Non affrontò viaggi avventurosi; non gli si devono ricerche originali e innovative. Al bavarese Andreas Ernst Etlinger è bastata una tesi di laurea per entrare negli annali della botanica e assicurarsi un genere celebrativo. Ma ha dovuto pazientare duecento anni perché quel tributo fosse riconosciuto. Oggi si fregiano del nome Etlingera piante con magnifiche infiorescenze, tra le più belle del regno di Flora. ![]() Laurearsi con una tesi sulla salvia Oggi le salvie sono di moda; ci sono vivai specializzati nella loro coltivazione, giardini-collezione in cui la fanno da protagoniste, gruppi di discussione in rete. Del resto, il genere Salvia è un piccolo mondo: il più vasto della sua famiglia, conta tra le 700 e le 1000 specie. Fa quasi tenerezza pensare che 240 anni fa, quando gli venne dedicata la prima monografia, se ne conoscessero meno di cinquanta. A scriverla fu Andreas Ernst Eltinger, giovanissimo dottorando tedesco, che nell'estate del 1777 discusse presso l'Università Friedrich-Alexander di Erlangen una tesi di medicina dal titolo De Salvia dissertatio inauguralis. L'operina - conta in tutto 68 pagine - venne stampata e dovette riscuotere un certo successo. Oltre che come curiosità pionieristica, il De Salvia di Etlinger vale come testimonianza di quello che doveva essere il livello medio degli studi botanici nell'ultimo quarto del Settecento in area tedesca: l'ottimo Etlinger, da bravo studente che vuole fare bella figura con il relatore, ha letto diligentemente tutte le pubblicazioni disponibili, è aggiornato (conosce a menadito Linneo e non ignora le più recenti ricerche chimiche), ma allo stesso tempo sfoggia le sue conoscenze classiche e erudite con un'attenta disamina di Teofrasto, Plinio e Dioscoride, inserisce ricette erboristiche e sfata vecchie leggende (come quella che la salvia diventi velenosa se contaminata dai rospi). Oggi la definiremmo una buona tesi compilativa, non basata su ricerche originali ma su una rassegna puntigliosa della letteratura precedente. Del resto, l'autore aveva poco più di vent'anni. Dopo una pomposa introduzione, un inno al rigoglio del mondo vegetale, e alla sua ancella, la piacevolissima scienza della botanica, il libro esordisce con una breve rassegna storica degli studi precedenti sulla salvia: cinque pagine dedicate agli antichi, di cui si discutono (proprio come si faceva nei testi del Cinquecento) denominazioni e attribuzioni, seguite da tre pagine per gli autori di Cinquecento e Seicento, con particolare attenzione a Tournefort, che divise le specie tra tre generi: Salvia, Horminum e Sclarea. Poi, dice Etlinger, "sorse la gloria della Svezia, il cavaliere von Linné, che contrasse in uno solo tutti i generi proposti dai botanici precedenti". Infatti Linneo, e in particolare il suo Species plantarum, sono la fonte principale della parte centrale dell'opera, che contiene, dopo la descrizione dei caratteri generali del genere, la trattazione di 49 specie, raggruppate nei tre gruppi definiti da Tournefort. Per ciascuna specie è fornita la denominazione, gli eventuali sinonimi con i riferimenti bibliografici, l'habitat, la descrizione, le eventuali varietà. La terza e ultima parte è quella propriamente medica, con una discussione delle proprietà farmaceutiche essenzialmente di Salvia officinalis, incluse le ricette di vari preparati. Ma torniamo alla sezione centrale, quella più interessante per noi. La grande maggioranza delle specie è ripresa da Linneo; fanno eccezione tre specie (tuttora valide) pubblicate da Nikolaus Joseph von Jacquin nell'allora recentissimo Hortus Botanicus Vindebonensis, a confermare il buon livello di aggiornamento del nostro dottorando. Il quale, in dieci casi, osa proporre denominazioni proprie; quasi sempre esagerando (sette su dieci sono oggi considerate sinonimi di specie linneane; un peccato veniale, visto che anche ai nostri giorni la grande variabilità di molte specie di salvia mette in imbarazzo i tassonomisti), ma in tre casi vedendoci giusto. De Salvia è così l'atto di battesimo ufficiale di S. barrelieri, S. coccinea, S. tingitana. Due erano già state descritte da autori prelinneani, ma non erano state prese in considerazione dallo svedese. S. barrelieri è una specie della penisola iberica descritta nel Seicento dal domenicano padre Barrelier con il nome di Horminum silvestre maius, cui la denominazione di Etlinger rende giusto omaggio. S. coccinea (oggi una star delle bordure estive) è attribuita a un botanico francese contemporaneo, Pierre-Joseph Buc'hoz, ma non compare in nessuna delle opere a stampa di quest'ultimo; inoltre, anche se si tratta di una specie americana, curiosamente viene indicato come habitat l'Etiopia, da cui - si aggiunge - i semi sarebbero stati portati dal cavaliere scozzese Bruce. Quest'ultimo andrà identificato in James Bruce, che negli anni 1768-1773 esplorò Etiopia e Abissina alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Insomma, qualcuno (Etlinger o Buc'hoz) ha fatto un po' di confusione sulla provenienza di una specie conosciuta presumibilmente attraverso il Jardin des plantes di Parigi, dove S. coccinea, a quanto sembra, fu coltivata per la prima volta in Europa. S. tingitana risale invece a Tournefort, che l'aveva descritta come Sclarea tingitana; il nome specifico dovrebbe richiamare un'origine nordafricana (significa "di Tangeri"), ma in effetti non è presente in natura in quell'area. Probabilmente da identificare con una specie coltivata all'Orto botanico di Padova all'inizio del Seicento e segnalata nei secoli successivi in altri giardini botanici, a lungo si è pensato non esistesse più in natura. Soltanto nel 1989 ne è stata scoperta una popolazione allo stato selvatico in Arabia Saudita. Rimane un mistero come e dove l'avesse conosciuta Tournefort. Per concludere, il dottorando Etlinger nell'agosto 1777 presentò e discusse la sua tesi e divenne dottore. Con orgoglio si affrettò a ristampare il libricino, identico, ma con un altro titolo, Commentatio botanico-medica de salvia, e un nuovo frontespizio con il sospirato doc. med., "dottore in medicina". Dopo di che uscì dagli annali della botanica, per dedicarsi alla carriera medica, fino a diventare medico cittadino della città natale, Kulmbach, in Baviera, dove morì in giovane età di una malattia polmonare. Cenni sulla sua breve vita nella sezione biografie. ![]() Etlingera, un nome ripescato Fu forse proprio la sua morte precoce a spingere un altro botanico tedesco, Paul Dietrich Giseke, a dedicargli un genere di nuova scoperta. Entrambi probabilmente facevano parte dell'ambiente dei linneani tedeschi: come abbiamo visto, Etlinger, pur non risultando contatti diretti con Linneo, ne conosceva bene e ammirava l'opera; Giseke invece fu allievo dello svedese, e corrispondente suo e del figlio Carl jr. Inoltre l'Università di Erlangen, di fondazione recente, era uno dei centri di diffusione del metodo linneano: tra i maestri di Etlinger, il più noto è J.C. D. von Schreber, autore di un importantissima opera sui mammiferi in cui si avvalse del sistema dello svedese. Nel 1779, un altro allievo di Linneo, Johann Gerhard König, un botanico baltico di lingua tedesca al servizio della Danimarca, raccolse in Tailandia una specie sconosciuta. Nel 1792, in Icones plantarum (un'opera di stretta osservanza linneana, che si presenta come un'appendice di Species plantarum) Giseke la denominò Etlingera littoralis. Curiosamente per quasi due secoli la denominazione passò inosservata e la specie (e le sue consorelle scoperte nel frattempo) venne attribuita a molti generi creati successivamente: Geanthus, Diracodes, Achasma, Nicolaia, Phaeomeria. Soltanto nel 1986 fu scoperto che Etlingera era il nome legittimo perché precedeva cronologicamente tutti gli altri. In epoca ancora più recente, nel 2004, uno studio basato su dati molecolari ne ha definito con maggiore precisione i confini, attribuendogli alcune specie prima assegnati ad altri generi. Oggi Etlingera è uno dei più vasti della famiglia Zingiberacae, con 100-150 specie, distribuite tra l'India, l'Indocina, l'Indonesia e le isole del Pacifico, dove cresce nel sottobosco della foresta pluviale tropicale e equatoriale. Si tratta di aree molto ricche di biodiversità, ancora poco esplorate e conosciute; perciò il numero di specie potrebbe essere molto maggiore. Lo farebbero pensare i risultati di una campagna di ricerca internazionale condotta nell'isola di Sulawesi, nell'arcipelago indonesiano: nel 2008 le specie note di Etlingera nel suo territorio erano 4, oggi sono 40! E' un genere notevole per la bellezza davvero esotica delle infiorescenze, che talvolta crescono rasoterra, talvolta sulla cima di lunghi steli rigidi, cui si deve il nome inglese torch ginger, "zenzero torcia"; si tratta di grandi o grandissime erbacee rizomatose (che possono raggiungere anche i 10 metri) con alti steli simili a canne e attraenti infiorescenze dalle forme molto variabili (a coppa, a cono, a stella), caratterizzati da più o meno numerosi giri di brattee concentriche molto colorate e vistose. La specie più nota è la spettacolare E. elatior, con enormi infiorescenze rosa carico o rosse, originaria della Malaysia e dell'Indonesia, ma naturalizzata in diversi paesi tropicali, dove è stata introdotta come ornamentale. I suoi boccioli sono anche ricercati dai buongustai, come prelibato ingrediente di piatti esotici. Di altre specie si consumano invece i frutti o i turioni; molte hanno proprietà medicinali; altre sono note come spezie; altre ancora sono utilizzate nella cosmesi, e persino nella fabbricazione di tappeti e cesti. Poco conosciute da noi, queste splendide e utili tropicali meritano dunque di essere conosciute più di vicino; qualche informazione in più nella scheda.
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Negli anni '70 del Settecento, a stare ai resoconti dei naturalisti, si ha l'impressione che la colonia del Capo, in Sud Africa, pullulasse di svedesi. Linneo non aveva colto l'opportunità di andarci di persona, ma era riuscito a farci arrivare ben tre allievi. E al loro fianco, spunta un personaggio misterioso, un altro svedese ovviamente: Franz Pehr Oldenburg. ![]() Uno svedese in Sud Africa Nelle storie dei botanici e cacciatori di piante che esplorarono la natura sudafricana negli anni '70 del Settecento, prima o poi capita, con un ruolo più o meno di comparsa, un misterioso svedese, Franz Pehr (o Frans Petter) Oldenburg. Di lui non sappiamo molto, e forse proprio questo mistero eccita la curiosità. Soprattutto non sappiamo come uno svedese di Stoccolma fosse arrivato nella colonia olandese del Capo di Buona Speranza e si fosse arruolato come mercenario della VOC, la potente Compagnia Olandese delle Indie orientali. Dato che più tardi lo ritroveremo chirurgo di bordo, potrebbe essere arrivato in Sud Africa con lo stesso ruolo; di solito le navi della Compagnia svedese delle Indie orientali non facevano scalo a Cape Town, perché la VOC non ne vedeva di buon occhio la concorrenza, ma in effetti nel maggio 1770 la Finland, comandata dal capitano Carl Gustaf Ekeberg attraccò al Capo e vi sostò relativamente a lungo. Anche se Oldenburg non risulta tra i chirurghi della nave, è possibile che prestasse servizio come aiuto chirurgo (solo gli ufficiali erano registrati nei documenti della compagnia). Appare invece davvero remota l'ipotesi - che pure è stata avanzata - che anche lui fosse un allievo di Linneo (i chirurghi a quel tempo non erano medici e non avevano una formazione universitaria). In ogni caso, nel marzo del 1771 era sicuramente a Cape Town e prestava servizio come mercenario agli ordini della VOC. Lo testimoniano Joseph Banks e Daniel Solander che lo incontrarono quando sbarcarono al Capo durante il viaggio di ritorno della Endeavour. I due svedesi, Oldenburg e Solander, rimasero in contatto epistolare anche dopo il ritorno di quest'ultimo in Gran Bretagna. Nel 1772 ritroviamo Oldenburg in compagnia di un altro conterraneo e apostolo di Linneo, Carl Peter Thunberg, che accompagnò in brevi spedizioni di raccolta nella penisola del Capo. A settembre, era invece insieme a Anders Sparrman in un'escursione di una settimana nei dintorni di Paarl, nel Capo Occidentale. Sono indizi a favore della sua appartenenza alla piccola rete sudafricana di studenti e amici di Linneo (di cui faceva parte anche Ekeberg, che aveva propiziato l'arrivo in Sud Africa di Sparrman); inoltre fu anche corrispondente di un altro linneano, P. B. Bergius. All'epoca Oldenburg aveva già acquisito una buona conoscenza del territorio e delle sue insidie, conosceva tutti i segreti per muoversi con un carro trainato da buoi lungo strade che erano niente di più che piste; parlava bene l'olandese e alcune lingue indigene. Così, tra dicembre 1772 e gennaio 1773, lo ritroviamo come compagno di viaggio e interprete dell'ancora inesperto Francis Masson cui insegnò le basilari tecniche di sopravvivenza. Se non lo era già prima, sicuramente a questo punto era diventato anche lui un appassionato di scienze naturali e un esperto raccoglitore. Inoltre era un bravo disegnatore; un migliaio tra suoi disegni e esemplari da lui raccolti furono acquistati dopo la sua morte da Banks e si trovano ora al Natural History Museum di Londra. Tra il 1773 e il 1774 presumibilmente accompagnò con una certa frequenza Thunberg e Masson nelle brevi escursioni "invernali" nei dintorni del Capo. Lo testimonia lo stesso Thunberg nella sua lettera di raccomandazione al governatore van Plattenberg: "Ha praticato la botanica per due anni e mi ha accompagnato nelle mie escursioni". Infatti, nel 1774 il governatore chiese a Thunberg di imbarcarsi come chirurgo di bordo sulla Hoeker, una nave negriera che andava a rifornirsi di schiavi in Madagascar. Thunberg - che stava preparando la sua terza e ultima spedizione - declinò, ma raccomandò il connazionale, il quale, purtroppo per lui, accettò. Poco dopo il suo arrivo in Madagascar infatti morì di febbri. Una sintesi di questa breve vita nella sezione biografie. ![]() Il singolare genere Oldenburgia Il ricordo di questa figura minore dell'esplorazione naturalistica del Sud Africa, oltre che alle relazioni di viaggio dei suoi compagni Masson e Thunberg, è affidato a un genere endemico del Sud Africa, Oldenburgia, della famiglia Asteraceae, creato nel 1830 dal botanico tedesco Lessing, grande esperto di questa famiglia. Con sole quattro specie, tutte originarie della provincia del Capo, questo genere è così singolare che recenti studi lo hanno assegnato a una tribù specifica (Oldenburgieae). Comprende sia arbustini a cuscino sia piccoli alberi, caratteristici del fynbos, la vegetazione arbustiva dell'area costiera del Capo, simile per caratteristiche ecologiche alla macchia mediterranea. La più singolare di tutte è Oldenburgia grandis, che è si presenta come un piccolo albero (uno dei pochi casi di questa famiglia), con grandi foglie coriacee, che quando spuntano sono completamente coperte da morbidi peli bianchi, che le fanno assomigliare alle orecchie di qualche animale (da qui i nomi popolari inglesi rabbit's ears, lamb's ears, donkey's ears) e enormi capolini che ricordano un cardo gigante, anch'essi fittamente ricoperti di corti peli bianchi vellutati. Questa densa peluria protegge le giovani foglie e i capolini dal calore del sole e soprattutto dal vento che spazza la chioma di questa specie che si erge al di sopra di arbusti solitamente molto più bassi. Di portamento totalmente diverso è l'altra specie più nota, O. paradoxa, che cresce nelle aree rocciose delle montagne del Capo, dove si abbarbica sulle parete rocciose formando densi, bassi cuscini che possono raggiungere anche un metro di diametro, con foglie strette, densamente lanose nella pagina inferiore, da cui emergono numerosi piccoli capolini con brattee lanose e minuscoli flosculi bianchi. Entrambe le specie sono impollinate da vari tipi di colibrì. Qualche informazione in più nella scheda. Se la Strelitzia, una pianta molto nota e ammirata per la sua esotica bellezza, ha quel nome ostico la colpa è tutta di Joseph Banks, che volle dedicarla - per autentica riconoscenza ma forse anche con un pizzico di calcolo politico - alla sua regina, nativa di un piccolo ducato tedesco dal nome irto di consonanti. ![]() Una pianta regale per una regina Grazie agli invii di Masson, i Giardini reali di Kew crescono tumultuosamente; nel 1773 nella "stufa" (ovvero nella serra calda) fa il suo ingresso una pianta destinata a grande avvenire. Raccolta da Masson e Thunberg nella spedizione del 1772-73, arriva presumibilmente dai dintorni di Port Elizabeth ed è stata identificata come Heliconia. E' un'erbacea imponente, con belle foglie che assomigliano a quelle del banano; piantata in grandi mastelli di legno, passano alcuni anni prima che riesca a fiorire; solo quando, attraverso il fondo ormai marcito, le radici radicano nel terreno, sbocciano finalmente i primi fiori. Sono fiori mai visti, di stupefacente bellezza esotica: da una lunga spata appuntita, che ricorda un becco d'uccello, emerge una corona di tepali e petali arancio e blu. Banks, direttore ufficioso di Kew, capisce di trovarsi di fronte a un genere sconosciuto alla scienza. Non ha dubbi: solo una persona è degna di darle il suo nome, la regina d'Inghilterra Carlotta, botanica dilettante e grande sponsor di Kew, che si è già guadagnata l'appellativo di "regina della botanica". Dal suo nome di ragazza, Sofia Charlotte von Mecklemburg-Strelitz, Banks battezza la pianta Strelitizia. E per levare ogni dubbio, aggiunge l'inequivocabile specifico reginae, la Strelitzia della regina. Banks e la regina si conoscevano bene e il rapporto tra di loro era di reciproca stima. Proveniente dal piccolo ducato di Mecklemburgo, Carlotta era arrivata in Inghilterra per sposare il re Giorgio III nel 1761, quando aveva poco meno di diciassette anni. Amava da sempre la botanica e poté coltivare questa passione quando Kew divenne la residenza di campagna preferita della coppia regale, nonché il luogo dove venivano educati i loro numerosissimi figli (ne ebbero ben quindici). In quegli stessi anni, Banks, amico personale del re, ne andava trasformando i giardini in una meravigliosa raccolta di piante esotiche, il giardino botanico più prestigioso al mondo. Né il re né la regina fecero mancare il loro entusiastico sostegno alla grande impresa. La regina, una donna colta, seria e coscienziosa, amava seguire personalmente l'educazione delle figlie, studiando insieme a loro. Raccoglieva piante, le osservava al microscopio, le conservava in un erbario e le catalogava secondo il sistema di Linneo. Per lei, nel 1789, alla morte del botanico John Lightfoot, il re ne acquistò l'erbario, grazie al quale la regina ebbe modo di conoscere J. E. Smith, presidente della Linnean Society e amico di Banks. Infatti, poiché l'erbario era infestato di insetti, fu affidato per la "bonifica" a Smith; egli fu presentato a Carlotta che, conoscendo il successo delle sue conferenze di scienze naturali, gli chiese di tenere per lei e per le principesse Augusta e Elizabeth "conversazioni", ovvero lezioni private di botanica e zoologia (vennero tuttavia interrotte dopo pochi anni perché Smith appariva troppo vicino alle idee dei rivoluzionari francesi). Carlotta e le figlie seguivano anche lezioni di illustrazione botanica, impartite da Franz Bauer; la più dotata si dimostrò la principessa Elizabeth (a testimonianza del suo gusto e del suo talento rimangono le ghirlande da lei dipinte nel Queen's Charlotte Cottage di Kew). ![]() Una dedica politica? Insomma, almeno per una sovrana, le credenziali della regina Carlotta erano sufficienti per meritarle l'omaggio di un genere onorifico. Ma forse manca ancora un tassello alla nostra storia. Strelitzia reginae ricevette il suo nome ufficiale nel 1789, nel catalogo di Kew Hortus kewensis (curato da Aiton), ma la denominazione era stata creata "ufficiosamente" l'anno prima da Banks nella sua corrispondenza privata, unita a una tavola litografica dipinta da Bauer che ritraeva lo splendido fiore. E il 1788, nella storia dell'Inghilterra, non è un anno qualunque. Nell'estate di quell'anno Giorgio III ebbe il primo grave attacco della malattia mentale che avrebbe devastato la sua vecchiaia; benché fosse in grado di esercitare la maggior parte delle sue funzioni, non poté pronunciare il tradizionale discorso della Corona in occasione della seduta inaugurale del Parlamento. Ne nacque uno stallo istituzionale e uno scontro politico tra i sostenitori del principe di Galles (il futuro Giorgio IV) e il primo ministro William Pitt il giovane, che si tradusse anche in uno scontro tra il principe e la regina, ciascuno dei quali accusava l'altro di aspirare alla reggenza. Insomma, una situazione di tensione che può aver influito sulla mossa di Banks. Certo, la sua posizione era molto solida (era stato eletto presidente della Royal Society nel 1784, era membro di numerose istituzioni scientifiche prestigiose anche all'estero ed era un personaggio riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale); inoltre era un uomo super partes, che aveva sempre evitato di schierarsi né con i tories né con whigts. Tuttavia il suo ruolo "ufficioso" a Kew si basava su una relazione personale con il sovrano che rischiava di interrompersi, se la malattia si fosse aggravata (come in effetti avvenne, ma solo molti anni dopo, nel 1810) e se il principe di Galles, ben poco interessato a piante e giardini, fosse giunto al potere. Dunque, la provvidenziale fioritura della Strelitzia e la dedica alla sovrana proprio quell'anno possono anche essere lette come una conferma della sua devozione alla regina, e indirettamente al re. Tanto più che Banks ebbe cura di sottolineare il valore simbolico di quella dedica. Nel 1814 (all'epoca, il povero Giorgio III era ormai stato dichiarato ufficialmente pazzo ed era stato rinchiuso nel palazzo di Kew, trasformato da residenza di campagna in reclusorio psichiatrico) inviò alla principessa Elizabeth una cartolina con un messaggio adulatorio finemente dipinta da Bauer con fiori simbolici, tra cui spiccano in alto a sinistra una Strelitzia e in basso a destra una Banksia. Inoltre nel 1818 fece approntare a Bauer uno splendido album con tavole litografiche di tutte le specie di Strelitzia allora conosciute (nel frattempo ne erano state scoperte altre), ritratte dal vivo presumibilmente da esemplari delle serre di Kew. Proprio a Kew la regina morì quello stesso anno, precedendo di un anno il marito, ormai cieco e totalmente sprofondato nell'alienazione mentale. Qualche notizia in più nella vita. ![]() Strelitzia, attrazione irresistibile Strelitzia è un piccolo genere della famiglia Strelitziaceae, che comprende solo cinque specie, tutte endemiche dell'Africa australe. Sono accomunate dalla curiosa infiorescenza che ricorda la testa di un uccello esotico, con il becco formato da una spata appuntita, e la cresta formata da tre tepali dai colori sgargianti (arancio, giallo o bianco) e da tre petali blu, porpora oppure bianchi. Due sono fusi tra loro formando una struttura che racchiude le antere, mentre alla base del terzo si raccoglie il nettare. Sono un'attrazione irresistibile ai nostri occhi, ma ancora di più a quelli dei colibrì richiamati dai colori vistosi e dalla dolcezza del nettare che suggono con i lunghi becchi ricurvi. Insomma, per i colibrì quei colori sono l'equivalente della rutilante insegna di un fast food. Un'attrazione, comunque, condivisa dagli esseri umani, visto che S. reginae, arrivata come si è visto in Europa a fine Settecento, di lì si è diffusa nei giardini e nelle serre di tutti i paesi a clima caldo, affermandosi anche come una delle star della produzione di fiori recisi, anche grazie alla lunga durata e alla capacità di fiorire durante tutto l'anno. Poco nota fuori del paese d'origine (cioè il Sud Africa) è invece l'altra specie erbacea, S. juncea, con infiorescenze molto simili a quelle di S.reginae, dalla quale si distingue per le foglie strette e allungate, prive di lamina nelle piante adulte, che ricordano un giunco. Sono invece arboree le altre tre specie, che nel portamento e nella forma delle foglie richiamano il banano (con il quale hanno qualche parentela, visto che anche la famiglia Musaceae, cui appartiene quest'ultimo, fa parte dell'ordine delle Zingiberales). La più coltivata è S. alba (anche conosciuta con il sinonimo S. augusta), che può raggiungere i 10 m. Fu la seconda a raggiungere l'Europa; raccolta da Thunberg nel novembre 1773 nei pressi del fiume Pisang (nome locale sia del banano sia della Strelitzia), anch'essa arrivò in Inghilterra grazie a Masson, che la inviò a Kew nel 1789. Come dice il nome, è caratterizzata dai fiori bianchi. Le altre due specie arboree sono S. nicolai, scoperta a metà Ottocento e dedicata al granduca Nikolaj Nikolaevic, terzo figlio dello zar Nicola I, la più diffusa in natura e anch'essa relativamente coltivata nei climi caldi, e S. caudata, con fiori azzurri. Qualche approfondimento nella scheda. Una lettera d'amore nel carteggio di Linneo ha destato qualche pettegolezzo tra i posteri. Un amore indubbiamente fu, ma totalmente botanico e metaforico: grazie ad esso fu generata una figlia che ha perpetuato il nome di una delle prime donne a studiare seriamente le scienze naturali, legandola per sempre a un genere dalle bellissime fioriture, campione di adattamento all'aridità. ![]() Una lady al Capo di Buona Speranza Come lamentava l'allievo di Linneo Anders Sparman, la provincia del Capo negli anni '70 del Settecento era ormai diventata "un campo giochi per botanici". Tra i tanti che capitarono in Sud Africa in quegli anni, anche una lady inglese molto nota nella società scientifica britannica, Anne Monson. In viaggio per Calcutta per raggiungere il marito, un militare di stanza in India, si fermò a Cape Town nell'inverno (australe, corrispondente ai nostri mesi estivi) del 1774. Amica di Joseph Banks, non stupisce che a fare gli onori di casa fossero Francis Masson e Carl Peter Thunberg. Quest'ultimo, nel suo resoconto dei viaggi sudafricani, ricorda con ammirazione la colta lady, che se la cavava anche con il latino, che egli accompagnò a visitare diverse fattorie dei dintorni e che aiutò ad arricchire le sue collezione di piante ed insetti. La facoltosa dama aveva anche assunto un disegnatore che la aiutava a disegnare gli esemplari rari. Prima di partire, ricompensò lo svedese donandogli un prezioso anello. A loro volta, i due amici le dedicarono una specie di erica particolarmente bella, Erica monsoniana. Tra gli obiettivi del viaggio dell'intraprendente dama c'era anche vedere dal vivo la pianta che gli era stata dedicata dal grande Linneo in persona, Monsonia speciosa; sicuramente l'avrà vista, dato che Masson proprio quell'anno ne inviò esemplari a Kew, ma è improbabile che ne abbia goduto la fioritura: questa specie, effettivamente endemica del Capo, fiorisce all'inizio della primavera, quando lady Monson era già ripartita per l'India. La storia della dedica della Monsonia è molto curiosa e, si potrebbe dire, romantica. Lady Monson apparteneva alla migliore società britannica (sua madre era addirittura discendente del re Carlo II), ma da giovane era stata protagonista di uno scandalo - un figlio illegittimo seguito da un divorzio - che l'aveva relegata ai margini del bel mondo. Forse come reazione, si era dedicata con passione allo studio della botanica e più in generale delle scienze naturali, entrando in contatto con un importante vivaista, James Lee della Vineyard Nursery. Grande ammiratrice del sistema linneano, secondo la testimonianza di Edward Smith, futuro presidente della Linnean Society, non solo avrebbe incoraggiato Lee a tradurre in inglese la Philosophia botanica di Linneo, ma l'avrebbe aiutato nella traduzione (all'epoca era considerato sconveniente che il nome di una nobildonna comparisse sul frontespizio di un libro a stampa). Il libro, rivolto a un pubblico ampio e uscito nel 1760 con il titolo Introduction of Botany, a firma di Lee, fu determinante per la diffusione delle idee di Linneo in Gran Bretagna. Lady Anne divenne un personaggio influente nell'ambiente dei naturalisti britannici. Non era soltanto una mecenate che sosteneva finanziariamente giardinieri e botanici (ebbe sicuramente questo ruolo nei confronti di Lee, che chiamò sua figlia Anne in onore di lei; la ragazza divenne una celebrata illustratrice botanica e lady Monson le lasciò in eredità la collezione di insetti); fu anche una studiosa, con una preparazione profonda soprattutto in botanica, e una notevole collezionista. Il suo salotto era frequentato da molti bei nomi della Royal Society; fu proprio a un pranzo a casa sua che Solander sentì Banks raccontare dei preparativi del primo viaggio di Cook e si gettò ai suoi piedi, chiedendogli di portarlo con lui. ![]() Una lettera d'amore? Grazie a diversi corrispondenti, la fama della gentildonna botanica raggiunse ben presto Linneo. Lo sponsor più convinto fu Clas Alströmer, suo allievo che in quegli anni si trovava a Londra. La sua lettera del 10 luglio 1764 è un vero panegirico: "Lady Monson si è spinta nella conoscenza della botanica molto al di là di ogni altra donna, non in modo superficiale, come è comune nel suo sesso, ma in profondità. Ha belle collezioni dei tre regni della natura. Studia le vostre opere e le conosce bene. La stessa duchessa di Portland non ha un centesimo della sua sapienza. Sarebbe felice se un'erba venisse battezzata Monsonia. Il primo brindisi della sua tavola è sempre in onore di Linneo!". Circostanza confermata da un altro allievo e ospite della dama, Adam Kuhn, che a settembre dello stesso anno scrive: "Mentre gli altri sudditi britannici concludono ogni pranzo con un brindisi al re, lady Monson brinda a Linneo, Re del Regno di Flora". Sensibile all'adulazione, lo scienziato svedese fu lusingato dall'ammirazione di una donna così sapiente, oltre tutto bella e aristocratica; inoltre vedeva di buon occhio lo studio della botanica da parte delle donne, e aveva incoraggiato in tal senso le sue figlie (sia chiaro, al di fuori di ogni studio ufficiale e tanto più accademico). Non solo accolse dunque l'invito di dedicare un genere alla dotta signora, ma lo fece con una lettera sorprendente, una dichiarazione amorosa in piena regola (30 giugno 1765); dopo aver detto che pur non avendola mai incontrata, la vede nei suoi sogni, scrive: "Non è la prima volta che sono infiammato d'amore per un'esponente del bel sesso, ma vostro marito potrà dimenticarsi di me finché non attento al suo onore. Ma chi può ammirare un così bel fiore senza innamorarsene, benché in perfetta innocenza? Infelice il marito la cui moglie piace solo a lui. Vorrei essere felice di vedere il mio amore ricambiato, perciò vi chiederò un solo favore: che mi sia permesso di unirmi a voi nel procreare una piccola figlia che testimoni il nostro amore, una piccola Monsonia attraverso la quale la vostra fama si perpetui per sempre nel Reame di Flora". Per quanto qualcuno abbia favoleggiato di un vero innamoramento di Linneo, non si tratta che di una metafora, conforme a un certo stile galante dell'epoca (e forse la lettera, di cui ci è rimasta solo la bozza, non fu mai spedita). In ogni caso la "piccola Monsonia" nacque. Lady Monson, anche se non corrispose mai direttamente con Linneo, ebbe cura di inviargli esemplari naturalistici, tramite James Lee; anche in Bengala continuò le sue collezioni e fece ritrarre alcune piante da artisti locali, anche se morì pochi anni dopo il suo passaggio in Sudafrica (nel 1776). A ricordarla anche una pianta indiana, l'amaranthacea Trichuriella monsoniae. Nella sezione biografie qualche approfondimento della vita di questa gentildonna, sicuramente eccezionale per i suoi tempi, in cui anche le donne più colte erano relegate al ruolo di dilettanti, non potevano né pubblicare né accedere alle Università o alle società scientifiche. ![]() Monsonia, un genere... infiammabile Il genere Monsonia fu creato da Linneo nel 1767 nella dodicesima edizione di Sistema naturae. Inizialmente includeva la sola Monsonia speciosa, un endemismo del Capo di Buona Speranza, ma ben presto, grazie alla solerzia di Masson, si aggiunsero altre specie. Una fu addirittura battezzata M. filia dal figlio di Linneo, Carl jr.: infatti "nasceva" da M. speciosa. Una ben curiosa denominazione, sicuramente dovuta alla suggestione dell'infatuamento paterno, che non mancò di suscitare gli strali di Cavanilles, che gli rimproverò "la leggerezza di confondere somiglianza con filiazione" (per la cronaca, si tratta di un semplice sinonimo di S. speciosa, una specie dalle foglie molto variabili cui in passato furono attribuiti nomi diversi). Monsonia appartiene alla famiglia Geraniaceae, all'interno della quale si distingue per i fiori attinomorfi (ovvero a simmetria radiale), anziché zigomorfi (a simmetria bilaterale) e per il numero di stami (15 anziché 10). Comprende una trentina di specie, buona parte delle quali sono endemismi sudafricani, mentre poche specie sono presenti nell'Africa orientale, nel Sahara, nella penisola arabica e nell'Asia sudoccidentale, fino al Pakistan e all'India. Da quando nel 1826 de Candolle creò la sezione Sarcocaulon, presto elevata a genere, i botanici si sono divertiti ad allargarne e a restringerne i confini. Oggi, gli studi filogenetici hanno definitivamente confermato che Monsonia include Sarcocaulon, dividendo il genere in due gruppi: da una parte il gruppo Monsonia in senso stretto con erbacee annuali e perenni, dall'altra il gruppo Sarcocaulon con arbustive legnose. Proprio a quest'ultimo appartengono le specie più note e ambite dai collezionisti; tutte provenienti da zone semidesertiche (Sud Africa, Namibia, Angola), esse si sono mirabilmente adattate alle condizioni proibitive in cui vivono. Il fusto legnoso, talvolta semisucculento, spesso con forme contorte e affascinanti, funge da riserva; per quasi tutto l'anno, è privo di foglie, che spuntano dopo la prima pioggia o in caso di dense nebbie, seguite da splendide fioriture con fiori a cinque petali dai colori delicati che contrastano con il fusto tozzo, irregolare e spesso spinoso. Se la siccità si protrae, possono benissimo vegetare alcuni anni senza fiorire e senza emettere foglie. In alcune specie, i rami sono ricoperti di una sostanza cerosa, altamente infiammabile, che li protegge dall'eccessiva evaporazione. Un tempo erano usate come esca per accendere il fuoco (da cui i nomi afrikaans boesmankers e inglese bushman's candle). Altri approfondimenti nella scheda. Nel 1772 Banks invia in Sud Africa il primo raccoglitore ufficiale dei Royal Botanic Gardens di Kew. Il successo straordinario della sua missione (con centinaia e centinaia di nuove specie, molte delle quali faranno presto a uscire dalle serre reali per fiorire nei giardini e sui balconi dei comuni mortali) segna una rivoluzione nella storia del giardinaggio e apre la via ai cacciatori di piante che verranno dopo di lui. Affascinato dalle straordinarie capacità di adattamento delle succulente, egli gradì sicuramente l'omaggio della bella e curiosa Massonia. ![]() Una rivoluzione in giardino In giardino, la rivoluzione inizia il 30 ottobre 1772. Chiudete gli occhi e immaginate: niente gerani a finestre e balconi, nessuna erica nana a portare colore nelle fioriere invernali; non c'è l'azzurro di Lobelia erinus e dell'agapanto né il viola del Mesembryantemum in quelle estive; nessuno coltiva gardenie, né calle (o meglio Zantedeschia ethiopica), né Amaryllis né Strelitzia né Crassula né Stapelia, e tanto meno Kniphofia, Ixia o Protea. Quel giorno inizia la rivoluzione sudafricana in giardino. A metterla in moto è Francis Masson. Appena sbarcato al Capo di Buona Speranza dalla Resolution, la nave del secondo viaggio di Cook, Masson è qui per raccogliere piante "per il re e la nazione" e fare dei nuovi giardini reali, i Royal Botanic Gardens di Kew, i più belli e ricchi del mondo. A spedirlo in Sud Africa è stato Joseph Banks, che, di passaggio sulla rotta di ritorno dell'Endeauvour, ha potuto gettare solo uno sguardo a quello scrigno di tesori vegetali, quanto basta per coglierne tutte le potenzialità. Il viaggio di Masson è nuovo nel suo genere: non è una spedizione scientifica, il suo scopo non è raccogliere esemplari da erbario, da essiccare e studiare, ma semi, bulbi, se possibile piante vive da mandare in Inghilterra per essere moltiplicate e coltivate. Masson è un cacciatore di piante, il primo raccoglitore ufficiale dei Kew Gardens. Infatti non è un botanico, ma un giardiniere. In Sud Africa si tratterà tre anni, dal 1772 al 1775, e, grazie al suo fiuto, alla dedizione al lavoro, e a due incontri fortunati, metterà insieme una collezione di centinaia e centinaia di nuove specie. Si calcola che nella sua vita abbia ne abbia scoperte un migliaio e ne abbia introdotte in coltivazione non meno di 500; e la stragrande maggioranza è di origine sudafricana. Il primo viaggio nella natura sudafricana, e il primo incontro, risalgono al dicembre del 1772, quando, in compagnia di Franz Pehr Oldenburg, un soldato svedese al servizio della Compagnia olandese delle Indie Orientali, con un carro tirato da buoi, attraversa la pianura a est di Cape Town fino a Stellenbosch, allora un nuovo piccolo insediamento di 30 case. Scalano quindi le montagne del massiccio del Kogelberg, la cui ricchezza vegetale lo lascia stupefatto (oggi quest'area ospita un parco nazionale e conta non meno di 2000 specie). Al ritorno da questa spedizione, che è durata circa sei settimane (e sarà una piccola escursione rispetto a quelle che la seguiranno), avviene il secondo incontro, con un altro svedese: l'allievo (e apostolo) di Linneo Carl Peter Thunberg; della loro amicizia e delle due grandi spedizioni che intraprendono insieme si è già parlato in questo post. La strana coppia a partire dal settembre 1773 esplora tra l'altro il Namaqualand, che estasia Masson per il contrasto tra l'ambiente apparentemente inospitale e le fioriture esplosive: "Tutto il paese offre uno splendido campo d'azione per i botanici, è smaltato dal più gran numero di fiori che io abbia mai visto, di squisito profumo e bellezza". E' durante questo viaggio (che durerà 4 mesi e mezzo, per un totale di 2300 km), mentre esplorano il Piccolo Karoo, che Masson si imbatte in una curiosa Cycadacea (oggi la conosciamo come Encephalartos altensteinnii); raccoglie un po' di semi e alcune plantule; una riuscirà a sopravvivere e, inviata a Kew, è ancora oggi una delle glorie di quei giardini, pubblicizzata come "la pianta in vaso più vecchia del mondo". L'ultimo viaggio, a partire dal settembre 1774, li porterà invece a nord verso il Floral Kingdom e il Grande Karoo, un deserto inospitale dove non di meno raccolgono più di 100 piante ignote alla scienza. Nella primavera del 1775, poche settimane dopo la partenza di Thunberg per il Giappone, Masson fece ritorno in Inghilterra. Aveva compiuto egregiamente la missione affidatagli da Banks tre anni prima: i giardini reali si erano arricchiti di colpo di quasi 400 piante, e Kew poteva ormai vantare il primato tra gli orti botanici europei; in pochi anni, molte di quelle specie si sarebbero diffuse nei giardini e sulle finestre dei comuni mortali; in particolare i gerani (ovvero i Pelargonium), di cui egli aveva introdotto più di 50 specie, diverranno immediatamente popolari. Ma, dopo aver assaporato il gusto dell'esplorazione botanica, Masson si adattava ormai male al ruolo di giardiniere; chiese a Banks di essere inviato di nuovo a caccia di piante. Così seguirono altri viaggi. Nel 1776, fu inviato in Macaronesia (Madera, Canarie, Azzorre) e nelle Antille, dove, a Grenada, fu catturato e imprigionato dai francesi, e a Santa Lucia, dopo la liberazione, fu vittima di un uragano che lo privò di quanto rimaneva delle sue raccolte. Non di meno, aveva fatto in tempo a dare un contributo non indifferente alla conoscenza della flora macaronesica e a introdurre in coltivazione un'altra beniamina, la cineraria (un endemismo delle Canarie; oggi il nome botanico corretto è Pericallis cruenta). Dopo una breve spedizione nella penisola iberica (1783), nel 1785 Masson ritornò in Sud Africa. Il clima era cambiato rispetto a dieci anni prima; nel 1781 gli inglesi avevano tentato uno sbarco e gli olandesi vedevano in ogni cittadino britannico una possibile spia. Gli fu così proibito di avvicinarsi alla costa e di scalare le montagne (dalle quali avrebbe potuto osservare la costa e individuare luoghi adatti a uno sbarco militare); a parte due viaggi relativamente più lunghi nel Karoo e nel Namqualand, dovette accontentarsi di piccole escursioni nei dintorni di Cape Town, dove aveva creato un giardino di acclimatazione; continuò - pur con tutte le difficoltà causate dal crescente stato di guerra - a spedire in patria semi, bulbi, piante, approfittando di ogni nave di passaggio. Poté anche dar libero corso alla sua passione per le piante più care al suo cuore: le Stapeliae, figlie del deserto che lo affascinavano per la loro imprevedibile bellezza e la varietà di forme. Così nel 1795, rientrato in Inghilterra, si dedicò all'illustrazione e alla stesura della sua unica opera scientifica: Stapeliae novae (1796-97), una magnifica monografia in cui descrisse oltre 40 specie di Stapeliinae (prima di lui, se ne conoscevano solo due) con notevoli illustrazioni tratte da disegni di suo pugno. Ma, definitivamente non fatto per rimanere con i piedi al caldo davanti al camino, nel 1797 partì ancora una volta; la destinazione era l'America. Non sarebbe mai più ritornato in Inghilterra: dopo essere stato catturato dai pirati e aver raggiunto gli Stati Uniti con un viaggio fortunoso, aver raccolto piante per qualche anno negli Stati Uniti settentrionali e in Canada, fu infine vinto da un ultimo nemico: il freddo di un inverno canadese. Morì l'antivigilia di Natale del 1805, a Montreal. Qualche particolare in più su questa vita avventurosa e straordinaria nella sezione biografie. ![]() Massonia: foglie appiattite a suolo e fiori come puntaspilli Un unico premio stava a cuore a Masson, lavoratore infaticabile che per tutta la vita si accontentò di un stipendio annuo di 100 sterline: vedere il suo nome ricordato da un genere di piante, se possibile per mano del grande dottor Linneo, che ammirava più di ogni uomo al mondo. Grazie a Thunberg era diventato suo corrispondente e a lui a suo figlio Carl Jr. aveva inviato molti esemplari dalla Macaronesia. Ma purtroppo Linneo, ormai vecchio e malato, morì prima di accontentarlo. La dedica arrivò nel 1780 dal botanico olandese Maarten Houttuyn, che, su suggerimento di Thunberg, creò il nuovo genere Massonia sulla base di un esemplare inviato dallo svedese all'Orto botanico di Amsterdam. Era una delle tante nuove piante raccolte in Sud Africa con l'amico, allo stesso tempo una bulbosa e una di quelle succulente che tanto affascinavano Masson. Il genere Massonia (della famiglia Hycinthaceae o, secondo un'altra classificazione, Asparagaceae), che comprende 13 specie, è endemico del Sud Africa, dove vive nelle Provincie del Capo Settentrionale e Occidentale dal Namaqualand a Lamgkloof, nello Stato libero e nel Karoo. E' una geofita con foglie prostrate al suolo, che si è adattata alle condizioni aride o semiaride; presenta infatti una sola coppia di foglie, più o meno cordiformi, succulente, appiattite al suolo, che compaiono in autunno, in mezzo alle quale in inverno o all'inizio della primavera sboccia una curiosa infiorescenza che ricorda un puntaspilli o un pennello da barba, con numerosi stami rigidi e appuntiti. D'estate, nella stagione arida, la pianta scompare e va in dormienza. E' una vita ridotta al minimo, ma straordinariamente efficace; le larghe foglie succulente "raso terra" offrono infatti diversi vantaggi: in primo luogo, riducono il rischio di essere brucate dagli animali; mantengono l'umidità attorno alle radici, riducendone l'evaporazione; regolano la temperatura proteggendo anche i fiori. Tanto che questa conformazione ritorna in diverse specie del Capo e del Karoo, appartenenti a famiglie diverse. Un'altra curiosità: la maggior parte delle specie di Massonia ha fiori profumati, impollinati dalle api o da altri insetti; Massonia depressa (la specie raccolta da Thunberg e Masson, e la prima ad essere stata descritta) emana odore di lievito, ed è impollinata da piccoli roditori; lo stesso fa M. bifolia. Altri approfondimenti nella scheda. Il nome di Aldrovandi è di quelli che tutti hanno sentito nominare, ma pochi conoscono in modo diretto. L'immensa opera di colui che per quarant'anni a Bologna tenne la prima cattedra di storia naturale, più che nelle pochissime opere a stampa, in cui l'erudizione e le notizie più diverse soffocano i pochi risultati scientifici originali, trovò espressione essenzialmente nel "Teatro della natura", il più antico museo di storia naturale. Ma se la sua Syntaxis plantarum fosse stata pubblicata, forse la storia della botanica sarebbe in parte diversa. A ricordarlo una carnivora acquatica, diffusa in tutto il mondo, ma a rischio di estinzione. ![]() Il grande "Teatro" di un naturalista enciclopedico Bologna, 1549. Un gruppo di cittadini bolognesi incappa in un'accusa di eresia; tra di loro il nobile e colto Ulisse Aldrovandi, che si affretta ad abiurare. Ciò nonostante, è inviato a Roma dove è costretto a trattenersi in attesa del processo. Per passare il tempo, incomincia a interessarsi di archeologia ma soprattutto fa amicizia con un medico francese, Guillaume Rondelet, che si trova a Roma al seguito del cardinale di Tournon. Rondolet, padre fondatore dell'ittiologia, trascina il nuovo amico nelle sue scorribande nel mercato ittico; travolto dal suo entusiasmo, Aldrovandi (che fino ad allora aveva studiato diritto, matematica, logica, filosofia, ma anche medicina) incomincia ad appassionarsi di scienze naturali. Liberato da ogni sospetto d'eresia, quando finalmente rientra a Bologna, decide di completare gli studi medici e di approfondire la zoologia, la mineralogia, la botanica. Una decisione che sarà rafforzata l'anno successivo da un secondo incontro: quello con il grande Luca Ghini che nell'estate del 1551 trascorreva le vacanze a Bologna. Nasce così la vocazione di scienziato universale di Ulisse Aldrovandi, uno dei più illustri studiosi della natura del Cinquecento italiano. Presso l'ateneo bolognese fu lettore di logica dal 1554, insegnante di botanica medica dal 1556, e dal 1561, per quasi quarant'anni (fino al 1600) titolare della prima cattedra di scienze naturali (lectura philosophiae naturalis ordinaria de fossilibus, plantis et animalibus). Si noti che, diversamente da quanto avveniva in quegli anni negli altri atenei, non era una cattedra di "materia medica", cioè di botanica applicata alla medicina, ma proprio l'insegnamento a tutto tondo delle scienze naturali. Un'altra novità si aggiunse almeno dal 1567, quando Aldrovandi prese a far seguire le lezioni accademiche da esercitazioni pratiche, basate sull'osservazione diretta di esemplari naturalistici ("mostrando realmente le cose, doppo il legger che haveva trattato nella lettione"). Nacque così il più antico museo di storia naturale: nel corso di un cinquantennio, Aldrovandi raccolse nella sua stessa casa un'imponente collezione di naturalia; proprio per il focus sul mondo naturale e gli intenti didattici, era ben diversa dai gabinetti principeschi e delle Wunderkammer che nascevano proprio in quegli anni. Con orgoglio, Aldrovandi ci informa che nel 1595 la sua collezione comprendeva 18.000 esemplari, tra cui 7000 piante essiccate "agglutinate" (cioè incollate) in quindici volumi, animali, minerali, pietre, 66 cassettiere con 4500 cassetti contenenti semi, frutti, gomme, fossili, oggetti esotici. Nella coscienza dell'importanza didattica dell'immagine, ma anche per colmare i "buchi" della collezione (un microcosmo che mirava a riprodurre, nel modo più completo possibile, il macrocosmo), Aldrovandi volle aggiungere 3000 splendidi acquarelli, raccolti in 17 volumi, e 5000 matrici xilografiche conservate in 14 armadi. Le matrici, realizzate con estrema accuratezza da artisti dotati, avrebbero dovuto andare a illustrare un'immensa Historia naturalis, che lo studioso bolognese continuò a scrivere per tutta la vita ma che, come vedremo meglio, pubblicò in ben piccola parte. Tutto questo, insieme ai volumi della ricca biblioteca e i suoi stessi manoscritti, andava a formare un mirabile "Teatro della natura" che divenne ben presto, oltre che uno strumento didattico, un'attrazione che richiamavano visitatori da tutta Europa: nel corso della vita dello scienziato, come risulta dal registro dei visitatori, furono più di 1500, sempre accolti con disponibilità e calore, secondo la testimonianza dell'olandese Hugo Blotius, bibliotecario imperiale, che la visitò ammirato nel 1572. Frutto di cinquant'anni di fatiche e di grandi spese (in una lettera al fratello, il naturalista dichiara di avervi investito tutto il proprio patrimonio), il "Teatro della natura" venne realizzato in primo luogo con una mirata attività di raccolta diretta. Fin dagli anni degli studi, Aldrovandi organizzò numerose spedizioni naturalistiche; le più celebri sono l'escursione dell'estate 1554, che, insieme a Calzolari e Anguillara, lo portò sulle pendici del monte Baldo, ancora oggi noto come "giardino d'Europa" per la grande varietà di vegetazione; e la grande spedizione del 1557, quando insieme ai suoi allievi percorse un ampio giro che, a partire dalle valli ravennati, lo portò fino ai monti Sibillini, quindi sulla via del ritorno lungo l'appennino marchigiano e romagnolo. Secondo Anna Pavord, questo viaggio segnò una tappa nella storia della botanica, perché fu la prima escursione naturalistica appositamente organizzata allo scopo di esplorare sistematicamente la flora di un'area specifica. Altri esemplari furono donati da sponsor e corrispondenti, in particolare i membri di quella stupefacente rete di studiosi che nel Rinascimento collegava tra loro i naturalisti europei e, nonostante le guerre e le infinite difficoltà di viaggi che avvenivano ancora a cavallo, in carrozza, ma spessissimo a piedi, produceva un incessante scambio di libri, semi, piante essiccate, minerali e... idee. Diverse piante esotiche erano coltivate nell'Orto botanico della stessa università di Bologna, che venne creato dal senato bolognese nel 1568 (quarto dopo Pisa, Padova e Firenze) su istanza di Aldrovandi che ne fu il curatore fino alla morte. Altre notizie sulla vita del grande studioso nella sezione biografie. ![]() L'eredità botanica di Aldrovandi In questo blog abbiamo incontrato già molti esempi di opere importanti e innovative che, mai pubblicate, rimasero manoscritte a coprirsi di polvere negli scaffali di una biblioteca. La sorte delle opere di Aldrovandi fu, forse, ancora peggiore. Nella sua vita scrisse moltissimo; le sue opere manoscritte ammontano a più di 300, per un totale di oltre 160 volumi. Solo 14 furono pubblicate. Genio universale e enciclopedico, Aldrovandi scrisse di molti argomenti, anche non attinenti alle scienze naturali (la sua prima opera a stampa, dedicata alla statuaria romana, è uno dei primi esempi della rinascita dell'interesse per l'archeologia); molte opere sono compilazioni antiquarie, che lasciano largo spazio alle favole e al gusto del meraviglioso; moltissimi sono cataloghi di vario tipo. Si tratta per lo più di lavori preparatori alla progettata Storia naturale, che avrebbe dovuto toccare tutti gli aspetti della natura. Come possiamo evincere dalle tre parti direttamente pubblicate dall'autore o dalla sua vedova (i volumi sugli uccelli, gli insetti e gli altri animali "senza sangue"), similmente alla quasi contemporanea Historia animalium di Gessner (che fu tra i corrispondenti del bolognese), essa si collocava a cavallo tra passato e futuro; da una parte c'è l'enciclopedismo, il tributo alla cultura antica, il gusto antiquario, che li infarciscono di citazioni e informazioni tratte in modo apparentemente acritico dagli autori del passato; dall'altra la ricerca diretta sulla natura che si traduce in preziose osservazioni sull'anatomia e la fisiologia di ciascun animale. Fu questa commistione di naturalismo e gusto antiquario che fece giudicare severamente Aldrovandi da Buffon, secondo il quale, sfrondandola di tutte le informazioni inutili e estranee, la sua opera si sarebbe potuta utilmente ridurre a un decimo. In effetti vi si riconosce una concezione della conoscenza diversa da quella del Settecento illuminista o dei nostri giorni: l'opera di un Aldrovandi o di un Gessner è espressione dell'ideale rinascimentale della copia, parola latina che indica l'abbondanza, la ricchezza, espressa iconograficamente dall'immagine della cornucopia. L'obiettivo dello studioso rinascimentale è quello di presentare, nel modo più esaustivo possibile, ogni possibile informazione sul proprio soggetto, quindi tutto ciò che è stato scritto, tutto ciò che si crede comunemente, oltre a tutto ciò che si è osservato con i propri occhi. Ecco perché ai dati naturalistici direttamente osservati e osservabili si affiancano in modo così massiccio informazioni culturali di ogni genere, comprese le favole e il meraviglioso. Già segnata da questa concezione, che sarebbe stata ben presto superata da Galileo e dalla sua scuola, la fama futura di Aldrovandi fu ancor più danneggiata dalla pubblicazione postuma di alcune opere in forma largamente alterata. E' il caso dell'unico lavoro edito dedicato al mondo vegetale, Dendrologia, pubblicato nel 1667 da Ovidio Montalbani, uno scrittore particolarmente incline al fantastico. E' a un'opera come questa (e alla celebre Monstruorum historia, pubblicata nel 1642) se allo scienziato bolognese è toccato di passare alla storia, oltre che come un pedante collezionista di citazioni antiquarie, come un credulone acriticamente convinto della reale esistenza di draghi, basilischi, sciapodi, cinocefali e sirene. Inedita rimase invece la maggiore opera botanica di Aldrovandi (che, consapevole del suo valore, ne raccomandò inutilmente la pubblicazione nel testamento), la Syntaxis plantarum. E' un manoscritto in due volumi, per un totale di più di 1000 carte, collocabile tra il 1561 e il 1600, che consiste in una raccolta di 1700 tavole sinottiche, in cui le piante vengono descritte, catalogate e confrontate tra loro in tabelle collegate a disegni. Ciascuna tavola è strutturata in base a un criterio di classificazione o "chiave" in ordine gerarchico, stabilendo classi, generi e specie, allo scopo di individuare categorie comuni alle "diciotto mila specie diverse" osservate da Aldrovandi. Molte tavole sono dedicate agli organi principali delle piante, per esempio i frutti, i semi, le radici, il fusto; quelle più complesse riguardano i fiori, con chiavi come il numero, il colore, le differenze esterne degli stami e delle antere. Altre si basano su caratteristiche fisiologiche, come il tempo della fioritura, sulla base del quale viene anche compilato un calendario mensile; le tavole in cui le piante vengono divise in base alla stazione in cui vivono e alla distribuzione geografica fanno di Aldrovandi un antesignano della fitogeografia. Come Cesalpino, un altro discepolo di Ghini, Aldrovandi giunge così a proporre un proprio sistema di classificazione. Egli divide le piante in "perfette" e "imperfette" e individua 17 gruppi, a partire dagli alberi per giungere agli "imperfecti" (piante senza semi, cioè in gran parte funghi), usando sei chiavi principali: natali loco, vivendo conditione, partium habitu, quantitate, discriminibus, naturae dotis, ovvero l'habitat, la forma biologica, l'aspetto delle parti, la quantità delle parti stesse, i caratteri distintivi, le doti di natura. Per singole categorie, egli porta esempi concrete di species. Alcuni studiosi lo ritengono l'antesignano anche del sistema binomiale: in effetti, nel suo erbario e nelle tavole acquarellate molte piante sono contrassegnate da un nome basato su genere e specie; del resto, Gaspard Bauhin, che per primo doveva divulgare questa innovazione, era stato uno dei suoi allievi. Infatti, anche se non furono mai pubblicate, le tavole sinottiche di Aldrovandi nacquero come strumento didattico utilizzato nelle sue seguitissime lezioni; per questa via hanno influenzato il successivo progresso della botanica grazie ai numerosi allievi che furono educati a quel metodo. Accanto a questo lascito immateriale, alla sua morte Aldrovadi lasciò quello concretissimo del suo Teatro; legò infatti per testamento il suo intero patrimonio scientifico, ovvero i manoscritti, la biblioteca e il museo, al Senato bolognese, a condizione che fosse conservato integro; che gli inediti fossero pubblicati; che l'accesso fosse libero a tutti. Il grande museo divenne così di proprietà della città e dell'Università e per tutto il Settecento continuò ad esserne una delle principali attrazioni. Nell'Ottocento varie collezioni furono smembrate tra diversi istituti universitari, finché nel 1907 l'insieme fu almeno in parte ricostruito in una sala di Palazzo Poggi. Perduti molti reperti più deperibili, rimangono scheletri, animali impagliati, fossili, minerali. Il preziosissimo erbario (ne sono rimasti quasi 5000 fogli), uno dei più antichi che ci sia pervenuto, è invece costodito presso l'Orto botanico: benché le piante non siano disposte secondo un criterio riconoscibile e le note si limitino al solo nome, senza indicazione del raccoglitore e del luogo di raccolta, è ragguardevole per l'antichità (fu iniziato probabilmente nel 1551), la vastità, la cura del montaggio. Sono invece custodite presso la Biblioteca Universitaria le tavole acquarellate; quanto alle matrici xilografiche, poche ci sono giunte: molte di esse andarono a alimentare le stufe durante la Seconda guerra mondiale. Grazie a un grande progetto dell'Università di Bologna, l'intero erbario (consultabile qui), tutte le opere a stampa e gli acquarelli sono stati digitalizzati e sono raggiungibili attraverso questo bellissimo sito, davvero un mirabile "Teatro della natura" virtuale. ![]() Androvanda, una pianta in pericolo Nel 1734, Gaetano Lorenzo Monti, botanico bolognese, presentò una memoria in cui, richiamandosi all'abitudine introdotta da Linneo di onorare gli studiosi più illustri con il nome di una pianta, deplorava che egli avesse dimenticato il grande Aldrovandi. Propose così di nominare Aldrovandia una pianta palustre (la pubblicazione avverrà solo qualche anno dopo in De Aldrovandia novo herbae palustris genere, 1747). Questa specie era già nota ed era stata descritta nel 1696 dal botanico inglese Plukenet, con il nome di Lenticula palustris. Linneo tenne conto dell'appunto di Monti e nel 1753 ne ufficializzò la denominazione, ribattezzando la pianta Aldrovanda vesiculosa (commise forse un piccolo errore ortografico). A. vesiculosa è l'unico rappresentante del suo genere (anche se altre specie forse sono esistite in passato); è un membro della famiglia Droseraceae, da cui differisce in quanto acquatica, ma come le cugine è carnivora; per diversi aspetti ricorda la più nota Dionaea, tanto che Darwin la definì "una Dionaea d'acqua in miniatura". E' un'erbacea priva di radici, che fluttua sulla superficie dell'acqua; le foglie, distribuite regolarmente lungo il fusto in piccoli verticilli a forma di ruota idraulica (da cui il nome inglese water wheel) e sorrette da piccioli con sacche d'aria che aiutano il galleggiamento, hanno lamina reniforme, che si chiude in due valve, dentellate sui bordi. Quando una preda si avvicina, si chiudono rapidamente, intrappolandola. La loro velocità di reazione (10-20 millisecondi) è considerata la maggiore del regno vegetale. La pianta vive in tutti i continenti, escluse le Americhe, ma è diventata sempre più rara a causa della restrizione dell'ambiente naturale e dell'inquinamento delle acque stagnanti ma pulite che predilige, ricche di anidride carbonica e povere di fosforo e di azoto. Se all'inizio del '900 era presente in 379 stazioni naturali note, nel corso del secolo queste si sono drammaticamente ridotte a sole 50, due terzi delle quali concentrate in un'area tra Polonia e Ucraina. In Italia un tempo doveva essere diffusa in un vasto areale; ne sono state recensite 17 stazioni, ma tutte si sono estinte nel corso dell'ultimo secolo: l'ultimo avvistamento, relativo al lago di Sibolla presso Lucca, risale al 1985. In vari paesi, sono in atto azioni per la tutela e la reintroduzione di questa rara specie; in Italia un progetto pilota ha preso avvio nelle regioni Piemonte e Lombardia; esemplari, provenienti dalla Svizzera, sono attualmente coltivati in due orti botanici: il Giardino botanico Rea di Trana, in provincia di Torino, e l'Orto botanico dell'Università di Pavia. Qualche approfondimento nella scheda. L'intrigante genere Genlisea ci fa scoprire un personaggio celeberrimo al suo tempo, Mme de Genlis, prolificissima autrice di più di cento volumi. Accusata a sua volta di essere un'intrigante, ma in un altro senso, capace di introdursi nel cuore e nella casa di un principe del sangue, cui avrebbe suggerito più o meno disastrose scelte politiche. Lasciati da parte i pettegolezzi, scopriamo una vocazione pedagogica, una "gradevole produzione" e altri "servizi" alla botanica, senza dimenticare le trappole della bella e insidiosa Genlisea. ![]() Una poligrafa pedagogica appassionata di botanica Amante di un principe reale, governante (anzi "governatore") del futuro re dei Francesi, "Rousseu in gonnella" creatrice di un nuovo metodo pedagogico, autrice di più di cento opere che ne fecero una delle prime scrittrici professioniste, Mme de Genlis non è certo un personaggio convenzionale. La sua lunga vita (nata nel 1746, morì nel 1830) le fece attraversare undici regimi politici, da Luigi XV a Luigi Filippo, passando per la Rivoluzione, il regime napoleonico, la restaurazione, e non certo da spettatrice passiva. Ai suoi tempi fu molto famosa; alcune sue opere furono immediatamente tradotte in varie lingue europee; fu considerata alla pari con la oggi ben più nota Mme de Stael. Mme de Genlis (il suo nome completo è chilometrico: Stéphanie-Félicité du Crest de Saint-Aubin contessa di Genlis) educò i suoi numerosi allievi (i figli di Filippo d'Orlèans, tra cui il futuro Luigi Filippo, le sue stesse figlie, alcuni nipoti e diversi figli adottivi) secondo un nuovo modello, in parte ispirato a Rousseau, che voleva coltivare insieme la mente, il cuore e le mani, senza fare distinzioni tra maschi e femmine. La sua "pedogagia dell'oggetto" utilizzava disegni, modellini, osservazione diretta, lavoro manuale, ma non mancavano letture e storie. Fu così che creò un teatro didattico e una nuova formula di narrativa pedagogica in cui un'esile trama narrativa fa da cornice alla trasmissione di valori morali e dei più diversi contenuti educativi. Soprattutto quando fu costretta all'emigrazione e quando, dopo il rientro in Francia sotto Napoleone, si trovò priva di mezzi, diventò una poligrafa capace di scrivere di qualsiasi argomento. Tra i tanti, compare sotto diverse vesti la botanica, che doveva essere una passione antica. Nel Settecento, in effetti, anche grazie a Rousseau, era di moda tra le dame tenere un erbario, avere un'infarinatura di botanica e magari coltivare con le proprie mani un giardino. Nel programma di studi dei figli del duca d'Orlèans non mancavano dunque nozioni di base di scienze naturali, la coltivazione di un piccolo giardino e, come "ricreazione", passeggiate dedicate allo studio dal vivo della piante. Questa esperienza pedagogica ritorna in Les jeux champêtres des Enfants (1821, "I giochi campestri dei bambini") la cui protagonista è una sorella maggiore che per tenere a bada una sorellina ingenua e un fratellino pestifero insegna, sotto forma di gioco, come creare un erbario e trasmette una manciata di nozioni su alcune comuni piante dei campi. L'amore per le piante e la vocazione pedagogica si uniscono nel curioso Herbier moral, ou Recueil de fables nouvelles (1801, "Erbario morale o Raccolta di nuove favole") in cui sulla falsariga di La Fontaine Genlis raccoglie alcune favole in versi, brevi apologhi morali i cui protagonisti non sono animali ma piante . I versi sono un po' pedestri e le storie poco originali, ma qualcuna è animata da un guizzo d'umorismo, come "I due tassi", in cui il tasso di un parco, colmo di disprezzo per il suo vicino, cresciuto sul bordo della strada, alla mercé della polvere e delle intemperie, viene inopinatamente trasformato in una grottesca figura d'orso da un giardiniere maniaco dell'arte topiaria: una scena che riflette tutto l'orrore, in un momento in cui ormai dominava la moda del giardino naturale all'inglese, per il vecchio giardino alla francese, creato a colpi di forbici da un orribile "giardiniere dalla faccia atrabiliare". E' invece un vero e proprio manuale di economia domestica e di agricoltura La Maison rustique pour servir à l'éducation de la jeunesse: ou, Retour en France d'une famille émigrée (1810, "La casa rustica destinata all'educazione dei giovani: o, Ritorno in Francia di una famiglia emigrata") in cui il pretesto narrativo è il rientro in Francia di una famiglia di nobili immigrati che trovano le loro terre abbandonate e devastate; pagina dopo pagina, in tre pedanti volumi, si spiega come ricostruire la casa, come arredarla, come dotarla di una cappella, una biblioteca, un gabinetto di curiosità naturali, come allestire un giardino e un orto, come impiantare e far prosperare ogni genere di coltivazione, dai cereali alla vigna. ![]() Una "gradevole produzione" e una rosa Il maggior contributo di Mme de Genlis alla divulgazione in questo campo è tuttavia La Botanique historique et litteraire (1810, "La botanica storica e letteraria"). Al di là del titolo, non si tratta veramente di "botanica", ma piuttosto di una raccolta di aneddoti, curiosità, informazioni antiquarie sulle piante citate nella Bibbia, negli autori classici e più raramente moderni, divise in alberi, arbusti, piante da fiore; non mancano capitoli sulle piante favolose e sugli alberi d'oro citati nella storia e nella letteratura. Di tutto, di più (in 400 pagine in dodicesimo, un quarto delle quali occupate da una novella o romanzo breve, "Les fleurs, ou les artistes"). Sfogliando quest'opera, che secondo l'autrice le sarebbe costata trent'anni di ricerche - l'ho sfogliata, non letta seriamente, subito annoiata dalla stile piatto, dall'accumulo caotico di informazioni senza gerarchia o criteri evidenti, dalla suprema superficialità del tutto - Mme de Genlis mi è sembrata una specie di Plinio di inizio Ottocento, un'accumulatrice acritica di curiosités, più che una studiosa con un progetto e una qualche capacità di interpretazione del reale. Da una parte sarà stata sicuramente un'opera "alimentare", una delle tante che la scrittrice cominciò a immettere nel mercato editoriale quando si trovò priva di altri mezzi finanziari; dall'altra parte, riflette la sua formazione eclettica e da autodidatta, guidata più dalla curiosità estemporanea che da un serio metodo scientifico. Mi sono ovviamente soffermata su un capitolo che sembra l'antenato di questo blog: Fleurs qui portent le nom de personnages qui ont existé, "Fiori che portano il nome di persone reali"; quattro pagine in tutto, per un totale di 11 piante (due sono nomi popolari che ricordano un personaggio biblico e, forse, un personaggio storico, tre arrivano dall'antichità classica, tre da Linneo e tre da Commerson). Nella loro sbrigativa superficialità, sono una perfetta epitome dell'intera opera. Eccoli qui "i services que Mme de Genlis a rendus à la botanique [...] avec cette agreable production" che secondo una pubblicazione del tempo avrebbero indotto M. de Saint Hilaire a dedicarle un genere di piante brasiliane. A dire la verità, la stessa fonte aggiunge un altro "servizio", più materiale. Prima della rivoluzione francese - non sono riuscita a ricostruire la data esatta, ma sicuramente tra il 1784, data della pace di Parigi, e il 1789 - Mme de Genlis visitò l'Inghilterra, ammirò debitamente i Kews Garden, fu ricevuta dalla regina e, grazie a lord Mansfield, conobbe la rosa muscosa. Il celebre e autorevole giudice, benché ottuagenario, ammaliato come tutti gli uomini dalla affascinante contessa, in occasione del suo compleanno gliene inviò un cesto intero; e alla sua partenza per la Francia gli fece dono di un piede, il primo ad essere coltivato nel paese. Non abbiamo ragioni di dubitare questa storia (anche se le memorie di Mme de Genlis abbondano di inesattezze, dimenticanze e episodi "aggiustati", quando non inventati di sana pianta), ma anche questo "servizio" è messo in dubbio dagli storici delle rose. La rosa muscosa è presumibilmente uno sport, ovvero una variazione spontanea, di Rosa centifolia, una rosa coltivata da secoli in Provenza (e infatti conosciuta come rose de Provence). Secondo la vivaista e esperta di rose antiche Anna Peyron la più antica muscosa (nota solitamente come 'Old Pink Moss' o 'Common Moss') sarebbe stata rinvenuta a Carcassonne nel 1696. Rose muscose furono poi coltivate in Olanda e negli anni '20 del Settecento arrivarono in Inghliterra, dove il primo a coltivarle sarebbe stato Philip Miller al Chelsea Physic Garden. Dunque è credibile che Mme de Genlis abbia portato un piede di rosa muscosa dall'Inghilterra, e forse avrà contribuito a diffonderla in coltivazione, ma non si trattava della prima mai vista in Francia. Ovviamente, c'è un capitolo sulle rose nella Botanique historique e litteraire, e la scrittrice non manca di inserire rose muscose in vari romanzi, considerandole una specie di marchio di fabbrica. In ogni caso, il celebre Vibert nel 1817 non mancò di dedicarle la "Comtesse de Genlis", una gallica presumibilmente perduta, descritta nei cataloghi del tempo "con bei fiori molto doppi, carnicino o grigio lino, ma variabili e prolifiche". Qualche notizia in più sulla lunga e romanzesca vita di mme de Genlis nella sezione biografie. ![]() Genlisea, le vittime non sono mai troppo piccole Nel 1833 il botanico Auguse de Saint-Hilaire, al ritorno dal suo lungo viaggio in Brasile, dedicò uno dei nuovi generi lì scoperti a Mme de Genlis, stabilendo il genere Genlisea, sulla base di quattro specie brasiliane. Al di là dei "servizi" di cui abbiamo parlato, a spingerlo in tal senso possono essere state altre circostanze. Intanto anche Saint Hilaire era un nobile (il suo nome completo, Augustin-François-César Prouvençal de Saint Hilaire, ha poco da invidiare a quello della dedicataria); entrambi vissero fuori dei confini francesi nei tempi difficili del Terrore e del Termidoro; il giovane Saint Hilaire conosceva e ammirava le opere della scrittrice e iniziò una corrispondenza con lei, ricevendone consigli che lo incoraggiarono ad abbandonare l'attività commerciale scelta per lui dalla famiglia per intraprendere studi scientifici. Può aver influito anche il recente rivolgimento storico: nel luglio del 1830, come è noto, la monarchia borbonica venne rovesciata e Luigi Filippo venne scelto come "re dei Francesi"; egli era rimasto legato da affetto e riconoscenza alla sua antica governante e quando questa morì, nel dicembre dello stesso anno, le tributò solenni funerali di stato. Dunque una dedica all'illustre scomparsa cadeva anche perfettamente opportuna dal punto di vista politico. Genlisea è un piccolo genere di singolari piante della famiglia Lentibulariaceae, che comprende 20-30 specie distribuite tra l'Africa tropicale e il Centro e Sud America. Si tratta di piante acquatiche, semi acquatiche o terrestri che vivono in una varietà di habitat accomunati dalla povertà di nutrienti. Per procurarsi questi ultimi si sono evolute come piante carnivore specializzate nella cattura di animali microscopici e protozoi; la cattura avviene per mezzo di trappole sotterranee che funzionano in modo simile a una nassa. Dal ciuffo di foglie a rosetta si dipartono lunghi organi biancastri che non sono radici (la piante ne è priva) ma foglie modificate dotate di strutture cave a Y, formate dall'unione di due sottili tubi; per tutta la lunghezza presentano strutture a spirale che consentono l'ingresso di microrganismi ospitati nel suolo o nell'acqua. Una volta entrati, essi non possono più uscire, perché le scanalature sono dotate di peli che obbligano a procedere verso l'apice della Y, dove le vittime vengono assimilate e digerite. Oltre ai protozoi, che sono le prede più comuni, le Genliseae si nutrono di una varietà di forme di vita microscopiche. E' stato dimostrato che almeno alcune specie producono particolari secrezioni di sostanze chimiche capaci di attrarre le vittime, inducendole a entrare nelle trappole. All'epoca di Saint Hilaire, questo meccanismo era ignoto. Già Darwin sospettò che si trattasse di piante carnivore, tuttavia non aveva idea di quali organismi si nutrissero e in quale modo. Solo nel 1975 la botanica inglese Yolande Heslop-Harrison individuò l'attività di enzimi digestivi in G. africana; in epoca ancora più recente, nel 1998, un gruppo coordinato da Wilhelm Barthlott dimostrò che G. margaretae attrae le sue prede per chemiotassi, li intrappola in trappole a forma di nassa (descritte anche come "trappole a cavatappi"), li digerisce grazie a enzimi e quindi ne assorbe i nutrienti. Per quanto tentata di trovare un parallelo con Mme de Genlis (abilissima manipolatrice e seduttrice, capace di attirare nelle sue trappole creature di dimensioni ben maggiori dei protozoi), devo ammettere che Saint Hilaire non è mai stato sfiorato da un pensiero così malizioso. Qualche approfondimento su questo curioso genere, che è pure dotato di graziose fioriture, nella scheda. Justus Heurnius, medico che si fece teologo, pastore e missionario, scrisse una pagina importante della storia delle missioni calviniste in Oriente. Ma per noi è soprattutto il primo occidentale ad aver descritto alcune piante sudafricane. Per questo lo ricordiamo, nonostante quel piccolo errore ortografico che ha fatto sì che il suo genere celebrativo si chiami Huernia. ![]() Uno scalo al Capo di Buona Speranza Nel 1619 gli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC) conquistarono Giacarta nell'isola di Giava e la ribattezzarono Batavia, facendone la capitale del loro impero commerciale. Qualche mese prima, il giovane teologo Justus Heurnius, dando una lettura teologica e provvidenziale delle vittorie olandesi, aveva rivolto un memorandum (De legatione evangelica ad Indos capessenda Admonitio, "Ammonizione per l'invio di una massione evangelica presso gli Indiani") alle autorità della repubblica e ai dirigenti della VOC affinché si facessero carico della missione di evangelizzare i popoli dei paesi caduti sotto la loro amministrazione. Come conseguenza, a gettare le basi dell'attività missionaria la chiesa di Amsterdam decise di inviare a Giava proprio Heurnius, che nel frattempo era diventato pastore. Fu così che il 9 gennaio 1624 egli salpò a bordo di un vascello della VOC, la Gouda, alla volta di Giava. Le sue competenze non si limitavano alla teologia; figlio e fratello di medici, prima di affrontare gli studi teologici si era laureato in medicina all'università di Leida e doveva possedere una discreta conoscenza in campo medico e erboristico. Ad aprile, la nave fece scalo al Capo di Buona speranza per caricare acqua e viveri (doveva passare un quarto di secolo prima che la VOC vi creasse un punto di scalo stabile, destinato a trasformarsi nella Colonia del Capo); le operazioni si prolungarono per alcuni giorni e in Heurnius si risvegliò l'interesse per la botanica. Non conosciamo i dettagli, ma a giudicare dalle specie raccolte dovette esplorare le pendici della Table mountain dove raccolse, disegnò e descrisse alcune specie, probabilmente scelte tra quelle che apparivano più curiose e esotiche. A maggio il viaggio riprese e a luglio Heurnius sbarcò a Giava, dove iniziò con energia la sua attività missionaria. Appena, possibile ebbe cura di inviare al fratello Otto, medico a Leida, i disegni e le descrizioni delle piante sudafricane (forse accompagnati da esemplari essiccati). Come si è già visto in questo post, Stapelius, amico di Otto Heurnius, ne incluse dieci nella sua mega edizione di Historia plantarum di Teofrasto. Non sappiamo se fossero tutte le piante inviate dal missionario, o se egli avesse operato una scelta. Grazie all'ottima qualità dei disegni e delle descrizioni sono state tutte identificate con un buon grado di probabilità: Morella serrata, Haemanthus coccineus, Manulea rubra, Cotyledon orbiculata, Micranthus tubolosus, Centella villosa, due specie di Oxalis (probabilmente O. versicolor e O. purpurea var. alba), Kniphofia uvaria, Orbea variegata. Nella preparazione della stampa, tra queste due ultime specie dovette avvenire un curioso scambio: di Orbea variegata si dice planta plane inodora, "pianta praticamente senza odore", di Kniphofia invece flos foetidi odoris est, "è un fiore dall'odore fetido". In ogni caso, Heurnius si è guadagnato l'onore di essere il primo europeo a raccogliere e descrivere piante sudafricane in un testo a stampa. Secondo una testimonianza di Parkinson, anche a Giava Heurnius "dottore in cose divine e in medicina" non tralasciò la botanica e l'erboristeria: avrebbe infatti inviato in patria un libretto o una collezione di piante dell'isola, con le loro virtù e gli usi, conservato in una teca dell'università di Leida; alcuni suoi amici gli avevano riferito dell'eccellente descrizione di Nymphaea glandulifera batavica javorum che vi si poteva leggere. Di questo secondo contributo alla botanica di Heurnius si sono perse le tracce; decisamente importante fu invece la sua attività come teologo e missionario. Per qualche approfondimento, si rimanda alla biografia. ![]() Huernia, fiori come gioielli in miniatura Può rincrescere che Linneo decidesse di rendere omaggio con il genere Stapelia all'editore Stapelius e non allo scopritore e descrittore Heurnius. A questa piccola ingiustizia mise rimedio Robert Brown che nel 1810, rivedendo il genere Stapelia, ne separò alcune specie che andarono a formare il nuove genere Huernia; come si può notare, commise un piccolo errore di grafia, scambiando la seconda e la terza lettera del cognome del dedicatario (errore che secondo le regole della nomenclatura botanica va rispettato). Nel cambio con Stapelius Heurnius non ci perde. Huernia (anch'esso appartenente alla sottotribù Stapeliinae della famiglia Apocynaceae) è un genere anche più numeroso e diffuso di Stapelia: conta una cinquantina di specie, con un'aerale alquanto vasto che va dalla penisola arabica al Sud Africa, passando per l'Etiopia e ampia parte dell'Africa orientale. Di piccole dimensioni (i fusti solo alti al più una decina di centimetri) ed estremamente vario per la forma e i colori dei fiori, si adatta bene anche alla coltivazione in vaso; è quindi molto ricercato dai collezionisti di succulente. I fiori sono piccoli gioielli di non più di 2-3 cm di diametro, prevalentemente rossi, gialli o bruni, spesso con strisce e variegature, con corolla a stella pentagonale con angoli molto ottusi oppure a cinque lobi maggiori intervallati da altrettanti piccoli lobi minori; alcune specie sono anche dotate di un anello in rilievo attorno alle corone (annulus). Tanta bellezza e tanta varietà di forme fa volentieri perdonare quell'odorino poco simpatico che hanno in comune con la maggior parte delle consorelle. Qualche notizia in più nella scheda. A ricordare indirettamente Heurnius, c'è anche il piccolissimo genere Huerniopsis ("d'aspetto simile a Huernia"), che comprende due sole specie di Stapeliinae diffuse in Bostwana e Sud Africa, caratterizzate dall'assenza o dalla riduzione della corona esterna; tanto per cambiare, emanano un nauseante odore dolciastro. Per qualche dettaglio, si rimanda alla scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
February 2025
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