunse il fratello minore Ignazio, che nel 1767 risulta in forza come allievo giardiniere. Le opere di Allioni (direttore dal 1763 al 1781) sono prodighe di elogi per i due fratelli, definiti "giovani assai pazienti alle fatiche, dotati di ingegno e di corpo robusto, abili orticultori". Allioni stesso li istruì nel sistema di Linneo e i due divennero naturalisti compiuti. Il contributo di entrambi all'esplorazione del territorio piemontese fu inestimabile, tanto che in Flora pedemontana e in Auctarium ad floram pedemontanam sono citati come raccoglitori quasi ad ogni pagina. La predilezione di Pietro andava all'entomologia e numerosissimi sono gli insetti che fornì ad Allioni (la cui collezione pare si aggirasse sui 4000 esemplari); egli scoprì anche alcune nuove specie che poi furono pubblicate da Fabricius. La passione di Ignazio era invece la botanica; raccoglitore entusiasta, percorse molte contrade del Piemonte, raccogliendo ben 127 specie diverse. Tra le sue scoperte più notevoli, Saxifraga florulenta, la rara sassifraga dell'Argentera. Tra i suoi compiti, anche l'allestimento e la cura degli esemplari essiccati che andarono a costituire il primo nucleo dell'Erbario dell'orto torinese. Quando l'avanzare dell'età e l'affaticamento causato dal continuo uso del microscopio danneggiarono la vista di Allioni, fu Ignazio - di cui ancora una volta il professore loda la perizia e la diligenza nella raccolta e nello studio delle piante - a prestargli i suoi occhi, consentendogli di completare le sue opere. Non ultimo merito di Ignazio fu aver preservato le raccolte stesse dell'orto negli anni di trascuratezza dovuti alla malattia di Dana e alla guerra. Nel 1801, morto il fratello, gli succedette come giardiniere capo iniziando una fervida collaborazione con il nuovo direttore, Giovanni Battista Balbis. Fu anzi proprio lui, con il suo entusiasmo, il suo aiuto e il suo sostegno a incoraggiare Balbis - desolato di fronte allo spettacolo di tanta rovina - a intraprendere l'impresa di fare rivivere e restituire ai passati fasti l'orto torinese. Benché fosse ormai sulla sessantina, lo accompagnò anche in diverse escursioni tutt'altro che agevoli sulle montagne piemontesi; Balbis volle preservarne la memoria dedicandogli Poa molinerii e Iberis molinerii. Nel suo catalogo dell'orto (1810) ne scrisse una lode che è anche il più ampio ritratto del valente giardiniere. Oltre a riconoscere apertamente che, senza di lui e il suo paziente lavoro di raccoglitore, non ci sarebbero state né le opere di Allioni né le sue, ricorda come questo autodidatta, nato in un villaggio di montagna, oltre ad essere un botanico di eccezionale valore, dominasse il francese e il latino; avesse imparato del greco almeno quanto era necessario per comprendere l'etimologia dei termini botanici; padroneggiasse la geografia, tanto importante per la raccolta delle piante legate a determinati habitat; avesse voluto completare le sue conoscenze con lo studio di geometria e astronomia. In tanta stima lo aveva Balbis che lo propose come membro della Commissione di scienze ed arti incaricata di stendere un progetto generale di istruzione pubblica. Nel 1802, quando venne creata la scuola di veterinaria presso il Valentino, la commissione esecutiva lo nominò dimostratore delle piante, ovvero insegnante di botanica. Morì in tarda età circondato dalla stima generale nel 1818. Una sintesi di questa vita contemporaneamente semplice ed eccezionale nella sezione biografie. Molineria, foglie dal fascino tropicale Qualche anno dopo la sua morte, nel 1826, un nuovo omaggio giunse da Colla. Nel suo giardino di Rivoli egli coltivava Curculigo sumatrana, un'erbacea orientale procuratagli da un corrispondente. Poiché non gli risultava che nessuno l'avesse pubblicata fino a quello momento e le sue caratteristiche differivano a suo parere da quelle delle altre Curculigo, egli ritenne appartenesse a un nuovo genere, che dedicò a Molineri "già custode dell'Orto botanico, i cui grandi meriti per la botanica patria sono attestati dalla celeberrima Flora pedemontana di Allioni e dalle aggiunte dell'insigne Balbis". Anche se Colla si sbagliava (Curculigo sumatrana Roxb. continua a chiamarsi così), il genere fu adottato da botanici successivi ed è tuttora valido. Appartenente alla famiglia Hypoxidaceae, comprende sette specie di monocotiledoni erbacee native del subcontinente indiano, della Cina, del Sud est asiatico e dell'Oceania, con centro di diversità in India dove sono presenti tutte le specie. Sono piante rizomatose con grandi foglie che ricordano quelle dell'Aspidistra e fiori a stella assai decorativi, ma poco visibili perché crescono raso terra e sono nascosti dal fogliame. La specie più diffusa e nota è M. capitulata, detta in inglese palm grass per le grandi foglie lanceolate (lunghe anche un metro), fibrose e con marcate venature parallele, che possono ricordare quelle di una giovane palma; originaria del sottobosco delle foreste umide di gran parte dell'Asia orientale e della Nuova Guinea, è stata introdotta in altri paesi tropicali, dove si è dimostrata fin troppo volenterosa. Nei giardini a clima mite può essere utilizzata come notevole tappezzante per la capacità di colonizzare rapidamente il terreno. Nei paesi d'origine, le foglie vengono utilizzate per creare cesti e altri manufatti. Qualche informazione in più nella scheda. La minuscola Molineriella Nel 1850, anche Parlatore si ricordò di Molineri, creando un secondo genere Molineria per M. minuta, una minuscola Poacaea. La motivazione è davvero interessante: "Ho voluto con questo ricordar nella scienza il nome d'Ignazio Molineri, già custode del R. Giardino botanico di Torino, il quale arricchì di numerose scoperte la flora italiana con i suoi frequenti viaggi nelle Alpi e nella Liguria. Ho prescelto una pianta piccola con l'epiteto minuta per indicare l'acutezza del suo occhio osservatore, a cui nulla sfuggiva per quanto piccolo e minuto". Poiché nel frattempo la denominazione di Colla, benché applicata ad altre specie, si era affermata, quella proposta da Parlatore risultava illegittima. Ma a risolvere la questione a favore del nostro bravissimo giardiniere-botanico dalla vista acuta fu il francese Georges Rouy che nel 1913 ne mutò la denominazione in Molineriella. Questo genere della famiglia Poaceae comprende tre specie di erbe annuali dell'area mediterranea, con centro di diversità in Spagna dove sono presenti tutte. Nel nostro paese cresce la sola M. minuta, nota con il nome volgare di "nebbia di Molineri" per le aeree infiorescenze, un'erba che raramente supera i 20 cm, presente in tutte le regioni del centro e del sud, dove cresce negli incolti e nei prati di annuali. Qualche approfondimento nella scheda. Una trentina di militari, guidati da due capitani, uno schiavo nero, guide e trappers franco-canadesi, un'intrepida ragazza indiana e il suo neonato, un cane labrador sono i protagonisti della più mitica spedizione della storia statunitense: quella di Lewis e Clark e del Discovery Corps, che tra il 1804 e il 1806 per la prima volta attraversò il nord America da est a ovest, aprendo la via per il Pacifico. Imponenti i risultati scientifici: i primi contatti con una sessantina di tribù indiane, grandi progressi nelle conoscenze geografiche, nuove carte e centinaia di animali e piante raccolti e descritti per la prima volta, tra cui diversi nuovi generi; ai due capitani Lewis e Clark toccarono i notevoli Lewisia e Clarkia. Preparazione Nel 1803, dopo una breve trattativa, Napoleone cedette la Louisiana francese agli Stati Uniti in cambio di 23 milioni di dollari; quel territorio di oltre due milioni di km² raddoppiava d'un solo colpo la superficie del paese. Oltre a parte dell'attuale Louisiana, con la capitale New Orleans, comprendeva infatti Arkansas, Missouri, Iowa, Oklahoma, Kansas, parte del Minnesota, gran parte del Dakota del Nord, Dakota del Sud, l'area nordorientale del Nuovo Messico, l'estremità settentrionale del Texas, parte del Montana, Wyoming, il Colorado orientale e anche alcune parti delle attuali province canadesi di Alberta e Saskatchewan. Un territorio immenso, ma anche ben poco conosciuto, che la stessa Francia non aveva mai controllato davvero e neppure esplorato, se non per le piste battute dai cacciatori di pellicce e le poche vie commerciali lungo i bacini del Mississippi e del Missouri. Per il presidente Jefferson, che si era battuto per quell'acquisto nonostante la forte opposizione dei suoi avversari politici, era l'occasione per realizzare il sogno a lungo inseguito di esplorare l'occidente americano e di aprire una strada verso il Pacifico. Nel gennaio 1803 egli indirizzò al congresso una lettera segreta per chiedere un finanziamento di 2500 dollari per esplorare il bacino del Mississippi. Ottenuta l'approvazione, scelse come capo della futura spedizione il proprio segretario privato Meriwether Lewis, seguendo con cura la sua preparazione. Non solo gli mise a disposizione la sua biblioteca di Monticello - la maggiore del paese - ma lo inviò a Filadelfia perché potesse essere istruito da alcuni dei più eminenti scienziati americani in cartografia, astronomia, medicina, zoologia e botanica. In paleontologia lo istruì il medico Caspar Wistar, mentre il suo tutor in botanica fu Benjamin Smith Barton, amico e referente botanico di Jefferson. E' significativo che il presidente abbia affidato la missione a un militare (e soldati, a parte le guide e i battellieri, furono tutti i componenti della spedizione) e non a un naturalista di professione. Può aver influito il fatto che Jefferson stesso fosse un genio poliedrico versato in molte scienze che vedeva in Lewis una proiezione di se stesso; ma soprattutto contarono gli scopi politicamente sensibili della missione. Si trattava in primo luogo di mappare un territorio in gran parte ancora non segnato sulle carte; di valutare la presenza di inglesi e franco-canadesi e la loro intenzioni; di rivendicare il possesso effettivo dei territori prima di altre potenze; di stabilire relazioni commerciali con le popolazioni native; di aprire una strada percorribile fino al Pacifico, premessa di ogni futura espansione. Certo, non mancava l'aspetto scientifico; Lewis ricevette precise istruzioni direttamente da Jefferson che, per quanto riguarda la flora, recitano: "dedicare ogni attenzione al suolo e all'aspetto del paese, alle piante che vi crescono e ai prodotti vegetali, in particolare a quelli non presenti negli Stati Uniti". Lewis convinse William Clark, un vecchio compagno d'armi (erano entrambi capitani dell'esercito), ad unirsi all'impresa. Da quel momento, anche se nominalmente Lewis era il capo, avrebbero condiviso alla pari responsabilità e autorità. Incominciò poi a procurarsi l'equipaggiamento (tra cui figuravano il Dizionario di Miller e le opere di Linneo) e a luglio su recò a Pittsburg ad allestire il battello a chiglia necessario per navigare lungo il Missouri e i suoi affluenti. Ad agosto, insieme alle prime 11 reclute, risalì il fiume Ohio fino a Clarksville, dove incontrò Clark. I due si divisero i compiti: mentre Lewis muovendosi a cavallo completava l'equipaggiamento, Clark con il battello raggiunse Saint Louis, dove si occupò di arruolare ed addestrare nel forte di Camp Dubois sulla riva est del fiume i volontari del “Corps of Volunteers for Northwest Discovery.” I prescelti dovevano essere sani, scapoli, bravi a cacciare e usare le armi, dotati di buone capacità di sopravvivenza in un ambiente selvaggio. In tutto, i partecipanti furono 45, inclusi i due capitani, una trentina di volontari, i battellieri, gli interpreti e le guide ingaggiati durante il viaggio, uno schiavo di Clark di nome York. Completava la compagnia Seaman, il terranova di Lewis. Andata: da Camp Dubois al Pacifico La spedizione esordì ufficialmente il 24 maggio 1804 con la partenza da Camp Dubois del Corpo di scoperta, a bordo del battello a chiglia e di due piroghe; a Saint Charles i volontari incontrarono Lewis e Clark e proseguirono la navigazione sul Missouri, superando La Charette, ultimo insediamento bianco. Da quel momento entravano in territorio indiano; in previsione degli incontri con i nativi, era stato predisposto un protocollo che prevedeva il baratto di beni e il dono ai capi tribù di una medaglia con l'effige di Jefferson su un lato e due mani allacciate sotto un tomahawk e un calumet della pace sormontati della scritta “Peace and Friendship” dall'altro. Il primo contatto avvenne il 15 agosto con un gruppo di Odo, nei pressi dell'attuale Council Bluffs, Iowa; qualche giorno più tardi fu la volta di alcuni Sioux Yankton. Questi gruppi avevano già avuto contatti con cacciatori bianchi e, per quanto un po' delusi dai "doni" degli americani, si dimostrarono abbastanza amichevoli. Il 20 agosto si ebbe l'unica vittima della spedizione, il sergente Floyd, morto probabilmente di appendicite. Alla fine di settembre entrarono nel territorio degli Sioux Teton, detti anche Lakota, che accolsero i doni in modo ostile; il capo Bufalo Nero cercò di bloccare la spedizione, esigendo la consegna di uno dei battelli come pedaggio; si sfiorò la battaglia, ma di fronte alla superiorità militare del Corpo di scoperta, i Lakota si allontanarono. Continuando la navigazione verso ovest, all'inizio di novembre la spedizione toccò i villaggi di altre tribù amichevoli, i Mandan e i Minitari; Lewis e Clark decisero di fermarsi qui per l'inverno. Venne costruito un forte, detto Fort Mandan, dove il Corpo trascorse cinque mesi cacciando, preparando canoe, abiti di cuoio, mocassini, mentre Clark si dedicava a tracciare carte. A Fort Mandan fu ingaggiato come interprete il cacciatore franco-canadese Toussaint Charbonneau e venne permesso alla moglie incinta, un'indiana Shosone di nome Sacagawea, di stabilirsi nel forte; a febbraio proprio qui la ragazza partorì il suo primogenito, Jean Baptiste soprannominato Pompy o Pomp. La giovane donna ebbe un ruolo importante per il successo della spedizione: non solo per la sua abilità di interprete e la profonda conoscenza del territorio, ma grazie alla sua stessa presenza. Poiché gli indiani non usavano portare donne nelle loro spedizioni guerresche, il fatto che i soldati fossero accompagnati da una donna e da un bambino in fasce agiva da salvacondotto, indicandone le intenzioni pacifiche. Il 7 aprile 1805 il battello a chiglia e il suo equipaggio con dodici uomini furono rimandati a Saint Louis, con relazioni, lettere, carte, manufatti indiani e esemplari zoologici e botanici. I "membri permanenti" (Lewis, Clark, 27 soldati, York, con l'aggiunta della famiglia Charbonneau e di almeno un'altra guida franco-indiana, George Drouillard) ripresero il cammino verso ovest per affrontare la parte più difficile del viaggio. Continuando a navigare in canoa lungo il Missouri, a metà giugno ne raggiunsero le grandi cascate, in realtà un sistema di cinque cascate successive, che impiegarono oltre due settimane a superare, spesso in condizioni difficili. Quando raggiunsero il punto in cui tre corsi d'acqua confluiscono per dar vita al Missouri, li battezzarono Galtin, Madison e Jefferson e proseguirono lungo quest'ultimo. Qui divenne importantissimo l'aiuto di Sakagawea; la giovane donna era un'indiana Shoshone, rapita da una tribù nemica quando era bambina e poi passata attraverso diverse mani prima di essere venduta a Charbonneau. Ella riconobbe il punto esatto dove era stata rapita e quindi il Beaverhead Rock, una formazione rocciosa non lontana dalla sede estiva del suo popolo, dove avrebbero potuto procurarsi dei cavalli. Toccava ora lasciare il fiume e proseguire a piedi; il 12 agosto raggiunsero il Lemhi Pass, Montana, che segna lo spartiacque continentale. Qualche giorno dopo, incontrarono guerrieri Shoshone avvertiti della loro presenza; grazie a Sakagawea, che fungeva da interprete, ottennero guide e i desiderati cavalli; la ragazza ritrovò la sua tribù e scoprì che suo fratello Cameahwait ne era divenuto capo. Quindi il gruppo attraversò la Bitterroot Mountain Range percorrendo il Lolo Trail. Fu il tratto più difficile, in cui dovettero affrontare rocce, foreste impenetrabili, fame, deidratazione, cattivo tempo, temperature inclementi, alcuni casi di congelamento. Dopo 11 giorni, il 22 settembre lungo il Clearwater River, Idaho, incontrarono un'amichevole tribù di Nez Percé, che li accolse e li aiutò a recuperare le forze e la salute. Costruite alcune canoe e affidati i cavalli agli amici indiani, affrontarono le rapide del Clearwater River per raggiungere lo Snake River, quindi il Columbia River. Il 7 novembre, Clark annotò nel suo diario: "Oceano in vista! Oh, gioia!". La missione era compiuta. Ritorno e congedi Prima di affrontare il ritorno, bisognava trovare un ricovero per l'inverno. Accamparsi al di qua o al di là del fiume Oregon, dove si trovavano terreni di caccia più abbondanti? La decisione venne messa ai voti e tutti parteciparono, compresi York e Sakagawea (un episodio celebre perché fu la prima volta, nella storia degli Stati Uniti, in cui venne riconosciuto il diritto di voto a un nero e a una donna, che allo stesso tempo era una nativa). Il mese di dicembre venne impiegato a costruire Fort Clatsop, presso l'odierna Astoria, Oregon, che fu pronto per Natale. Qui il Corps trascorse un inverno difficile, dovendo affrontare il tormento degli insetti, umidità, influenza e infezioni intestinali. Il viaggio di ritorno iniziò il 23 marzo. Risalendo contro corrente il Columbia e molte cascate, ritornarono presso gli amici Nez Percé, dove recuperarono i cavalli e attesero lo scioglimento delle nevi prima di affrontare il cammino attraverso le montagne. Lewis approfittò di questa sosta per raccogliere la maggior parte dei suoi esemplari botanici. Poterono rimettersi in marcia solo a giugno. Dapprima ripercorsero il cammino dell'andata attraverso le Bitterrots e il Lolo Pass, dove Lewis e Clark decisero di dividersi in due gruppi, nella speranza di trovare un collegamento più agevole tra Pacifico e Atlantico. Lewis si diresse a nord lungo il fiume Missouri, mentre Clark a sud lungo il fiume Yellowstone, fissando come punto d'incontro la confluenza dei due corsi d'acqua. Lewis prese con sé i cacciatori migliori e l'interprete e scout franco-indiano George Drouillard. Il gruppo di Clark includeva York, Sacagawea, Pompy e Charbonneau. Lungo il fiume Marias il gruppo di Lewis incontrò alcuni guerrieri Piedi neri che cercarono di rubare loro le armi e i cavalli; ne nacque uno scontro a fuoco (l'unico di tutta la spedizione) in cui morirono due indiani; poco dopo lo stesso Lewis fu ferito da un compagno in un incidente di caccia, con conseguenze spiacevoli ma non fatali. Al gruppo di Clark, toccò invece il furto di alcuni cavalli, sottratti da abilissimi indiani Crow che i nostri non ebbero neppure modo di vedere. I due gruppi riuniti raggiunsero il 12 agosto il villaggio dei Maidan, dove salutarono Sakagawea e la sua famiglia e da qui, con una facile navigazione con corrente a favore lungo il Missouri, il 23 settembre rientrarono a Saint Louis, dove furono accolti come eroi. Avevano percorso più di 8000 miglia, incontrato e stabilito relazioni con almeno una sessantina i popoli indiani, raccolto informazioni geografiche di prima mano e prodotto dozzine di carte. Nel campo delle scienze naturali, il contributo fu notevolissimo. Già mentre risalivano il Missouri, Lewis prese ad annotare sul suo diario di campo la velocità della corrente, la natura delle rocce e, ovviamente, gli animali e le piante via via incontrati. Il primo animale nuovo per la scienza fu Neotoma floridana, un roditore noto come eastern wood rat. Seguirono bufali, grizzly, cani della prateria, castori, coyote, pecore bighorn, per un totale di 120 specie tra mammiferi, uccelli, pesci e rettili. Quanto alle piante, Lewis, che era munito di una piccola pressa manuale, ebbe cura di raccoglierne centinaia di esemplari; furono coinvolti anche altri membri della spedizione, tra cui Clark e Sakagawea. Nelle sue note, Lewis dimostrò notevoli capacità di osservazione sull'habitat e le caratteristiche morfologiche di ciascuna specie, facendo anche tesoro delle conoscenze dei nativi sugli usi alimentari, medicinali e pratici delle piante. Ad esempio, descrisse con precisione il modo in cui le donne Nez Percé raccoglievano e preparavano i bulbi di Camassia quamash, una componente molto importante della loro dieta. In tutto, le specie raccolte furono 174, di cui circa 90 nuove per la scienza. Molte sono belle piante da fiore, raccolte lungo il Lolo trail nel viaggio di ritorno, e alcune sono oggi molto comuni nei nostri giardini, come Mimulus guttatus, Euphorbia marginata, Echinacea angustifolia. Se volete conoscerle tutte, non vi resta che visitare il bellissimo sito The Lewis and Clark Herbarium. Dopo la grande avventura, le sorti dei due capitani furono assai differenti. Lewis, nominato da Jefferson governatore della Louisiana, non si dimostrò all'altezza del compito e finì presto i suoi giorni nell'alcoolismo e forse nel suicidio (qui una sintesi della sua vita); invece Clark divenne governatore del Missouri, giocò un ruolo centrale nelle relazioni con i nativi ed ebbe una vita lunga e operosa. Si dimostrò abbastanza generoso e umano da educare nella sua casa e far studiare il piccolo Pompey, rimasto presto orfano, ma non abbastanza da affrancare York, che pure della spedizione era stato uno dei membri più validi. Le amare radici della Lewisia Ma torniamo alle piante. Quelle essiccate furono inviate a Philadelphia all'American Philosophical Society perché fossero studiate dal mentore di Lewis, Benjamin Smith Barton. Le poche piante vive e i numerosi semi furono divisi tra due vivaisti, William Hamilton e Bernard McMahon. A questi tre personaggi era legato il botanico tedesco Frederick Pursh, che fu incaricato dapprima di disegnare le illustrazioni che avrebbero dovuto accompagnare la pubblicazione dei diari di Lewis e Clark (che non si realizzò mai); andò poi con McMahon a Londra dove nel 1813 in Flora Americae Septentrionalis descrisse 130 piante raccolte durante la spedizione. Tra di esse anche le specie tipo dei due generi destinati ad immortalare i capitani, Lewisia e Clarkia. Due specie del primo risultano nell'erbario di Lewis e Clark: Lewisia rediviva Pursh, raccolta il 2 luglio 1806 lungo il Betterroot River; L. triphylla (S. Watson) B. L. Rob., raccolta qualche giorno prima lungo il Lolo Trail. Solo la prima fu descritta da Pursh e deve il suo nome a una vicenda curiosa. Giunta a Filadelfia come esemplare essiccato, in realtà era viva grazie alla radice carnosa; fu quindi prelevata e piantata nel vivaio di McMahon, dove spuntò e visse qualche anno prima di morire a causa delle annaffiature eccessive. Nota con il nome franco-canadese radiz amère, in inglese fu chiamata bitterrot, e diede il suo nome sia all'omonimo fiume sia all'adiacente catena delle Montagne rocciose. Nel 1895 è stata scelta come pianta ufficiale del Montana. Il genere Lewisia Pursh appartiene alla famiglia Montiaceae (un tempo Portulacacae) e annovera 16-19 specie endemiche degli Stati Uniti nord-occidentali; sono piante perenni rupicole amanti dell'ombra che crescono abbarbicate alle rocce del versante nord, basse e molto decorative grazie ai grandi fiori. Oggi la più popolare nei nostri giardini è Lewisia cotyledon, disponibile in un'ampia gamma di colori che vanno dal rosa chiaro al porpora passando per il salmone e l'arancio, spesso con i petali sfumati in più colori. Altre informazioni nella scheda. Ricordano Lewis anche molti nomi specifici delle specie da lui segnalate, come Phildelphus lewisii, Linum lewisii, Mimulus lewisii. Purtroppo nessun botanico ha pensato invece di dedicare un genere a Sakagawea, che pure l'avrebbe meritato come tramite tra gli esploratori bianchi e le conoscenze etnobotaniche dei nativi, oltre che come raccoglitrice in prima persona. A ricordarla (ma il personaggio è molto popolare negli Stati Uniti, celebrato da dozzine di statue) c'è però proprio una specie di Lewisia, L. sakajaweana, un endemismo dell'Oregon. La singolare Clarkia Fu sempre Pursh a stabilire il genere Clarkia, sulla base di C. pulchella, raccolta il 1 giugno 1806 sempre lungo il Bitterroot River da Lewis che la definì "una pianta singolare" per i quattro petali finemente divisi in tre lobi. Nella storia della scienza è nota anche perché Robert Brown si servì del polline di questa specie per le osservazioni che lo portarono alla scoperta del moto browniano. Il genere Clarkia appartiene alla famiglia Onagraceae e comprende una quarantina di specie di annuali, tutte native del Nord America, ad eccezione della sudamericana C. tenella. Diverse specie sono popolari annuali da giardino. La più nota è probabilmente C. amoena, spesso utilizzata anche come fiore reciso, di cui esistono molte serie con fiori a imbuto singoli e doppi in una gamma di colori che include il rosa, il lilla, il salmone, il porpora. il bianco; alcune cultivar hanno margini bianchi o centri in colore contrastante. Per ironia della sorte, proprio alcune delle specie più coltivate sono note con il nome comune godezia, o il nome botanico Godetia, poiché un tempo appartenevano al genere Godetia Spach, che fin dal 1955 è confluito in Clarkia di cui è divenuto una sezione. E' uno dei tanti esempi di quella che definisco "viscosità dei nomi botanici", ovvero della fatica di coltivatori ed appassionati ad adottare i nuovi nomi, anche dopo decenni e decenni come in questo caso. Qualche approfondimento nella scheda. Per vent'anni esatti, dal 1781 al 1801, a reggere l'Orto botanico di Torino fu il medico Giovanni Pietro Maria Dana, allievo e successore di Allioni. La sua attività si colloca nel solco di quella del maestro, anche se, paragonato a lui e al suo successore, Giovanni Battista Balbis, appare una figura decisamente minore. A percorrere il catalogo delle sue opere, numerosissime ma sempre contenute negli argomenti e nelle dimensioni, si ha l'impressione che la sua attività scientifica sia stata presieduta dal dio delle piccole cose: da una parte, è un medico e uno scienziato sperimentatore che studia le piante del territorio soprattutto per le loro applicazioni pratiche, terapeutiche o industriali; dall'altra, lo colpisce ciò che è strano, mostruoso (come dimostrano i diversi studi dedicati a feti deformi). Non va imputato a sua colpa se, quando Balbis ne rilevò l'incarico, trovò il giardino in uno stato miserevole: pesò certamente la malattia progressiva che segnò gli ultimi anni di vita di Dana, ma più ancora le guerre napoleoniche, che dal 1796 ebbero per teatro anche il Piemonte. A ricordarci che egli godette anche di un certo prestigio internazionale è il genere Danaea, dedicatogli da James Edward Smith, che comprende bellissime felci neotropicali. Medicina e botanica applicata Nel 1781, Carlo Allioni chiese di essere dispensato dall'insegnamento e dalle cure gestionali dell'orto botanico torinese - di cui comunque mantenne la responsabilità scientifica - per dedicare tutte le sue forze alla pubblicazione di Flora pedemontana. A sostituirlo fu uno dei suoi migliori allievi, Giovanni Pietro Maria Dana, che dal 1770 era già primo professore associato presso la facoltà di medicina. Come il quasi coetaneo Bellardi, Dana era venuto a Torino dalla provincia - era nato a Barge, nel Cuneese - per studiare medicina e si era innamorato della botanica grazie alle lezioni di Allioni. Anch'egli fece parte del gruppo di entusiasti raccoglitori che sotto la sua guida percorsero ogni angolo del Piemonte per esplorarne la flora. Oltre alle valli del cuneese, egli perlustrò i dintorni di Pinerolo, il Monferrato, la provincia astigiana e i monti liguri. Alla ricerca botanica sul campo, affiancò la professione medica e una copiosa produzione di saggi e memorie che gli valsero appunto la nomina a professore associato poi, come ho anticipato, a titolare della cattedra di botanica e direttore dell'orto botanico. Ai primi lavori medici, dedicati a argomenti come i calcoli renali e la secrezione urinaria, affiancò saggi sulla generazione delle piante e sulla scilla officinale (ovvero la tossica Drimia maritima, all'epoca usata soprattutto per le sue proprietà cardiotoniche). In due memorie pubblicate nel 1766, all'analisi patologica e alle indicazioni terapeutiche si unisce l'osservazione naturalistica; nella prima Dana studia una nuova specie di vermi della classe degli irudinei, che denomina Hirudo alpina (oggi Crenobia alpina Dana), vivente in acque stagnanti, la cui ingestione accidentale, se non trattata opportunamente, poteva risultare fatale; attento alla cultura locale, Dana ne riporta anche il nome dialettale, sioure o soûre; nella seconda si occupa delle dermatiti causate dal contatto con idrozoi urticanti, che chiama armenistari. Anche i suoi studi botanici sembrano orientati alle applicazioni pratiche. Nel 1770 dedica un saggio a un fungo (agaricus seu boletus pelliceus) la cui polvere era usata come emostatico; nel 1774 a una pianta coltivata nell'Orto botanico di Torino, Solanum melanocerasum (oggi S. scabrum), forse di origine africana, che era usata sia in farmacia sia nell'industria tintoria, per ricavare coloranti chiamati con gli affascinanti nomi color d'Isabella chiaro, lilla violante, gris de prince, color di frejdolina chiaro. Altri argomenti dei suoi saggi sono i rimedi contro i danni da grandine, le acque termali e le fumigazioni; non manca un certo interesse per il curioso, il difforme, con alcune memorie dedicati a feti deformi o a un gatto mostruoso. Come si vede, soggetti molto specifici e di portata limitata, che tuttavia, insieme al ruolo di curatore dell'orto botanico tornese, gli procurarono una certa rinomanza internazionale, visto che fu ammesso a varie società scientifiche estere, come la Società fisico-botanica di Firenze, la Società linneana di Londra, la Società fisica e di storia naturale di Losanna e la Società reale di Montpellier. Già membro dell'Accademia delle Scienze e della Società agraria di Torino, dal 1784 fu nominato consigliere e presidente dell'amministrazione del protomedicato di Torino. Negli ultimi anni di attività tornò a interessarsi di piante tintorie, fondando addirittura un laboratorio apposito ("Regio laboratorio di tintura") dove conduceva osservazioni e esperimenti; nel 1790 fu consultato dal ministro Graneri circa l'opportunità di coltivare Carthamus tinctorius come colorante in sostituzione dello zafferano; l'anno successivo, in risposta al concorso bandito dall'Accademia delle scienze di Torino per trovare una sostanza tintoria che sostituisse l'indaco, Dana propose l'autoctona Isatis sylvestris vel angustifolia, probabilmente una forma selvatica di Isatis tinctoria, da lui trovata in val d'Aosta, nella contea di Nizza e nel Monferrato. E' l'ultimo dei suoi "piccoli lavori". Gli ultimi anni di Dana furono segnati infatti dal lento progresso di una "malattia cerebrale" che finì per renderlo del tutto inabile e lo portò alla morte nel 1801. Le conseguenze si fecero sentire anche nell'Orto botanico di Torino, che, quando Balbis gli subentrò, versava in uno stato deplorevole, certamente anche per la mancanza di denaro e gli effetti della guerra, che coinvolse il Piemonte a partire dal 1796. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Danaea, una felce venuta da lontano Diversi furono i generi dedicati a Dana. Nel 1785, in riconoscimento del suo contributo all'esplorazione della flora piemontese, Allioni gli dedica Danaa, oggi sinonimo di Physospermum, famiglia Apiaceae; nel 1835 Colla battezza Danaa yegua (sinonimo di Acrisione denticulata, famiglia Asteraceae) una delle piante cilene raccolte da Bertero. La dedica valida arriva nel 1793 con Danaea, famiglia Marattiaceae, da parte di James Edward Smith, il presidente della Linnean Society di cui, come abbiamo già visto, Dana era membro. Smith era stato a Torino, era a sua volta membro dell'Accademia delle scienze della città piemontese (nelle cui Memorie comparve infatti l'articolo che istituisce il nuovo genere), e intratteneva regolari rapporti epistolari con botanici torinesi, soprattutto Bellardi. Forse la dedica va dunque intesa, più che un omaggio alla persona di Dana, un riconoscimento del suo ruolo di curatore di un'istituzione di peso europeo. E' un omaggio indubbiamente sontuoso: il genere Danaea comprende infatti una cinquantina di specie di felci delle foreste pluviali delle Antille, del centro e del sud America, dall'aspetto insieme esotico e primordiale. Appartengono infatti a una linea evolutiva antichissima, con rappresentati fossili fin dal Paleocene. La loro caratteristica distintiva più evidente è il dimorfismo delle foglie, in genere pennate, ma con foglie fertili contratte e sporangi disposti in file lineari che coprono interamente la pagina inferiore della lamina fogliare. Sono piante elusive per l'habitat e con caratteristiche distintive che rendono difficile il riconoscimento a partire da esemplari essiccati, il che spiega perché negli ultimi anni ne sono state individuate diverse nuove specie. Per il suo nome curioso vorrei almeno ricordare Danaea kalevala, una grande e spettacolare felce delle Piccole Antille, che è stata riconosciuta come specie solo nel 2006 dal botanico olandese M.J.M. Christenhusz, che in ricordo degli anni di dottorato trascorsi presso l'Università di Turku, si è ispirato al celebre ciclo epico finlandese. Qualche approfondimento su questo genere affascinante nella scheda. Di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, è stato detto che potrebbe essere nominato patrono laico dei giardini e dei giardinieri statunitensi. Quella per la natura, le piante e i giardini fu infatti per lui una passione costante in tutte le fasi della vita, fino alla creazione dello splendido giardino di Monticello. Protagonista di una rete di "scambisti" di piante tra le due sponde dell'oceano, botanico dilettante, presidente della American Philosophical Society, ebbe anche il merito di sponsorizzare la grande spedizione di Lewis e Clark. Lo ricorda una pianta del sottobosco delle foreste americane, Jeffersonia diphylla, che coltivava in una delle aiuole del suo giardino, dove spesso gli faceva omaggio della sua candida fioritura come dono di compleanno. Una dedica all'uomo di scienza, non al politico La sera del 18 maggio 1792 sei uomini si incontrarono presso la Philosophical Hall di Filadelfia, la sede della American Philosophical Society, per la consueta riunione del venerdì; dopo il momento conviviale del pranzo, Benjamin Smith Barton, professore di botanica e storia naturale presso l'Università della Pennsylvania, lesse una lettera che aveva scritto ai colleghi europei circa una pianta nativa della Virginia. Linneo, basandosi solo su esemplari essiccati, l'aveva assegnata al genere Podophyllum, con il nome P. diphyllum. Barton, studiandola dal vivo, era giunto alla conclusione che andasse invece assegnata a un genere nuovo e, aggiunse, "Mi sono preso la libertà di renderlo noto ai botanici sotto il nome di Jeffersonia, in onore di Thomas Jefferson, segretario di Stato degli Stati Uniti". E ciò, aggiunse, non in considerazione dei suoi meriti politici, ma delle sue conoscenze di storia naturale che, soprattutto nei campi della zoologia e della botanica "sono eguagliate da poche persone negli Stati Uniti". In effetti, il multiforme Thomas Jefferson, estensore della Dichiarazione d'Indipendenza, quindi ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, segretario di Stato, presidente per due mandati, oltre che uno dei padri fondatori degli Stati Uniti fu un intellettuale di notevole spessore, con forti interessi scientifici che spaziavano dalla matematica all'archeologia, dalla geografia alla paleontologia: le scienze naturali e la botanica furono una passione che coltivò per tutta la vita. Si racconta che quando era presidente conoscesse tutte le piante dei dintorni della Casa Bianca, e non si facesse sfuggire una specie nuova per il suo erbario. Per quanto riguarda la botanica, notevole fu il suo lascito in tre settori: la promozione dell'agricoltura del suo paese, con migliorie tecniche e l'introduzione di nuove specie; la creazione dello splendido giardino di Monticello; la promozione dell'esplorazione delle risorse naturali del territorio statunitense. Convinto che l'agricoltura fosse la base della prosperità, dell'indipendenza, ma anche della moralità di una nazione, sognava un paese di piccoli agricoltori liberi, anche se lui, da parte sua, era il proprietario schiavista di vaste piantagioni. Il suo contributo in questo campo fu soprattutto nella sperimentazione e nell'introduzione di nuove varietà: ad esempio, portò con sé dall'Europa una pianta di fico acquistata a Marsiglia, che a suo dire produceva i frutti migliori che mai avesse mangiato, e ne distribuì talee a vicini e amici; creò un vigneto sperimentale; incoraggiò la coltivazione del sesamo per la produzione familiare di olio. Ma il suo capolavoro fu Monticello, la sua residenza nei pressi di Charlottesville, Virginia, il cui nome italiano fa riferimento alla posizione della proprietà, sulla cima di un colle delle Southwest Mountains. Nel 1768 iniziò l'edificazione di una casa in stile palladiano, progettata dallo stesso Jefferson, che era quasi completa nel 1784 quando egli dovette lasciare gli Stati Uniti per la Francia, con l'incarico di ambasciatore presso la corte di Parigi. Contemporaneamente, cominciò a realizzare il giardino, sulle cui vicende siamo ben informati grazie al suo Garden Book, ovvero il quaderno dove annotava piantagioni, semine, esperimenti. La prima annotazione risale al 1769, quando Jefferson fece piantare alberi da frutto sul versante sud della collina. Nel 1774, in collaborazione con l'italiano Filippo Mazzei, che procurò vignaioli e vitigni, impiantò la prima vigna della Virginia. Tra il 1778 e il 1782 fu la volta di un vasto frutteto di meli e peschi e del primo orto, lungo la strada principale della piantagione, dove vennero seminari asparagi, piselli e carciofi. Il soggiorno in Europa, che si protrasse dal 1784 al 1789, permise a Jefferson di allargare i suoi orizzonti culturali e di allacciare proficue relazioni. Oltre alla Francia, visitò la Gran Bretagna, l'Italia, il Belgio e i paesi Bassi, dove visitò case e giardini, rimanendo profondamente impressionato dallo stile libero dei nuovi parchi all'inglese. A Parigi incominciò a frequentare il salotto di Madame de Tessé, zia di Lafayette e grande appassionata di giardini, che gli chiese di procurargli piante americane; e così, tra Parigi e Monticello, iniziò un attivo scambio transoceanico di piante: mentre esemplari di Callicarpa americana, Diospyros virginiana, Calycanthus floridus procurati da amici e corrispondenti di Jefferson raggiungevano il parco di Chaville, a Monticello arrivavano semi di elitropio bianco (Helitropium arborescens), ranuncoli, cavolfiori, broccoli e bulbi di tulipani. Un altro contatto importante fu André Thouin, capo giardiniere del Jardin du Roi. Un giardino per frutti, verdure, fiori Tornato in patria, Jefferson cercò di conciliare l'attività politica (che egli definiva il suo dovere) con gli interessi scientifici (che egli definiva la sua passione). Così, nel 1791 lo troviamo ad erborizzare nel New England con l'amico James Madison. Nel 1797 fu nominato presidente della American Philosophical Society (incarico che mantenne per un ventennio, anche durante i due mandati presidenziali). Nel 1812, quando durante la guerra anglo-americana un incendio distrusse la biblioteca del Congresso, Jefferson offrì di reintegrarla con la sua collezione (che vantava il doppio dei volumi di quella perduta), dietro un compenso che doveva aiutarlo a ripianare i grandi debiti contratti per la ristrutturazione di Monticello; il congresso accettò, creando così il primo nucleo dell'attuale Library of Congress. Egli inoltre si impegnò attivamente nella creazione dell'Università della Virginia a Charlottesville, che fu infine inaugurata nel 1819. A partire dal 1794, lo stesso anno in cui divenne segretario di Stato, Jefferson intraprese la totale ristrutturazione della casa e del parco di Monticello, ispirandosi a quanto aveva visto in Europa. Come Mount Vernon di Washington, anche il giardino concepito da Jefferson unisce le funzioni di parco paesaggistico, frutteto, orto e giardino di piacere. I frutteti e gli orti si trovavano fuori del parco vero e proprio, lungo il viale principale della piantagione. I frutteti, con pianta formale a grata, erano due, uno posto a nord, l'altro a sud. Includevano anche meli per la produzione di sidro; a più riprese, venne impianta una vigna, ma con poco successo. L'orto venne collocato su una lunga terrazza ricavata dal lavoro degli schiavi sul fianco della collina; comprendeva 24 parcelle quadrate destinate alla produzione di "radici" (come rape e carote), "frutti" (pomodori, fagioli), "foglie" (insalate, cavoli). Al centro un piccolo padiglione da cui si poteva godere il panorama. Alla base del muro di sostegno venivano coltivate le primizie e le piante più delicate, come i piselli, una delle grandi passioni di Jefferson. Anche i fichi portati dalla Francia crescevano qui. L'orto era anche uno spazio sperimentale dove provare novità, come i broccoli e i cavolfiori importati dall'Europa o gli stessi pomodori. Si calcola che nel corso degli anni Jefferson vi abbia fatto coltivare 330 varietà di 70 specie. La sommità della collina era occupata da una spianata con un vasto prato dai contorni irregolari, il West Lawn, a nord ovest del quale si trova il Grove, il boschetto, un'area di 18 acri concepita come una foresta ornamentale in cui agli alberi nativi più alti (potati in modo da lasciare luce e spazio agli alberi minori) si affiancavano piante scelte per il contrasto di colori, forme, tessiture. Il sottobosco naturale doveva essere eliminato per lasciare posto a radure a prato, con erbacee perenni e gruppi di arbusti disposti secondo un disegno labirintico a spirale. Il collegamento tra le varie parti del giardino era garantito da quattro viali circolari concentrici, posti a livelli differenti, bordati di gelsi e Gleditsia triacanthos e collegati tra loro da sentieri diagonali. Se, proprio come Mount Vernon, all'inizio anche Monticello era stato concepito soprattutto con funzioni utilitarie, dopo l'esperienza europea l'interesse di Jefferson per i fiori e le piante ornamentali aumentò. Nel 1807, in previsione del suo ritiro dalla vita politica, egli disegnò venti aiuole ovali, poste ai quattro angoli della casa, ciascuna delle quali destinata a una specie diversa, con bulbose, erbacee perenni e piccoli alberi da fiore. Probabilmente nel 1808 fu creata la grande bordura serpeggiante che contorna il prato centrale. In entrambe le aree la figlia e le nipoti di Jefferson coltivavano una grande varietà di piante e bulbi, forniti soprattutto dal vivaista di Filadelfia Bernard McMahon, in modo da assicurare fioriture dalla primavera all'autunno. C'erano i fiori coltivati tradizionalmente che i coloni avevano portato con sé dall'Europa; piante più inusuali o novità fornite dai contatti europei (ogni anno, una cassa giungeva dal Jardin des Plantes di Parigi). Almeno un quarto delle piante da fiore coltivate a Monticello erano tuttavia native; oltre a Jeffersonia diphylla, particolarmente gradita perché oltre a portare il suo nome fioriva proprio intorno al suo compleanno (il 2 aprile), c'erano diverse specie raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark, come Fritillaria pudica e Lobelia cardinalis. Siamo così giunti all'ultimo titolo di merito di Jefferson: quella spedizione era stata voluta e sponsorizzata proprio da lui, durante il suo primo mandato presidenziale. Negli anni successivi all'indipendenza, il territorio del nuovo stato era confinato nella stretta striscia tra gli Appalachi e l'Oceano, mentre si avevano scarse conoscenze delle terre poste al di là delle montagne. Jefferson era conscio delle enormi potenzialità di quel territorio inesplorato e sognava di trovare una via di comunicazione con l'Oceano Pacifico. Già quando si trovava a Parigi come ambasciatore sostenne il progetto dell'esploratore anglo-americano John Ledyard che si proponeva di raggiungere lo stretto di Bering attraversando la Russia via terra; da qui pensava di trovare un passaggio per l'Alaska, da dove sarebbe sceso verso sud per poi percorrere il continente americano fino alla Virginia. Ma, dopo essere arrivato in Siberia, nel febbraio del 1788 Ledyard fu arrestato per ordine dell'imperatrice Caterina e deportato in Polonia. Una seconda possibilità si presentò nel 1793, quando l'American Philosophical Society pensò di affidare la missione di "esplorare il paese lungo il Missouri e di lì proseguire verso ovest fino all'Oceano Pacifico" al botanico francese André Michaux, che da qualche anno viveva in Carolina del Sud e aveva una larga esperienza di viaggi di esplorazione e raccolta. Jefferson stesso organizzò la sottoscrizione che doveva finanziare la spedizione e ottenne l'assenso di Washington; tuttavia, quando fu chiaro che Michaux era coinvolto in un piano antispagnolo organizzato dall'ambasciatore francese, per evitare di peggiorare le relazioni diplomatiche con la Spagna il progetto fu annullato. Il sogno di Jefferson poté infine realizzarsi nel 1804 grazie alla spedizione capeggiata da Lewis e Clark, argomento su cui però tornerò in un altro post. Jefferson morì nel 1826, a ottantaquattro anni, ormai sprofondato nei debiti contratti per la sua vita troppo dispendiosa e soprattutto per la creazione di Monticello. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La figlia fu costretta a vendere la tenuta che, dopo essere passata attraverso vari proprietari, nel 1836 fu acquistata da Uriah Levy, grande ammiratore di Jefferson, il quale nel 1862 la lasciò in eredità al popolo americano perché fosse usata come scuola agraria. Ma si era in piena guerra civile e il congresso rifiutò il lascito. Dopo complesse vicende, a cercare di salvare Monticello, che era ormai in uno stato deprecabile di abbandono, fu il nipote Jefferson Monroe Levy, che ne iniziò il restauro, poi proseguito a cura della Thomas Jefferson Foundation, nata nel 1923. Monticello come lo vediamo oggi è il frutto dei restauri da essa promossi: sono stati ricreati il prato e la sua bordura, le aiuole ovali, il viale circolare inferiore, la terrazza con l'orto, mentre i frutteti non esistono più e il Grove è ben diverso da come doveva presentarsi all'epoca del suo creatore. Dal 1987 la tenuta è inclusa nella lista del patrimonio dell'umanità UNESCO. Moltissime notizie sul giardino e sullo stesso Jefferson nel sito di Monticello. Una pianta americana Abbiamo già visto che Jeffersonia fu dedicata a Jefferson nel 1792 da Benjamin Smith Barton. Appartenente alla famiglia Berberidaceae, comprende una sola specie, appunto J. diphylla, una rara erbacea perenne a fioritura primaverile del sottobosco delle foreste decidue con suolo calcareo degli Stati Uniti orientali. Alta fino a 25 cm, ha grandi foglie bilobate con lobi da arrotondati ad acuti posti quasi ad ala di farfalla; all'inizio della primavera produce fiori a coppa con otto petali bianchi e stami gialli. Gli si attribuiscono proprietà antireumatiche. Qualche informazione in più nella scheda. Ha anche una bellissima cugina asiatica che oggi, dopo molte incertezze, è stata restituita al genere Plagiorhegma. Dunque dobbiamo rassegnarci a chiamare questa perla dei giardini boschivi con foglie lobate e fiori lilla con l'orrendo nome Plagiorhegma dubium anziché Jeffersonia dubia. Nel 1800 Brickell dedicò a Jefferson un secondo genere Jeffersonia; illegittimo per la regola della priorità, è oggi sinonimo di Gelsemium. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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