La più antica testimonianza su quanto sapessero gli antichi dei veleni (e dei loro rimedi) non è costituita da un trattato, ma da una coppia di poemi del poeta ellenistico Nicandro di Colofone (II sec. a.C.): Theriaca, dedicato agli animali dal morso velenoso, e Alexipharmaca, dedicato ai veleni di varia natura assunti per ingestione. Proprio la forma in versi, che ne favoriva la memorizzazione, potrebbe aver contribuito a farli giungere fino a noi, mentre sono andate perdute le opere in prosa che li precedettero, cui probabilmente Nicandro attinse. Forse senza troppa fantasia, Adanson gli dedicò il genere Nicandra, la cui specie più nota gode fama di tossicità. Due poemi... tossici L'epoca ellenistica fu caratterizzata da una ricca produzione scientifica; dovette farne parte anche il più antico trattato greco sui veleni di cui abbiamo memoria, Perì therion ("Sugli animali venefici") di Apollodoro d'Alessandria (III sec. a.C.) che probabilmente poté attingere alla secolare tradizione egizia. Perduta quest'opera, la prima testimonianza della scienza tossicologica antica è costituita da due poemi didascalici del poeta Nicandro di Colofone (II sec. a.C.): Theriaca, "Gli animali venefici", e Alexipharmaca, "Gli antidoti". Nella sezione biografie, una sintesi delle poche notizie che abbiamo di lui. Oggi può apparire curioso che un argomento scientifico venga esposto sotto forma di poema; eppure, poemi didascalici sui più vari argomenti furono assai in voga fino a un passato relativamente recente. I poeti ellenistici erano degli sperimentatori, che si rivolgevano a un selezionato pubblico di élite e miravano a rinnovare la poesia nelle forme, nel linguaggio, negli argomenti. Una delle modalità per perseguire questo rinnovamento fu mettere in versi temi scientifici, apparentemente aridi e lontani dal poetabile, ma proprio per questo una sfida eccitante per quei poeti innovatori; il più famoso dei poeti didascalici ellenistici è Arato di Soli che espose l'astronomia nei suoi Fenomeni. E' la strada percorsa anche dal nostro Nicandro che forse, oltre che poeta e sacerdote di Apollo, fu anche medico. La sua è una poesia ricercatissima anche nelle scelte lessicali: scritta in esametri epici (il verso dei poemi omerici), abbonda da una parte di arcaismi attinti appunto da Omero, dall'altra di termini tecnici della farmacologia e della medicina. Ma l'idea più innovativa sta proprio nel soggetto: invece di offrire ai suoi lettori cittadini quadretti di amena e nostalgica vita agreste, come aveva fatto Teocrito nei suoi Idilli, Nicandro vuole attirarli con il piacere della paura e del mostruoso. E ciò che più terrorizzava e faceva orrore all'uomo antico erano i serpenti, grandi protagonisti del primo dei due poemi. Ecco che in Theriaca sfilano serpenti velenosi e innocui, ragni, scorpioni, seguiti da insetti e altri invertebrati; del morso di ciascuno Nicandro descrive gli effetti con precisione di medico e compiacimento di scrittore dell'orrore; ad innalzare il tono, la narrazione di miti (come quello stesso della nascita dei serpenti) e le similitudini epiche. In questo primo trattato le piante entrano nella composizione dei rimedi. In primo luogo i repellenti, da spalmare sul corpo per tenere lontane le immonde bestiacce, come quello gradevolissimo composto da una dozzina di erbe aromatiche o quello inquietante che prevede la carne di una coppia di serpenti in amore raccolti in un crocicchio, midollo di cervo, olio di rose, olio illuminante e cera, Poi gli antidoti per il morso di un animale specifico, soprattutto cataplasmi; infine un antidoto di efficacia universale, composto da moltissimi ingredienti. E' l'antenato di quella panacea di tutti i mali che qualche secolo dopo assumerà il nome di teriaca o triaca. Le piante tossiche sono invece le protagoniste della prima parte di Alexipharmaca, seguite da animali e sostanze minerali che causano avvelenamento per ingestione. Nicandro tratta nell'ordine aconito, coriandolo (che oggi non consideriamo affatto tossico, mentre egli lo accusa di provocare la follia), cicuta, colchico, stramonio, giusquiamo, papavero da oppio; di ciascuno descrive puntigliosamente i sintomi dell'avvelenamento, per poi passare a lunghe liste di rimedi specifici. Tra gli ingredienti il più comune è il latte (considerato fino ad epoca recente il più potente degli antiveleni); seguono il vino e l'olio, usati sia come eccipienti sia come emetici. Moltissime sono poi le sostanze vegetali che entrano nelle ricette; e qualcuna per noi è tossica essa stessa: ad esempio, per soccorrere chi ha ingerito lumache di mare vengono prescritti elleboro e resina di scammonia (Convolvolus scammonia), un violento irritante gastro-intestinale; in alternativa, si suggerisce un più mite infuso di malva e latte d'asina. Presso gli antichi, l'opera di Nicandro godette di vasta fama; Plinio la cita molte volte e Dioscoride, pur senza citarla espressamente, ne dipende senza dubbio; poeta prolifico, Nicandro scrisse anche molte altre opere, tutte perdute, tra cui delle Georgiche che potrebbero aver influenzato Virgilio. Le due opere di tossicologia forse si conservarono proprio grazie alla forma in versi, che facilitava la memorizzazione rendendoli popolari tra medici e terapeuti; è possibile che già in epoca antica ne circolassero versioni illustrate, cui potrebbe risalire il magnifico manoscritto bizantino che ce ne ha trasmesso il testo. In epoca moderna, Nicandro non ha goduto di molta fama al di fuori degli ambienti specialistici. Nell'Ottocento, si mise in dubbio che fosse un medico, considerandolo un puro (e incompetente) versificatore dell'opera di Apollodoro; nel Novecento ne è stato rivalutato il valore scientifico, ma per lo più l'attenzione si è spostata sullo sperimentalismo e la qualità poetica. Fiori azzurri e tossine Nicandro entra nella nostra galleria di dedicatari di generi botanici grazie a Michel Andanson, che nel 1763 crea Nicandra; egli non spiega le ragioni della dedica, ma probabilmente pensava alla tossicità di queste piante, una caratteristica piuttosto comune nella loro famiglia, le Solanaceae. A lungo, Nicandra è stato considerato un genere monotipico, limitato alla sudamericana Nicandra physalodes. Si tratta di un'erbacea annuale di origine peruviana che tuttavia è stata introdotta come ornamentale nei giardini, per diffondersi largamente come avventizia nei terreni disturbati di molti paesi, incluso il nostro. E' una bella pianta dalla crescita vigorosa, con grandi foglie lucide dai margini ondulati, fiori campanulati azzurro-lilla con gola bianca, seguiti da frutti anch'essi ornamentali; sono bacche globose ricoperte da una membrana cartacea, simili a quelle degli alchechengi, ma angolate, che persistono a lungo e possono essere usate come decorazioni invernali. La pianta contiene nicandrenoni, composti chimici steroidei del gruppo dei witanolidi (tipici della famiglia Solaneaceae, presenti ad esempio in Solanum belladonna). La sua ingestione provoca lievi intossicazioni e può essere psicotropa; in Australia si sono registrati alcuni casi sospetti di morte di ovini che ne avevano ingerito grandi quantità. Recentissima è la scoperta di due nuove specie: N. john-taykeriana, endemica del Perù settentrionale, pubblicata nel 2007; N. yacheriana, originaria del sud del Perù, pubblicata nel 2010. Qualche approfondimento nella scheda.
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Tra le poche testimonianze che ci sono rimaste della scienza antica, la "Storia naturale" (Naturalis historia) di Plinio il Vecchio nell'Occidente medievale fu l'opera più nota, più trascritta, più letta. Non tanto per il suo valore intrinseco (contiene molte contraddizioni e manca palesemente di spirito critico), né tanto meno per sua originalità (è una compilazione erudita che accosta 20.000 citazioni tratte da oltre 400 fonti), ma proprio perché, resi inaccessibili o perduti i testi originali, in particolare quelli greci, era quasi tutto quello che rimaneva. Ancora venerata all'inizio del Rinascimento (fu tra le primissime opere a stampa, pochi anni dopo la Bibbia di Gutenberg), ben presto perse sempre più il suo appeal, mano a mano che gli studiosi ne denunciavano gli errori, il contenuto libresco non suffragato dall'osservazione diretta, l'assenza di metodo scientifico. Gli studiosi di oggi sono divisi tra chi considera la grande enciclopedia di Plinio una specie di Reader's digest dell'antichità, e chi lo legge come un ambizioso e coerente progetto culturale, apprezzandone anche l'eleganza formale. Per Plumier, che gli dedicò uno dei suoi generi americani, Plinia, Plinio il Vecchio era semplicemente uno dei padri fondatori della botanica, degno di essere ricordato e celebrato. Un martire della scienza Il 24 agosto del 79 d.C. (o il 24 ottobre, se la data tradizionale si deve a un errore), nella sua casa di Capo Miseno l'ammiraglio Gaio Plinio, com'era sua abitudine, stava studiando in un momento di relax, quando la sorella lo avvertì di uno strano fenomeno: in cielo era comparsa una grande nuvola dalla forma simile alla chioma di un pino marittimo. Plinio, oltre che comandante della flotta, era anche uno studioso e pensò che valesse la pena di saperne di più: ordinò immediatamente di approntare una nave per andare a vedere di persona. Ma proprio mentre usciva di casa gli fu consegnata la lettera di un'amica, Rectina, che lo avvisava che la sua villa era minacciata da un'eruzione del Vesuvio e lo scongiurava di accorrere in suo aiuto dal mare, visto che da terra non c'era via di scampo. A questo punto, la passione di studioso cedette al dovere civico; Plinio ordinò di mettere in mare tutte le quadriremi per cercare di mettere in salvo più persone possibile, e si imbarcò egli stesso. Mano a mano che le navi si avvicinavano alla costa Flegrea, erano investite da un pioggia sempre più fitta di ceneri e lapilli, ma, imperturbabile, l'ammiraglio continuava a dettare a uno schiavo le sue osservazioni sull'eruzione. Quando raggiunsero Ercolano, egli dovette constatare che il mare agitato e le pietre incandescenti che si erano riversate sulla costa rendevano impossibile sbarcare. Dopo un attimo d'incertezza, ordinò di fare rotta per Stabia, all'altro capo del golfo, dove si trovava la villa di un altro amico, Pomponiano. Sospinta dal vento, che spirava dal mare verso terra, la flotta raggiunse rapidamente Stabia, dove poté gettare l'ancora. Plinio trovò l'amico al colmo dell'agitazione, con i bagagli già pronti, in attesa che il vento girasse per potersi imbarcare. Egli cercò di tranquillizzarlo anche con l'esempio: prese un bagno, cenò e poi andò tranquillamente a dormire. Era l'unico a riuscirci: la situazione si stava rapidamente deteriorando, la casa traballava per le ripetute scosse di terremoto e il cortile andava riempiendosi di cenere e lapilli. Prima che il vecchio studioso rimanesse imprigionato dallo strato crescente di cenere, fu risvegliato e raggiunse gli altri. Il gruppo era incerto se fosse più sicuro rimanere in casa o uscire, proteggendosi il capo con coperte e cuscini; Plinio consigliò la seconda alternativa e si decise di avvicinarsi alla spiaggia, per verificare se fosse ora possibile mettersi in mare. Era l'alba, ma il cielo era così nero che sembrava ancora notte. Il mare squassato dalla tempesta imponeva di attendere ancora. Sempre imperturbabile, Plinio fece stendere a terra un lenzuolo e si sdraiò. Le fiamme che cadevano e un pronunciato odore di zolfo convinsero tutti che era meglio fuggire; due schiavi aiutarono ad alzarsi Plinio che quasi subito ricadde a terra. Era morto soffocato da vapori tossici. Questa fu, secondo il racconto del nipote e figlio adottivo Plinio il Giovane, la morte di Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio, uomo politico e scrittore romano. Tragica e improvvisa, gli impedì di rivedere il suo capolavoro, Naturalis historia, ovvero la Storia naturale. Una enciclopedia della natura Non solo le sue ultime ore, ma tutta la vita di Plinio il Vecchio fu divisa tra l'impegno pubblico e lo studio. Come militare servì in Germania, in Gallia, in Spagna. Sotto Vespasiano, di cui era amico, fu procuratore in Gallia e in Spagna e esercitò vari incarichi a Roma; al momento della morte, come abbiamo visto, era prefectus classis Misenensis, ovvero ammiraglio della flotta di Miseno, il cui compito principale era combattere la pirateria. Per un profilo biografico, si rimanda alla sezione biografie. A questi incarichi ufficiali dedicava il giorno; ma ogni momento di riposo e la notte erano occupati dallo studio. Uomo dalle conoscenze enciclopedie, Plinio il vecchio scrisse di argomenti tanto vari come l'arte di lanciare un giavellotto da cavallo, la storia delle guerre romane in Germania, l'oratoria, i dubbi grammaticali, la storia contemporanea. Tutte queste opere sono andate perdute, ci rimane solo l'ultima, appunto Naturalis historia, una vastissima enciclopedia sul mondo della natura che, basandosi sugli appunti che andava prendendo da tempo, l'infaticabile erudito scrisse negli ultimi tre anni di vita. Così come si è giunta, comprende 37 libri, suddivisi in dieci volumi, ed è una delle opere più vaste dell'antichità classica a noi pervenute. L'obiettivo di Plinio era tracciare un quadro onnicomprensivo "della natura, ovvero, in altre parole, della vita". Il suo lavoro non si basò su un'indagine diretta e indipendente del mondo naturale (anche se in qualche raro caso si avvalse di osservazioni personali), ma sulle notizie attinte da una miriade di fonti; nella prefazione egli vanta di avervi inserito 20.000 citazioni, tratte da 2000 libri di 100 autori selezionati. Gli studiosi moderni ne hanno individuati circa 400, 146 romani e 327 greci. Dopo un primo libro occupato dalla prefazione, Plinio inizia la sua trattazione del mondo naturale dal cielo, con l'astronomia e la meteorologia (libro 2); passa alla terra, con la geografia e i suoi popoli (3-6); è quindi la volta della vita animale, a cominciare dall'uomo, vertice della creazione, di cui tratta l'antropologia e la fisiologia (7); poi gli animali: mammiferi, serpenti, animali marini, uccelli e insetti (7-11); a occupare il centro, le piante con la botanica, l'agricoltura, l'orticultura (12-27); a cavallo tra il mondo organico e quello inorganico, la farmacologia, la magia, le acque e la vita acquatica (28-32); infine i minerali, con un ampio excursus sul loro uso nella pittura e la scultura e sulle pietre preziose (33-37). Alieno da ogni speculazione, l'atteggiamento di Plinio è quello di un uomo pratico, che guarda alla natura essenzialmente dal punto di vista dell'utilità per gli esseri umani; egli è però anche un erudito, un curiosus, sempre pronto a farsi affascinare dal multiforme mondo naturale, fino a dare credito a miti e leggende (Cuvier lo accusò di avere una particolare propensione per le storie fantastiche). Ho già detto che la botanica ha grande spazio nella Naturalis historia. Anche se la sua fonte principale è Teofrasto (seguito da Giuba di Mauretania), Plinio non ha nessun interesse per una "botanica generale" come quella delineata dal filosofo greco; guarda alle piante da una parte con spirito pratico, per l'uso che se ne può fare per ricavarne alimenti, fibre tessili, tinture, medicamenti, spezie, ornamenti, dall'altro con ammirato stupore per la loro infinita varietà. La sua esposizione è ricca di indicazioni concrete, ma anche di aneddoti più o meno curiosi, spesso introdotti dalla formula "molti dicono che...". In Naturalis historia sono descritte circa 800 piante. La trattazione inizia con gli alberi esotici e le spezie (libri 12-13), da una parte affascinanti per l'alone di mistero che li circonda e la preziosità, dall'altra prova tangibile della grandezza dell'Impero romano che domina su molte lontanissime terre. E' poi la volta delle principali colture mediterranee: la vite e la produzione del vino (14), l'olivo e gli alberi da frutto (15). Seguono gli alberi selvatici (16) e l'arboricoltura (17). La trattazione delle piante erbacee inizia con i cereali (17), seguiti dal calendario agricolo (18) e dagli ortaggi (19), i cui usi medicinali sono trattati nel libro successivo (20). Si passa poi alle piante ornamentali, in particolare quelle usate per fare ghirlande (21; l'argomento era stato trattato anche da Teofrasto, ed era importante per gli antichi, che usavano ghirlande nelle cerimonie pubbliche, nei templi, ma anche in banchetti e ogni occasione festosa o luttuosa). Il focus dell'ultima sezione è l'uso medicinale delle piante: le medicine tratte da vite, olivo e alberi da frutto (23) e dagli alberi spontanei (24), quindi l'ampia trattazione delle erbe officinali (25-27), esposte in ordine alfabetico. Sappiamo dalle sue lettere che Plinio era anche un appassionato di giardini, e infatti le piante ornamentali ricevono nella sua opera un'attenzione che non trova riscontro in nessun altro autore antico. Nella villa di Laurentum aveva fatto piantare in cerchio dei platani, sui cui tronchi si arrampicava l'edera, che poi formava dei festoni che collegavano un albero all'altro. Dietro c'era una siepe di allori e al centro un prato con bossi e diversi arbusti potati alcuni a formare il nome del proprietario, altri a obelisco; c'erano anche piante da frutto e acanti. Non mancava una pergola di vite. Storia di un longseller Perdute o inaccessibili quasi tutte le fonti originarie cui Plinio aveva attinto, la Naturalis historia nei secoli del Medioevo assurse a quasi unica testimonianza della scienza naturale degli antichi. Lo dimostra il numero eccezionale di manoscritti (anche se molti sono parziali e spesso corrotti) che ce ne tramandano il testo: circa 200. Il migliore tra i più antichi è il codice di Bamberg, che però contiene solo i libri 32-37 (che, con il loro excursus sull'arte, sono ritenuti da molti studiosi i più significativi). Inoltre, già a partire dal III secolo incominciarono a circolare diversi, più maneggevoli, compendi. Nei secoli dell'età di mezzo Plinio è un autore di riferimento, un'auctoritas, consultato, copiato, venerato. Vi attingono tra tanti altri Isidoro di Siviglia (560 ca-636) per le sue etimologie, il venerabile Beda (673 ca-735) per la meteorologia e le gemme, Vincenzo di Beauvais (1190-1264), che prende a modello il testo pliniano per il suo Speculum maius, Boccaccio le sue opere erudite. Del resto, il Medioevo ritrova in Plinio due tratti del proprio modello culturale: l'enciclopedismo e l'attrazione per il fantastico. Nel Quattrocento gli umanisti sono impegnati nell'immane compito di emendare il testo dagli errori dei copisti. Riscontrano molti errori, ma sono inclini ad attribuirli ai copisti. Nel 1469, appena tredici anni dopo la Bibbia di Gunteberg, viene impressa a Venezia dai fratelli Giovanni e Vindelino da Spira la prima edizione a stampa. Entro il 1500 se ne contano 15 edizioni. Arrivano prestissimo anche le traduzioni in lingua moderna: la prima si deve a Cristoforo Landino ed esce sempre a Venezia nel 1489. Ma i tempi stanno cambiando e gli studiosi iniziano a guardare al testo pliniano in modo sempre più critico. Il primo attacco arriva dal medico Niccolò Leoniceno in una lettera a Poliziano del 1492, poi ampliato nel 1509 in De Erroribus Plinii ("Sugli errori di Plinio"), in cui contrappone Plinio a Teofrasto e Dioscoride e ne denuncia la mancanza di metodo scientifico e di conoscenze mediche; giunge addirittura a raccomandare ai propri colleghi di non fidarsi troppo di quel testo, pena gravissimi danni per i pazienti. Anche se a difendere Plinio si fanno immediatamente sentire molti dotti umanisti, tra cui spicca Pandolfo Collenuccio con la sua Defensa Plini, l'attacco di Leoniceno è significativo di una nuova mentalità che al sapere libresco e al prestigio degli auctores contrappone la costruzione del sapere attraverso l'indagine, l'esperienza e la verifica dei fatti. Ovviamente l'influenza di Plinio non cessa dall'oggi al domani. Così, Gessner si ispira all'impianto di Naturalis historia per le sue altrettanto enciclopediche Historia plantarum e Historia animalium; nei Discorsi Mattioli lo cita quasi ad ogni pagina; Filippo Melantone lo preferisce a Aristotele per le sue lezioni di storia naturale; Francisco Hernandez lo traduce in spagnolo con scrupolo di filologo e sapienza di medico. Ma le critiche di Leoniceno hanno lasciato il segno: il suo allievo Euricius Cordus esorta i suoi studenti a cercare la verità nella natura piuttosto che nei libri; sulla stessa linea si schierano Melchiorre Guilandino e Jacques Dalechamps (1513-88) che nella prefazione al suo importante commento a Naturalis historia, contro la tradizione filologica, difende il suo approccio che mette in primo piano la comprensione dei fatti: "Io penso che la conoscenza del significato interiore delle cose è molto più importante per i sapienti che il vigore dell'espressione e la bellezza eloquente". Nell'età dei lumi la mancanza di spirito critico di Plinio attira gli strali degli studiosi, ma allo stesso tempo l'ambizione enciclopedica non manca di esercitare il suo fascino, tanto che Buffon lo prende a modello fin dal titolo per la sua opera principale, l’Histoire naturelle, générale et particulière, avec la description du Cabinet du Roy; si guadagnerà così il soprannome di "Plinio di Montbard". Nell'Ottocento uno dei giudizi più drastici si deve a Cuvier che lo definisce "un autore senza spirito critico che, dopo aver passato molto tempo a fare estratti, li ha allineati insieme a riflessioni che non hanno nulla a che fare con la scienza propriamente detta, ma alternano le credenze più superstiziose alle lamentazioni di una filosofia pessimistica che non smette di accusare l'uomo, la natura e gli stessi dei". Il Novecento ha cercato di restituire a Plinio soprattutto la sua dimensione storica, valorizzandone l'importanza documentaria e leggendolo come monumento alla grandezza imperiale di Roma. Tra gli estimatori, troviamo Italo Calvino, che ne ammira soprattutto le pagine sull'astronomia nelle quali a suo parere "Plinio dimostra di poter essere qualcosa di più del compilatore dal gusto immaginoso che si dice di solito, e si rivela uno scrittore che possiede quella che sarà la principale dote della grande prosa scientifica: rendere con nitida evidenza il ragionamento più complesso traendone un senso d’armonia e di bellezza". Una scorpacciata di frutti di Plinia Lontano dall'ammirazione senza riserve quanto dalle critiche demolitrici è il giudizio di padre Plumier, che dedicò a Plinio uno dei suoi nuovi generi americani, con queste equilibrate parole: "Caio Plinio Secondo veronese [in realtà, era comasco] ebbe tanto a cuore la botanica che nella sua Storia del mondo, dedicata all'imperatore Vespasiano o Tito, come altri preferiscono, nei libri da dodici a ventisette (secondo la divisione di Gessner) trattò le piante sotto ogni punto di vista: filosofico, storico, medico, agricolo, ecc. Morì durante l'eruzione del Vesuvio, quando era ammiraglio della flotta di Miseno". Istituito da Plumier nel 1703, il genere Plinia fu confermato da Linneo in Species Plantarum (1753); appartenente alla famiglia Myrtaceae, comprende alberi e arbusti diffusi dalle Antille e dall'America centrale al Brasile. Come altri esponenti neotropicali di questa famiglia, pone notevoli problemi di classificazione. Appartenente alla sottotribù Myrtinae della sottofamiglia Myrtoideae, forma un gruppo con gli affini Siphoneugena e Myrciaria in cui i confini tra generi e specie non sono sempre facili da determinare. Dunque, studiosi diversi gli assegnano un numero variabile di specie, da 40 a 75. Le principali caratteristiche distintive sono l'embrione con i due cotiledoni omogenei e totalmente separati, le foglie intere con nervatura centrale e nervature secondarie a spina di pesce profondamente incise, il calice deciduo che lascia una cicatrice simile a un ombelico sul frutto; in alcune specie, a colpire l'osservatore sono soprattutto i fiori che nascono direttamente sul tronco, seguiti dai frutti, così numerosi che talvolta possono coprirlo quasi interamente. La specie più nota è P. cauliflora, un albero nativo degli stati brasiliani di Minas Gerais, Goiás e São Paulo, dove è nota come jabuticaba (nome che condivide con altre specie, oggi assegnate al genere Myrciaria). In natura, fiorisce e fruttifica una o due volte l'anno, ma in coltivazione, con l'irrigazione adeguata, può produrre frutti freschi in continuazione. Simili nell'aspetto e nel gusto a acini d'uva nera, i frutti di jabuticaba sono estremamente apprezzati in Brasile (dove questo albero è considerato un simbolo nazionale, tanto che scherzosamente si dice "Se esiste solo in Brasile e non è jabuticaba, attento: non è buono"). Dolci ma con bassa acidità, vanno consumati rapidamente; si prestano alla preparazione di gelatine, marmellate e bevande fermentate. Poiché si deteriorano in fretta e non sono facili da coltivare in altri climi, sono poco noti al di fuori del Brasile; tuttavia ne esiste una piccola produzione in Sicilia. Eduli sono anche i frutti di P. edulis, un albero delle foreste costiere del Brasile, anch'essi prodotti , direttamente sul tronco; anziché neri, sono giallo-aranciati, con un gusto dolce-acido a metà tra quello della papaia e quello del mango sono noti come cambucà, mentre l'albero è detto cambucabeiro. Qualche approfondimento nella scheda. A fare da sfondo alla nostra storia è un braccio di ferro diplomatico, fatto di mosse e contromosse, una guerra di spie che per quasi un secolo contrappose l'orso russo e il leone britannico. E' il Grande gioco, che ragazzini abbiamo imparato a conoscere dalle pagine del romanzo di Kiplig Kim. Tra le prime pedine di quel gioco, a muoversi sulla scacchiera del torneo delle ombre, come lo chiamarono i russi, sono due agenti britannici e un generale russo spericolato, ovvero il nostro protagonista, Vassilij Perovskij. Come protettore delle scienze (ma gli scienziati che lavoravano per lui erano anche, a tutti gli effetti, addestratissime spie), si è guadagnato il genere Perovskia, che dopo un giallo durato dieci anni torna a recuperare il suo nome, mentre non ha mai spesso di donarci le sue azzurrissime fioriture. Inizia il Grande gioco A partire dagli anni '20 dell'Ottocento, e poi per tutto il secolo, Gran Bretagna e Impero russo furono divisi da una sorda rivalità per l'egemonia sul Medio Oriente e l'Asia centrale. Combattuta, più che sul piano miliare, su quello diplomatico, con un ruolo importantissimo dello spionaggio, fu come una sottile partita a scacchi, fatta di mosse e contromosse: gli inglesi la chiamarono the Great Game, il "Grande gioco", i russi Turniry tenej, il "Torneo delle ombre". Uno dei primi atti di quella partita fantasmatica fu la crisi di Khiva. Situato nell'attuale Uzbekistan, Khiva, insieme a Bukhara, Kazakh e Kokand, era uno dei khanati indipendenti dell'Asia centrale. La Russia aspirava ad annetterli al proprio impero, la Gran Bretagna voleva a tutti i costi preservarne l'indipendenza, convinta che la conquista di quei territori avrebbe fornito allo zar una testa di ponte verso l'Afghanistan, da dove avrebbe potuto minacciare direttamente gli interessi inglesi in India. Posto in posizione strategica tra mar Caspio, Mare d'Aral e bacino dell'Amu Daria, il khanato di Khiva sollecitava la cupidigia russa per ragioni geopolitiche, ma anche economiche: vi veniva prodotto un cotone di ottima qualità, reso tuttavia costoso dal lungo viaggio attraverso le steppe kazake. Inoltre i russi mal tolleravano l'aggressività del khanato, che si rivolgeva sia contro gli altri staterelli dell'area, sia contro la Russia, con la devastazione dei villaggi di frontiera e la cattura di un numero crescente di russi, poi venduti come schiavi. La questione degli schiavi russi offriva allo zar il migliore dei casus belli. Se ne rese perfettamente conto il Foreign Office, che mise in moto il Grande gioco per cercare di eliminare un pretesto tanto perfetto. Su ordine dell'agente britannico in Afghanistan, la vigilia di Natale del 1839, il capitano James Abbott, travestito da afgano, lasciava Herat per raggiungere Khiva, dove giunse alla fine del gennaio 1840. Nonostante i sospetti sulla sua identità, riuscì ad ottenere un'udienza dal khan Quli Bahadur e a convincerlo ad affidargli una lettera per lo zar sulla questione degli schiavi. Tuttavia, mentre tentava di raggiungere Fort Aleksandrovsk in Russia, egli fu tradito dalla guida, derubato, sequestrato, e rilasciato solo mesi dopo, quando i banditi ebbero capito con chi avevano a che fare. Nel frattempo, non avendo sue notizie, i suoi superiori avevano inviato a Khiva un secondo agente, il luogotenente Richmond Shakespear, che, molto più abile o fortunato di Abbott, riuscì a convincere il khan a liberare tutti i cittadini russi sotto il suo controllo e a introdurre la pena di morte per chi continuasse a possedere schiavi russi. Il 15 agosto 1840 Shakespear raggiunse Fort Aleksandrovsk in compagnia di un contingente di russi liberati dalla schiavitù. Il pretesto era stato eliminato, ma troppo tardi: la mossa britannica era stata anticipata da quella russa. Infatti, come Londra sospettava, a San Pietroburgo era già stata scelta l'opzione militare. Fin dal marzo 1839, lo zar aveva ordinato un attacco a Khiva, con l'obiettivo non di annettere il khanato, ma di deporre il khan ostile per sostituirlo con un fantoccio manovrato dalla Russia. A giugno, due reggimenti furono inviati sul fiume Emba, dove venne anche costruito in forte che avrebbe costituito una testa di ponte per il grosso della spedizione; quest'ultima sarebbe partita da Orenburg, situata circa 1500 km a nord di Khiva, per raggiungere la quale era necessaria una lunga marcia attraversando le steppe kazake. Scartata la torrida estate, si decise di far muovere le truppe d'inverno, una stagione solitamente non troppo inclemente in quella regione, che offriva il vantaggio di porre meno problemi di approvvigionamento dell'acqua. Quanto al cibo e al foraggio, i russi avrebbero dovuto portarli con sé in ogni caso. La spedizione partì infine da Orenburg il 16 novembre 1839; comprendeva 3000 effettivi, 2000 ausiliari, 10000 cammelli, 2000 cavalli e migliaia di carri con le vettovaglie, cui vanno aggiunti un numero imprecisato di cammellieri e carrettieri reclutati più o meno a forza tra la popolazione locale. A comandarla, il protagonista della nostra storia, il generale Vasilij Aleksejevič Perovskij. Va detto subito che l'impresa si rivelò un disastro: l'inverno giunse prima del previsto e fu caratterizzato da nevicate e freddo eccezionali. I soldati russi, proprio come era successo a Napoleone nella campagna di Russia qualche anno prima, dovettero fare i conti con il generale inverno. A decimarli non furono le truppe nemiche (non ci fu nemmeno una battaglia), ma la neve, la fame, il freddo, lo scorbuto. All'inizio di febbraio (negli stessi giorni in cui Abbott cercava faticosamente di convincere il khan), Perovskij dava l'ordine di rientrare. A maggio quanto rimaneva del suo distaccamento faceva ritorno a Orenburg, dopo aver perso almeno 1000 uomini e quasi tutti i cammelli. Fu così che nella partita del Grande gioco il primo tempo se lo aggiudicò la Gran Bretagna. Per annettersi Khiva, la Russia dovette attendere fino al 1873. Un generale spericolato E' ora di concentrarci sul nostro protagonista, il generale Perovskij. La sua vita sembra uscita da un romanzo, di quelli che scriveva suo nipote Aleksej Tolstoj, per non parlare del più illustre cugino di questi, Lev Tolstoj. Era uno degli undici figli nati dalla relazione extraconiugale tra il conte Aleksej Razumovskij, ministro dell'Educazione nazionale, e Maria Sobolevsakaja, una donna colta con fama di filosofa. Non potendo trasmettere loro il proprio cognome, il padre li aveva chiamati Perovskij, nome tratto da una delle tenute di famiglia, Perovo. Ammessi alla nobiltà dagli zar che successivamente servirono, alcuni dei fratelli Perovskij furono personaggi di primo piano della vita russa: Lev fu ministro dell'interno, Aleksei un notevole scrittore (con lo pseudonimo Anton Pogorelskij); una delle sorelle, Anna, sposò il conte Konstantin Tolstoj, da cui ebbe il famoso scrittore Aleksej Tolstoj. Come i fratelli, anche il nostro Vasilij ebbe un'ottima istruzione; iniziò la carriera militare a sedici anni con il grado di capocolonna. Era un giovane ufficiale dalle abitudini eccentriche, come quella di non separarsi mai dalla sua pistola; spesso infilava un dito nella canna e camminava con la pistola carica appesa al dito; una volta accidentalmente partì un colpo, strappandogli una falange. Da quel momento, Perovskij prese a indossare un ditale d'oro, da cui pendeva un occhialino. Nel 1812 (all'epoca aveva solo 17 anni) venne fatto prigioniero dei francesi nel corso della battaglia di Borodino; le sue vicissitudini avrebbero ispirato le avventure di Pierre Bezuchov in Guerra e pace. Liberato, riprese la carriera militare; inizialmente fu attratto dai decabristi, ma poi si legò sempre più all'imperatore Nicola I, che lo nominò aiutante di campo. Il 14 dicembre 1825, in piazza del Senato, mentre difendeva l'imperatore dalla folla inferocita, fu colpito alla schiena da un tronco. Nominato maggiore generale, poi aiutante generale, si distinse nella guerra russo-turca del 1828-29; si racconta che quando una bomba cadde di fronte a lui e a un gruppo di ufficiali, disse semplicemente "Appoggiati", e, appoggiatosi alla montagna, attese con calma lo scoppio, senza fare troppo caso alle schegge che piovevano da ogni parte. In quella guerra fu ferito gravemente e dovette rinunciare al servizio attivo, anche se continuò a servire lo zar come direttore della cancelleria del quartier generale della marina. Nel 1833, con il grado di tenente generale, fu nominato governatore militare di Orenburg, una posizione chiave, come già si sarà capito, per la penetrazione russa in Asia centrale. Oltre a capeggiare la sfortunata spedizione a Khiva, represse con il pugno di ferro le rivolte dei Baschiri e promosse l'esplorazione del territorio, guadagnandosi anche la fama di protettore della scienza. Intendiamoci: Perovskij era sicuramente un uomo colto, ma per lui, come per il sovrano che serviva, le spedizioni scientifiche erano un tassello del controllo economico e militare di un'area ancora ben poco conosciuta e malamente documentata dalle carte, nonché una premessa indispensabile per ogni ulteriore espansione. Tra gli studiosi protetti di Perovskij, il più noto è senza dubbio l'etnologo e lessicografo Vladimir Dal' (1801-1872), che in precedenza era stato militare e arrivò a Orenburg come funzionario del Ministero degli Interni con "incarichi speciali". Negli otto anni (1833-1841) in cui collaborò con Perovskij, visitò in lungo e in largo la regione, raccogliendo testimonianze linguistiche, materiali folclorici e ampie collezioni di animali e piante. Le sue erano spedizioni geografiche e scientifiche, ma anche missioni più o meno spionistiche in un territorio spesso ostile dove la presenza militare diretta non era consigliabile. Non a caso, Perovskij lo volle con sé nella spedizione di Khiva; il suo compito principale avrebbe dovuto essere mappare un territorio per il quale esistevano solo carte molto imprecise, verificando se c'era un collegamento tra il mar Caspio e il mare d'Aral e se era possibile individuare o anche realizzare vie d'acqua navigabili, attraverso le quali il cotone uzbeko potesse raggiungere la Russia in modo più rapido ed economico. Il disastro dell'operazione militare lasciò questi obiettivi allo stadio di progetti. Quanto a Perovskij, dopo il fallimento della spedizione a Khiva, fu momentaneamente richiamato, ma rimase nelle grazie dello zar, tanto da diventare membro del Consiglio di Stato. L'insuccesso non aveva comunque messo fine alle ambizioni russe, che tentarono una strategia diversa. A partire dal 1847, vennero costruite due piazzeforti sul lago d'Aral, a Raymsk e Kazalinsk, provocando le reazioni dei canati di Khiva e Kokand. In questo nuovo quadro, l'esperienza di Perovskij tornava utile; fu così che nel 1851 ritornò a Orenburg, nelle vesti di governatore generale delle province di Orenburg e Samara. Durante il suo secondo mandato iniziò l'esplorazione del bacino del Syr e del lago di Aral, per mezzo di imbarcazioni costruite a Orenburg o giunte dall'estero, smontate e trasportate pezzo per pezzo fino all'Aral a dorso di cammello. Nel 1853 si prese la soddisfazione di prendere la fortezza di Ak-Mecet, ribattezzata in suo onore Perovsk; riuscì poi a negoziare un trattato favorevole con il suo vecchio nemico, il khan di Khiva. Poco dopo si ritirò per ragioni di salute. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Il giallo del genere Perovskia L'intreccio tra esplorazione geografica, spedizioni scientifiche, spionaggio ed espansione militare è ben visibile anche nella biografia di un altro protetto di Perovskij, il naturalista Grigorij Karelin, che visitò il governatorato di Orenburg più volte e fu ospite del generale durante il suo primo mandato. Precedentemente aveva partecipato all'esplorazione del bacino del Caspio, con un ruolo a metà tra il geografo-naturalista e la spia; del resto in origine egli era un funzionario del Dipartimento asiatico del Ministero degli esteri. Insomma un'altra pedina del Grande gioco, un collega dei britannici Abbott e Shakespear. Si deve proprio a Karelin se Perovskij è entrato nell'olimpo dei dedicatari di un genere botanico. Fu lui nel 1841 a intitolargli Perovskia, con la seguente motivazione: "Ho dedicato questo genere in onore di V.A. Perovskij, uomo molto illustre, fautore delle scienze, governatore militare della provincia di Orenburg". Il genere Perovskia, della famiglia Lamiaceae, comprende nove specie (più un ibrido) di suffrutici a foglia caduca originari di zone aride e rocciose dell'Asia centrale, con qualche propaggine in Iran e nell'Himalaya occidentale (ovvero, molto opportunamente, il territorio dove si giocarono le principali partite del Grande gioco). Per i botanici però è stato anche il protagonista di un'altra più incruenta partita, che ha rischiato di cancellarlo dalla tassonomia (o per lo meno, di ridurlo al rango di sinonimo). Nel 2004 un'équipe di studiosi statunitensi e messicani pubblicò uno studio che destò grande scalpore: poiché tutte le evidenze dimostravano che l'importantissimo genere Salvia era polifiletico (dunque artificiale), per risolvere il problema proposero di allargarne i confini, includendo cinque piccoli generi minori che vi risultavano annidati, due dei quali molto importanti per giardinieri e coltivatori: appunto Perovskia e Rosmarinus. In forza di questa proposta, che fu largamente accettata, Perovskia atriplicifolia diventava Salvia jangii e (ahi dolore!) Rosmarinus officinalis si trasformava in Salvia rosmarinus. Anche se questa è ancora la situazione registrata in molte fonti, incluso Plants of the World on line, il quadro da allora è ulteriormente cambiato. Nel 2012 tre ricercatrici dell'Università di Mainz pubblicarono un articolo in cui sostenevano che la proposta di un grande genere Salvia andava rigettata; semplificando e sintetizzando, facevano notare che se Perovskia e Rosmarinus erano davvero annidate nel gruppo (clade) di Salvia cui erano stati assegnati, avrebbero dovuto essere più recenti delle altre specie dello stesso gruppo, mentre risultava vero il contrario. Sarebbe stato più opportuno, concludevano, ripristinare i generi satelliti e dividere ulteriormente Salvia. Le ricerche sono continuate e hanno confermato questa linea; in un articolo del 2017 altri ricercatori tedeschi affermano tranquillamente "E' ora di dividere Salvia" e propongono di suddividerlo in sei generi, due dei quali sono appunto Perovskia e Rosmarinus. Negli anni in cui i tassonomisti così dibattevano, complice il riscaldamento globale, almeno una specie di Perovskia, appunto P. atriplicifolia, diventava una star dei giardini di fine estate. E' un grande arbusto eretto (anche se, senza sostegni, tende ad afflosciarsi) con fusti e foglie quasi argentei che tra fine estate e inizio autunno si ricopre letteralmente di spighe di fiori azzurri, richiamo irresistibile per api e farfalle. Estremamente rustica, resistente alla siccità, di abitudini parche, è a suo agio nelle aiuole assolate anche con suolo povero, Del resto arriva dalle steppe e dagli altopiani dell'Afganistan, del Pakistan e dell'Himalaya occidentale, anche se è per lo più nota come "salvia russa". Qualche informazione in più sulle sue numerose cultivar e sulle altre specie nella scheda. Generale tra i più celebri per l'abilità strategica e la capacità di cogliere con rapidità le occasioni, il principe Eugenio di Savoia nella sua vita collezionò vittorie, incarichi diplomatici, libri, opere d'arte, palazzi... e giardini. Perfettamente restaurati possiamo ancora ammirare i due più belli, quello del Belvedere a Vienna, considerato uno dei più perfetti esempi di giardino barocco, e quello di Hof, quasi al confine con l'Ungheria, le cui sette terrazze, a quanto si dice, ispirarono il progetto di Monticello, il giardino di Thomas Jefferson. A questo grande personaggio Linneo dedicò l'importante genere Eugenia; il botanico piemontese Casaretto raddoppiò l'omaggio con Cariniana, cui appartengono i giganti della flora brasiliana. In modo indiretto, lo ricordano anche Siphoneugena e Myrceugenia, due tra i numerosi generi di "eugenie" sudamericane. Un grande generale e i suoi giardini Nel 1706, il Piemonte e la loro capitale Torino vivono un momento tragico. Al momento dello scoppio della Guerra di successione spagnola, temendo di essere schiacciato dalla potenza francese, che ora controlla anche la Lombardia, il duca Vittorio Amedeo II rompe l’ambigua alleanza con la Francia e si schiera a fianco dell’Impero e dell’Inghilterra. La vendetta del Re Sole non si fa aspettare: lo stato sabaudo è devastato e nel giungo 1706 Torino viene cinta d’assedio. Decisivo per le sorti della città e del Piemonte sarà l’intervento dell’armata di soccorso imperiale, guidata da un lontano cugino del duca, il principe Eugenio di Savoia Carignano (1663-1736). Sotto il suo abile comando, il 7 settembre le forze austro-piemontesi sbaragliano i francesi e liberano la città. Il duca si guadagna così il titolo regio (giunto nel 1713, con la pace di Utrecht), il principe Eugenio aggiunge un’altra pagina alla sua gloria militare. Eugenio di Savoia (una sintesi della sua vita nella sezione biografie) è una figura quasi leggendaria. Entrato in giovane età al servizio degli Asburgo, fu uno dei più grandi generali del suo tempo, anzi di ogni tempo, a sentire Napoleone e Federico II di Prussia, che si proclamava suo allievo, celebre per l'audacia, la prontezza di riflessi, l'abilità nello sfruttare le occasioni. Oltre alla battaglia di Torino, tra i suoi allori la partecipazione alla battaglia di Vienna del 1683 e alle guerre contro i Turchi che ne seguirono; il contributo alla vittoria di Mohács (1687); la battaglia di Zenta (1697), in cui distrusse l'esercito ottomano e aprì le porte dell'Ungheria all'Impero; le campagne contro i turchi che portarono alla liberazione di Banato, Serbia, Valacchia sancita dalla pace di Passarowitz (1718). Grazie a lui, i territori asburgici aumentarono di due terzi la loro estensione, l'Austria divenne (anche se per poco) la maggiore potenza militare del continente, acquisì il controllo dell'Ungheria e dei Balcani settentrionali e subentrò alla Spagna come potenza egemone in Italia. L'aura mitica del personaggio è sottolineata anche dai tanti soprannomi che si guadagnò: Marte senza Venere (non si sposò mai); der edle Ritter, il “nobile cavaliere” e roi des hônnetes gens "re delle persone oneste" per l'alta moralità e il senso dell'onore che lo contraddistinse; per i britannici, insieme al duca di Marlborough con cui condivise tante vittorie durante la guerra di successione spagnola, prima fra tutte quella di Blenheim (1704), è uno dei Dioscuri della vittoria. Ma non fu né come generale vittorioso, né come abile diplomatico (negoziatore, tra l'altro, della pace di Reistadt) che Linneo volle celebrarlo con la dedica del notevole genere Eugenia, quanto come collezionista e protettore delle scienze e delle arti. Grazie ai tanti successi militari e ai numerosi incarichi affidatigli dai tre imperatori che servì, Eugenio era divenuto un dei principi più ricchi d'Europa. Colto e di gusti raffinati, utilizzò quell'ingente patrimonio per farsi costruire una serie di magnifiche residenze, incoraggiando a lavorare per lui architetti, pittori, scultori. Bibliofilo, raccolse una biblioteca di 15.000 volumi e preziose collezioni d'arte. Educato nella Francia del Re Sole, amava anche i giardini e le piante rare. La più sontuosa delle sue residenze è il palazzo Belvedere, posto su un lieve pendio a sud della città di Vienna. Il complesso comprende due edifici principali, il Belvedere superiore e il Belvedere inferiore, collegati da un giardino disegnato dal francese Dominique Girard, allievo di Le Nôtre, il creatore di Versailles. Oggi inserito nella lista Unesco del Patrimonio dell’umanità, è considerato un perfetto esempio di giardino barocco, di cui riproduce tutte le componenti di prammatica: parterre simmetrici delimitati da siepi formali, fontane, bacini e giochi d’acqua, boschetti, gallerie di verzura, statue di soggetto mitologico e allegorico. Per il proprio godimento personale, il principe volle poi riservarsi un giardino privato (Kammergarten), posto su due livelli terrazzati, che ospitava fontane, padiglioni, parterre con fiori esotici, un piccolo zoo, una voliera e un’orangerie, dotata di tetto apribile, dove venivano coltivate le piante più rare e delicate. Eugenio fu anche il committente di una seconda perla del giardino barocco, quello del castello di Hof, anch'esso progettato da Girard. Poiché l'edificio è posto al vertice di un pendio, Girard pensò a uno scenografico giardino a terrazze (in tutto sette) e sfruttò la pendenza naturale per il funzionamento delle fontane e dei giochi d'acqua. Anche a Hof ritroviamo parterre di bosso dalle linee sinuose, boschetti formali, labirinti, statue, bacini d'acqua. Appassionato di piante rare, che faceva coltivare nelle serre dei suoi giardini, Eugenio incoraggiò gli studi botanici e viene spesso considerato all'origine dello stesso Orto botanico di Vienna, creato qualche decennio dopo la sua morte proprio su un terreno adiacente al Belvedere. Eugenia, un genere bello e... appetitoso Come ho già anticipato, fu Linneo a creare in onore del glorioso principe il genere Eugenia. Appartenente alla famiglia Myrtaceae, con le sue oltre 1100 specie è uno dei più vasti della sua famiglia. Dopo complesse vicende tassonomiche, gli sono oggi assegnate in prevalenza specie americane, dai Caraibi al Brasile e al Cile, cui si aggiungono una sessantina di specie dell'Africa (incluso Madagascar e Mauritius) e altrettante dell'area asio-pacifica, in particolare in Nuova Caledonia. Molte specie del vecchio mondo sono state trasferite nel genere Syzygium (anch'esso enorme, con 1200-1800 specie). Tra di esse anche Syzygium aromaticum, l'albero dai cui si ricavano i chiodi di garofano, un tempo Eugenia caryophyllata, nonché la pianta più comunemente commercializzata come Eugenia: il cosiddetto mirto cinese, Syzygium buxifolium, precedentemente Eugenia sinensis o E. microphylla. Eugenia comprende alberi e arbusti sempreverdi che nelle foreste pluviali dell'America tropicale possono essere la specie dominante nella formazione detta mirtisilva; in Brasile è il genere più ricco di specie, molte delle quali vivono nelle foreste costiere della Mata Atlantica, nel sudest del paese. Molte specie hanno frutti eduli. La più nota è probabilmente E. uniflora, conosciuta come pitanga, ciliegia del Suriname, ciliegia del Brasile, nativa del Suriname e del Brasile, ma presente anche in parti di Argentina, Paraguay e Uruguay, E' un piccolo albero o arbusto con foglie dall'odore pungente e aromatico e frutti aciduli, rossi a maturazione, simili a una ciliegia divisa da profonde nervature in otto segmenti. Con il nome di ciliegia del Rio Grande è invece noto il frutto di E. cerasiflora, nativa della foresta pluviale densa della Mata Atlantica, una bacca ovoidale viola scuro. Della stessa area è originaria E. brasilensis, nota come grumichama o ciliegia del Brasile, un grande albero che può raggiungere i venti metri, anche se solitamente ha dimensioni più contenute, e produce bacche nere dal sapore dolce. E' utilizzata anche nell'arredo urbano ed è una delle poche specie disponibili anche da noi in vivai specializzati. Quale informazione in più nella scheda. Cariniana, il gigante della foresta Dopo Linneo, anche un botanico italiano volle rendere omaggio al principe Eugenio. Si tratta di Giovanni Casaretto, un naturalista piemontese che tra il 1838 e il 1840 partecipò come botanico e mineralogista alla spedizione in Sud America finanziata da Carlo Alberto e dall'Accademia delle scienze di Torino. Nel 1842 onorò il principe Eugenio creando il genere Cariniana, che è anche un sottile omaggio al re di Sardegna, a sua volta appartenente al ramo Savoia-Carignano; e per celebrare questo gigante dell'arte bellica scelse non a caso alcuni degli alberi più alti e imponenti delle foreste tropicali del Sud America. Il loro nome brasiliano, di origine tupi, jequitibá significa proprio "gigante della foresta". Appartenente alla famiglia Lecythidaceae, il genere comprende una decina di specie di alberi sudamericani, per lo più brasiliani, soprattutto in passato sfruttati per la produzione di legname. Alcuni sono veri e propri giganti vegetali, che superano i cinquanta metri d'altezza e svettano sul piano superiore della foresta a galleria. Tra di essi C. legalis, considerato l'albero più alto della flora brasiliana; solitamente è alto attorno ai 30 metri, ma può superare i 60. A Santa Rita do Passa Quatro, nel parco nazionale di Vassununga, Stato di São Paulo, se ne trova un enorme esemplare la cui età è stimata intorno a 3000 anni, oltre ad altri "giovanotti" di 600 anni. Purtroppo è invece morto nel 2000, dopo essere stato incendiato dolosamente, un jequitibá della città mineraria di Carangola nello Stato di Minas Gerais, considerato l'albero più vecchio del Brasile. Un'altra Myrtacea brasiliana: Siphoneugenia Dopo queste dediche dirette, dobbiamo ancora rendere conto di altre due generi che derivano il loro nome dal genere Eugenia e quindi indirettamente dal principe Eugenio. Appartengono entrambi alla famiglia Myrtaceae e furono creati tra il 1855 e il 1856 da Otto Karl Berg che li separò da Eugenia nell'ambito della sua revisione delle Myrtaceae americane. Iniziamo con Siphoneugena, letteramente "Eugenia con il tubo" (il nome si riferisce alla forma tubolare dell'ipanzio, l'involucro a coppa che circonda l'ovario); questo piccolo genere comprende una decina di specie di arbusti e alberi diffusi da Porto Rico all'Argentina settentrionale, con centro di diversità nel Brasile sudorientale, ovvero nella stessa area dove regnano le Eugenie. Sue caratteristiche peculiari i racemi terminali o ascellari con rachide da ridotto o allargato e proprio l'ipanzio che allargandosi a coppa dopo la fioritura lascia una cicatrice circolare sulla parte superiore del frutto. La specie più nota è probabilmente S. densiflora, un alberello semi deciduo con chioma tondeggiante, originario delle foreste a galleria e delle praterie rocciose di montagna ben drenate del Brasile meridionale. Le infiorescenze sono lunghi racemi di piccoli fiori bianchi seguiti da bacche globose, viola scuro, dal gusto dolce, ma astringenti. Altre informazioni nella scheda. Myrceugenia, dal Cile al Brasile Più vasto è il genere Myrceugenia (il cui nome è una fusione tra i generi Myrcia e Eugenia), che comprende una quarantina di specie con interessante aerale disgiunto. Due specie, M. schulzei e M. fernandeziana, costituiscono gli alberi dominanti delle foreste del piano intermedio delle isole dell'arcipelago Juan Fernandez al largo del Cile. Un secondo gruppo con una dozzina di specie vive nel Cile centrale e meridionale e nelle aree adiacenti dell'Argentina; il terzo gruppo, separato dalle sorelle da oltre mille km, si trova negli altopiani del Brasile sudorientale. Secondo gli studiosi, all'inizio del Terziario Myrceugenia dovette essere diffusa in tutto il Sud America; le due popolazioni vennero poi separate nell'Olocene da una serie di eventi climatici e geologici, tra cui il sollevamento della catena delle Ande. Tra le specie cilene, le più studiate, vorrei segnalare la rara M. leptospermoides, un piccolo albero o grande arbusto tipico della flora riparia delle montagne costiere del Cile centrale, dove può godere di umidità costante per la presenza di corsi d'acqua o di nebbia. Ha piccole foglie quasi aghiformi verde-grigiastro e fiori solitari, privi di picciolo, con sei petali candidi e numerosissimi stami. Il frutto è una bacca globosa, prima rossa poi viola. Qualche notizia su altre specie nella scheda. Non più valido è invece un terzo genere separato da Eugenia, Myrceugenella Kausel, oggi sinonimo di Luma A. Gray. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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