Nel 1586, presso l'editore Rouillé di Lione, comparvero i due tomi di Historia generalis plantarum, nota anche come "erbario di Lione". Il primo elemento che ci colpisce aprendo quest'opera poderosa è che, nonostante il reboante sottotitolo che promette al lettore la descrizione di tutte le piante note agli antichi nonché di quelle prima ignote scoperte "nelle parti orientali ed occidentali" e oltre un migliaio di illustrazioni "riccamente superiori a tutte le precedenti", il frontespizio non rechi il nome di alcun autore. Eppure un autore, o almeno un autore principale, c'era, e aveva lavorato a quell'opera per almeno un quarto di secolo. Era il medico, botanico e filologo Jacques Daléchamps. È troppo per pensare che fosse così insoddisfatto della redazione finale, che l'editore aveva affidato ad altri, da preferire che il suo nome non comparisse? Confusa, piena di errori, pesantemente censurata da Caspar Bauhin, con le sue oltre 2700 piante era comunque l'opera più ampia e ambiziosa dell'epoca e nonostante i difetti fu molto letta e consultata, specie nell'edizione francese. A ricordare il dottissmo Daléchamps, autore anche di una notevolissima edizione di Plinio, il genere Dalechampia, omaggio di Plumier replicato da Linneo. ![]() Un autore, troppi autori e un'opera anonima Nel Cinquecento, in seguito ai viaggi di esplorazione, il numero di piante conosciute incominciò ad aumentare drammaticamente, dalle poche centinaia note agli antichi alle migliaia incontrate dai viaggiatori europei nelle Americhe, in Asia, in Africa. I botanici del tempo, però, si illudevano ancora che il loro numero fosse gestibile, che fosse ancora possibile a una singola persona racchiuderle tutte in una singola opera. Dal De plantis di Andrea Cesalpino al Pinax di Caspar Bauhin, che con le sue 6000 piante segnerà allo stesso tempo il culmine e la fine di questo filone, il secondo Cinquecento è tutto un fiorire di queste opere enciclopediche che si vorrebbero onnicomprensive. Tra i tentativi più grandiosi ma allo stesso tempo sfortunati, spicca Historia generalis plantarum di Jacques Daléchamps (1513-1588). Figlio egli stesso di un medico di Caen, nel 1545, già ultratrentenne, si iscrisse all'università di Montpellier, dove fu uno dei primissimi allievi di Rondelet, con il quale rimase in termini di stretta amicizia, scrivendo in suo onore anche due dei poemi encomiastici che si leggono in De piscibus. Dopo la laurea, per qualche tempo visse a Valence e a Grenoble, finché intorno al 1550 si stabilì a Lione dove sarebbe vissuto fino alla morte. Nel 1552 fu nominato medico dell'Hôtel-Dieu dove avrebbe esercitato per circa trent'anni, nel corso dei quali fu sempre più presente nella vita cittadina. Erano anni difficili per Lione, devastata dalle guerre di religione, della povertà, dalla sifilide, da ripetute epidemie di peste. Daléchamps si fece un nome come ottimo medico e chirurgo e fu più volte chiamato a far parte delle commissioni mediche nominate dal consiglio cittadino o dal governatore per cercare di contrastare quel terribile flagello. Proprio alla peste dedicò quella che è probabilmente la sua prima opera a stampa (De Peste libri tres opera Jacobi Dalechampii, 1552), che non è un lavoro originale, ma la riedizione di un trattato trecentesco del medico di Montpellier Raymond Chalin de Vinario. È l'ingresso di Daléchamps nel mondo dell'editoria che aveva in Lione una delle sue capitali. Da quel momento egli fu molto attivo sia come autore (gli si deve tra l'altro una Chirurgie Françoise, pubblicata nel 1570), sia come filologo, traduttore e divulgatore di opere dell'antichità: tradusse in latino e commentò I deipnosofisti di Ateneo di Naucrati; tradusse in francese dal greco l'opera di Galeno e le opere mediche di Paolo Egineta e dal latino le opere mediche di Celio Aureliano. La più importante delle sue opere filologiche è senza dubbio l'edizione commentata della Naturalis historia di Plinio (1584), un lavoro dottissimo e assai apprezzato che lo impegnò per almeno un decennio. Al momento della morte, lasciò manoscritta un'edizione delle opere dei due Seneca, il retore e il filosofo, e una traduzione latina di tutte le opere superstiti di Teofrasto. Furono presumibilmente proprio questi molteplici impegni editoriali ad impedirgli di curare di persona la pubblicazione di Historia generalis plantarum e in definitiva a determinarne il fallimento. D'altra parte l'iniziativa di pubblicare una grande opera illustrata che raccogliesse tutte le piante note agli antichi e ai moderni presumibilmente non venne da lui, ma dall'editore Rouillé; nella prefazione (Lettera al lettore), quest'ultimo scrive: "Più di 20 anni fa, entrando nello studio di Jacques Daléchamps, trovai questo eccellente medico intento a consultare un grosso manoscritto di disegni di piante; la vista di questi disegni rari e squisiti mi fece pensare che avrebbero potuto essere l'infanzia e l'origine di un'opera estesa". Questa versione è confermata dal medico lionese Jacques Pons, una fonte molto affidabile in quanto collega ed amico di Daléchamps. Rouillé (in latino Rovillus), che si era formato a Venezia con i Giolito, era un abilissimo imprenditore che nei suoi 45 anni di attività pubblicò circa 830 testi, spaziando dai classici alla letteratura francese, italiana e spagnola, al diritto, alla religione, alla medicina e alle scienze. Sapeva scegliere i suoi collaboratori ed era perfettamente consapevole che il successo commerciale di un'opera di botanica dipendeva soprattutto dall'apparato iconografico, come avevano dimostrato i recenti esempi di Historia stirpium di Fuchs (1542) e dell'edizione latina illustrata dei Commentari di Mattioli (1554). Non stupisce che sia stata attratto e colpito, più che dal sapere botanico e filologico di Daléchamps, dalla sua grande ed eccellente collezione di immagini. Daléchamps iniziò a collaborare con Rouillé nel 1552 curando il già citato trattato sulla peste; nel 1558 l'editore lo coinvolse in una riedizione del commento a Dioscoride di Amato Lusitano. Stando al sottotitolo, "sono state aggiunte a quest'opera, oltre alla correzione dei lemmi, le annotazioni di R. Constantin nonché le immagini dei semplici di Leonhardt Fuchs, Jacques Daléchamps e altri", il suo ruolo dovette limitarsi a procurare alcune immagini, mentre le altre furono "piratate" da Fuchs ed altri. Della cura del testo si occupò un altro medico e filologo, Robert Constantin. Anche lui era originario di Caen e buon amico di Daléchamps, cui dedicò la sua opera più nota, il Lexicon graeco-latinum (1562). Se già a questa data egli aveva messo insieme quel grosso manoscritto di "disegni rari e squisiti", possiamo ipotizzare che Daléchamps avesse iniziato ad erborizzare, disegnare o far disegnare piante, se non nella sua giovinezza in Normandia, per lo meno negli anni di studio a Montpellier, secondo l'insegnamento di Rondelet, che incoraggiava i suoi allievi a percorrere le campagne alla ricerca di piante. Dovette dunque aderire con entusiasmo al progetto editoriale di Rouillé, che da parte sua si fece carico delle costosissime matrici xilografiche, sia originali, sia copiate da altre opere; mise a disposizione di Daléchamps il suo grande giardino, la Recluserie de Ste Hélène, dove secondo Pierre Jacquet, "i botanici lionesi coltivavano le piante descritte in Historia generalis plantarum"; tramite la sua vasta rete commerciale, gli fece inviare campioni di piante da tutto l'Occidente; infine, gli trovò in successione due aiutanti. Il primo fu Jean Bauhin (1541-1613). Allievo di Fuchs e Gessner, nell'ottobre 1561, appena ventenne, si iscrisse alla facoltà di medicina di Montpellier, laureandosi l'anno successivo. Anche lui allievo di Rondelet, durante il soggiorno in Linguadoca erborizzò intensamente con il condiscepolo Leonhard Rauwolf. Viaggiò poi in Italia e nel settembre 1563 si stabilì a Lione, prendendo alloggio a casa di Rouillé. Qui lavorò a un'opera sulle piante che, secondo diversi commentatori, altro non sarebbe che Historia generalis plantarum. Nel 1568, come protestante, dovette però lasciare la città con la famiglia (nel frattempo si era sposato con una lionese) e rifugiarsi in Svizzera. Nella sua prefazione, Rouillé non fa parola di questa collaborazione, mentre in una lettera scritta circa trent'anni anni dopo, a proposito di Historia generalis plantarum Jean Bauhin scrive "Quando questa storia mi è stata affidata, mi dedicai ad essa con coraggio e con qualche successo". Pierre Jacquet, che verso la fine del Novecento ha dedicato un approfondito articolo ai botanici lionesi del Rinascimento, soffermandosi in particolare su Daléchamps e sull'erbario di Lione, ritiene si tratti di una vanteria, corrispondente all'aspirazione di Bauhin di "essere riconosciuto come collaboratore di questa grande impresa, ma le circostanze hanno fatto sì che la sua partecipazione sia fallita e ne è derivato un grande risentimento". Jacquet è però in controtendenza; generalmente si ritiene che l'opera a cui lavorava Jean Bauhin quando viveva a Lione fosse Historia generalis plantarum e che egli abbia iniziato a lavorare alla sua Historia plantarum universalis molto dopo. Del resto, visto il pessimo giudizio di Bauhin sull'opera, è strano che desiderasse intestarsela. Tuttavia, il suo soggiorno a Lione durò appena cinque anni, il che dovette forzatamente limitare la portata del suo contributo. Daléchamps dovette continuare a lavorare alacremente al grandioso progetto nel corso degli anni '70, da una parte moltiplicando le ricerche sul campo, dall'altra leggendo, annotando, confrontando, chiosando le opere botaniche di antichi e moderni. Jacquet ha documentato una serie di viaggi in Normandia, a Parigi (dove potrebbe aver visitato giardini pubblici e privati con collezioni di piante esotiche), in Alvernia, nelle Cevenne, nel Delfinato, nel Giura, nel Vallese, nella regione di Ginevra. Daléchamps corrispondeva (e scambiava materiali) con molti botanici di primo piano, tra i quali troviamo Gessner, Camerarius e Lobel. Tuttavia, con l'intensificarsi degli altri impegni editoriali - il commento a Plinio, dopo un impegno ventennale, fu completato e pubblicato nel 1587, contemporanemente a Historia generalis plantarum, e in quegli anni Délechamps lavorava anche alle traduzioni di Teofrasto e Seneca - egli dovette rassegnarsi ad affidare ad altri la redazione finale di quella che in una lettera all'amico Camerarius definisce la "nostra opera monumentale sulle piante"; la scelta dell'editore cadde sul medico Jean Desmoulins (1530-1582). Anch'egli aveva studiato a Montpellier, ma probabilmente non fu allievo di Rondelet, morto lo stesso anno della sua iscrizione alla facoltà di medicina; collaborava da tempo con Rouillé per il quale aveva curato la traduzione francese dei Commentarii di Mattioli (Les Commentaires de M. Pierre-André Matthiole, médecin sénois, sur les six livres de P. Dioscoride, 1572 e nuovamente 1579). La natura del contributo di Desmoulins è chiarita dal ben informato Pons che, dopo aver ricordato la genesi dell'opera, il debito con gli antichi e i moderni (cita Mattioli, Dodoens, Anguillara, Fuchs, Lobel e Pena, Bock e un misterioso Tenerus) e le "non poche" descrizioni e immagini messe insieme da Daléchamps, scrive: "Il medico Molinaeus [= Jean Desmoulins], uomo di singolare erudizione e dottrina, con la massima cura e diligenza divise questa massa di piante [ovvero sia quelle raccolte e descritte da Daléchamps, sia quelle ricavate dalle opere di autori antichi e moderni] in ordini e classi, ne aggiunse molte dagli antichi, e anche qualcuna di suo, avvelendosi del consiglio di Daléchamps". Insomma, il suo ruolo fu quello di editor o, se vogliamo usare l'espressione impiegata da Jacquet, di negro, incaricato di trasformare le note più o meno organizzate accumulatesi in 25 anni di lavoro in un testo compiuto. Inoltre contemporaneamente attese a una traduzione parziale in francese. Forse la cosa avrebbe potuto funzionare, se Desmoulins non fosse morto nel 1582, quando era stata completata la stampa solo dei primi 4 libri (su 17 totali). Daléchamps - vecchio, malato, sovraccarico di lavoro - non poteva occuparsene, Rouillé voleva pubblicare a tutti i costi, viste le ingenti spese già sostenute; di fatto, tra dilazioni e ritardi, a occuparsi di quanto rimaneva sarebbero stati i tipografi, con l'accumularsi di errori di ogni tipo. Scrivendone a Clusius in una lettera del 1603, Lobel indica un colpevole: "M. Chaubin [presumibilmente il proto che si occupò della messa in pagina] è imputabile degli errori e dei gravi abusi di questo erbario e di ben 400 figure usate due o anche tre volte per la stessa pianta in paragrafi diversi". Adriaan van der Spiegel nella sua Isagoge in rem herbariam (1606) aggiunge altri responsabili: "si afferma da fonte sicura che [Daléchamps] aveva lasciato incompiuto il suo erbario; così questo libro contiene molti errori dovuti ai copisti che hanno preparato l'erbario per la stampa". Infine i due volumi furono pronti per la fiera di Lione del gennaio 1586 (a causa dell'ennesimo refuso, il primo volume reca la data 1587), ma sul frontespizio non compare il nome di nessun autore; la spiegazione più probabile è che, vedendo il disastro, Daléchamps abbia preferito non figurare come autore di un'opera così sconciata. Forse sperava di firmare una prossima seconda edizione rivista; tuttavia egli morì nel 1588, Rouillé lo seguì l'anno dopo, e il suo erede non aveva alcun interesse a mettere mano a una seconda edizione, tanto più che la prima non era esaurita; solo molti anni dopo, nel 1617, avrebbe pubblicato l'edizione francese nella traduzione di Jean Desmoulins che, al contrario, di quella latina, fu un successo editoriale . ![]() Luci e ombre di un'opera monumentale Per dimensioni e numero di piante trattate si trattava effettivamente di un'opera enciclopedica: due volumi in folio per 2034 pagine complessive, illustrate con 2686 incisioni; le piante trattate sono 2700, molte di più di qualsiasi opera precedente (per fare due soli esempi, in Stirpium adversaria nova di Pena e Lobel erano 1200, in De plantis di Cesalpino 1500). Le piante non sono esposte in ordine alfabetico, ma raggruppate in diciotto categorie, ognuna delle quali occupa un libro. A differenza proprio di Cesalpino o anche di Lobel, non abbiamo a che fare però con un sistema, ma con raggruppamenti eclettici, basati ora sull'habitat, ora sugli usi, ora su caratteristiche delle piante stesse. Iniziando dal Libro I, troviamo gli alberi che crescono spontaneamente nei boschi; quindi gli arbusti che crescono spontaneamente nelle siepi e nei cespugli (libro II); gli alberi piantati nei frutteti (libro III); grani, leguminose e erbe selvatiche che li accompagnano (libro IV); ortaggi e erbe che crescono nei giardini e negli orti (libro V); le ombellifere (libro VI); le piante che piacciono per i loro fiori (libro VII); piante aromatiche (libro VIII); piante palustri (libro IX); piante che crescono in luoghi aspri, sabbiosi, rocciosi o aridi (libro X); piante dei luoghi ombrosi, umidi, fangosi, umiferi (libro XI); piante delle rive del mare e del mare stesso (libro XII); piante rampicanti (libro XIII); cardi e altre piante spinose e pungenti (libro XIV); piante bulbose, con radici carnose e geniculate (libro XV); piante purgative (libro XVI); piante velenose (libro XVII); piante esotiche (libro XVIII), ovvero le plantae peregrinae come si chiamavano allora. È il libro più ampio - oltre 170 pagine -attinto soprattutto da Mattioli, Clusius e Lobel. Segue un amplissimo indice plurilingue (latino, greco, arabo, francese, italiano, spagnolo, tedesco, olandese, ceco e inglese) di una cinquantina di pagine. A questo punto l'editore dovette accorgersi che qualcosa rimaneva fuori e volle ancora aggiungere due appendici, la prima sulle piante esotiche poco note, ricavata essenzialmente dalle opere di Acosta e Garcia da Orta, la seconda sulle piante egizie e siriane inviate da Rauwolf. Dalle lettere di Daléchamps a Camerarius sappiamo che questa aggiunta fu un'idea esclusiva di Rouillé, che rallentò ulteriormente la pubblicazione e lo contrariò assai. Da eccellente editore qual era, Rouillé garantì un'opera graficamente curata, con bei capilettera e capitoli chiaramente scanditi da sottotitoli a margine; ogni capitolo è dedicato a una pianta, di cui vengono esposti i nomi (nomina), le sottospecie o tipi (genera), l'aspetto (forma), l'habitat (locus), le proprietà medicinali e gli usi, con riferimenti puntuali e citazioni di antichi e moderni; l'opera vuole infatti presentarsi come una summa di tutto ciò che è stato scritto sulle piante fino a quel tempo. Secondo Jacquet, gli autori citati sono oltre 300. Tra gli antichi i più citati sono Plinio e Dioscoride, tra i moderni Mattioli, Pena e Lobel. Un enorme sovraccarico informativo che è crollato su se stesso quando la cura dell'opera è rimasta abbandonata a Rouillé e ai suoi tipografi. I possibili disastri sono ben esemplificati dalla voce Primula del settimo libro (riprendo l'esempio dal bell'articolo di B. Olgivie The Many Books of Nature: Renaissance Naturalists and Information Overload); dopo averne elencato i nomi, vengono descritti i tre tipi menzionati da Dodoens, cui se ne aggiungono altri tre, per un totale di sei, ma le illustrazioni sono sette. Segue un lungo excursus in cui si discute se questa pianta va identificata con il verbascum di Dioscoride, che risulta del tutto inutile dato che esso viene confuso con verbasculum. Così, quando infine l'opera uscì, per citare ancora Olgivie, "molti contemporanei condivisero l'impressione che fosse una raccolta di note mal editate". Clusius la attendeva con impazienza, ma dopo la sua pubblicazione non la menzionò mai, forse anche offeso dall'omissione di molte piante trattate nelle sue opere. Anche il medico e naturalista sassone Caspar Schwenckfeld ne fu profondamente deluso: in una lettera a Caspar Bauhin, scrive che il libro è stato messo insieme con poco giudizio e in un ordine confuso. Durissimo il giudizio di Jean Bauhin: "A dire il vero, colui che ha messo insieme questo erbario di Lione ha usato i nostri materiali, ma con molte altre cose, li ha accatastati con poco giudizio, talvolta separando i generi dalle specie, talvolta introducendo, spesso a sproposito, descrizioni e rappresentazioni. Ovviamente non poteva fare diversamente, essendo mal informato in materia di piante e poco al corrente delle dotte riflessioni del sapientissimo Daléchamps, che confonde indistintamente con le nostre e quelle di qualcun altro. Ne risulta una storia confusa, mal digerita e senza giudizio e, si potrebbe dire, senza grande utilità per il vero botanico". Se Bauhin poteva essere mosso dal risentimento personale, si deve invece al devoto ricordo dell'amico scomparso e al desiderio di salvare il salvabile l'intervento di Jacques Pons. Nell'opuscolo In Historium generalem plantarum Rouillii, duobus tomis et appendice comprehensam breves annotationes & animadversiones compendiosæ, pubblicato nel 1600, dopo una breve prefazione utile per ricostruire la genesi dell'erbario di Lione, egli elencò e corresse 294 errori, per la più tipografici e non sostanziali. Pons dimostra grande ammirazione per Daléchamps, non critica l'opera in sé e di fatto il suo è un errata corrige, di cui infatti gli eredi Rouillé tennero conto nell'approntare l'edizione francese (Histoire générale des plantes, sortie latine de la bibliothèque de M. Jacques Daléchamps, puis faite française, par M. Jean de Moulins, 1615). Hanno invece tono e intento demolitorio le Animadversiones in historiam generalem plantarum Lugduni editam pubblicate nel 1601 da Caspar Bauhin; le sue critiche puntano in particolare contro le descrizioni e le figure prese di peso da altre opere e soprattutto il pasticcio delle figure, 400 delle quali sono ripetute due o anche tre volte. Le tristi vicende editoriali della sua opera botanica hanno finito anche per occultare a lungo il contributo personale di Daléchamps non come erudito o chiosatore di opere altrui, ma come botanico sul campo. Il primo ha sottolineare questo aspetto fu forse Dominique Villars nel 1786 scrivendo: "Quanto ne avrebbe guadagnato la reputazione di Dalechamps se, invece di affidare le sue note a medici che poco sapevano di botanica, a tipografi, a gente che voleva racchiudere tutto in una storia generale, avesse potuto redigere egli stesso e darci ciò che aveva visto, senza obbligare G. Bauhin a scrivere [...] un libro per rilevare gli errori grossolani in cui essi erano caduti". Qualche anno dopo, in Historia rei herbariae (1807) Curd Sprengel diede un primo elenco di 57 piante del Lionese e della Francia occidentale descritte per la prima volta da Daléchemps; tuttavia, il suo contributo come pioniere dello studio della flora delle Alpi occidentali è stato messo in luce solo all'inizio del Novecento dallo svizzero Hermann Christ. Nel suo articolo più volte citato, Jacquet ha infine individuato "131 piante nuove descritte da nostro semplicista lionese", fornendone l'elenco con i nomi di Daléchamps e quello attuali. Nel mare magnum di Historia generalis plantarum, rappresentano appena il 6%, ma sono sufficienti a dimostrare che non sbagliava Linneo in Philosophia botanica a classificare il nostro non solo tra i "commentatori degli antichi" (pensava certo al suo Plinio), ma anche tra i "descrittori utilissimi". ![]() Una pianta degli orti e un genere singolare Il XVI capitolo del V libro, quello sulle umili piante degli orti, è dedicato a Hieracium. Se ne illustra il nome in greco, latino e francese, quindi si passa ai tipi: "Dioscoride gli assegna due tipi, il grande e il piccolo, ai quali Daléchamps aggiunge Hieracium macrocaulon [...]. Quest'ultimo prende il nome dalla lunghezza del fusto". Questo "Hieracium" dal fusto lungo e sottile oggi si chiama Hypochaeris radicata ed in realtà era già stato descritto da Dodoens e Lobel. La vera novità è il supposto H. magnum di Dioscoride, di cui Daléchamps, contestando la precedente identificazione di Mattioli, fornisce una propria illustrazione e un'accuratissima descrizione. Sono le prime in assoluto di una pianta che ancora porta il suo nome: è il boccione maggiore Urospermum dalechampii. Ma, per volere di Plumier confermato da Linneo, Daléchamps è ricordato anche da un genere esotico, che mai vide e conobbe. Dalechampia (famiglia Euphorbiaceae) è un grande genere di un centinaio di specie diffuso soprattutto dal Messico all'America tropicale, con un numero minore di specie in Africa, Madagascar e Asia meridionale; il numero maggiore di specie si concentra invece in Brasile, con una settantina di specie e una cinquantina di endemismi. È caratterizzato da fiori unisessuali secondariamente uniti in infiorescenze bisessuali (pseudanthia) che fungono da unità di impollinazione. Ciascuna infiorescenza, a simmetria bilaterale, è caratterizzata da due brattee grandi e vistose oppure piccole e ridotte a stipole, un pleiocasio di 4-50 fiori staminati (maschili) e una cimetta di 1-3 fiori pistillati (femminili); diverse specie sono munite di ghiandole resinifere. La singolarità dei fiori, unici in questa famiglia (tanto che il genere è l'unico rappresentante di una propria tribù, Dalechampiinae), e la grande varietà di forme di impollinazione ne hanno fatto uno dei gruppi più studiati tra le Euphorbiaceae. La maggior parte delle specie neotropicali sono impollinate da femmine di varie specie di imenotteri che usano la resina per costruire i nidi; una dozzina di specie è però impollinata da imenotteri maschi, che si servono della resina profumata per attirare le femmine. Le specie asiatiche sono impollinate da api Megachile racoglitrici di resina, mente quelle malgasce lo sono sia da api raccoglitrici di resina sia da api raccoglitrici di polline. Le Dalechampia sono prevalentemente rampicanti, in alcuni casi liane, più raramente arbusti o suffrutici. Hanno rami cilindrici, in alcune specie muniti di peli urticanti, morfologia fogliare molto varia, con foglie da intere a composte, con lamina lineare, obovata, cordata, lanceolata, talvolta profondamente lobata, con grande variabilità anche nello stesso individuo. Alcune specie con brattee vistosamente colorate sono talvolta coltivate; quella più comunemente offerta dai vivai è Dalechampia aristolochiifolia, con brattee viola, anche se, a causa della scorretta identificazione iniziale, è per lo più commercializzata come D. dioscoreifolia.
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Nel 1546, quando parte per il suo memorabile viaggio in Oriente, il francese Pierre Belon è già un naturalista completo, formatosi niente meno che alla scuola del geniale Valerius Cordus. Visita quei paesi da vero uomo del Rinascimento, deciso a tutto osservare e tutto annotare. Il suo obiettivo principale è identificare in situ le piante e gli animali citati nelle opere di Galeno e Dioscoride, ma non mancherà di soffermarsi sulla geografia, i monumenti, gli usi e i costumi, la medicina. Al suo ritorno, oltre a descrivere ciò che ha visto e osservato nel suo libro più celebre, Les observations de plusieurs singularitez et choses memorables trouvées en Grèce, Asie, Judée, Egypte, Arabie et autres pays étrangèrs, continua a viaggiare in Europa e pubblica moltissimo, forse nell'intento di scrivere una grande storia naturale. Incisivo soprattutto il suo contributo alla zoologia, con due notevoli trattati, uno sui pesci e l'altro sugli uccelli, celebre per contenere il primo tentativo di anatomia comparata. Come botanico, scrive la prima opera dedicata esclusivamente alle conifere e un trattato di arboricoltura, che riflette il suo interesse per l'acclimatazione di piante esotiche; gli è attribuita l'introduzione in Francia di diverse piante mediterranee, dal cedro del Libano all'albero di Giuda. Grazie a Plumier e Linneo, lo ricorda il piccolo genere Bellonia (Gesneriaceae), endemico di Cuba e Haiti. ![]() Anni di apprendistato: Francia, Germania, Italia Dopo il disastro della battaglia di Pavia (1526), per controbilanciare lo strapotere di Carlo V, il re di Francia Francesco I cerca l'alleanza di Solimano il Magnifico. Dal 1537 c'è un ambasciatore permanente presso la Sublime Porta. Il primo è Jean de la Forest, che negozia le Capitolazioni che concedono alla Francia gli stessi privilegi di cui già godevano Venezia e Genova: la sicurezza dei beni e delle persone, l'extraterritorialità e la libertà di trasportare e vendere beni a condizione di pagare i diritti di dogana; tuttavia, la sua missione è complessivamente un fallimento e le Capitolazioni saranno ratificate solo nel 1569. Si succedono diversi altri ambasciatori, che sono soprattutto militari, e negli anni successivi i turchi intervengono a più riprese a fianco dei francesi contro gli imperiali; tuttavia nel 1545, Francesco I è costretto ad accettare la pace di Crépy che prevede il riconoscimento del dominio di Carlo V sull'Italia e un armistizio tra turchi e imperiali. Il re francese l'ha siglata a malincuore, e non sogna altro che riprendere la guerra. Conta più che mai sull'alleato ottomano, che vorrebbe convincere a rompere la tregua e a intervenire sia in Italia sia in nord Africa. Per recuperare il prestigio intaccato da tante sconfitte e da una politica esitante, nel 1546 invia a Costantinopoli una grandiosa ambasceria. A capeggiarla è Gabriel de Luetz, signore di Aramon, un diplomatico esperto che conosce bene la corte ottomana per aver già partecipato a missioni precedenti, accompagnato un grandioso seguito di settantacinque o ottanta persone. E' una missione diplomatica, ma anche scientifica; del gruppo fanno parte l'erudito Pierre Gilles, con il compito di procurare manoscritti per la biblioteca reale, e il naturalista Pierre Belon, con la missione di recensire le risorse dell'impero ottomano in vista di una futura partnership commerciale. Più tardi, saranno raggiunti dall'avventuroso André Thevet e dal geografo Nicolas de Nicolay. Tutti al loro ritorno in Francia pubblicheranno resoconti dei loro viaggi. Quello più importante dal nostro punto di vista, e non solo per lo spazio privilegiato occupato dalle piante e dagli animali, è quello di Pierre Belon, Les observations de plusieurs singularitez et choses memorables trouvées en Grèce, Asie, Judée, Egypte, Arabie et autres pays étrangèrs. Belon è un erudito, che affronta il suo viaggio in Oriente con il bagaglio di molte letture, ma è soprattutto un osservatore meticoloso, deciso a mettere al primo posto l'esperienza diretta. E' il metodo che ha appreso dal suo maestro, il botanico tedesco Valerius Cordus, di cui in qualche modo raccoglie l'eredità: visitare il Levante per verificare sul posto la tradizione botanica degli antichi era il grande sogno di Cordus, morto troppo presto. Pierre Belon (1517-1564) nasce nel villaggio di Souletières, a una trentina di km da Le Mans, che più tardi avrebbe considerato la sua patria, tanto da firmarsi alla latina Petrus Bellonius Centomanus. Non conosciamo quasi nulla dei suoi primi anni: nato probabilmente in una famiglia contadina, trascorre l'infanzia in Bretagna, in un ambiente dove già stava penetrando il protestantesimo (forse nelle terre dei Rohan), con una natura varia e affascinante che accende il suo interesse per le scienze naturali. Adolescente, entra come apprendista nella bottega di un conterraneo, il farmacista René des Prez, e nel 1535 lo segue in Alvernia al servizio di Guillaume du Prat, vescovo di Clermont. Tre anni anni dopo torna nel Maine e passa al servizio di René du Bellay, vescovo di Les Mans, probabilmente come farmacista. Il vescovo era il più giovane dei quattro fratelli du Bellay (Guillaume, Jean, Martin e appunto Renè) che, come diplomatici, uomini politici, religiosi, mecenati delle arti e scrittori essi stessi, ebbero un ruolo di primo piano nella politica e nella cultura francese del Rinascimento. Erano inoltre cugini del grande poeta Joachim du Bellay, uno dei sette fondatori della Pléiade. E' forse la comune passione per le piante che fa scoprire al vescovo il talento di quel giovane farmacista. A Touvoie, non lontano da Les Mans, il vescovo possiede un raffinato giardino che anni dopo sarà lodato da Conrad Gessner: "E' impossibile lodare a sufficienza il giardino di René du Bellay, vescovo di Les Mans, per la coltivazione delle erbe e degli alberi più rari; è il più nobile tra tutti quelli che oggi possiamo vedere non solo in Germania ma nella stessa Italia, tanto che nulla si può aggiungere all'assoluta cura e diligenza d'un giardino ben coltivato e ricolmo di innumerevoli ricchezze di piante". Lo stesso Belon lo definirà «un vasto vivaio di alberi e arbusti esotici»; è considerato uno dei primi giardini botanici francesi, ma più correttamente si trattava di un giardino di acclimatazione nonché di un arboretum. La relazione tra Belon e il giardino di Touvoie non è molto chiara. Scrivendone molti anni dopo la morte del suo protettore, dopo aver lodato la singolare liberalità e bontà del cancelliere di Francia François Olivier, Belon aggiunge: "Lo stesso si può dire del fu monsignor René du Bellay, vescovo di Le Mans, dal quale in passato nella nostra giovane età abbiamo ricevuto benefici, e non per avergli portato i semi di parecchie piante dall'Italia, dalla Germania e dalle Fiandre, alcune delle quali ancora sopravvivono, abbellendo il giardino Touvoie che egli ha creato vicino alla città di Les Mans". Una base molto esile per dedurne che Belon in quel giardino avesse il ruolo di giardiniere, di curatore o addirittura di progettista, come si legge in varie parti. E' invece certo che il vescovo decide di prendere sotto la sua ala protettrice il promettente giovanotto e di finanziargli gli studi. Così, nel 1540 Belon parte per una meta sorprendente nell'Europa dilaniata dai conflitti religiosi: l'università di Wittenberg, ossia il maggiore centro culturale del luteranesimo, fondata dal protettore di Lutero Federico il Saggio e profondamente influenzata dal suo braccio destro Filippo Melantone. Meno sorprendente conoscendo il ruolo dei fratelli du Bellay nella diplomazia ufficiale, ufficiosa e segreta della Francia di Francesco I. Il capo della famiglia, Guillaume (soldato lodato per il suo coraggio, fine diplomatico, storico e scrittore di talento, autore di molti dei testi ufficiali di Francesco I), prima in Italia e poi nel resto d'Europa intessé una rete informale di corrispondenti, informatori ed agenti, reclutata soprattutto tra i letterati e gli eruditi che temevano lo strapotere imperiale. Du Bellay alimentava ovunque era possibile la contestazione contro Carlo V, in particolare in Germania, dove intratteneva rapporti ufficiosi con i principi protestanti della Lega di Smalcalda. Non sappiamo se prima di partire per la Germania Belon abbia incontrato il potente fratello del suo protettore, e se già a questo punto sia stato reclutato nella sua rete; ma certo in Germania non perde tempo. Egli, che ha appreso il latino e il greco da autodidatta, segue le lezioni di farmacia, chimica e botanica del brillante Valerius Cordus che commenta Dioscoride, ma soprattutto insegna ai suoi allievi un metodo rigoroso che, senza negare il patrimonio di conoscenze ereditato dai classici, lo verifica alla luce dell'esperienza diretta; da lui impara ad osservare meticolosamente, a cogliere affinità e differenza, cogliere i particolari che distinguono una pianta dalla altra. Insieme a Cordus, che ha appena due anni più di lui ed è ormai un amico, viaggia incessantemente alla scoperta della flora tedesca: "Nessuno se n'è mai andato altrettanto vagando per i paesi di Sassonia, Turingia, Pomerania quanto me, anzi in tutte le foreste di Germania e di Boemia. Nello spazio di quattro mesi percorremmo tutte le contrade della Germania, ospiti talvolta di teologi talvolta di medici, finché giungemmo nella Germania settentrionale". Benoît Léthenet, che ha studiato attentamente i movimenti di Belon, dimostrando che è stato innegabilmente un "informatore reale", fa notare che questo viaggio naturalistico non è tanto diverso da una ricognizione militare nelle terre imperiali. In ogni caso, al suo ritorno in Francia nel 1542, Belon porta nei suoi bagagli non solo semi per il vescovo di Les Mans, una formazione all'avanguardia in chimica e in botanica, ma anche una perfetta conoscenza dell'area tedesca e della sua lingua. Continua gli studi in medicina a Parigi (si laureerà solo molti anni dopo, nel 1560) e, grazie alla presentazione dei du Bellay, trova un nuovo protettore in un altro personaggio di primo piano della corte francese: il cardinale François de Tournon, che è stato definito "il ministro degli esteri in pectore" di Francesco I. Nel 1543 ritorna in Germania, certamente per incontrare il suo maestro, ma anche nei panni di agente reale: gli vengono affidate sia lettere per i principi tedeschi che si stanno avvicinando alla Francia, sia per l'ambasciatore francese ad Augusta. Poi è a Soletta in veste di interprete dell'ambasciata francese; è un luogo strategico: in questa città cattolica anche in passato legata alla Francia viene organizzato il reclutamento di mercenari elvetici. A Ginevra si fa trascinare in una disputa teologica; arrestato, rimane sei mesi in carcere. Liberato, passa da Lione, visita la Provenza e prosegue per l'Italia. In Liguria ritrova Valerius Cordus; probabilmente è uno dei compagni del suo ultimo viaggio ed assiste alla sua morte per malaria a Roma. Nelle sue opere Belon cita molte località italiane che potrebbe aver visitato in questi anni, ma i particolari della sua vita in questi periodo sono oscuri. Di sicuro nel 1546 è tornato in Francia, alloggia nell'abbazia di Saint-Germain-en-Laye, di cui il cardinale Tournon è abate, e frequenta la corte. Ed è certo grazie al suo influente protettore che viene aggregato all'ambasceria Aramon a Costantinopoli. Come consulente scientifico, certamente; come diplomatico, probabilmente; come agente speciale, forse. Come vedremo, è finanziato abbastanza generosamente da viaggiare anche in modo indipendente. ![]() Il viaggio in Oriente Conosciamo minuziosamente l'itinerario del suo viaggio in Oriente, che durerà tre anni, grazie a Les observations. L'ambasceria lasciò segretamente Parigi nel dicembre 1546 e, dopo aver attraversato la Francia e la Svizzera, nel gennaio 1547 si imbarcò a Venezia su tre galee. La piccola flotta attraversò l'Adriatico fino a Ragusa, da dove il viaggio proseguì via terra fino a Adrianopoli (oggi Edirne). Invece Belon e Bénigne de Villers, un farmacista di Digione, proseguirono via mare; visitarono Corfù, Zante e Citera; a Paxos, mentre Belon stava erborizzando, il suo compagno e diversi marinai furono rapiti dai pirati. Belon sfuggì alla cattura e poté proseguire per Creta; l'isola aveva fama di essere un paradiso botanico, e il naturalista francese non mancò di scalare il monte Ida e i monti della regione di Sfakia, visitò Rethymnon, si illuse di aver identificato il famoso labirinto nelle cave di Ampelouzos, studiò l'estrazione del labdano (la resina tratta da Cistus ladanifer), ma soprattutto, come aveva fatto in Germania con Cordus, andò in giro, raccolse piante, osservò e fece domande su tutto ciò che lo colpiva. Infine si imbarcò su una feluca veneziana diretta a Costantinopoli. Al largo di Kea, sfuggì a un altro attacco di pirati. Forse alla fine della primavera o all'inizio dell'estate, era a Costantinopoli, dove si ricongiunse all'ambasceria. Affascinato dalla capitale, che esplorava in compagnia di Pierre Gilles, si concentrò soprattutto sulle piante medicinali e sugli altri semplici venduti nelle botteghe del bazar, che costituivano la principale merce di importazione dei mercanti veneziani. Per identificarle, si serviva di un glossario turco, che aveva compilato lui stesso sulla scorta del canone di Avicenna con l'aiuto di un amico turco che conosceva l'arabo. Tra i prodotti medicinali più famosi c'era la cosiddetta terra lemnia, che per le sue proprietà astringenti era utilizzata per curare le ferite e le emorragie interne. Come già abbiamo capito, Belon non era tipo da accontentarsi del sentito dire, e decise di andare a vedere di persona i luoghi di estrazione. Munito di salvacondotti e lettere di raccomandazione, si imbarcò su un brigantino alla volta di Lemno. Ancora una volta i pirati incrociarono la sua strada, e, prima di raggiungere la meta, fu costretto a rifugiarsi per due giorni nel porto di Imbros. A Lemno lo attendeva una delusione: scoprì che la famosa terra lemnia veniva estratta solo una volta l'anno, il 6 agosto, la festa della Trasfigurazione di Gesù. Si consolò esplorando a fondo l'isola, la sua flora e la sua fauna e riuscì se non altro a visitare i depositi del prezioso minerale. In compagnia di due monaci, raggiunse Thasos e da qui il Monte Athos; visitò la sacra montagna con occhio di geografo, di antropologo, di erudito e di naturalista. Non trascurò i monasteri (nelle Observations ne enumererà 24), osservò la vita quotidiana dei monaci, si informò sulle attività economiche, sugli aspetti religiosi, politici e amministrativi. Ma ovviamente il suo interesse maggiore andava alle piante, sia quelle coltivate dai monaci erboristi, sia quelle selvatiche; la montagna gli apparve un vero giardino naturale "colmo di erbe in tutti i luoghi dove abbiamo messo i piedi; e non c'è pianta insigne che non sia conosciuta con il nome antico lasciato per iscritto da Teofrasto, Dioscoride e Galeno". Per quanto riguarda gli alberi, constatò che il monte offriva un microclima particolarmente favorevole; e nelle Observations cita con entusiasmo gli allori, gli olivi selvatici, i mirti, e soprattutto i platani, la cui altezza era seconda solo a quella dei cedri che che avrebbe visto in Siria e in Anatolia. Già zoologo oltre che botanico, si occupò anche di insetti, uccelli e i pesci. Fu dunque con i quaderni pieni di osservazioni e i bagagli colmi di esemplari che ripartì alla volta di Salonicco. Nella penisola Calcidica visitò le miniere di Siderocapsa, in Macedonia diverse citt,à le rovine di Filippi e le miniere di allume di Sapes. Attraverso la Tracia, all'inizio di agosto era di ritorno a Costantinopoli, dove scoprì che Francesco I era morto e che il suo successore Enrico II aveva inviato a informarne il sultano uno dei suoi gentiluomini di camera, François de Fumel. Quando, alla fine di settembre, Fumel con un grosso seguito di gentiluomini francesi e una scorta di servitori, dragomanni (interpreti) e giannizzeri, parte per l'Egitto, Belon è ovviamente della partita. Uscendo dai Dardanelli, egli è il primo europeo a localizzare le rovine di Troia. Il viaggio quindi tocca Lesbo, Chio, dove Belon si informa sulla preparazione del mastice, Patmos, Leros e altre isole del Dodecaneso, per gettare infine l'ancora a Rodi. Da quasi trent'anni i turchi l'avevano strappata ai Cavalieri, ma era ancora un porto e un mercato molto animato che aveva molto da offrire alla curiosità di Belon. Infine si fa rotta direttamente per Alessandria d'Egitto, raggiunta in tre giorni di navigazione. Belon e i suoi compagni visitano puntigliosamente le antiche rovine, ma lo sguardo curioso del nostro viaggiatore si posa sui costumi degli abitanti, i loro vestiti, i vini e i mille prodotti alimentari che si vendono nelle botteghe, compresi certi grossi sacchi di semi di cumino nero (Nigella sativa). Non dimentica le piante, ma lo incuriosiscono soprattutto gli animali, inclusi quelli esotici venduti nei bazar: coccodrilli, ippopotami, una gazzella che forse è l'oryx dei greci, giraffe, pesci di molte specie. Il più affascinante è il camaleonte, che ama mimetizzarsi sotto i rami di Rhamnus alaternus, mutando colore dal verde al giallo al blu. Per raggiungere il Cairo, i francesi navigano lungo la costa fino a Rosetta, dove a colpire Belon sono soprattutto le coltivazioni di papiro, Musa (banani), canna da zucchero, Colocasia (un alimento importantissimo nella dieta degli egiziani), sicomori. Quindi si imbarcano su uno dei bracci del Nilo fino al Cairo, dove trascorreranno gran parte del loro soggiorno egiziano. Oltre a visitare i principali monumenti cittadini, compreso il Nilometro, il giardino di Matariyeh e l'obelisco di Heliopolis, Belon va a Giza per vedere le piramidi, la sfinge e qualche mastaba. Quindi accompagna l'ambasciatore al monte Sinai e al monastero di Santa Caterina. Alla fine di ottobre, il gruppo lascia il Cairo alla volta della Palestina. Il viaggio, via terra, dura dieci giorni. In Terra Santa visitano le località consuete dei pellegrinaggi (Gerusalemme, la Galilea, Nazareth, Betlemme e Gerico); Belon si commuove debitamente nei luoghi santi, ma anche qui è in primo luogo un naturalista e un erudito, che confronta ciò che vede con i testi degli antichi, identifica ed enumera animali rari, pietre più o meno preziose, alberi e altre piante. Da naturalista più che da devoto, a Gerusalemme studia minuziosamente le piante spinose per tentare di identificare quella con cui fu fatta la corona di Cristo. Dalla Palestina, in cinque giorni di marcia attraverso campi di sesamo e cotone, i francesi raggiungono Damasco; poi, sempre procedendo verso nord, sarà la volta delle rovine di Baalbek, delle foreste di cedri, di Aleppo, Antiochia e Adana. Raggiunta l'Anatolia, i viaggiatori toccano Konya e Aksehir e svernano a Afyonkarahisar, dove Belon mette a frutto la sosta raccogliendo informazioni sulle origini dei turchi, la vita privata e pubblica, l'amministrazione dell'Impero ottomano, i costumi religiosi e le credenze dei musulmani. Nel primavera del 1548 si riparte; Belon visita Kütahya e Bursa, e infine ritorna per la terza volta a Costantinopoli, dove l'ambasciatore d'Aramon si prepara a seguire Solimano in una spedizione militare contro la Persia. Belon lo accompagna solo per un breve tratto, fino a Nicomedia (Izmit), poi ritorna a Costantinopoli e all'inizio del 1549 si imbarca per Venezia. Intanto in Francia, con l'ascesa al trono di Enrico II, la situazione politica era cambiata e il cardinale Tournon era stato estromesso dal consiglio reale. Al momento si trovava a Roma per partecipare al conclave seguito alla morte di Paolo III. Belon lo raggiunse; fece così conoscenza con il medico personale del cardinale, Guillaume Rondelet, e poté ammirare la sua collezione di illustrazioni di pesci. Incontrò anche un altro dei padri dell'ittiologia, Ippolito Salviani, che era il medico di un altro partecipante al conclave, il cardinale Cervini che anni dopo sarebbe diventato papa come Marcello II. Certamente tra i tre scienziati ci furono confronti e scambi di materiali, anche se più tardi sarebbero stati divisi da gelosie e accuse incrociate di plagio. Nel 1550, Belon tornò a Parigi e si stabilì nuovamente a Saint-Germain-des-Prés. Anche se il cardinale, in disgrazia a Parigi, sarebbe rimasto in Italia per ben dieci anni, evidentemente gli era ancora molto legato, e lo sarebbe rimasto anche quando trovò un nuovo protettore nello stesso sovrano; ancora nel 1550, presumibilmente anche come "informatore reale", è a Londra, dove è ospite dell'ambasciatore veneziano Daniele Barbaro, che gli mostra la sua collezione di 300 illustrazioni di uccelli e lo autorizza a servirsene. Ritornato a Parigi, Belon si dedica intensamente alla scrittura. Nell'arco di pochi anni si susseguono, per citare solo le opere maggiori, due trattati sugli animali acquatici (L'histoire naturelle des estranges poissons marins, 1551 e De aquatilibus libri duo, 1553); un trattatello sulle conifere e i sempreverdi (De arboribus coniferis, resiniferis [...], 1553); un trattato in tre volumi sulle abitudini funerarie degli antichi (De admirabili operi antiquorum, 1553); il resoconto del viaggio in Oriente (Les observations de plusieurs singularitez et choses memorables trouvées en Grèce, Asie, Judée, Egypte, Arabie et autres pays étrangèrs, 1554), un trattato sugli uccelli (L'histoire de la nature des oyseaux, 1555); un trattato sull'arboricoltura e l'introduzione di specie esotiche (Les Remonstrances sur le default du labour et culture des plantes, 1556). Sebbene scriva e pubblichi tanto, Belon continua anche a viaggiare, benché solo in Europa: torna più volte in Alvernia e in Svizzera; nel 1556 si trova a Metz, appena liberata dalle truppe di Carlo V, ma a Thionville è arrestato dagli spagnoli che lo rilasciano solo dopo tre mesi; nel 1557 va Zurigo a visitare Conrad Gessner; nel 1558 viaggia in Italia; nel 1562 è a Moulins e Bourges, appena liberata, in compagnia del governatore. Secondo Benoît Léthenet, in questi viaggi che si muovono spesso in località di frontiera, le ricerche naturalistiche sono anche una perfetta copertura per la sua attività di informatore, spia o agente segreto al servizio successivamente dei re Francesco I, Enrico II e Carlo IX. Les observations sono un enorme successo; il libro conosce molte edizioni, e lo stesso avverrà per la traduzione latina Plurimarum singularium & memorabilium rerum in Graecia, Asia, Aegypto, Iudaea, Arabia, aliisque exteris provinciis ab ipso conspectarum observationes, commissionata da Plantin a Clusius e pubblicata per la prima volta nel 1589. Belon è ormai un naturalista di fama e nel 1556 Enrico II gli concede una pensione reale di duecento scudi che però non gli viene versata; Belon rilancia indirizzando al sovrano una rimostranza in cui presenta un articolato progetto di acclimatazione di piante esotiche. Nel 1559 Enrico II gli affida la cura del Bois de Boulogne e Carlo IX gli mette a disposizione un appartamento nel castello di Madrid, al margine del Bois. Ed è proprio nel mentre fa rientro a casa, nell'aprile 1565, che una sera incappa in un gruppo di banditi che lo picchiano a morte. Ma è stato anche ipotizzato che gli assassini non fossero ladri capitati lì per caso, ma nemici politici ugonotti, che volevano fargli pagare le sue posizioni recisamente filocattoliche. Al momento della morte, aveva 49 anni e stava lavorando al commento delle opere di Dioscoride e Teofrasto. ![]() Tra zoologia e botanica Belon, oltre ad essere uno dei primissimi naturalisti viaggiatori, è anche il maggiore naturalista francese del suo tempo. Nel resoconto del viaggio in Oriente come nei trattati di vario argomento, si segnala per la profonda erudizione, la capacità di osservazione, l'attenzione minuziosa ai particolari, lo spirito critico, l'esattezza delle informazioni, le intuizioni originali. Les observations divennero un classico e riscossero il plauso sia di Clusius, che come abbiamo visto ne fu il primo traduttore, sia di Pitton de Tournefort, che un secolo e mezzo dopo Belon avrebbe ripercorso diverse tappe del suo viaggio. Anche se la sua prima passione andava alla botanica, ha lasciato i maggiori contributi come zoologo. I due trattati sui pesci (anzi, più in generale sugli animali acquatici) ne fanno uno dei padri dell'ittiologia, con Rondelet, Salviati e Aldovrandi; il primo contiene la prima accurata descrizione del delfino e il secondo è corredato da ottime illustrazioni, probabilmente fornite da Barbaro, come quelle che accompagnano quello sugli uccelli (o sui volatili, visto che include i pipistrelli). Quest'ultimo libro è celebre soprattutto per contenere due immagini affiancate, una dello scheletro di un essere umano, l'altra dello scheletro di un uccello, con tiranti e didascalie che ne mostrano le affinità. Si tratta dunque del primo tentativo di anatomia comparata. Belon ha dedicato moltissime pagine delle Observations alla flora dei paesi visitati, descrivendo per primo dozzine di piante tra cui il platano Platanus orientalis, l'acacia arabica Vachellia nilotica, il cedro del Libano Cedrus libani e forse il lillà Syringa vulgaris. Ha invece riservato alla botanica solo due piccole opere, una in latino, l'altra in francese. La prima, De arboribus coniferis, resiniferis, aliis quoque nonnullis sempiterna fronde virentibus, è un trattatello di una trentina di pagine che ha il merito storico di essere la prima opera in assoluto a trattare specificamente le conifere, nome che si deve proprio a lui, anche se fu adottato e diffuso da Gessner. Non è il solo motivo di interesse di quest'opera: come tutti i botanici del suo tempo, anche l'obiettivo principale di Belon è identificare le piante citate dagli antichi; tuttavia, anche se conosce a menadito i loro testi e non lesina le citazioni erudite, non lo fa con gli strumenti del filologo, ma con quelli del botanico, ovvero osservando le piante analiticamente e mettendole a confronto quasi con chiavi dicotomiche ante litteram; ecco quanto dice, ad esempio, a proposito di un'entità che propone di chiamare Pinaster: "Perciò ritengo a ragione che vada chiamato Pinaster; infatti Abies, il Cedrus grande [ovvero il cedro del Libano], Sapinus e Larix estendono i loro rami ai lati del tronco come le braccia di una persona, per poi discendere arcuati; invece Pinaster, Pinus e Picea li emettono storti". L'altra opera, Les Remonstrances sur le default du labour et culture des plantes, et de la cognoissance d'icelles, ha natura totalmente diversa: scritta non a caso in lingua volgare, è al tempo stesso un trattato di arboricoltura, con molte indicazioni tecniche, e un programma per rilanciare il patrimonio forestale francese depauperato da secoli di sfruttamento. Belon, sul modello soprattutto di ciò che ha visto in Italia, sogna una Francia dove nelle parti non utilizzate delle tenute vengano piantate grandi quantità di alberi, scelti per la loro utilità (sono alberi da legname, non fruttiferi), la facilità di coltivazione, ma anche la bellezza estetica. Gli alberi autoctoni, seminati in estesi vivai, vi si mescoleranno a quelli esotici di cui raccomanda l'introduzione. A tal fine, acclude anche un lungo elenco di alberi "tanto selvatici quanto addomesticati" adatti ad essere "allevati ed educati in ogni luogo". Egli stesso, come riferisce anche Gessner, fece esperimenti di acclimatazione nel suo giardino a Parigi (forse prima a Saint Germain poi al Bois de Boulogne) e gli è solitamente attribuita l'introduzione in Francia di un lungo elenco di piante esotiche che avrebbe riportato con sé dal suo viaggio in Oriente ma anche dall'Italia: l'albero di Giuda Cercis siliquastrum, la quercia da sughero Quercus suber, il leccio Quercus ilex, il pistacchio Pistacia vera, il mirto Myrtus communis, il ginepro rosso Juniperus oxycedrus e le due piante che più aveva ammirato in Oriente, il cedro del Libano Cedrus Libani e il platano Platanus orientalis. Solo di quest'ultimo, di cui tentò l'introduzione a Touvois, ci sono tracce documentate; tutti gli altri sono nominati nei suoi testi, ma non abbiamo alcuna prova che ne abbia veramente riportato con sé i semi, come nelle Remonstrances invita a fare i naturalisti viaggiatori . ![]() Un piccolo genere alquanto singolare Del suo eventuale ruolo come arricchitore della flora francese non fa per altro menzione padre Plumier, che nel dedicargli il genere Bellonia (con due enne, sulla base del nome latino) ne ricorda invece le opere e la tragica morte: "Pierre Belon (Petrus Bellonius Cenomanus) fu medico, uomo di indefesso lavoro e studio, che possiamo in qualche modo percepire dal frutto delle sue veglie che divulgò in parte in latino in parte in francese. Infatti in latino ha lasciato un libro sulle conifere, in francese libri sugli uccelli e sui pesci, un commento a Dioscoride e un libro di agricoltura. Altro ancora progettava di scrivere, ma, mentre si accingeva a tal lodevole intento, fu interrotto dall'inattesa morte inflitta dalla mano di un empio ladrone". Nacque così il genere Bellonia, poi ufficializzato da Linneo, inizialmente con una sola specie, B. aspera, cui più tardi se ne aggiunse una seconda, B. spinosa. Il piccolo genere, endemico di Cuba e di Hispaniola, appartiene alla famiglia Gesneriaceae, nell'ambito della quale appare unico da diversi punti di vista. In primo luogo, sono veri e propri arbusti, con rami legnosi; in secondo luogo, B. spinosa è la sola specie dotata di spine dell'intera famiglia. Infine i fiori presentano le caratteristiche tipiche dei fiori impollinati per sonicazione. Mentre nella maggior parte dei fiori le antere si aprono longitudinalmente per rilasciare il polline, in una minoranza di angiosperme (8-10%), lo rilasciano parsimoniosamente come risposta a stimoli sonori. Le caratteristiche tipiche di questi fiori che si ritrovano in Bellonia, sono: posizione del fiore inclinata, petali che si allargano a formare una campana, corolla bianca, stami eretti con brevi filamenti e grandi antere gialle che formano una specie di cono e si aprono solo all'apice da un poro o una breve fessura, polline polveroso, assenza di nettare. Gli impollinatori (alcuni tipi di imenotteri e di surfidi) avvicinano il fiore dal basso; dopo l'atterraggio, lo afferrano con le zame e usando i muscoli del torace (ma senza muovere le ali) emettono un ronzio, percepibile a breve distanza, che fa vibrare le antere e stimola l'apertura dei pori apicali e il rilascio del polline. Ecco perché questo particolare tipo di impollinazione, oltre che sonicazione, è detta impollinazione a ronzio (buzz pollination). Le due specie sono piuttosto simili (tanto che per qualche tempo sono state considerate una specie sola) ma B. spinosa differisce da B. aspera non solo per la presenza di spine, ma anche per i fiori solitari, anziché raccolti in cime di 2-4, il tubo più breve e alcune caratteristiche del polline. La prima è presente sia a Cuba sia a Hispaniola, in una varietà di substrati, mentre la seconda è endemica dell'area meridionale di Haiti in terreni calcarei. In questa storia si incontrano due misteri a prima vista senza connessioni. Il primo: chi era lo sfuggente "signore di Reynoutre" cui il botanico olandese Maarten Houttuyn dedicò il genere Reynoutria? Il secondo: chi ha creato o commissionato i bellissimi Libri picturati A16-30, uno dei massimi capolavori dell'illustrazione botanica del Rinascimento? E ancora: c'entra qualcosa Carolus Clusius? E come sono finiti alla Staatsbibliothek di Berlino? Le risposte convergono verso un luogo, un'epoca e una persona: le Fiandre meridionali della seconda metà del Cinquecento e il nobile Charles de Saint Omer, il primo mecenate di Clusius. ![]() Sulle tracce dei Libri picturati: Berlino, anni 30 Prima storia e primo mistero. Nel 1777 ad Amsterdam il botanico olandese Maarten Houttuyn pubblica il settimo tomo del secondo volume della sua Natuurlyke historie. Nel capitolo dedicato all'annuale acquatica Callitriche verna (oggi si chiama Callitriche palustris subsp. palustris) riassume quanto ne hanno scritto i botanici preceedenti e, a proposito di Mathias de Lobel, scrive: "E' stata descritta e raffigurata sotto il nome Stellaria da Lobel, il quale dice che il signore di Reynoutre, un grande amante delle piante a lui noto, non badò a spese per fare raffigurare dopo la vita piante tanto straniere quanto autoctone, tra cui questa specie". Nell'ottavo tomo, pubblicato lo stesso anno, si ricordò del signore di Reynoutre per dedicargli il nuovo genere Reynoutria con queste parole: "Per un certo signore di Reynoutre, che, secondo la testimonianza di Lobel, ha dato grandi servizi alla scienza delle erbe, come ho già segnalato". Houttuyn non ne sa di più; e continuano a non sapere altro molti siti, in cui si legge "in onore del Barone van Reynoutre (sec. XVI), grande amante delle piante" oppure "in onore del Barone van Reynoutre (sec. XVI) che, secondo Lobelius, era un appassionato estimatore delle piante". Genaust ne sa anche meno: "Nome di Houttuyn per una Polygonacea dell'Asia orientale; etimo non chiaro". Seconda storia anche più misteriosa, nonché intricata. Nel 1941, in seguito a pesanti bombardamenti, viene deciso di evacuare i più preziosi manoscritti della Biblioteca nazionale di Berlino, tra cui l'inestimabile raccolta nota come Libri picturati: ben 144 volumi di migliaia di illustrazioni di piante, animali, persone, provenienti dalle collezioni personali del re di Prussia. La raccolta viene smembrata in lotti che vengono trasportati in diversi luoghi ritenuti sicuri. Uno viene inizialmente ricoverato nel castello di Fürstenstein in Slesia, quindi nel 1943 nuovamente trasferito nel monastero benedettino di Grüssau (oggi Krzeszów). Poi per anni e anni non se ne sa più nulla. Solo nel 1977 lo zoologo Peter Whitehead ritrova i manoscritti nella Biblioteka Jagiellońska di Cracovia, dove erano stati portati nel 1947 senza che la notizia fosse trapelata in Occidente, e dove si trovano tuttora. I Libri picturati della Jagellonska possono essere divisi in due nuclei principali, di data e provenienza diversa; i volumi A32-A38 contengono materiali iconografici relativi all'esplorazione del Brasile olandese promossa da Giovanni Maurizio di Nassau Siegen, che ne fu governatore dal 1636 al 1644; quando tornò in Europa, il principe, in cambio di titoli e proprietà, ne fece dono all'elettore Federico Guglielmo di Prussia che incaricò di selezionarli e riunirli in volume il suo medico personale Christian Mentzel; questi, nel volume A 38, noto come Miscellanea Cleyeri, incluse anche rappresentazioni etnografiche e acquarelli di piante asiatiche che gli erano state inviate dal suo corrispondente Andreas Cleyer. Il mistero riguarda le origini e la vicenda degli altri volumi del lotto, i Libri picturati A16-31. Al contrario di quelli "brasiliani", non hanno né titolo né frontespizio, né ci sono ex-libris o altre note di possesso. I 15 volumi in folio contengono oltre 1400 acquarelli di piante e animali; lo stile dei disegni e dettagli delle annotazioni rimandano alle Fiandre della seconda metà del Cinquecento; la rilegatura però risale a circa il 1660 o anche dopo, ed alcune immagini furono presumibilmente inserite in un secondo tempo. Chi abbia dipinto gli acquarelli, chi abbia ordinato o messo insieme la raccolta, quale mano abbia scritto le note che accompagnano molte immagini, per quali vie il manoscritto sia giunto a Berlino, è ancora oggetto di dibattito, anche se, come vedremo, orami sono noti glie elementi essenziali. La qualità delle immagini è eccezionale e si tratta senza dubbio di una delle più importanti collezioni di acquarelli naturalistici del Rinascimento; eppure hanno attirato l'attenzione degli studiosi solo dopo il loro "miracoloso ritrovamento" (la definizione è di Whitehead). Unica eccezione il bibliotecario tedesco Hans Wegener che negli anni '30 lavorava nel dipartimento dei manoscritti della Biblioteca statale di Berlino; studiando attentamente le immagini, notò che diverse avevano una stretta affinità con le xilografie di opere di Carolus Clusius stampate da Plantin tra il 1574 e il 1576; trovò corrispondenze anche con xilografie della prima edizione del Kruydtboeck di Lobel (1581) e con la prima parte di Rariorum plantarum historia di Clusius (1601). Osservò poi che nelle annotazioni erano citate regioni come la Provenza e città come Salamanca, Montpellier e Marsiglia, tutte località visitate da Clusius; c'erano parecchi riferimenti a località fiamminghe, e in particolare a Moerkerke, dove Clusius trascorse un lungo periodo nel castello di Charles de Saint Omer. Comparivano anche i nomi dei fratelli Laurin, di Jacobus van den Eede di Bruges e del farmacista di Anversa Peeter van Coudenberghe, tutti noti amici di Clusius. Sulla base di tutti questi elementi, Wegener giunse a una conclusione che gli sembrava tanto chiara quanto inappuntabile: a predisporre quella raccolta non poteva essere stato che il grande botanico fiammingo, e in un suo articolo del 1936 fin dal titolo non esitò a definire il manoscritto Das grosse Bilderwerk des Carolus Clusius, ovvero "La grande opera pittorica di Carolus Clusius". Inoltre, nel catalogo della biblioteca dell'elettore compilato nel 1668, individuò la menzione di "XVI tomi tam Animalium quam Plantarum ex Bibliotheca Cancellarii Weinmanni" (16 tomi sia di animali sia di piante, provenienti dalla biblioteca del cancelliere Weinmann). Si trattava senza dubbio dei Libri picturati A16-31, giunti a Berlino o come dono del cancelliere di Kleve Daniel Weinmann o come acquisto di Federico Guglielmo. Molto rimaneva da scoprire, ma ostacoli burocratici prima, lo scoppio della Seconda guerra mondiale poi gli impedirono di continuare le ricerche. ![]() Clutius versus Clusius? No, Saint Omer! Il ritrovamento dei manoscritti riaccese l'interesse degli studiosi. Nel 1989, Whitehead, van Vliet e Stearn pubblicarono un'accurata descrizione dell'intero lotto, in cui distinsero segmenti risalenti a periodi compresi tra il XVI e addirittura il XIX secolo. Per quanto riguarda i Libri picturati A16-30 (A31 non fa parte della serie, perché fu prodotto nel XVII secolo ed è per lo più costituito da copie di disegni di piante dei volumi A18-A30), suggerirono che i contenuti dei volumi fossero stati riordinati e fatti rilegare da un altro medico di Federico Guglielmo, Johann Elsholz. Il volume A16 contiene immagini di pesci e mammiferi, A 17 di uccelli, A18-30 circa 1500 acquarelli di piante, relativi a 1860 taxa (alcuni fogli raffigurano infatti più di una specie). In genere accettavano la conclusione di Wegener che Clusius avesse avuto un ruolo chiave nella creazione della raccolta, ma pensavano anche che non tutti i disegni fossero stati commissionati o ispirati da lui. A puntare in tutt'altra direzione pensò la storica statunitense Claudia Swan che in un saggio del 1995 sostenne che la raccolta non andava attribuita a Clusius, ma a Clutius, ovvero non a Charles de l'Ecluse, ma al suo amico Dirck Outgaertsz. Cluyt, primo hortulanus dell'orto botanico di Leida. L'ipotesi di Swan non ha trovato seguito, ma ebbe il merito di riaccendere il dibattito. In un saggio pubblicato l'anno successivo, la storica dell'arte belga Helena Wille respinse in poche righe la tesi di Swan, per suggerire una propria ipotesi diversa da quella del "libro di Clusius". Le evidenze raccolte da Wegener dimostravano senza dubbio che c'era un legame tra Clusius e la raccolta, "ma ciò che non significava che egli fosse colui che l'aveva commissionata". Sappiamo che Clusius possedeva una biblioteca, una piccola raccolta di curiosità, un erbario, ma non una collezione di acquarelli; inoltre, sempre squattrinato com'era, non avrebbe certo potuto permettersela. Non avendo né un giardino proprio, né adeguate risorse finanziare, la soluzione ideale per studiare piante esotiche e averne le illustrazioni per i suoi libri era ricorrere a un mecenate appassionato di piante. Quando viveva in Austria, l'aveva trovato nel nobile Boldiszar de Batthyani, che l'aveva più volte invitato nel suo castello ungherese e aveva fatto dipingere piante per lui. Un mecenate c'era anche nelle Fiandre, e lo abbiamo già incontrato: Charles de Saint Omer, membro di una delle più illustri casate del paese, appassionato di piante, amico di Clusius, che aveva ospitato sia a Bruges sia nel suo castello di Moerkerke. Anzi, lo abbiamo già incontrato due volte, sotto nomi diversi. I Saint Omer erano originari dell'Artois, ma alcuni rami avevano signorie nelle Fiandre, e il nostro poteva indifferentemente chiamarsi in francese Charles de Saint Omer, in fiammingo Karel van Sint Omaars, ma anche, usando i titoli nobiliari com'era d'uso per un gentiluomo, Charles de Saint Omer, detto di Moerbeke, signore de Moerkercke, Dranoutre (ovvero Ranoutre o Reynoutre), o ancora Mijnheer de Reynoutre. Ovvero il personaggio citato da Lobel, che ci ha già informato che il nobiluomo non aveva lesinato spese per fare ritrarre le sue amate piante. Anzi è proprio sulla base di puntuali corrispondenze tra alcuni acquarelli dei Libri picturati e le corrispondenti immagini del Kruydtboeck di Lobel (1581), nel cui testo viene esplicitamente citato Mijnheer de Reynoutre, che Wille dimostra il ruolo di Charles de Saint Omer come committente della collezione. Inoltre, individua il probabile autore degli acquarelli, o almeno di buona parte di essi, nel valente pittore Jacques (o Jacob) Corenhuyse, membro della Gilda di San Luca di Bruges. Una lettera, inviata nel 1595 a Clusius da Carlo di Arenberg, un altro gentiluomo appassionato di piante, le permette infine di trovare un anello di collegamento tra Charles de Saint Omer, morto nel 1569, e il cancelliere Weinmann che quasi un secolo dopo fece giungere i volumi a Berlino. Arenberg informa il botanico di aver acquistato "le livre de feu Monsieur Ranoutre", (il libro del fu signor Ranoutre), che come abbiamo visto è uno dei tanti modi per designare il defunto Charles de Saint Omer. La lettera era stata già pubblicata qualche anno prima da un archivista, che però non aveva identificato il personaggio. Wille osserva che è comprensibile: il fatto stesso che fosse designato in modo diversi dimostra che "questo eminente amante delle piante era stato davvero dimenticato". Dalla lettera di Arenberg, la studiosa belga ricava un ultimo dettaglio importante: Clusius è stato direttamente coinvolto nella confezione dei Libri picturati, non come committente, ma come esperto: è sua la mano che ha scritto le annotazioni che accompagnano molti acquarelli. Queste dunque le sue conclusioni: "Abbiamo in realtà a che fare con il catalogo dipinto della collezione di oggetti naturali riuniti nello studio e nel giardino di Karel van Sint Omaars, successivamente riordinato e integrato da Karel van Arenberg, anch'egli grande amante delle piante, dipinto per la maggior parte da Jacques van Corenhuyse e annotato da Clusius". ![]() Mijnherr de Reynoutre svelato L'articolo di Wille ha costituito la base per gli studi successivi, che, seppur discostandosi dalle sue conclusioni in alcuni particolari, ne hanno sostanzialmente confermato l'impianto. Di particolare importanza i contributi di Luis Ramón-Laca, che nel 2011 sulla base dei marchi della carte ha dimostrato che la maggior parte degli acquerelli formavano già una raccolta nel XVI secolo; su 1400 fogli, più di 1100 utilizzano una carta prodotta a Fabriano a partire dal 1554. In 625 di questi fogli gli acquerelli sono accompagnati da annotazioni "di una mano professionale", mentre i restanti in genere non sono terminati e spesso corrispondono a xilografie delle opere di Clusius. Le due serie differiscono anche per lo stile: da una parte ci sono acquarelli molto realistici, dipinti dal vivo, quasi sempre annotati, dall'altra disegni molto più schematici, per lo più non terminati e tratti da esemplari d'erbario. Nel 2008 Florike Egmond, una specialista di Clusius di cui ha curato la pubblicazione dell'epistolario, ha fatto il punto sullo stato delle ricerche in un ampio articolo in cui, dopo aver demolito la tesi di Swan con un'ampia argomentazione, analizza in modo puntuale i luoghi e le persone citati nelle annotazioni, la corrispondenza tra le immagini e opere a stampa coeve, le informazioni in nostro possesso su Charles de Saint Omer, le sue collezioni e la sua relazione con Clusius e con i possibili artisti coinvolti, per concludere con un approfondimento sul contesto culturale in cui è nata l'opera, il circolo umanistico di Bruges. E così conclude: "La conclusione appare inevitabile: il nucleo centrale dei Libri picturati A16-30 [...] fu messo insieme e posseduto da Charles de Saint Omer con l'assistenza e la consulenza di Clusius negli anni '60 (probabilmente tra il 1562-63 e il 1568). Clusius stimolò o forse innescò l'interesse di Saint Omer per gli oggetti naturali ed è probabile che lo abbia incoraggiato a far pubblicare i suoi acquarelli botanici [...]. Un considerevole numero di acquarelli appartenenti a questo nucleo sono stati probabilmente dipinti da Corenhuyse e possibilmente da Van der Bosch. Le annotazioni della 'mano professionale' su un gruppo di 625 acquarelli botanici in tutta probabilità sono state fatte da Clusius. Nel corso del XVI secolo alla collezione sono state fatte aggiunte, certamente da Aremberg, possibilmente da Clusius stesso, e probabilmente da altri". Contrariamente a Wille, non ritiene però che i Libri picturati 16-30 siano un catalogo del giardino e della Wunderkammer del castello di Moerkerke, ma piuttosto "una specie di enciclopedia di casa, in cui potevano essere inclusi dipinti, copie di opuscoli su animali curiosi e piante esotiche inviate a Saint Omer, a Clusius o a uno dei loro amici". Nel 2008 l'editore Brill ha pubblicato lo spettacolare volume Drawn after Nature: The Complete Botanical Watercolours of the 16th-Century Libri Picturati, che contiene tutte le immagini botaniche dei Libri picturati 18-30, introdotte da un team internazionale cui si devono anche numerosi saggi che indagano la storia, il contesto e il valore artistico e scientifico di quello che ormai potremmo chiamare "il libro di botanica di Charles de Saint Omer". E' dunque ora di conoscere meglio questo appassionato di piante che ha rischiato di essere totalmente dimenticato. Charles de Saint Omer (1533-1569) alias Karel van Sint Omaars alias Mijnherr de Reynoutre, era il secondogenito di Josse (Joos) de Saint Omer, signore di Oudeneem, Merris e Dranouter, e di Anna van Praet, dama di Moerkerke. Tra i suoi antenati troviamo uomini d'arme e di potere, come il bisnonno Josse, consigliere e ciambellano ordinario prima di Carlo il Temerario poi dell'imperatore Massimiliano d'Asburgo. Dopo aver forse frequentato l'università a Lovanio, intraprese il mestiere delle armi che però presto dovette abbandonare a causa della salute malferma. Molto ricco e colto, si ritirò a vivere nella tenuta e nel castello di Moerkerke non lontano da Bruges, che aveva ereditato dalla madre (morta nel 1559), dove si dedicò agli studi umanistici, forse alla poesia, e soprattutto alle scienze naturali. Possedeva anche una casa a Bruges, dove in genere trascorreva i mesi invernali, ma Moerkerke era la residenza principale della famiglia. Conosceva diverse lingue: il francese, la sua lingua madre, il fiammingo, il latino, e probabilmente aveva qualche nozione di greco, tedesco e italiano. Come ha sottolineato Florike Egmond, faceva parte del circolo umanistico di Bruges ed era strettamente legato ai fratelli Mathias e Guido Laurin (o Laurinus), che condividevano i suoi interessi naturalistici. Si sposò due volte, prima con Françoise de Blois, detta Trèslong, poi con Anne d'Oingnies, ma non ebbe figli. Della sua vita personale in realtà conosciamo pochissimo. Sappiamo invece qualcosa di più sulle sue collezioni e soprattutto sul suo giardino. Nel castello di Moerkerke c'erano una biblioteca, con opere in greco, latino, francese e italiano, e due gabinetti di curiosità, uno attiguo alla camera del signore, l'altro alla camera della moglie; il primo conteneva oggetti considerati più maschili, come una collezione di armi, il secondo le vere e proprie rarità, compresi "un cofanetto con dentro quattro libri di erbe dipinte", "l'inizio di un libro degli uccelli", "l'inizio di un libro sui pesci e altri animali", "una scatola di minerali". come leggiamo nell'inventario che fu redatto dopo la sua morte. In base al contratto matrimoniale, gli oggetti contenuti nel gabinetto di Anne rimasero di sua proprietà anche dopo la morte del marito. I futuri Libri picturati probabilmente furono venduti dopo la sua morte nel 1577, fino a finire nelle mani di Arenberg, ma non conosciamo i passaggi intermedi. Quanto al giardino, era considerato uno dei più raffinati della regione. E' ricordato anche da Lodovico Guicciardini che ebbe modo di visitarlo e nella sua Descrizione dei Paesi Bassi scrive: "Anche il signor Carlo di Sant'Omero nella signoria di Moerkerke, a un miglio e mezzo da Bruges, ha un giardino con innumerevoli varietà eccellenti e mille altre cose belle che faranno sì che questo luogo, ma anche il Signore, sia famoso e lodato per sempre". Forse esisteva già in precedenza, ma Charles lo rimodellò secondo il gusto del tempo, avvalendosi dei consigli (e delle piante) di Clusius. Si trovava all'esterno della corte superiore del castello, sui lati sud ed est, ed era diviso in due parti: il giardino di piacere e il giardino delle erbe; inoltre c'era un grande frutteto. Nel giardino delle erbe si coltivavano piante sia autoctone sia esotiche, alcune delle quali procurate da Clusius: "sedotto dall'amore per le piante dell'illustre signore di Dranoutere" dalla Spagna gli inviò semi attraverso il comune amico Guido Laurinus; nel 1566 gli donò semi di pepe brasiliano (Schinus terebinthifolia) di cui Saint Omer riuscì a coltivarne un esemplare che fiorì nell'autunno dello stesso anno; gli donò anche uno dei due germogli di Aloe americana che aveva prelevano in un giardino di Valencia e aveva portato con sé nelle Fiandre. E' probabile dunque che ci fosse qualche struttura per proteggere le esotiche dai rigori invernali. Dall'inventario dei beni risulta che nei gabinetti di Charles e Anne c'erano anche "un couffre pour y mectre les semences" (un cofanetto per riporre i semi) e 'ung grand ormaire pour garder sementes', un grande armadio per conservare i semi. Questi ultimi venivano raccolti e conservati per riseminarli nel giardino, ma anche per scambiarli con altri collezionisti, come sappiamo dalla corrispondenza di Clusius. Vengono menzionati anche i nomi dei due giardinieri che si occupavano l'uno del giardino, l'altro del frutteto, rispettivamente Paul de Witte e Zegher de Wever. Inoltre, a Moerkerke c'era anche un piccolo zoo, con animali da fattoria ma anche qualche rarità esotica o curiosa. Secondo la testimonianza di Lobel, Charles de Saint Omer coltivava piante esotiche anche nel giardino della sua casa di Bruges: nel suo Kruydtboeck infatti egli scrive che intorno al 1567 vi cresceva il grano dei turchi, cioè il mais, quasi introvabile nei Paesi Bassi. Per concludere, due parole su Charles de Saint Omer come mecenate di Clusius. Il botanico dovette incontrarlo prima di partire per la Spagna, come si evince dal già citato invio di semi. Al suo ritorno in patria, venne ospitato da Saint Omer dal settembre 1565 al novembre 1567. Egli poté così dedicarsi alla stesura della sua prima opera, la traduzione dei Coloquios dos simples di Garcia da Orta (Aromatum et simplicium aliquot medicamentorum apud Indos nascentium historia, 1567). Ma per il suo lavoro di "consulente botanico" riceveva, oltre a vitto e alloggio, anche un salario di 200 lire. Principale frutto dei due anni di coabitazione e collaborazione con Saint Omer, come già sappiamo furono i Libri picturati, che però non vennero né completati né stampati, sia per la morte precoce del nobiluomo, a soli 36 anni, sia per la situazione politica delle Fiandre spagnole, in rivolta dal 1566. Secondo Jacques de Groote, che nel suo sito ha raccolto una grande massa di informazioni su Charles de Saint Omer, egli si ricordò del suo protetto lasciandogli in eredità i suoi libri greci e latini, anche se probabilmente Clusius non riuscì mai a recuperarli (secondo altri, si trattava di libri suoi che aveva lasciato a Moerkerke). Quanto al botanico, nella sua prima opera così ricorda il suo primo protettore: "Un uomo non solo espertissimo in materia di piante e che fece dipingere le piante stesse, gli uccelli e i quadrupedi con eccezionale abilità in colori vivaci, ma anche molto interessato alla natura di ogni sorta di cose meravigliose". ![]() Reynoutria, un pericolo venuto da Oriente Ed eccoci ritornati a Reynoutria, il genere dedicato da Houttuyn al signore di Reynoutre, ovvero a Charles de Saint Omer, separandolo da Polygonum. Una scelta presto messa in discussione: nel 1848 la sua Reynoutria japonica fu riclassificata come Polygonum sieboldii, per poi essere inserita nel genere Fallopia. Le ricerche filogenetiche basate sul DNA ne hanno invece confermato l'indipedenza, anche se vari autori continuano a considerarlo una sezione del genere Fallopia. Ne è derivata una certa confusione terminologica, con la stessa pianta denominata da autori diversi Polygonum, Fallopia o Reynotria. Inteso come genere indipendente, Reynoutria comprende cinque specie accettate, tutte originarie dell'Asia orientale, più un ibrido naturale, R. x bohemica, originato dall'incrocio tra R. japonica e R. sachalinensis. La specie più nota (o famigerata) è R. japonica, originaria di Giappone, Cina e Corea; portata in Europa dal Giappone da von Siebold, incominciò ad essere commercializzata negli anni '40 dell'Ottocento. Entro il 1850, Siebold ne donò un esemplare ai Kew Gardens; il dono fu molto apprezzato e determinò il successo della pianta, che piaceva ai giardinieri perché i suoi fusti assomigliavano ai bambù e "facevano oriente", senza contare che era facile da coltivare e cresceva dappertutto. Verso la fine del secolo si era naturalizzato in varie parti d'Europa, ma dato che nel nostro continente (e in America) non si riproduce per seme, non causava problemi. Le cose sono cambiate nel Novecento, quando la creazione di infrastrutture, i movimenti di terra e le inondazioni ne hanno scatenato le potenzialità invasive. Basta infatti un frammento di rizoma perché attecchisca e incominci a formare una colonia, che diventerà così fitta da escludere ogni altra pianta, inclusa l'erba. Oggi è inserita nella lista delle piante aliene invasive più aggressive e difficili da controllare. E' tuttavia molto bella; chi l'apprezza, può ripiegare sulla cultivar 'Variegata', con foglie cuoriformi spruzzate di giallo, di crescita rapida, ma non considerata invasiva. Lo sono invece anche le altre due specie ampiamente introdotte in Europa. R. sachalinensis, una specie simile alla precedente ma di dimensioni molto maggiori, fu originariamente introdotta (1864) dall'orto botanico di San Pietroburgo per poi diffondersi soprattutto verso la fine dell'Ottocento, quando una prolungata siccità ne favorì l'impiego come foraggio. Introdotta in Italia nel 1897 come ornamentale a Roma, oggi è presente in quasi tutte le regioni settentrionali, in Toscana e in Lazio. Presenta gli stessi problemi di R. japonica e si espande soprattutto lungo i corsi d'acqua, per il trasporto da parte della corrente dei rizomi delle piante che crescono lungo gli argini. L'ibrido tra le due specie R. x bohemica era già coltivata nei giardini inglesi nel 1872, ma è stata individuata e descritta per la prima volta solo nel 1983, per la Repubblica ceca (da cui l'eponimo); è infatti difficile da distinguere dai genitori, con cui è stata a lungo confusa. E' dunque problematico determinare con precisione la data della sua introduzione. Oggi in Italia anch'essa è classificata come aliena invasiva in quasi tutte le regioni dell'Italia settentrionale e in Toscana. Ha probabilmente potenzialità invasive anche R. multiflora (nota anche con il sinonimo Pleuropterus multiflorus), che, a differenza delle altre specie, tutte erbacee perenni decidue, è una rampicante; diffusa dalla Cina all'Indocina, è una specie officinale, uno dei tonici più importanti della medicina traduzionale cinese. Da queste specie aggressive sembra distinguersi R. compacta, una specie di piccole dimensioni con fiori femminili rossastri e fiori maschili biancastri, talvolta coltivata come ornamentale. L'ultima specie, R. cilinervis, originaria della Cina e della Corea, sembra non sia mai stata introdotta nei giardini occidentali. E, viste le sue parentele, verrebbe da aggiungere: per fortuna! Il nome di Gabriele Falloppio probabilmente è noto anche a chi non ha particolari conoscenze né di anatomia umana, né di storia della medicina, per aver prestato il suo nome alle trombe uterine o tube di Falloppio. Egli fu infatti un grande anatomista, il primo ad aver descritto con precisione l'apparato sessuale femminile, tanto che si devono proprio a lui anche termini come placenta e vagina. Ma le sue scoperte riguardano anche molte altre parti del corpo umano, e in particolare la testa e i suoi organi. Professore prima a Ferrara, poi a Pisa, infine per un decennio a Padova, fu anche un medico ricercato da pazienti altolocati. Era un grande sperimentatore e, anche se i suoi contributi che hanno fatto la storia riguardano soprattutto l'anatomia, era un buon conoscitore dei "semplici" e aveva una notevole fama come farmacologo, tanto che dopo la sua morte precoce uno stampatore veneziano pubblicò sotto il suo nome un ricettario con 400 "segreti", sicuro che avrebbe attirato l'interesse di un vasto pubblico. Che l'opera sia davvero di Falloppio è discusso, ma è certamente un documento interessante e curioso. Non è invece certo, ma assai probabile che Adanson pensasse a lui creando il genere Fallopia, che tra le sue dodici specie annovera due piante native della nostra flora e una notissima rampicante ornamentale, forse fin troppo esuberante. ![]() La breve vita di grande anatomista Il 9 ottobre 1562 moriva a Padova, a soli 39 anni, uno dei più illustri professori dello studio, l'anatomista Gabriele Falloppio (1523-1562). A stroncarlo fu una malattia polmonare, la tisi secondo alcuni, una pleuropolmonite secondo altri. Nato a Modena da un uomo d'arme di pessima fama morto di sifilide che lo lasciò orfano quando aveva solo dieci anni, dal padre ereditò solo una salute malferma e una situazione economica precaria che lo costrinse ad abbandonare gli studi. La famiglia lo spinse ad abbracciare lo stato ecclesiastico, contando che ereditasse il beneficio di uno zio canonico; così a 19 anni fu ordinato sacerdote, ma presto abbandonò una carriera che gli garantiva qualche entrata ma per la quale non aveva alcuna vocazione. Fin da bimbo l'aveva infatti trovata nella medicina: si racconta che a soli sei anni già annotasse mentalmente i decorsi di un'epidemia di peste. Incominciò a studiare anatomia, farmacologia, botanica da autodidatta, quindi la sua formazione proseguì nell'ambito del Collegio medico di Modena, dove divenne allievo di Niccolò Machella. Avido lettore e proprietario di una biblioteca notevole per l'epoca, Machella era un medico erudito e dalle posizioni eterodosse, uno dei principali animatori dell'accademia informale che si riuniva presso la bottega dello speziale Antonio Grillenzoni, cui partecipavano anche umanisti come il celebre filologo Ludovico Castelvetro. Gli accademici dibattevano con grande libertà e spirito critico di letteratura e scienza, ma anche - più pericolosamente - di religione, tanto che nel 1543 furono costretti a sottoscrivere un formulario di accettazione dei dogmi della chiesa cattolica. Tra il firmatari il ventenne Falloppio, accusato di essere "un pessimo eretico luterano". Falloppio si perfezionò nella dissezione di animali e raggiunse una tale abilità nel 1544 il suo maestro gli affidò la pubblica dissezione anatomica del cadavere di una giovane donna impiccata come criminale. Ottenne anche la licenza di praticare la chirurgia, ma intorno al 1545 il miglioramento della situazione economica della famiglia gli permise di trasferirsi a Ferrara per studiare anatomia e medicina con Gianbattista Canano e Antonio Musa Brasavola. Forse seguì come uditore anche le lezioni di Gianbattista da Monte e Matteo Realdo Colombo a Padova, ma non ne abbiamo la certezza. E' probabile che già affiancasse i suoi maestri come dimostratore di anatomia e per l'anno 1547-48, sebbene non avesse ancora conseguito la laurea, fu incaricato di insegnare "la scienza delle erbe, delle piante e delle altre cose che nascono dalla terra", ovvero di commentare Dioscoride. L'anno successivo fu chiamato ad insegnare medicina all'Università di Pisa, incarico che mantenne fino al 1551. Il duca Cosimo I gli permise di sperimentare veleni e oppiacei sui condannati, fino a provocarne la morte, per poi anatomizzarli, cosa che gli procurò pressi i posteri l'accusa di aver praticato la vivisezione. Meno discutibili le sue ricerche sulla causa e le possibili cure della sifilide, di cui fu tra i primi a comprendere correttamente l'origine contagiosa. Nel fecondo ambiente del recente ateneo pisano, Falloppio allargò i suoi interessi alle scienze naturali e strinse amicizia con Luca Ghini, il fondatore del primo orto botanico, e il suo allievo Bartolomeo Maranta. Ci è noto che erborizzò nelle campagne pisane, alla ricerca delle piante degli antichi. Fu così che riconobbe nella salsapariglia la Smilax di Dioscoride e prese a utilizzarla anche per curare la sifilide. La sua competenza di "simplicista" era tale che, dopo la morte di Ghini, Maranta inviò a lui il manoscritto del suo Methodi cognoscendorum simplicium, pregandolo di verificarne l'esattezza e di correggerlo. All'epoca Falloppio era già a Padova, dove nel 1551 fu chiamato a reggere la doppia cattedra di "Lettura dei semplici e chirurgia, con l'obbligo di anatomia", anche se avrebbe conseguito la laurea solo l'anno dopo (si addottorò a Ferrara con Brasavola nell'ottobre 1552). Per dieci anni, tenne lezioni seguitissime, in cui profondeva la sua competenza nei campi dell'anatomia, della chirurgia, della medicina generale, della farmacologia e più in generale delle scienze naturali; così nel 1555 trattò del morbo gallico, ovvero della sifilide, nel 1556 delle acque termali e dei tumori, nel 1557 di metalli e fossili, di fratture e lussazioni, nel 1558 delle ulcere provocate o meno dal morbo gallico e dei purganti, nel 1560 del libro di Ippocrate sulle ferite alla testa, nel 1561 del primo libro di Dioscoride, nel 1562 (l'ultimo della sua vita) nuovamente di morbo gallico e ulcere. Avendo fatto della "sua meravigliosa scientia prove soprahumane", come scrive un biografo contemporaneo e conterraneo, F. Panini, divenne un medico noto e ricercato. Tra i suoi pazienti più illustri, il papa Giulio II, Alfonso II e Isabella d'Este, il duca di Parma Ottavio Farnese, il tipografo Aldo Manuzio che guarì di una malattia agli occhi. Uomo noto per la sua gentilezza, la pacatezza, la rettitudine morale, i poveri li curava gratis, fin da ragazzo, quando addirittura chiedeva la carità per loro. Forse intorno al 1554 (non conosciamo con precisione la data) nella sua vita entrò Melchiorre Guilandino; non era raro che Falloppio ospitasse e aiutasse gli studenti indigenti e meritevoli, ma nel medico tedesco, coetaneo, con alle spalle una travagliata storia familiare, fondamentalmente autodidatta, trovò un alter ego e un inseparabile compagno di vita, con il quale amava erborizzare sui colli euganei. Il legame tra i due giovani medici non mancò di suscitare la malignità di Mattioli, un tempo amico di Falloppio; quando Guilandino osò criticare i suoi Commentari a Dioscoride, a suo parere con il consenso e la complicità di Falloppio, non potendo attaccare direttamente quest'ultimo, troppo celebre e prestigioso, l'irascibile senese incominciò a diffondere insinuazioni scurrili sulla loro relazione, che, se fossero giunte alle orecchie dell'inquisizione, avrebbero potuto diventare molto pericolose. Lo stesso Falloppio , a malincuore, consigliò l'amico di accompagnare in Oriente il bailo veneziano in partenza per Costantinopoli. Quando seppe che Guilandino era stato catturato da corsari turchi ed era prigioniero ad Algeri, mise insieme 200 scudi e, nonostante la salute traballante, non esitò a partire per la Grecia per consegnare il riscatto. Sappiamo che soffriva di una debolezza polmonare, probabilmente da identificare come tubercolosi. Mano a mano che il suo fisico si indeboliva diventò sempre più difficile per lui far fronte ai tanti impegni, ed in particolare alle lezioni nelle stanze fredde e umide dell' ateneo patavino; fin dal 1556-57, tramite un altro amico, Ulisse Aldrovandi, entrò in trattative segrete con l'Università di Bologna per trasferirsi in quell'ateneo. Ma le trattative andarono per le lunghe e solo nel 1562 sembrò certa la sua nomina per l'anno accademico 1562-63; ma prima che potesse assumere la cattedra bolognese, all'inizio di ottobre si ammalò di una forma acuta di "mal di punta" che in meno di una settimana lo portò alla morte. Sconsolato, Guilandino (che da un anno, certo anche grazie all'interessamento del suo compagno, era diventato prefetto dell'orto botanico) pose sulla sua tomba una commossa epigrafe: «Falloppio, in questa tomba non verrai sepolto da solo / con te viene sepolta anche la nostra casa». Nel 1589, alla morte di Guilandino, le ossa di Falloppio vennero traslate nella sua tomba "da una mano pietoso". ![]() Grandi scoperte anatomiche e ricette pratiche Intorno al 1557 Falloppio incominciò a esporre le proprie scoperte anatomiche in un trattato che pubblicò a Venezia nel 1561 con il titolo Observationes anatomicae. Si tratta della sua unica opera edita in vita. Consapevole dell'importanza delle sue scoperte, che in molti casi superavano e correggevano quelle dello stesso Vesalio, temendo che qualcun altro se ne attribuisse il merito, si affrettò a pubblicare il suo trattato senza figure (certo pensava a una seconda edizione illustrata, ma ne fu impedito dalla morte); è però stato scritto che le sue descrizioni sono così accurate e precise da rendere quasi superflue le immagini. La sua scoperta più famosa è certamente quella delle trombe uterine, comunemente note come trombe o tube di Falloppio. Da lui prende il nome anche il legamento inguinale, o legamento di Falloppio. Oltre agli organi riproduttivi di entrambi i sessi, studiò molte altre parti del corpo umano, e in particolare l'anatomia della testa e dei suoi organi. Diede importanti contributi alla conoscenza dell'anatomia dell'orecchio e dell'occhio, diede un'accurata descrizione dei muscoli del capo e del collo, analizzò la struttura dei denti e descrisse il processo di sostituzione dei denti da latte con quelli permanenti, dimostrò la funzione dei muscoli intercostali, descrisse accuratamente i nervi oculo-motori, l'ipoglosso e il trigemino. Notevoli furono anche i suoi contributi alla medicina generale e alla farmacologia, ma li conosciamo solo in modo indiretto, attraverso numerose opere postume, non scritte direttamente da lui, ma basate sugli appunti presi durante le sue lezioni dai suoi allievi e forse su sui manoscritti. La più nota di queste opere "indirette" è probabilmente De morbo gallico tractatus, pubblicato a Padova nel 1563, che contiene anche la prima descrizione di un antenato del preservativo inventato dallo stesso Falloppio. Per passare all'argomento che più interessa questo blog, ovvero la botanica farmaceutica, la "materia medica" come si chiamava allora, le sue lezioni sui purganti furono pubblicate nel 1565 come De simplicibus medicamentis purgantibus tractatus. Ma forse il lascito più curioso è una raccolta di ricette, pubblicata inizialmente dallo stampatore veneziano Marco di Maria nel 1563 sotto il titolo Secreti diversi, et miracolosi e poi ripubblicata nel 1565 in edizione ampliata, con le ricette riordinate e riviste da alcuni allievi di Falloppio; il libro ottenne abbastanza successo da essere successivamente ristampato tre volte entro il 1602 da altri tipografi. La curiosa opera, che dovrebbe presentare le ricette messe a punto e sperimentate da Falloppio in vent'anni di carriera medica, raccoglie 400 "segreti", divisi in tre libri. Il primo, dedicato al "modo di fare cerotti, unguenti, pillole e altri medicinali", è quello più propriamente medico; vi compaiono ad esempio rimedi contro la peste, per combattere o prevenire la quale vengono anche suggeriti gli alimenti più opportuni. Falloppio prescrive ricette per curare le malattie polmonari, cui egli stesso era soggetto, il mal di testa, il mal di denti, i calcoli renali. Non mancano antidoti contro il morso dei serpenti e ricette per eliminare i vermi, curare la rogna, guarire le ferite da taglio. Molte le ricette per curare la sifilide, di cui, come abbiamo già visto, Falloppio era uno specialista. Il secondo libro è dedicato a "diverse sorti di vini e acque molto salutifere". Vi troviamo un vino "per il core, et per molti altri casi, miracoloso, et salutifero" che, oltre a fluidificare il sangue, combatte la malinconia e un altro che facilita e mantiene le gravidanze; acque per guarire le malattie della pelle e una per sciogliere i calcoli renali, a base di varie erbe tra cui la sassifraga. Infine il terzo libro, dedicato a "secreti di Alchimia, et altri dilettevoli, e curiosi", esce dalla medicina vera e propria per occuparsi dell'igiene della persona e della casa, con ricette per cacciare mosche, zanzare, pulci e pidocchi, trucchi per lavare e pulire i vestiti, pomate cosmetiche per la pelle, ricette contro la calvizie, per rendere i capelli biondi o migliorare la memoria. Tra la chimica, l'alchimia e la magia, le ricette per preparare il sale d'ammonio, l'acqua borica, il cinabro, l'ambra e il corallo, trasformare il piombo in oro, trovare il cadavere di un annegato. Potrebbe invece risalire alle esperienze degli anni di Pisa il metodo per estrarre oppio finissimo per fare dormire: "con un poco di questo farai dormire uno quanto tu vuoi, ma ci bisogna buona discretione". Non sappiamo quanto di queste ricette risalga davvero a Falloppio; alcuni studiosi considerano il libro del tutto spurio, altri lo ritengono almeno in parte risalente all'esperienza del medico modenese, che però qui si rivolge non ai dotti o agli studenti di medicina, ma alle persone comuni, alla ricerca di rimedi pratici con ingredienti semplici e facili da reperire. Per il suo ampio ventaglio di argomenti, la raccolta è comunque un documento significativo della pratica medica e farmacologica del tempo. ![]() Rampicanti assai esuberanti, con qualche confusione Nel 1763, nel secondo volume di Familles de plantes Michel Adanson separò da Polygonum il nuovo genere Fallopia. Benché egli non fornisca alcuna indicazione sull'origine della denominazione, si ritiene generalmente abbia così voluto rendere omaggio a Gabriele Falloppio, il cui cognome latinizzato era appunto Fallopius, con una sola p. Esplicita è invece la dedica al nostro del secondo genere Fallopia (Malvaceae), creato da Loureiro nel 1790: "L'ho nominato in memoria del celebre Gabriele Falloppio, professore di botanica a Padova". Per la legge della priorità, il genere di Loureiro è illegittimo, mentre è valido quello di Adanson (famiglia Polygonaceae). Valido ma con una storia piuttosto travagliata. Nell'Ottocento, i botanici per lo più lo includevano in un più ampio genere Polygonum: così fecero sia Meissner nel 1856 sia Bentham e Hooker nel 1880. Il genere è stato universalmente accettato solo nella seconda metà del Novecento, a volte inteso in senso più ristretto, a volte in senso più ampio, a includere anche l'affine Reynoutria. Le analisi basate sul DNA hanno confermato sia l'indipendenza di Fallopia, sia la sua stretta affinità con Reynoutria e Muhelenbeckia, con le quali forma un'unica clade nota con la signa RMF (Reuynoutria, Muhelenbeckia, Fallopia). Sono noti anche ibridi intergenerici con Reynoutria (x Reyllopia) e Muhelenbeckia (x Fallenbeckia). La situazione è comunque ancora fluida. Per fare solo due esempi POWO riconosce Reynoutria e Fallopia come generi indipendenti, mentre INaturalist include tutte le specie di Reynoutria in Fallopia. Senza dimenticare i botanici che ancora optano per un vastissimo Polgygonum. Da qui incertezze di denominazione: ad esempio. il poligono giapponese è classificato come Reynoutria japonica nell'edizione più recente di Flora d'Italia, ma è ancora denominato Fallopia japonica in molti libri e repertori. Qui, seguendo la linea prevalente, considereremo Fallopia e Reynoutria come generi separati. Ne ricordiamo le differenze principali: Fallopia comprende specie rampicanti, annuali o perenni, con infiorescenze ascellari ad asse semplice; i fiori hanno perianzio carnoso e stimmi capitati; i frutti sono talvolta muniti di ali. Reynoutria comprende specie non rampicanti con infiorescenze ascellari ad asse ramificato; i fiori hanno perianzio sottile e stimmi flabellati; i frutti non sono alati. Purtroppo, i due generi hanno in comune una caratteristica spiacevole: varie specie dell'uno come dell'altro, introdotte nei giardini come ornamentali, si sono rivelate aliene invasive di straordinario successo e difficili da combattere, anche se da questo punto di vista Reynoutria ha la fama del peggiore. Fallopia in senso stretto comprende una dozzina di specie originarie dell'emisfero boreale (Eurasia, Nord America, Africa settentrionale), ma largamente introdotte anche altrove. Sono per lo più liane e rampicanti noti per il grande vigore e la rapida crescita, decidui, tanto annuali quanto perenni. Il genere è soprattutto eurasiatico, con nove specie, e centro di diversità in Cina con cinque specie, tre delle quali endemiche; due specie sono nordamericane; una di amplissimo areale si spinge anche in Africa. E' F. convolvulus, diffusa dalla Macaronesia all'Asia orientale, passando per il Nord Africa e l'Europa; è presente anche in tutte le regioni italiane, dove cresce come infestante delle culture di cereali e negli ambienti ruderali; è già citata negli erbari del rinascimento, incluso quello di Mattioli. Si ritiene tuttavia non sia originaria del nostro territorio, ma vi sia giunto in un'epica molto antica. Della flora italiana fa parte anche l'eurasiatica F. dumetorum, ugualmente presente in tutte le regioni eccetto la Sardegna; come la precedente è un'erbacea annuale e cresce preferenzialmente sulle siepi e ai margini delle foreste di latifoglie decidue. Sono invece largamente coltivate F. aubertii e F. baldschuanica, la prima di origine cinese, la seconda proveniente dall'Asia centrale, che POWO tratta come specie diverse, mentre molte fonti autorevoli le considerano sinonimi. Il problema non è semplice, trattandosi di specie altamente variabili. F. aubertii fu raccolta nel 1899 nel Tibet cinese dal padre missionario francese Georges Aubert, che ne inviò i semi al Muséum national di Parigi, che la distribuì già l'anno successivo; nel 1907 fu descritta da Louis Henry come Polygonum aubertii e riclassificata nel 1971 dal botanico ceco Holub come F. aubertii. Fallopia baldschuanica fu invece raccolta per la prima volta nell'attuale Turkestan nel 1883 da August von Regel che la introdusse nell'orto botanico di San Pietroburgo e l'anno successivo la pubblicò come Polygonum baldschianicum; il nome deriva dal toponimo latino Baldschuan, una località della zona orientale del kanato di Bukhara. Anch'essa fu riclassificata come F. baldschuanica da Holub nel 1971. Se si tratta della stessa specie, la priorità spetta a questa denominazione, mentre F. aubertii è sinonimo. F. baldschuanica è rampicante estremamente vigoroso, capace di crescere anche di 30 cm al giorno, raggiungendo un'altezza di 15 metri. E' in grado di coprire rapidamente una facciata (perciò la chiamano Consolazione dell'architetto), ma si arrampica anche su alberi e altri rampicanti, ed è difficile da rimuovere per le radici molto forti. In Italia è stata introdotta per la prima volta in Piemonte nel 1900; oggi è presente in tutto il territorio nazionale tranne la Calabria, è naturalizzata nella maggior parte delle regioni e classificata come alloctona invasiva in Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche e Campania. F. aubertii, se si tratta di un'entità diverse, è molto simile; forse la principale differenza sono le infiorescenze pelose anziché glabre, e forse un vigore appena minore. Sono piante di grande bellezza (al momento della fioritura si trasformano in una cascata di fiori candidi), ma può essere imprudente coltivarle, a meno di controllarne strettamente la crescita. Dopo Euricius e Valerius Cordus, un'altra coppia padre-figlio della Germania del Cinquecento: quella costituita dai due Joachim Camerarius, il Vecchio e il Giovane. Il primo in gioventù fu amico di Euricius, poi divenne una colonna dell'intellighenzia luterana e un notissimo filologo; il secondo studiò in Italia, divenne un medico conteso da principi e sovrani, il riformatore della medicina della sua città, l'autore di un noto testo sugli emblemi, a metà tra erudizione, filosofia morale e naturalismo. Per noi è soprattutto un creatore di giardini: il suo, ricchissimo di piante esotiche, e quelli che aiutò a realizzare o progettò per il langravio d'Assia e il vescovo di Eichstätt. Proprio come quest'ultimo esiste ormai solo nelle magnifiche figure di Hortus Eystettensis, così anche il giardino di Camerarius sopravvive nelle pagine di un libro e di un manoscritto. Auspice Plumier, Linneo gli dedicò il piccolo genere Cameraria. ![]() Un emblematico figlio d'arte Abbiamo incontrato Joachim Camerarius il Vecchio (1500-1574) a Erfurt nel 1520, quando, ventenne, aprì una sfortunata scuola latina insieme a Euricius Cordus. Dopo quell'infelice esordio, divenne un intellettuale di punta del Luteranesimo. Professore a Wittenberg, fu a fianco di Melantone che aiutò a scrivere la Confessione augustana; più tardi ne fu anche il primo biografo. Ebbe un ruolo importante nella riforma in senso protestante delle università di Tubinga (insieme a Fuchs) e di Lipsia, dove visse dal 1539 alla morte. Fu uno dei maggiori umanisti della sua generazione, autore di opere di vario argomento e di numerose traduzioni, nonché curatore di fondamentali edizioni critiche, la più importante delle quale è la prima edizione a stampa del testo greco del Tetrabiblos di Tolomeo. Suo figlio Joachim, che per distinguerlo dal padre è noto come Camerarius il Giovane (1534-1598), cresciuto in questa atmosfera intellettuale, poté giovarsi della fitta rete di contatti del padre, che includeva importanti umanisti e le maggiori personalità del mondo riformato. Dopo aver ricevuto un'ottima formazione classica a Wittenberg con Melantone e a Lipsia con il padre, si orientò verso la medicina. Il suo primo maestro fu Johann Crato von Krafftheim, medico cittadino a Breslavia, che si era laureato a Padova e gli consigliò di fare lo stesso; fu così che nel 1559 Joachim il Giovane partì per l’Italia. Per due anni seguì i corsi a Padova, poi si spostò a Bologna dove si laureò con Ulisse Aldrovandi, con il quale sarebbe rimasto in corrispondenza per tutta la vita. In Italia strinse preziosi legami con molti altri naturalisti, che gli sarebbero stati molto utili al suo ritorno in Germania. Infatti Camerarius il Giovane, oltre che un medico di notevole talento, era anche un umanista e un collezionista che non avrebbe potuto né scrivere le sue opere né arricchire le sue collezioni e il suo giardino senza il contributo di tanti amici e corrispondenti. Dopo la laurea nel 1562, viaggiò ancora per qualche mese in Italia quindi rientrò a Norimberga che sarebbe rimasta la sua residenza fino alla morte. Divenne medico cittadino; la sua competenza era tale che spesso veniva consultato da principi e sovrani. Fu anche molto impegnato nella riforma della medicina della sua città; nel 1571 propose al Consiglio cittadino di istituire un Collegium Medicum che ne regolasse la pratica: solo i medici laureati dovevano essere autorizzati a fare diagnosi e i farmacisti dovevano essere posti sotto il controllo dei medici. Il Collegium venne infine istituito nel 1592 e Camerarius ne fu il decano fino alla morte. Oltre a scrivere di argomenti medici, Camerarius era un intellettuale di vasti interessi, un appassionato collezionista di immagini, piante, minerali, fossili, oggetti naturali in genere. Alla morte di Gessner, di cui era amico, fu lui ad acquistarne i manoscritti e i disegni. Gli studi naturalistici, la competenza di filologo, il moralismo di matrice luterana e il fascino per le immagini si conciliano in Symbola et emblemata, un'opera in quattro libri (o centurie), ciascuno dei quali contiene cento emblemi. Essa si inquadra in un filone che ebbe ampio successo tra tardo Cinquecento e Seicento, quello dei libri di emblemi, ma se ne distingue perché Camerarius sceglie i suoi emblemi esclusivamente dal mondo naturale: le piante (I libro), i quadrupedi (II libro), gli uccelli e i volatili (III libro), gli animali acquatici (IV libro). Ognuno dei quattrocento emblemi ha una struttura quadripartita: sulla pagina di sinistra, l’emblema vero e proprio, un’immagine posta in una cornice circolare, simile a una medaglia; lo sormonta il motto, una frase sentenziosa contenente un insegnamento morale; al piede un epigramma in versi; sulla pagina di destra, un commento con riferimenti sia ad autori classici o alla Bibbia, sia alla letteratura naturalistica. Le immagini, dovute al pittore e incisore Hans Siebmacher e realizzate con la tecnica allora nuova della calcografia, sono assai attraenti e furono riutilizzate per secoli. ![]() Giardini veri (e filosofici), giardini dipinti Come molti naturalisti del tempo, Camerarius aveva vasti interessi, ma la botanica era il suo campo d'elezione: è stato notato che in Symbola et emblemata, i testi delle centurie sugli animali sono per lo più un collage della letteratura di riferimento, mentre nella centuria sulle piante si nota una profonda conoscenza diretta e sono frequenti le osservazioni di prima mano. Infatti, a partire dal 1569 Camerarius poteva studiarle nel suo giardino, dove accanto ai semplici c'erano moltissime piante esotiche; era considerato il più raffinato della Germania meridionale. A farci sapere che cosa vi coltivasse, provvide lo stesso Camerarius con la sua maggiore opera di botanica, Hortus Medicus et Philosophicus , che di quel giardino è almeno in parte il catalogo. Seguito da un opuscolo di Johann Thal sulla flora della regione dello Harz e illustrato da xilografie di Jost Amman e altri artisti, tra cui Joachim Jungermann (nipote di Camerarius), contiene una lista in ordine alfabetico di piante adatte alla coltivazione nei giardini tedeschi di cui vengono forniti i nomi, i sinonimi, la provenienza e note di coltivazione; lo stile è sintetico e le note erudite sono sporadiche, così come le eventuali proprietà officinali. Dalla medicina farmaceutica, l’interesse si va spostando verso le piante in sé, come sottolinea il titolo: hortus medicus sì, ma anche philosophicus, ovvero scientifico: è ora che le piante, da ingrediente delle ricette dei medici, diventino oggetto di studio dei naturalisti. Ci sono piante native, magari alpine, il cui interesse estetico è emerso dai viaggi dei primi esploratori della flora locale, come Valerius Cordus e Gessner, ma moltissime sono esotiche, soprattutto provenienti dall’Italia e dal Mediterraneo orientale. Alcune delle specie che Camerarius coltivava nel suo giardino erano souvenir dei suoi viaggi in Italia come il “bellissimo Antirrhinum dai fiori gialli che cresce spontaneo tra Savona e Genova" . Molte le acquistava dai mercanti di Norimberga che si rifornivano soprattutto ad Anversa, la porta europea delle piante provenienti dalle Indie orientali e occidentali. Ma moltissime le aveva avute da altri botanici e appassionati: il fornitore più assiduo probabilmente era Carolus Clusius, che in quegli anni era a Vienna ed aveva accesso alle specie provenienti dall’Impero ottomano; ma le piante del Levante gli arrivavano anche dai contatti italiani: Aldrovandi, i prefetti di Padova Guilandino e Cortuso, il farmacista Calzolari, i botanici viaggiatori Prospero Alpini e Giuseppe Casabona, prefetto dell'orto di Firenze. Nel 1568 il langravio Gugliemo IV di Assia-Kassel fece allestire uno spettacolare giardino nell'isola di Fulda, ai piedi del suo castello di Kassel. Per selezionare le piante più adatte, si avvalse della consulenza di Camerarius, che gli mise a disposizione i suoi contatti e aiutò il giardiniere capo, che faceva continuamente la spola tra Kassel e Norimberga, a procurarsi piante e elementi decorativi presso i mercanti della città. Era considerato il massimo esperto di giardinaggio della Germania, era un uomo colto e raffinato abituato a frequentare principi e corti; è dunque logico che il vescovo Johann Konrad von Gemmingen abbia pensato a lui quando decise di creare un giardino senza pari a Eichstätt. Il fatto che fosse luterano, evidentemente, non era un ostacolo. Tuttavia Camerarius morì quasi subito e il compito, come ho raccontato in questo post, passò al meno colto ma molto intraprendente Basilius Besler. Ci sono però legami molto forti tra l'Hortus Eystettensis (inteso sia come giardino sia come libro) e il giardino dello stesso Camerarius, Non solo talee, bulbi, barbatelle e semi passarono da un giardino all'altro, ma il vecchio medico e botanico anticipò il progetto del vescovo di far ritrarre dal vero le piante di Eichstätt facendo eseguire uno splendido florilegio manoscritto che documenta le più belle e rare specie del suo giardino. Mai pubblicato, il Camerarius Florilegium si credeva perduto finché venne riscoperto all'inizio del secolo e messo all'asta da Christie nel 2002. Ad aggiudicarselo è stata la biblioteca di Erlangen. È una spettacolare opera d’arte che ritrae 473 specie coltivate, indigene o esotiche, per lo più a grandezza naturale, disposte secondo la successione delle stagioni. Alcune sono collocate in vasi, altre affiancate sulla stessa pagina in una composizione armonica, che anticipa, appunto, lo stile di Hortus Eystattensis. I disegni, allo stesso tempo accurati e di grande qualità estetica, non sono firmati; è stato fatto il nome di Joachim Jungermann, il nipote di Camerarius, che aveva eseguito alcuni dei disegni di Hortus medicus et philosphicus. ![]() L'esotica (e poco nota) Cameraria Riprendendo un suggerimento di Plumier, in Species Plantarum Linneo ha voluto ricordare Camerarius con il genere Cameraria. Appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, è un piccolo genere di appena sette specie, quattro delle quali endemiche di Cuba, due di Haiti e una sola presente anche nell'America continentale, in una stretta fascia tra Messico meridionale e Guatemala. Come molte rappresentanti di questa famiglia, sono piante attraenti, ma tossiche. Sono piccoli alberi o arbusti con foglie intere, lucide, e fiori di piccole dimensioni, bianchi, con tubo corollino a imbuto e cinque lobi a stella. La specie più nota e diffusa è C. latifolia, un elegante alberello con fiori bianchi, che secerne un lattice bianco tossico utilizzato dagli indigeni per avvelenare le frecce. Tuttavia la radice e la corteccia hanno diversi usi officinali. Un elenco delle specie con la distribuzione nella scheda. A Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca a Roma, un tempo si poteva leggere la commovente epigrafe funebre di un giovane rapito agli amici da una febbre crudele; era di carattere gentile ed amabile; pieno di talento, conosceva le erbe e sapeva svelare i segreti della natura a quelli più vecchi di lui; non contento di aver esplorato la Germania, era venuto in Italia spinto dalla sete di conoscenza. Ma la natura matrigna, che non ammette che si carpiscano i suoi segreti, lo spazzò via, a soli ventinove anni. Quel "giovane meraviglioso" era il botanico tedesco Valerius Cordus, morto a Roma l'ultima settimana di settembre 1544 martire del suo amore per il sapere, il primo di una lunghissima serie di naturalisti periti per la scienza. Cresciuto tra le erbe fin dalla culla, come ricorda Plumier dedicandogli il genere Cordia, se il destino gli avesse concesso ancora qualche anno forse avrebbe cambiato la storia della botanica. ![]() Talis pater, talis filius Intorno al 1515, Heinrich Ritze (1485-1535) viveva nel villaggio di Simsthausen dove lavorava come cancelliere della vedova del langravio; fare lo scrivano non era ciò che sognava da ragazzo, quando frequentava la scuola latina di Marburg e i circoli umanistici dell'Assia. Poi si era iscritto all'università e aveva cominciato a farsi conoscere per i suoi versi in latino; aveva persino trovato uno splendido pseudonimo: Euricius Cordus, il bravo Enrichetto nato tardi (era l'ultimo di tredici figli). Ma mancavano i soldi per continuare gli studi; era stato costretto a tornare al paesello, si era trovato un lavoro, e a poco più di vent'anni si era sposato. Forse si sarebbe rassegnato, ma non voleva questo destino per i suoi figli, che intanto si stavano moltiplicando (ne ebbe in tutto otto). A loro voleva dare altre opportunità, e seguire di persona la loro educazione. Fu così che a quasi trent'anni Euricius Cordus tornò sui banchi dell'università di Erfurt e si laureò in lingue antiche e filologia. Insieme a due amici, il poeta Eobanus Hessus (che in realtà si chiamava Koch) e Joachim Camerarius il vecchio (che invece si chiamava Kammermeister) nel 1520 aprì una scuola latina a Erfurt. Non potevano scegliere un momento peggiore, con il paese scosso dalla Riforma luterana, alla quale tra l'altro tutti e tre avevano aderito con entusiasmo. La scuola chiuse presto i battenti e Euricius, per mantenere la famiglia, decise di diventare medico. Grazie a uno sponsor, partì per l'Italia e si laureò nella prestigiosa università di Ferrara, dove fece in tempo ad essere uno degli ultimi allievi del medico umanista Niccolò Leoniceno, all'epoca ultranovantenne. Dal suo maestro imparò soprattutto due cose: leggere gli antichi con spirito critico e studiare le piante dal vivo, non solo sui libri. Dopo aver lavorato per qualche tempo come medico cittadino a Braunschweig, nel 1527 il langravio Filippo di Assia lo chiamò a insegnare medicina a Marburg, nella prima università riformata. Qui Euricius divenne l'idolo degli studenti e lo zimbello dei suoi colleghi: che razza di professore era, uno che invece di spiegare Dioscoride e Galeno portava i suoi allievi a scarpinare in campagna a cercare piante nei boschi e nei fossi? Cordus, che era famoso per la ferocia dei suoi epigrammi, rispondeva letteralmente per le rime, finché i suoi nemici la ebbero vinta e lo espulsero dal Senato accademico. Dopo sette anni di insegnamento, fu costretto a lasciare l'università e trasferirsi a Brema, di nuovo come medico cittadino; qui morì un anno dopo, ad appena 49 anni. Una testimonianza diretta del suo metodo di insegnamento e del suo approccio alla botanica è la sua unica opera sulle piante, Botanologicon (ovvero "Dialogo sulle erbe"), sotto forma di dialogo tra lo stesso Cordus e quattro suoi ex allievi dei tempi di Erfurt. Insieme ai suoi ospiti visitiamo il piccolo orto dei semplici che il medico aveva creato accanto alla sua casa, e poi partecipiamo a un'escursione botanica per raggiungere il più ricco giardino che egli aveva allestito fuori città, una specie di orto botanico ante litteram. Per identificare le piante, uno degli ospiti ha portato due libri: Materia medica di Dioscoride e l'ultima novità editoriale, le prime due parti di Herbarum novae eicones di Brunfels. Prima a casa, dove fanno colazione, poi in giardino, quindi lungo il cammino, i cinque discutono dell'argomento preferito dei botanici del Rinascimento: la corretta identificazione delle piante di Dioscoride. Cordus è un grande filologo (e il più importante poeta satirico del Rinascimento tedesco), ma la sua conoscenza delle piante non è libresca: deriva dalla consuetudine quotidiana e amorevole. E' stato in Italia, e, a differenza di Brunfels, gli è chiaro che le piante che crescono in Germania non sono le stesse dei paesi mediterranei e non ha senso cercare di identificarle a forza con le piante di Dioscoride. Tanto meno bisogna fidarsi delle etichette dei vasi dei farmacisti, che spacciano tutt'altro sotto i nomi delle piante degli antichi. Purtroppo il suo libro, un dialogo dotto in latino, senza figure, non è mai diventato un bestseller come gli erbari illustrati di Brunfels e Fuchs; Cordus non è mai entrato nel canone dei "padri tedeschi della botanica"; ma oltre a questo piccolo libro, ha dato alla botanica un altro lascito: suo figlio Valerius, che fa capolino in qualche riga del Botanologicon. All'epoca ha quindici o sedici anni e suo padre lo descrive come «un ragazzo diligente e uno studioso osservatore». Fin da piccolissimo, ha dimostrato un ingegno precoce e, come dirà Plumier, è stato allevato tra le erbe fin dalla culla. E' il migliore allievo di Euricius che gli ha insegnato a padroneggiare perfettamente il latino e il greco (tanto che consegue il baccalaureato a sedici anni) ma soprattutto ad amare, studiare, osservare le piante. ![]() Un giovane geniale e una morte tragica Quando il padre muore, Valerius ha diciannove anni. Va a vivere a Lipsia da suo zio Johannes Ralla (uno degli interlocutori del Botanologicon); studia all'università, ma contemporaneamente lavora nella farmacia di famiglia, e impara tutto quello che c'è da imparare sulla preparazione dei farmaci e anche sulla chimica. Su suggerimento dello zio, scrive un prontuario delle ricette in uso nelle farmacie: per Valerius, è solo un passatempo, un'esercitazione, senza nulla di originale, ma suo zio lo stima tanto che attraverso alcuni amici lo fa pervenire a Norimberga, dove avrà l'onore di essere adottato come farmacopea ufficiale della città, la prima al di là delle Alpi. Nel 1539 Valerius si trasferisce a Witteberg, per completare gli studi e laurearsi in medicina. Tra i suoi insegnanti, c'è anche Filippo Melantone. Contemporaneamente, tiene lezioni in cui commenta Dioscoride; sono molto brillanti e attirano numerosi studenti, anche dall'estero. Uno di loro è il francese Pierre Belon (1517-1564), che ha appena due anni in meno e diventa un amico. Molti anni dopo la morte di Cordus, sulla base degli appunti di qualche allievo, Gessner pubblicherà questi Commentari insieme alla Historia stirpium. Il giovane è assetato di sapere e non tralascia la chimica, tanto che nel 1540 è il primo a sintetizzare l'etere. Si interessa di mineralogia e geologia, ma la sua vera passione sono le piante. Nei momenti di sospensione dell'attività didattica, da solo o in compagnia di amici-allievi come Belon, perlustra la Germania centrale e meridionale, per raccogliere campioni di minerali ma soprattutto per studiare le piante dal vivo, nel loro ambiente naturale. Abbiamo visto che lo faceva anche Bock, ma il suo era un approccio da autodidatta, per così dire d'istinto. Invece Valerius ha una conoscenza perfetta delle lingue classiche, conosce a memoria i testi di Dioscoride e soci, ed è dotato di una strabiliante memoria fotografica: gli basta aver letto la descrizione di una pianta per riconoscerla la prima volta che la vede. Ha una mente filosofica e fin da bambino è abituato a osservare, confrontare, dedurre. Non è interessato solo alle virtù medicinali delle erbe, ma alle piante di per sé e, come avrebbe detto Teofrasto, è alla ricerca di un metodo "proprio" per studiarle. Entro il 1542, ha messo insieme un manoscritto in quattro libri, suddivisi in 446 capitoli, ciascuno dei quali è dedicato a una specie. Nel 1544 si laurea in medicina e parte per l'Italia (dove era già stato due anni prima per seguire corsi a Padova e Ferrara), deciso ad estendere le sue ricerche alla penisola, per verificare se le piante descritte da Dioscoride trovano una più stretta corrispondenza nella flora mediterranea. Vuole anche incontrare i botanici italiani e imparare dalle loro esperienze all'avanguardia. Viaggia con uno dei suoi professori di Wittenberg, il medico e astronomo Hyeronimus Schreiber, e due allievi francesi, uno dei quali molto probabilmente va identificato in Pierre Belon. Visitano molte città, tra cui Padova, Venezia, Bologna e Firenze; a Bologna si trattengono a lungo, per fare visita a Luca Ghini. Verso la metà di settembre sono a Siena, da dove intendono raggiungere Roma attraversando la Maremma. E' una zona notoriamente insalubre, infestata dalla malaria, ma anche ricca di piante particolari, dunque irresistibile per Valerius che si addentra dove non dovrebbe. E' così che molto probabilmente contrae la malaria; forse è già ammalato quando viene ferito a una gamba dal calcio di un cavallo. E' una brutta ferita e la febbre sale rapidamente; i suoi compagni con grande fatica riescono a trasportarlo a Roma, dove sono accolti da altri amici della comunità tedesca. Valerius sembra riprendersi, tanto che Schreiber e i due francesi decidono di proseguire per Napoli; ma quando rientrano a Roma, scoprono che il loro amico è morto. Dopo una battaglia con le autorità pontificie (come luterano eretico il suo cadavere rischia di essere gettato nel Tevere) possono infine farlo seppellire a Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca. Il loro strazio e la consapevolezza di quanto sua irreparabile per la scienza la perdita di quella giovane vita traspare dalla lapide funeraria, che purtroppo non esiste più ma ci è stata tramandata da un viaggiatore secentesco: "Per Valerius Cordus di Simsthausen in Assia, figlio di Euricio, medico e poeta. Con il suo carattere innocente, il suo talento e la sua straordinaria gentilezza si guadagnò l'ammirazione di tutti i medici. Lui giovane spiegava a quelli più vecchi i misteri della natura e le virtù delle piante. Dopo aver vagato per la Germania, poiché la sua sete di conoscenza non poteva essere soddisfatta, venne in Italia dove fu tenuto in molto onore, ma era appena arrivato a Roma quando fu spazzato via da una febbre crudele al culmine dei 29 anni, mentre le lacrime degli amici scorrevano per l'insostituibile perdita per la scienza". Seguono alcuni distici che chiamano in causa la natura matrigna gelosa dei suoi segreti e il crudele dio Apollo. Una sintesi della breve vita di colui che possiamo considerare il primo martire della botanica nella sezione biografie. ![]() Un'opera pionieristica e la nascita della fitografia Che la perdita per la scienza fosse gravissima è innegabile. Per fortuna, benché giovanissimo, Valerius aveva già scritto molto, ma le sue opere (ad eccezione di Dispensatorium pharmacorum omnium, la farmacopea scritta per Norimberga) vennero pubblicate più di vent'anni dopo la sua morte. Il manoscritto di Historia stirpium venne inviato a Gessner, che ne capì immediatamente il valore e si diede da fare perché fosse stampato; ma purtroppo accettò la proposta dell'editore Rihelius, che deteneva le tavole dell'erbario di Bock, di accompagnare il testo con circa 250 illustrazioni; dato che molte piante non erano mai state descritte in precedenze e Gessner non le conosceva, egli commise molti errori nell'associare le figure al testo; errori che più tardi vennero ingiustamente attributi all'autore anziché al curatore. Nonostante ciò, l'importanza dell'opera di Cordus non sfuggì a grandi botanici come Tournefort e Haller: per il primo egli fu "il primo a eccellere nella descrizione delle piante"; per il secondo fu "il primo a rompere con la dipendenza dalle povere descrizioni degli antichi e a descrivere nuovamente le piante dal vero". Secondo il botanico statunitense Spargue, che ne fu in un certo senso lo scopritore dopo secoli di oblio, "supera di gran lunga Bock per l'esattezza e la natura dettagliata delle sue descrizioni, che ne fanno il vero padre della fitografia". In effetti Cordus, invece di prendere a modello le descrizioni di Dioscoride, come avevano fatto tutti i botanici prima di lui, inventò un metodo del tutto innovativo, che non teorizzò in modo esplicito, ma che è possibile ricavare dalle sue descrizioni. In primo luogo, egli presenta ciascuna pianta dal punto di vista di un osservatore che abbia davanti a sé non un campione di erbario, ma una pianta viva, un esemplare maturo, o almeno nel momento della fioritura; e torna ad osservarla nel momento della fruttificazione, non trascurando mai frutti e semi. La descrizione inizia con la parte più cospicua, più evidente per l'osservatore: per le piante erbacee, prima le foglie, poi il fusto; per le piante con fusto significativo, prima il fusto poi le foglie. Il terzo elemento è il fiore, di cui indica la stagione di fioritura e descrive con precisione analitica calice e corolla. Passa poi al frutto e ai semi, descritti sempre in modo molto preciso, annotando ad esempio il numero di celle, le linee di deiscenza, il numero e la forma dei semi. L'ultimo elemento è quasi sempre la radice, che l'osservatore non vede senza estrarre la pianta dal terreno; è il contrario di quanto facevano gli antichi che partivano proprio da quella, di solito la parte della pianta più importante dal punto di vista erboristico. Per le piante erbacee, se gli è noto, non manca di indicare se sono perenni, biennali o annuali; inoltre aggiunge elementi come il colore, il gusto, l'odore (secondo suo padre, una caratteristica essenziale per il riconoscimento). Benché Valerius avesse lavorato per anni in una farmacia e fosse un esperto di farmaci, le informazioni sulle proprietà officinali sono ridotte al minimo: è chiara la sua intenzione di emancipare la botanica descrittiva dagli usi pratici. Lo schema è applicato sia alle piante nuove (in tutto 66) sia a quelle descritte dagli antichi, di cui non copia mai le descrizioni, come aveva fatto invece lo stesso Bock. Cordus dedicò particolare cura all'osservazione e alla descrizione delle infiorescenze; fu il primo dopo Teofrasto a distinguere le infiorescenze centrifughe (con fioritura dal centro verso l'esterno) e centripete (con fioritura dall'esterno verso il centro), fornendo una descrizione molto precisa delle complesse infiorescenze delle umbellifere. Fu il primo a chiamare corimbo l'infiorescenza di diverse comuni composite, e descrisse con precisione le brattee (anche se il nome non esisteva ancora). Esaminò e descrisse una dozzina di felci (tra l'altro, è il primo a descrivere Matteuccia struthiopteris). A proposito della felce maschio Dryopteris filix-mas scrive: "Cresce copiosamente sulle rocce umide, anche se non produce né fusti, né fiori, né semi. Ma si riproduce da sola per mezzo della polvere che si sviluppa sulla pagina inferiore delle foglie, come tutte le felci". Egli è infatti il primo a capire a grandi linee il meccanismo di riproduzione delle felci e che quella "polvere" è qualcosa di diverso dai semi. In Historia stirpium le piante sono distinte in erbacee (I e II libro), arbustive e arboree (III e IV libro. Dato che nel primo libro sono esaminate "Diverse erbe" e nel secondo "Piante la cui storia è stata trasmessa in modo inesatto dagli antichi, o sono state omesse del tutto", ne consegue che specie, che oggi assegneremmo alla stessa famiglia, o anche allo stesso genere, si trovano separate. Ciò nonostante Greene, che ha studiato molto attentamente i raggruppamenti interni dell'opera di Cordus, dimostra che egli aveva individuato, anche se non esposto in modo esplicito, diversi gruppi naturali, basati fondamentalmente sulle strutture del fiore. E' una grande novità che anticipa di oltre un secolo gli sviluppi della botanica; Cesalpino, che scrive parecchi decenni dopo ed è l'autore del primo tentativo di classificazione delle piante, ignorerà quasi del tutto i fiori, e si baserà invece sui frutti e sui semi (il cui legame con i fiori di cui sono la trasformazione gli era molto meno chiaro che a Cordus); e infatti Greene conclude il suo esame della "tassonomia implicita" di Cordus con queste parole: "Cesalpino, della fine del XVI secolo, è considerato il fondatore della Botanica sistematica. Ma se Valerius Cordus avesse potuto vivere altri ventinove anni, è facile pensare che il grande italiano avrebbe perso i suoi allori". ![]() Cordia, un genere mille usi Come molti botanici del Rinascimento, anche Valerius Cordus deve il suo ingresso nella nomenclatura botanica a padre Plumier, che come sempre sa trovare le parole giuste: "Valerius Cordus di Simsthausen in Assia nacque dal medico e famosissimo poeta Euricius Cordus. Fu sommo commentatore di Dioscoride e felicissimo indagatore di piante precedentemente sconosciute. Fu infiammato dall'esempio di tanto padre, che fin dalla culla volle educarlo tra erbe e fiori". Poi validato da Linneo, il genere Cordia, della famiglia Boraginaceae, comprende circa 250 specie di alberi e arbusti distribuiti nella fascia tropicale e subtropicale di America, Africa, Asia e Oceania. E' presente in vari ambienti, con molte specie notevoli per diverse ragioni. Alcune specie arboree trovano impiego come alberi da legname; quello più pregiato, detto bocote, ricavato da diverse specie messicane e centro americane, è caratterizzato da una piacevole trama zebrata e da proprietà acustiche che lo fanno apprezzare per la costruzione di strumenti musicali; impieghi simili ha il legname di C. dodecandra, noto come ziricote. Molte specie producono frutti eduli, consumati crudi, cotti o come sottaceti, come è il caso di C. dichotoma, una specie asiatica e australiana di ampia diffusione i cui frutti immaturi sottaceto sono una specialità di Taiwan. Il loro nocciolo ha proprietà medicinali, come varie parti di altre specie di questo versatile genere. Non mancano neppure gli usi ornamentali: sono piante dal bel portamento ordinato con vistose fioriture, anche se purtroppo adatte solo ai climi più miti. Forse la più bella, o per lo meno quella che più si fa notare, è C. sebestena, un alberello originario di un'area che va dalla Florida al Centro America, caratterizzato da rutilanti fiori rosso aranciato. Di grande impatto estetico anche due arbusti con fiori bianchi provenienti dagli Stati Uniti meridionali, C. boissieri e C. parviflora, notevoli per la resistenza alla siccità e la prolungata fioritura. Qualche approfondimento nella scheda. Come Brunfels, anche Hieronymus Bock, il secondo "padre della botanica tedesca", fu un fervente sostenitore della Riforma, divenendo anche predicatore e pastore. Ma la sua vera vocazione erano le piante: dal tempo di Teofrasto, è stato il primo a studiarle dal vivo, a provare a classificarle, a descrivere non ciò che ne dicevano i libri ma ciò che vedeva con i suoi occhi. Con i suoi estesi viaggi nella Germania meridionale, nelle Ardenne e in Svizzera, raccolse molte piante native mai descritte in precedenza; il suo New Kreütter Büch, scritto su sollecitazione di Brunfels, è il più innovativo degli erbari tedeschi del primo Cinquecento, grazie alle eccellenti descrizioni e all'abbozzo di una classificazione naturale. Pubblicato per la prima volta nel 1539 senza figure, fu ripubblicato nel 1546 con le illustrazioni del valente pittore David Kandel. Nel 1552 seguì la prima edizione latina con la prefazione di Gessner. E mentre la sua fama cresceva, Bock assumeva nuovi nomi: dapprima, modestamente, si firmò Hieronymus Herbarius, poi con il suo nome, infine con lo pseudonimo classicheggiante Hieronimus Tragus. Nello stemma della sua famiglia c'era un'ortica; chissà se fu questa la ragione che spinse Plumier a dedicargli l'urticante genere Tragia? ![]() Una vocazione botanica Nel 1533 Hieronymus Bock, che all'epoca viveva a Hornbach in Palatinato, ricevette una visita inaspettata. Si trattava di Otto Brunfels che, avendo sentito parlare dei suoi viaggi e dei suoi studi sulle piante, si era sobbarcato il viaggio da Strasburgo per vedere il suo giardino e le sue collezioni. Egli capì subito che quel patrimonio di conoscenze andava messo a disposizione di tutti e sollecitò Bock a scrivere un erbario in lingua tedesca. Secondo quanto racconta lo stesso Bock nella prefazione all'edizione latina del suo libro, è questa l'origine di New Kreütter Büch. Forse senza l'incoraggiamento del più celebre collega, che pubblicò anche un suo saggio in appendice al secondo volume di Herbarum vivae eicones, le due ricerche sarebbero rimaste una passione da praticare nel tempo libero e non si sarebbero trasformate in una delle opere più importanti della botanica rinascimentale. Sappiamo molto poco della giovinezza e delle formazione di Bock; nato in Palatinato intorno al 1498, fu educato in un monastero, dove i genitori avrebbero voluto prendesse i voti, ma egli riuscì a convincerli di non avere alcuna vocazione. Nel 1519 risulta immatricolato all'Università di Heidelberg, ma con ogni probabilità non completò gli studi; è possibile che abbia assistito alla cosiddetta "Disputa di Heidelberg", durante la quale Lutero espose le sue tesi teologiche, e che in questa occasione abbia aderito alla Riforma. Sicuramente nel 1522 iniziò a lavorare come rettore della scuola di Zweibrücken, la residenza del conte palatino Luigi II di cui divenne consigliere e medico personale (benché non avesse mai conseguito la laurea). Il conte gli affidò anche la direzione del suo giardino; fu probabilmente in questo modo che Bock incominciò ad interessarsi di piante. Durante i nove anni trascorsi a Zweibrücken, prese a studiarle in natura facendosi una fama come "herbarius", esperto di erbe. Nel 1532 Luigi II morì, lasciando un erede bambino; il potere passò a Federico II che all'epoca era vicino al cattolicesimo o, per lo meno, non desiderava inimicarsi l'imperatore Carlo V; alla sua corte non c'era posto per un fervente luterano come Bock. Intanto il protestantesimo aveva trovato terreno fertile nel monastero benedettino di Hornbach; l'abate Johann Kindhäuser, vicino ai riformati, offrì a Bock un beneficio come canonico di St Fabian, praticamente una sinecura per trattenerlo in Palatinato. Come predicatore laico e maestro, gli fu concesso di abitare con la sua numerosa famiglia (aveva dieci figli) nella Kooperatorhäusl, la residenza dei collaboratori esterni. Fu poco dopo essersi trasferito qui che Bock ricevette la visita di Brunfels da cui abbiamo preso le mosse. Nel 1536 Hornbach passò ufficialmente alla Riforma; i monaci lasciarono l'abbazia e Bock divenne il parroco luterano della chiesa cittadina, incarico confermato nel 1539 dal primo sinodo ufficiale della Chiesa regionale del Palatinato. Gli anni trascorsi in questa cittadina, posta al confine tra il Palatinato, l'Alsazia e la Svizzera, furono molto produttivi per Hieronymus herbarius (così amava firmarsi all'epoca) che ne approfittò per esplorare la flora della Germania meridionale, delle Ardenne e delle Alpi svizzere; erano viaggi faticosi e difficili, come racconta egli stesso nella prefazione del suo libro, duranti i quali, per non dare nell'occhio, si muoveva travestito da contadino; portava con sé un libretto su cui annotare le sue osservazioni e un cesto per riporre le piante da trapiantare nel suo giardino per studiarle con più agio. Fu dunque sulla base di un intenso lavoro sul campo che poté completare il New Kreütter Büch, pubblicato a Strasburgo nel 1539. Nel 1548, con l'Interim di Augusta, si aprì una fase di incertezza particolarmente acuta nel Palatinato, con il ritorno al cattolicesimo di diversi monasteri; tra questi l'abbazia di Hornbach, dove l'amico di Bock Kindhäuser dovette lasciare il posto al cattolico Johann Bonn von Wachenheim, che obbligò i canonici luterani a sottomettersi o a rinunciare al beneficio. Bock lasciò Hornbach e trovò un nuovo protettore in Filippo II di Saarbrücken che lo volle come medico personale; da Saarbrücken Bock inviò ai suoi ex-parrocchiani una lettera dai toni appassionati che è il suo unico scritto religioso rimastoci. Tuttavia già nel 1552, in seguito al trattato di Passau, poté ritornare a Hornbach come pastore e predicatore luterano. Qui morì poco più di un anno dopo, nel febbraio 1554. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Un libro di erbe rivoluzionario Tre circostanze contribuirono a fare del New Kreütter Büch un libro assai diverso, e anche molto più innovativo, rispetto sia a Herbarum novae eicones di Brunfels sia a De historia stirpium di Fuchs. In primo luogo, rispetto ai due colleghi, Bock era molto meno colto: abbiamo visto che si era iscritto all'università, ma non aveva completato gli studi. La sua formazione era quella ricevuta in convento e anche la sua sapienza medica era dovuta più alla pratica che allo studio libresco; dunque, rispetto agli altri due "padri" sentiva molto meno l'autorità (e l'influsso) dei classici; probabilmente, anche la sua padronanza del latino era modesta. Così scelse di scrivere in tedesco, anzi in dialetto alto tedesco (il suo libro è considerato anche un importante documento linguistico): il suo pubblico ideale non erano i dotti, ma le persone comuni. E' una scelta perfettamente coerente con l'adesione alla Riforma: sono gli stessi anni in cui Lutero traduce la Bibbia in tedesco e vengono aperte scuole popolari (una delle prime è quella di Brunfels a Strasburgo) per diffondere l'alfabetizzazione e permettere a tutti di accedere direttamente ai testi sacri. In secondo luogo, il suo interesse per le piante non si limitava alle specie officinali: amava e voleva conoscere il maggior numero possibile di piante. Mentre Brunfels studiava la flora tedesca convinto di ritrovare in essa le piante degli antichi, e pubblicò molto malvolentieri le indegne plantae nudae introdotte dal suo illustratore, Bock era consapevole che si trattava di una flora diversa, e voleva esplorarla e farla conoscere ai suoi conterranei, convinto che il buon Dio facesse crescere in ogni paese quanto era necessario per la sopravvivenza e la salute, senza bisogno di importare costose droghe straniere. In terzo luogo, Bock era una persona di mezzi limitati, talvolta precarie, con molti figli a carico, e quando scrisse il Kreütter Büch non poteva contare né su un protettore né su un editore disposto ad assumersi il rischio: una costosa edizione illustrata non era neppure pensabile. Dunque le sue descrizioni dovevano essere così precise da bastare al riconoscimento senza l'ausilio delle figure; d'altra parte, questa scelta corrispondeva a un convincimento profondo: "Chi ha un giardino e un giardiniere, non ha bisogno di illustrazioni". Come avevano fatto gli antichi, nel suo nuovo erbario Bock evita di descrivere le piante più comuni, quelle più coltivate nei giardini e nei campi: sono note a tutti e per farle riconoscere basta il nome. Dedica invece la massima cura a ritrarre con le parole quelle selvatiche o di più recente introduzione. Per la prima volta nella storia, queste descrizioni sono frutto di un'attenta osservazione dal vivo, che spesso segue la vita della pianta in tutte le sue fasi; ecco come viene descritto il verbasco (una new entry assoluta nella letteratura botanica): "Una cosa veramente notevole di questa pianta è la sua radice lunga, spessa e corta, di durezza legnosa. Le sue foglie, specialmente le prime, spuntano vicino al suolo, sono piuttosto larghe e lunghe, di aspetto biancastro e lanoso, più o meno come quelle dell'helenium [Inula helenium]. Soltanto il secondo anno spunta lo stelo, pieno di un midollo bianco all'interno, come quello del sambuco, e talvolta raggiunge l'altezza di un uomo, rivestito di foglie che gradualmente diventano più piccole e più strette man mano che si avvicinano alla cima. I fiori, gialli, lanosi, e dolcemente profumati, hanno cinque foglie [si tratta dei petali] e coprono completamente lo stelo da dove nasce alla cima; quando cadono ciascuno di essi è seguito da un globo lanoso pieno di semi non dissimili da quelli del papavero". Come si vede, la descrizione è mirabilmente precisa, ma prolissa, in mancanza di una terminologia tutta da inventare, e deve continuamente ricorrere a paragoni con piante più note (o, almeno, già descritte). Dall'osservazione diretta delle piante discende anche la scelta di respingere l'ordine alfabetico, artificiale e fonte di confusione, per cercare di disporre le piante in un ordine "naturale": "Nel descrivere le piante, ho cercato il più possibile di tenerle insieme nel modo in cui la natura sembra collegarle per la somiglianza di forma". E' il primo emergere del concetto di classificazione; Bock segue la tradizionale tripartizione delle piante in alberi, arbusti ed erbe, ma all'interno di ciascuna categoria cerca di raggruppare le piante in base alla somiglianza di forma; è il primo a individuare le labiate, le crucifere e le composite. Nella prima edizione del New Kreütter Büch egli descrive 478 specie, quasi tutte native della Germania o introdotte da lungo tempo; nella prefazione vanta di averle viste o sperimentate tutte di persona. La prima in assoluto è l'ortica: una pianta umile, a cui Bock è legato perché compare nello stemma della sua famiglia; ma è anche una pianta pura, aggiunge spiritosamente: dopo aver provveduto alle necessità naturali, nessuno sporca le sue foglie. Seguono le labiate (la somiglianza è data dal fusto squadrato e dalla disposizione delle foglie; del resto, nella tassonomia popolare Lamium album è accostato all'ortica con nomi come ortica bianca o falsa ortica), quindi le altre piante erbacee; poi gli arbusti; infine gli alberi. Il successo del libro fu buono, ma limitato dalla mancanza di illustrazioni; solo nel 1546 uscì una seconda edizione accresciuta e illustrata con 568 incisioni del valente pittore David Kandel. Nel 1551 fu seguita dall'edizione latina (la traduzione è di David Kyber) sotto il titolo De stirpium […] commentariorum libri tres, con la prefazione di Conrad Gessner; contiene 806 piante, ancora in gran parte native della Germania; il capitolo sulla vite è famoso perché contiene la prima menzione del Riesling. Abbiamo già visto che Bock aveva pubblicato i suoi primi contributi sotto lo pseudonimo Hieronymus herbarius; per il Kreütter Büch usa il suo vero nome, per De stirpium lo nobilita nel classicheggiante Hieronymus Tragus, dal gr. tragos, "caprone", l'equivalente del tedesco Bock. Per concludere, lascio la parola a Frank J. Anderson che di Bock ha scritto: "Era un dilettante, largamente un autodidatta; eppure le sue acquisizione hanno avvicinato lo studio delle piante alla scienza più di quanto avesse fatto chiunque altro dai tempi di Teofrasto". ![]() Euphorbiaceae... urticanti A celebrare il più grande, ma anche il più modesto e defilato dei tre padri della botanica tedesca non ci sono generi lussureggianti come Fuchsia o Brunfelsia; chissà perché padre Plumier ha voluto onorarlo con un genere di piante che non si distinguono per la bellezza, ma piuttosto per essere armate di dolorosissimi peli urticanti. Sarà un'allusione indiretta alla scelta controcorrente di Bock di far iniziare il suo erbario con l'umile ma pura ortica, emblema della sua famiglia ma forse anche simbolo della sua personalità di uomo schivo e alieno dai compromessi? Il genere Tragia, della famiglia Euphorbiaceae, creato appunto da Plumier e validato da Linneo, è distribuito nella fascia tropicale e temperata delle due Americhe, in Asia, nella penisola arabica, in India e nell'Australia settentrionale, soprattutto in ambienti aridi o ai margini delle foreste asciutte. Comprende circa 150 specie, di aspetto piuttosto variabile; sono suffrutici o erbe erette, ma soprattutto liane volubili, con fusti, foglie e frutti coperti di peli urticanti. I fiori, raccolti in racemi o tirsi, hanno sepali giallo-verdastri e sono privi di corolla; quelli femminili sono seguiti da capsule pelose con tre loculi. Insomma, piante da trattare decisamente... con i guanti, visto che il contatto con il loro peli è considerato particolarmente doloroso. Negli Stati Uniti, dove è presente almeno una decina di specie, chiamano le Tragia noseburn, "brucia naso", perché, piccole e insignificanti, passano inosservate ed è facile pungersi senza neppure vederle. In compenso, diverse specie hanno proprietà medicinali; tra di esse la più notevole è T. involucrata, un'erbacea eretta con foglie ovoidali, nota come "ortica indiana", usata nella medicina ayurvedica come febbrifugo e antimicrobico. Nel 1919 Pax e Hoffmann separarono da Tragia alcune specie africane, creando il genere Tragiella; oggi comprende quattro specie distribuite tra l'Africa tropicale e meridionale. Anch'esse hanno stelo munito di peli urticanti, ma si distinguono per la presenza di brattee cospicue, per varie particolarità dei fiori e per i frutti trilobati con pericarpo legnoso. Per qualche notizia in più su Tragia e Tragiella si rimanda alle rispettive schede. Nel 1768 il naturalista svizzero Albrecht von Haller creò il genere Tragus (Poaceae), senza spiegarne l'etimologia. Alcuni pensano che si tratti di un altro omaggio al nostro Bock / Tragus, ma è molto più probabile che Haller intendesse alludere alle foglie appuntite e bordate di peli, che possono ricordare le orecchie di una capra. La forma Tragus è davvero insolita per un nome celebrativo e capre e caproni sono di casa nei nomi botanici: basti pensare a Salsola tragus, per l'odore pungente come quello di un caprone, o ancoraTragacantha, per una pianta spinosa e puzzolente, oppure Salix caprea, il "salice delle capre". Insieme a Hieronymus Bock e Leonhart Fuchs, Otto Brunfels è uno dei tre "padri della botanica tedesca" (o, secondo alcuni, della botanica tout court). E' vero che, in area tedesca, il suo Herbarum Vivae Eicones è il primo a superare gli erbari figurati di tradizione medievale, messi insieme con il copia-incolla. Ma se il volume segna una tappa nella storia della botanica, non è tanto per i suoi testi (anch'essi ben poco originali) quanto per le incisioni di Hans Weiditz , il primo a ritrarre le piante dal vero e a farle vivere sulla pagina stampata. Il primo vero illustratore botanico della storia avrebbe meritato un genere celebrativo, ma così non è; invece a celebrare Brunfels, per volontà di Plumier e Linneo, c'è il magnifico genere Brunfelsia. ![]() Come si confeziona un prodotto editoriale di successo Come ho raccontato in questo post, il mercato editoriale tedesco aveva scoperto precocemente le potenzialità economiche degli erbari figurati, con una vivace produzione di Kräuter Bücher in lingua tedesca, assai apprezzati da un pubblico relativamente vasto di "illetterati", ovvero di persone che non conoscevano il latino. Costruiti con il copia-incolla riprendendo testi e immagini dalla tradizione manoscritta medievale, non brillavano certo per originalità. Il primo a capire che il mercato era pronto per qualcosa di nuovo fu probabilmente l'editore di Strasburgo Johann Schott, tanto più che aveva sotto mano la persona giusta per scrivere il testo; da qualche anno si era infatti trasferito in città il teologo Otto Brunfels che, oltre ad aver aperto una scuola per i ragazzi, era un poligrafo che aveva già pubblicato per lui due libri di biografie, l'una dedicata agli uomini illustri dell'Antico e del Nuovo testamento, l'altra ai medici celebri. Non era un medico (lo sarebbe diventato poco dopo), ma, oltre ad essere un eccellente latinista, si interessava di botanica ed era aggiornato sulle ultime tendenze che arrivavano dall'Italia. Per altro, più che sul testo, l'avveduto Schott puntava sulle immagini; e anche per quelle aveva la persona giusta: il pittore e incisore Hans Weiditz, figlio di un affermato scultore locale e allievo di Albrecht Dürer. Le xilografie del suo nuovo erbario non sarebbero state l'ennesimo rifacimento di miniature medievali, ma, per la prima volta in assoluto, avrebbero ritratto le piante dal vivo, secondo il nuovo stile naturalistico imposto appunto da Dürer. Che nelle intenzioni di Schott le immagini fossero l'elemento più importante si vede fin dal titolo: Herbarum vivae eicones, ad naturae imitationem, summa cum diligentia et artificio effigiatae, ovvero "Immagini vive delle erbe, effigiate con la massima diligenza e virtuosismo, in modo da imitare la natura". Un titolo che equivale a uno spot pubblicitario. Grazie a quelle immagini senza precedenti, Herbarum vivae eicones di Brunsfeld segnò una tappa fondamentale nella storia della botanica, tanto che Julius von Sachs nella sua Geschicte der Botanik scelse la sua data di pubblicazione, il 1530, come anno di inizio della storia della botanica moderna e proclamò l'autore, insieme a Bock e Fuchs, padre della botanica. Un titolo quanto meno esagerato, anche se l’autore ha i suoi meriti e il libro ne ha ancora di più. Da teologo, a botanico e medico Quando arrivò a Strasburgo, Brunfels era sulla trentina, ma aveva già alle spalle una vita travagliata, vissuta nel fuoco della passione per il rinnovamento religioso e morale, ma anche civile e politico annunciato dalla Riforma. Figlio di un bottaio, giovanissimo si laureò in filosofia e teologia, quindi si fece monaco, prima nella certosa della città natale Magonza, poi in quella di Königshofen nei pressi di Strasburgo. Qui poté frequentare gli ambienti umanistici e pubblicare i suoi primi scritti, dedicati a problemi morali e teologici sulla scia di Erasmo da Rotterdam. La Riforma protestante lo vide in prima fila, schierato al fianco di Lutero ma ancora di più di Ulrich von Hutten, il leader della guerra dei cavalieri. Le sue posizioni erano dunque decisamente radicali e lo costrinsero prima ad abbandonare il monastero, poi a diventare una specie di pastore itinerante, in conflitto non solo con la Chiesa cattolica ma anche con Zwingli e lo stesso Lutero. Negli anni caldi della nascita della Riforma, tra il 1519 e il 1524 egli scrisse copiosamente di argomenti morali e teologici, che spesso avevano anche risvolti politici: in particolare, denunciò l'arbitrarietà delle decime, anche se non fino al punto di invitare i contadini a non pagarle; la sconfitta della guerra dei cavalieri e la morte di von Hutten (che difese ancora dopo la sua scomparsa contro le critiche di Erasmo, ai suoi occhi un opportunista che non aveva avuto il coraggio di schierarsi apertamente con la Riforma) lo spinsero a moderare le sue posizioni e soprattutto ad abbandonare la polemica religiosa, per tornare a Strasburgo. Città libera dell'Impero, ma in posizione decentrata, e dominata dalle posizioni conciliatrici di Martin Butero, rispetto alla Germania poteva essere un asilo abbastanza sicuro e quasi un'oasi di tranquillità. Come ho già accennato, negli otto anni in cui visse a Strasburgo, forse anche in connessione con la professione di maestro, scrisse di molti argomenti, anche se Herbarum vivae eicones rimane la sua opera di maggior impegno. Divisa in tre parti, uscite rispettivamente nel 1530, nel 1532 e nel 1536, si concluse solo dopo la morte dell'autore, avvenuta nel 1534. Non sappiamo se Brunfels si fosse già interessato di botanica in precedenza, magari fin dagli anni in cui era monaco certosino; ma, a parte la raccolta di biografie di medici pubblicata da Schott, non aveva mai scritto nulla né di medicina né di piante medicinali. Ma si appassionò tanto all'argomento che, benché avesse ormai superato la quarantina, andò a Basilea a studiare medicina e, dopo essersi laureato nel 1532, si trasferì a Berna come medico della città. Qui morì nel 1534. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Quando le immagini prevalgono sul testo E' molto probabile che Herbarium vivae eicones come lo leggiamo oggi non corrisponda affatto al progetto che aveva in mente Brunfels quando iniziò a scriverlo. Sulla scorta delle indicazioni degli umanisti italiani, in particolare dei medici dello Studio ferrarese Niccolò Leoniceno e Giovanni Manardo, che invitavano ad abbandonare Plinio per riscoprire Dioscoride nella sua veste originale, e a verificare l'identificazione delle piante dal vivo, l'ex teologo si proponeva di superare i vecchi erbari tedeschi attingendo direttamente alle fonti antiche, prima tra tutte la Materia medica di Dioscoride. Probabilmente intendeva presentare le piante in ordine alfabetico, dando la precedenza o forse l'esclusiva alle specie medicinali citate dagli antichi. Per identificarle correttamente, anche lui, seguendo l'esempio di Leoniceno e Manardo, percorreva le campagne attorno a Strasburgo cercando di identificare le piante mediterranee nominate da Dioscoride nella ben diversa flora del centro Europa, ovviamente incappando in identificazioni forzate o arbitrarie. e le cose non andarono come avrebbe voluto, la colpa (o il merito) fu di Hans Weidnitz. Il pittore doveva essere uno spirito indipendente (e intraprendente) e prese l'iniziativa di ritrarre dal vivo anche piante non previste dall'autore, non solo mai citate da Dioscoride o Plinio, ma spesso pure prive di proprietà officinali. Insomma, vere e proprie erbacce. Brunfels le avrebbe espunte volentieri, o almeno relegate in un'appendice, ma l'editore premeva perché il lavoro procedesse in fretta, e, mano a mano che le matrici erano pronte, venissero stampate le xilografie con i testi relativi. Così l'ordine previsto da Brunfels saltò, e le specie vennero disposte in un ordine casuale, dettato dalle esigenze editoriali. Per Brunfels fu sicuramente uno smacco, tanto che si scusa addirittura con i lettori di aver inserito queste piante nel corpo del testo e le chiama spregiativamente “plantae nudae”, indegne di essere illustrate perché non coperte dal prestigio di una designazione autorevole. Eppure sono proprio le spregevoli piante nude a rendere interessante il libro di Brunfels ai nostri occhi: su 258 specie o varietà illustrate, quelle mai descritte in precedenza sono 47, e sono le uniche per le quali il supposto "padre della botanica" scrive ciò che vede con i suoi occhi o ha saputo dai suoi informatori, e non ciò che riprende diligentemente dalle fonti antiche. Per scoprire i loro nomi e sapere qualcosa dei loro eventuali usi, senza alcuna spocchia intellettuale, egli si rivolse infatti agli erboristi e anche alle «vecchiette espertissime» che «non conoscono le piante grazie ai libri, ma sono stati ammaestrati dall'esperienza». E sicuramente non gli spiacque che l’editore prendesse l’iniziativa di affiancare all'edizione latina una versione tedesca, il Contrafayt Kreüterbuoch (ovvero “Libro d’erbe illustrato”), con l’aggiunta di una cinquantina di illustrazioni originali. Oggi si tende sostanzialmente a ridimensionare il valore storico dell’opera di Brunfels, giudicata un lavoro sostanzialmente compilatorio, mentre non si manca di sottolineare l’altissima qualità delle illustrazioni di Hans Weiditz (1497-1537 circa). Probabilmente si deve a lui la maggior parte delle immagini dei primi due volumi dell’Herbarum Vivae Eicones, anche se fu assistito da altri pittori e da uno o più incisori. Weiditz, come abbiamo già visto, scelse con una certa autonomia le piante da ritrarre; le disegnò e le dipinse da vivo, non in modo idealizzato, ma estremamente realistico tanto che in alcune tavole vediamo fiori appassiti, foglie strappate o mangiate dagli insetti. Da questo punto di vista, le sue immagini sono abbastanza lontane dalle future convenzioni dell’illustrazione botanica che rappresenta le piante non in modo individuale, ma ideale; invece troviamo già le piante decontestualizzate, disposte sul foglio bianco staccate dal loro habitat; in alcuni esemplari sono presentati diversi stati della vita della pianta ritratta, con fiori e frutti insieme. Nel 1930 a Berna, in un volume appartenuto a Felix Platter, furono ritrovati settantasette acquarelli di piante dipinte da Weiditz: si tratta di una parte degli originali da cui furono tratte le xilografie dei volumi di Brunfels. Rispetto a queste ultime, sono ancora più notevoli per virtuosismo e naturalismo; gli incisori non di rado le adattarono alla pagina, spesso disponendole in posizioni innaturali e le riprodussero con un tratto piuttosto sottile, senza chiaroscuro; inoltre le dimensioni delle xilografie sono molto variabili, dalla pagina piena a pochi centimetri, con il testo che si dispone intorno in modo a volte un po' disordinato. Probabilmente, erano previste copie di lusso acquarellate a mano, di cui gli originali di Weiditz costituiscono il modello per i colori. Le illustrazioni di Weidnitz imposero un nuovo standard, tanto che furono immediatamente piratate: nel 1533 l’editore Egenolph ne fece copiare alcune (invertite e ridotte nelle dimensioni) per illustrare il Kreutterbuoch di Eucharius Rösslin; Schott gli fece causa e l’editore rivale fu costretto a desistere (ne ho parlato in questo post). Qualche anno più tardi, esercitarono una notevole influenza sugli artisti che illustrarono De historia stirpium di Fuchs. ![]() Fiori profumati, fiori cangianti A far entrare Brunfels nella terminologia botanica con la dedica di uno dei suoi generi americani fu il solito padre Plumier, che con tono lievemente apocalittico sottolinea il ruolo di precursore del botanico-teologo: «Per primo in Germania cercò di strappare la botanica medica, quasi estinta, da profondissime tenebre». E ciò resta vero non solo per il pionieristico Herbarum vivae eicones, ma anche per aver stimolato e incoraggiato altri botanici a seguirlo sulla stessa strada: fu lui a persuadere Hieronymus Bock a pubblicare il suo erbario tedesco, sobbarcandosi un viaggio a piedi da Strasburgo a Hornbach per convincerlo di persona; in appendice a Herbarum vivae eicones, pubblicò i primi scritti dello stesso Bock e di Fuchs; e fu certo l’interesse suscitato dal libro di Brunfels a spingere Euricius Cordus a scrivere e pubblicare il suo Botanologicon. Validato da Linneo nel 1753, il genere Brunfelsia, della famiglia Solanaceae, comprende una cinquantina di specie di piccoli alberi e arbusti, più qualche liana, diffuse esclusivamente nell'America tropicale, dalle Antille all'Argentina. Hanno grandi fiori profumati tubolari, con corolla piatta, lievemente zigomorfi, con cinque grandi lobi, simili a quelli delle petunie (i generi sono piuttosto affini e appartengono alla medesima tribù, quella delle Petunieae). Come molte piante di questa famiglia, contengono sostanze medicinali e alcaloidi, le cui proprietà sono state scoperte e sfruttate dalle culture indigene; tuttavia diverse componenti sono tossiche e possono causare problemi sia all'uomo sia agli animali domestici. Diverse specie di Brunfelsia sono coltivate per il grande valore ornamentale nei paesi a clima mite. Le più note sono B. americana e B. pauciflora. B. americana è un piccolo albero originario delle Antille, dove lo vide e lo descrisse padre Plumier; sempreverde, ha grandi fiori solitari dapprima bianchi poi giallo crema, che si aprono di notte diffondendo un forte profumo che gli ha guadagnato il soprannome di “signora della notte”. Da noi è però più coltivata l’arbustiva B. pauciflora, originaria del Brasile, che al momento della fioritura dà spettacolo con le sue corolle in tre colori. Infatti i suoi fiori hanno la curiosa particolarità di cambiare colore: al momento dell’apertura sono viola purpureo, quindi lavanda, infine, poco prima di appassire, bianchi. Ecco perché gli inglesi la chiamano yesterday-today-tomorrow, “ieri, oggi, domani”. Nessuna delle due specie è rustica. Garantisce invece una buona resistenza al freddo B. australis, che come dice il nome specifico ha una distribuzione più meridionale (dal Brasile meridionale all’Argentina); è simile a B. pauciflora, ma con portamento più compatto e fiori più piccoli, anch'essi in tre colori. Qualche approfondimento nella scheda. C'è chi lo chiama il Plinio tedesco (anche se non era tedesco, ma svizzero, era erudito quanto Plinio, ma molto più dotato di senso critico), oppure il Leonardo svizzero (dato che, oltre a essere un genio poliedrico, era anche un disegnatore di talento, il paragone calza di più). In ogni caso, anche per gli standard del Rinascimento, epoca che coltivò più d'ogni altra l'aspirazione all'uomo universale, lo svizzero Conrad Gessner fu certamente una personalità d'eccezione. Fu teologo, medico, insegnante, linguista, filologo, bibliografo, naturalista, un poligrafo che scrisse degli argomenti più diversi. Per i posteri è il padre di due discipline tanto lontane come la bibliografia e la zoologia, con le enciclopediche Bibliotheca universalis e Historia animalium. Ma per i contemporanei, e forse per lui stesso, era soprattutto un botanico; la morte precoce e improvvisa gli impedì di completare e pubblicare quella che riteneva la vera grande opera della sua vita, l'altrettanto enciclopedica Historia plantarum. Rimasta manoscritta e pubblicata parzialmente solo duecento anni dopo la morte dell'autore, è la grande opera mancata della botanica rinascimentale. A rivelarci il metodo innovativo di Gessner, basato sull'osservazione minuziosa delle piante e sul confronto tra il maggior numero possibile di specie alla ricerca di una chiave di classificazione, sono soprattutto le lettere ai numerosissimi corrispondenti e ancor più i disegni allestiti per il suo magnum opus, sorprendenti per la precisione e per la scelta dei particolari, del tutto inconsueti per l'epoca. Il poligrafo svizzero era anche un alpinista entusiasta, oltre che il primo in età moderna a rimarcare il legame tra la distribuzione delle piante, il terreno e l'altitudine. Inoltre fu uno degli animatori della grande rete di scambio di informazioni, semi, piante, esemplari che caratterizzò l'ambiente naturalistico del Cinquecento; in relazione con molti dei maggiori botanici del suo tempo, influenzò direttamente l'opera di Jean Bauhin, che fu suo allievo. Stimato dai botanici delle generazioni successive, fu ricordato da Plumier (e da Linneo) con la dedica del genere Gesneria, che dà il nome alla famiglia Gesneriaceae. ![]() Una memorabile ascensione Nel 1541, Conrad Gessner (all'epoca aveva ventisei anni) in una lettera all'amico Jakob Vogel, poi pubblicata come dedicatoria dell'opuscolo Libellus de lacte ac operibus lactariis, espresse tutto il suo entusiasmo per le montagne e promise: "Mi propongo per il futuro, finché Dio mi concede di vivere, di scalare le montagne, o almeno di scalare una montagna all'anno". Sappiamo che tenne fede alla promessa, ma di queste escursioni annuali purtroppo ci rimane un solo resoconto: quella della scalata del Grepfstein (1926 m. sul livello del mare), una delle cime del gruppo del Pilatus, alle spalle di Lucerna, nell'agosto 1555. Insieme ad alcuni amici, da Zurigo, dove abitava, Gessner raggiunse Lucerna, dove assunse una guida, dal momento che le autorità cittadine vietavano di accedere al Pilatus da soli. Si credeva infatti che la montagna fosse infestata dal fantasma di Ponzio Pilato, che qui sarebbe stato esiliato e qui sarebbe morto suicida; meglio non sfidare quell'anima in pena, che alla minima provocazione scatenava terribili tempeste! Gessner non ci crede più di tanto e si gode la gita con tutti i sensi: la vista ammaliata dallo spettacolo delle cime e dal magnifico panorama; il tatto piacevolmente solleticato dalle fresche e pure brezze alpine, tanto in contrasto con l'inquinata aria cittadina; l'olfatto deliziato dal profumo dei fiori e delle erbe; persino il gusto è appagato da uno rustico spuntino a base di pane e acqua di fonte: "Dubito che i sensi umani possano assaporare un piacere più grande e più epicureo". Prima di affrontare l'ultimo tratto, nell'ultima malga Gessner vede e ascolta un corno delle Alpi e, quasi per sfida, prova a suonarlo. Quindi la guida li conduce alla cima, attraverso un cammino abbastanza arduo e non segnato da sentieri. Sulla cima, gli amici incidono il loro nome sulle rocce, come hanno fatto molti altri viandanti prima di loro; di Pilato nessun segno, da nessuna parte. Gessner conclude: "Da parte mia, sono inclinato a pensare che non sia mai stato qui". All'andata e al ritorno, il naturalista osserva gli animali (le trote del torrente Rumling, camosci, stambecchi, marmotte) e erborizza, raccogliendo una quarantina di specie diverse. E' affascinato dalla maestosità delle montagne, che per un uomo profondamente religioso come lui è segno e prova della grandezza di Dio, e dalla varietà della natura alpina: "In nessun altro luogo come in montagna è possibile incontrare tanta varietà; a parte ogni altra considerazione, solo in montagna è possibile contemplare e sperimentare le quattro stagioni, estate, autunno, inverno e primavera, riuniti in una sola giornata". Al ritorno a Zurigo, racconterà l'escursione in Descriptio Montis fracti sive Montis Pilati ut vulgo nominant, la prima monografia dedicata alla descrizione di un ambiente alpino, tanto precisa da essere in gran parte valida ancora oggi. In quel laboratorio all'aria aperta che è per lui la montagna, Gessener osserva le piante nel loro ambiente naturale e, secoli prima di Humboldt, è il primo naturalista a intuire l'influenza della temperatura e dell'altitudine sulla distribuzione della flora alpina. Per le sue precise notazioni sull'ecologia delle piante osservate, Descriptio Montis fracti è considerata la prima opera di geografia botanica. ![]() L'opera poliedrica di un genio universale Quando organizza la memorabile escursione, Gessner ha già dato alle stampe Bibliotheca universalis (1545-1549) ed è impegnato nella stesura e nella pubblicazione di Historia animalium (1551-1587). Sono le due grandi opere enciclopediche che hanno consegnato la sua fama ai posteri. Gessner era nato a Zurigo in una famiglia con troppi figli e troppi pochi soldi. Il padre, che secondo alcune fonti era un pellicciaio, era un seguace di Zwingli e morì insieme a lui nella battaglia di Kappel. Il quindicenne Conrad fu affidato a uno zio materno, un canonico che coltivava un piccolo giardino ed era esperto di erbe medicinali; fu lui, a quanto pare, a trasmettergli l'amore per la natura. Per il dotatissimo adolescente iniziava una vita errabonda: sempre a corto di soldi e dipendente dal sostegno finanziario di diversi mecenati, lo troviamo a studiare ebraico a Strasburgo, lingue classiche e medicina a Brouges, teologia e medicina a Parigi. Nel 1535 tornò in patria e a soli 19 anni si sposò con una ragazza povera quanto lui nonché malaticcia. Una scelta che egli stesso anni dopo giudicherà avventata e che lo privò momentaneamente dell'aiuto dei suoi protettori. Per vivere, fu costretto a insegnare per qualche tempo in una scuola elementare. Presto fu perdonato e poté riprendere gli studi di medicina a Basilea, quindi si spostò a Losanna, dove per tre anni (1537-1540) insegnò latino e greco all'Accademia cittadina, appena fondata; fu un periodo relativamente tranquillo, durante il quale godette di una certa tranquillità economica e iniziò a pubblicare i primi scritti di medicina, filologia e filosofia. Risalgono a questi anni anche le prime escursioni nel Giura, nel Vallese e sulle Alpi della Savoia e i primi testi di botanica, in cui l'interesse per le piante si coniuga con quelle per le lingue: Historia plantarum ordine alphabetico ex Dioscoride sumtis descriptionibus, et multis ex Theophrasto, Plinio et recentioribus Graecis (1541), una lista in ordine alfabetico dei nomi di piante che compaiono negli autori dell'età classica e del primo Medioevo; Catalogus Plantarum Latine, Graece, Germanice, et Gallice, un catalogo quadrilingue (1542) in ordine alfabetico dei nomi delle piante in latino, greco, tedesco e francese. Nel 1540, sollecitato dalla città di Zurigo che gli offrì una borsa di studio, Gessner riprese gli studi di medicina a Montpellier; un soggiorno breve, ma decisamente importante, che consolidò le sue conoscenze in botanica e anatomia e gli permise di stringere legami personali con altri studiosi, primo fra tutti Rondelet. L'anno successivo si laureò in medicina a Basilea e tornò a Zurigo; qui, a parte le consuete escursioni in montagna e qualche viaggio occasionale, sarebbe rimasto fino alla morte, mantenendosi con vari incarichi: lettore di Aristotele al Carolinum; medico capo della città dal 1554; docente di fisica, scienze naturali ed etica al Carolinum dal 1557 alla morte, avvenuta nel 1565 in seguita a un'epidemia di peste. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Negli anni zurighesi Gessner pubblicò numerose traduzioni e edizioni di testi classici, soprattutto di argomento medico, e scrisse copiosamente di teologia, medicina, linguistica, zoologia, botanica. Soffermiamoci solo sulle opere maggiori. Subito dopo il ritorno a Zurigo, egli fu impegnato nella stesura della monumentale Bibliotheca universalis: impressionato dalla distruzione della biblioteca di Buda, data alle fiamme dai Turchi, che aveva causato la perdita di numerosi inestimabili manoscritti, egli decise di pubblicare un catalogo completo di tutte le opere "esistenti o no, antiche o più recenti fino ai giorni nostri, dotte o no, pubblicate o conservate manoscritte nelle biblioteche". Dopo tre anni di ricerche, che egli stesso definì "un labirinto", il grandioso catalogo uscì infine a Zurigo nel 1545. E' la prima bibliografia dell'età moderna. Nel 1548, l'erudito svizzero la completò con le Pandectae, un indice tematico in cui i testi sono catalogati in 19 materie e 3000 voci; potremmo definirlo il primo motore di ricerca della storia. Subito dopo, egli iniziò a lavorare alla enciclopedia zoologica Historia animalium, una grandiosa opera in cinque volumi: il primo uscì nel 1551, l'ultimo nel 1587, ventidue anni dopo la morte dell'autore. L'intento di Gessner era presentare tutti gli animali conosciuti, nonché una bibliografia di tutte le opere di storia naturale a partire dall'antichità. In mancanza di un criterio di classificazione globale soddisfacente, gli animali, divisi in quadrupedi (I volume), ovipari (II volume), uccelli (III volume), pesci e animali acquatici (IV volume), serpenti e scorpioni (V volume), compaiono in ordine alfabetico; tuttavia alcune grandi categorie sono raggruppate insieme: ad esempio, tutti i bovini sono trattati sotto la voce Bos e tutte le scimmie sotto la voce Simia. Historia animalium è indubbiamente un'opera contraddittoria, con un piede nel passato e uno nel futuro. Da una parte è una compilazione erudita, in cui si riversa il patrimonio di conoscenze zoologiche ereditato dall'antichità o anche dal folklore, tanto che, accanto agli animali reali, non mancano quelli fantastici. Dall'altra parte, Gessner cerca di distinguere i fatti dai miti, e spesso si basa sull'osservazione diretta degli animali e delle loro abitudini; inoltre introduce informazioni sugli animali esotici recentemente conosciuti nelle Americhe o nelle Indie orientali. Di grande rilevanza è poi l'apparato iconografico, con oltre 1500 tavole spesso di grande precisione e realismo. Tra gli autori delle xilografie, va ricordato Albrecht Dürer. Nel 1555, Gessner pubblicò una terza opera notevole, Mithridates sive de differentiis linguarum, che possiamo considerare il testo fondante della linguistica comparata. Il breve opuscolo contiene un elenco in ordine alfabetico di 130 lingue e dialetti, corredato da osservazioni linguistiche, da informazioni sui popoli che li parlano, da esempi testuali e dal testo del Padre nostro in ventisei lingue. ![]() Alla ricerca di una chiave per classificare le piante Nonostante questa mole di lavori in altri campi, il principale interesse di Gessner fin dagli anni di Losanna, quando si era innamorato delle piante alpine del Vallese, era la botanica. Negli anni in cui scriveva le grandi opere erudite, continuava a raccogliere e studiare le piante: nei suoi viaggi ne scoprì almeno 200 specie. Corrispondeva con molti colleghi, con cui scambiava esemplari e osservazioni e talvolta polemizzava, nonostante il carattere mite e conciliante (celebre è la controversia con Mattioli sull'identificazione dell'Aconitum primum di Dioscoride). Negli anni cinquanta, diede alle stampe una serie di brevi opere botaniche, talvolta in forma di lettera, tra cui De raris et admirandis herbis, quae sive quod noctu luceant, sive alias ob causas, Lunariae nominantur (1556) in cui si occupa del fenomeno della luminescenza e espone le sue osservazioni sulle differenze tra alcune piante con nomi simili. All'inizio del decennio successivo risale De hortis Germaniae (1561), che contiene la descrizione di varie giardini botanici tedeschi, svizzeri, polacchi, francesi e italiani, incluso quello dello stesso Gessner a Zurigo, piccolo ma ricco di piante particolari; seguono indicazioni per la scelta e la coltivazione delle piante e una lista di piante coltivate in ordine alfabetico. E' interessante sottolineare che non si tratta solo di specie officinali o utilitarie, ma anche ornamentali. Terminata la stesura di Historia animalium (anche se la pubblicazione, come abbiamo già visto, si protrasse per decenni oltre la sua morte), Gessner decise che era venuto il tempo di dedicarsi interamente alle piante. Gli ultimi dieci anni della sua vita furono così consacrati alle ricerche e alla scrittura di un'altrettanto enciclopedica Historia plantarum. Fu un lavoro febbrile, una lotta contro il tempo: da sempre di salute cagionevole, miope e con la vista compromessa dallo studio e dall'uso delle lenti di ingrandimento, il grande naturalista temeva che la sua vita non sarebbe durata abbastanza per consentirgli di portare a termine l'impresa. E, come abbiamo visto, purtroppo non si sbagliava. Nella sua casa, che già da tempo era un piccolo museo naturalistico, incominciarono ad ammassarsi fogli di erbario inviati da amici (come Daléchamps e l'allievo Jean Bauhin, piuttosto nervoso quando il maestro li trattenne molto oltre le promesse), testi di altri botanici con le pagine fitte di annotazioni di mano di Gessner, e soprattutto disegni su disegni. Le oltre 1500 illustrazioni, in gran parte disegnate da lui stesso (era un disegnatore di grande talento) o affidate a collaboratori sotto la sua supervisione, erano diventate il suo principale strumento di lavoro, un modo per fissare sulla carta e rendere evidenti i particolari anatomici di ciascuna specie: ogni pianta era "fotografata" in tutti gli stadi di sviluppo, con tutti gli organi disegnati con la massima precisione e gli ingrandimenti di particolari significativi come i petali, gli organi riproduttivi, il sacco pollinico, i frutti e i semi. Attorno ai disegni, una ragnatela di annotazioni in una scrittura minutissima, con osservazioni sulla località di crescita, le forme di sviluppo, i particolari morfologici, le caratteristiche distintive. Attraverso queste osservazioni e questi disegni, Gessner stava cercando di scoprire una chiave di classificazione del vasto mondo vegetale, i cui confini non facevano che allargarsi con l'afflusso di sempre nuove specie da altri continenti. Una fatica di Sisifo e un fallimento annunciato. Anche se da nessuna parte Gessner ha esposto le sue conclusioni e in Historia plantarum le piante sono effettivamente raggruppate in modo incoerente ed empirico, dai particolari su cui insiste nei disegni e da alcune lettere possiamo ricavare chiaramente che aveva capito l'importanza dei fiori, dei frutti e dei semi per classificare le piante. Non a caso, la sua opera fu particolarmente apprezzata da Tournefort che possedeva una copia di De raris et admirandis herbis fittamente annotata. Inoltre fu tra i primi a distinguere con una certa chiarezza i concetti di genere e specie, scrivendo tra l'altro: "Non esiste quasi pianta che costituisca un genere che non possa essere diviso in due o tre specie. Gli antichi descrissero una specie di genziana. Io ne conosco dieci o più". Abbiamo già anticipato che Historia plantarum rimase incompleta ed inedita. Alla morte dell'autore i disegni furono acquistati da Camerario il Giovane che ne utilizzò una quarantina per il suo Hortus medicus (1588); il manoscritto passò per varie mani e fu parzialmente riscoperto da Trew, che lo pubblicò sotto il titolo Opera botanica tra il 1753 e il 1759, quando ormai era troppo datato per influire sugli sviluppi della scienza botanica. Circa 150 disegni furono scoperti nel 1927 nella Biblioteca di Erlangen; il terzo volume dell'opera, che si credeva perduto, è stato ritrovato solo nel 2013 nella biblioteca dell'Università di Tartu. ![]() Gesneria, tropicali per intenditori L'ammirazione di Tournefort per Gessner era condivisa dal suo amico Plumier, che volle celebrare il botanico svizzero dedicandogli uno dei suoi nuovi generi americani. La dedica di Gesneria fu poi confermata da Linneo, che riteneva Gessner uno dei botanici più importanti delle generazioni precedenti e gli riconosceva il merito di essere stato il primo ad usare la struttura dei fiori come criterio di classificazione delle piante. Grazie a Plumier e Linneo, Gessner è diventato così il patrono non solo del genere Gesneria, ma delle Gesneriacae, una grande famiglia di più di 150 generi e 3500 specie, per lo più tropicali, caratterizzate da fiori vistosi e di grande bellezza. Molto meno nota delle cugine Achimenes, Gloxinia, Sinningia, Streptocarpus o Saintpaulia, anche Gesneria non manca di farsi notare per le fioriture smaglianti. Con circa cinquanta specie di piccoli arbusti, suffrutici ed erbacee perenni, è un genere quasi esclusivamente caraibico, ad eccezione di due o tre specie dell'America meridionale. Le Gesneriae sono vere tropicali, abitanti delle foreste d'altura, dove vivono sulle rocce e sulle pareti rocciose, godendo di ombra luminosa, suolo ricco e sciolto e umidità costante. Condizioni difficili da riprodurre in coltivazione, tanto più che basta che il terreno secchi troppo anche per un breve periodo per ucciderle; ecco perché sono piante da collezione, da coltivare in un terrario o in una serra protetta. Tra le poche specie relativamente diffuse, G. cuneifolia, nativa dei Caraibi orientali; è una erbacea in miniatura con foglie alternate lucide e fiori tubolari arancio vivo. Ne sono stati introdotti anche alcuni ibridi. G. ventricosa, nativa della Giamaica e delle piccole Antille, è invece un arbusto relativamente grande che vive in spazi semi-aperti sulla sommità delle colline nelle foreste pluviali di mezza montagna; ha corolle a imbuto rosso aranciato lievemente ricurve e rigonfie. Qualche approfondimento nella scheda. La vita di Andrès Laguna, medico umanista celebre per la prima (e mirabile) traduzione in spagnolo di Dioscoride, è caratterizzata da un continuo errare per le contrade d'Europa. A vent'anni, dalla nativa Spagna va a studiare a Parigi (una scelta forse obbligata per un converso nato da padri ebrei); poi lo troviamo a Londra, Gand, Ratisbona, Metz, Colonia, e, per molti anni in Italia, tra Bologna, Roma e Venezia. A quella Europa umanista e cristiana che sentiva come la sua vera madre dedicò anche un'accorata orazione che è allo stesso tempo un compianto e un invito alla pace, in un continente dilaniato dalle guerre e dagli scontri religiosi. Laguna condivideva l'anacronistico sogno di Carlo V di una monarchia universale; e quando capì che non era possibile, lui che per tutta la vita aveva scritto in latino, decise di servirsi della lingua di Castiglia per la sua edizione di Dioscoride, una delle più importanti della prima stagione del Rinascimento. E la dedicò al suo nuovo sovrano, il principe Filippo che di lì a poco sarebbe passato alla storia come Felipe II. ![]() Compianto per l'Europa che tormenta se stessa La sera del 22 gennaio 1543, all'Università di Colonia va in scena una commovente e mesta cerimonia. Nell'aula magna rivestita di drappi neri, illuminata da nere candele, avanza un uomo in cappa e cappuccio neri. E' il medico e umanista spagnolo Andrès Laguna. Invitato dall'arcivescovo della città a tenere una lezione magistrale, ha voluto questo apparato funebre per dare più forza alla sua orazione Europa heutentimorumene, "L'Europa che tormenta sé stessa". Di fronte a un attonito pubblico di notabili, presta la sua voce a un'Europa dilaniata da interminabili guerre intestine e invita alla pace e alla concordia in nome della comune identità europea e cristiana. Il discorso di Laguna è uno dei primi in cui viene espressa un'idea di Europa intesa non come spazio geografico ma come entità politica e culturale con radici comuni, che per l'umanista cristiano Laguna sono l'antichità greco-latina e la religione cristiana. Questa visione umanista dell'Europa, che egli riprendeva da Erasmo e dallo spagnolo Juan Luis Vives, per il medico spagnolo era anche una concreta esperienza di vita. Nato a Segovia probabilmente nei primi anni del Cinquecento in una famiglia di ebrei convertiti, dopo aver iniziato gli studi in patria, poiché l'Inquisizione vietava ai conversos di conseguire la laurea nelle Università spagnole, era andato a studiare medicina a Parigi. Nella capitale francese, forse al momento l'ambiente più fecondo d'Europa, Laguna aveva incontrato grandi maestri, come Jacques Dubois (Jacobus Sylvius) e Jean Ruel, ed era diventato un tipico uomo universale del Rinascimento: medico, anatomista, botanico, filosofo, cultore delle lingue classiche, filologo e traduttore. Dopo un breve ritorno in patria e un viaggio in Inghilterra, si era spostato nelle Fiandre dove era entrato al servizio di Carlo V. Carlo era il suo sovrano (oltre che imperatore e duca delle Fiandre era anche re di Spagna), ma soprattutto in lui Laguna vedeva il nuovo Carlo Magno, colui che avrebbe ristabilito la monarchia universale e riunito la cristianità divisa, guidandola alla lotta contro i nemici esterni (in primo luogo l'Impero Ottomano), secondo l'ideologia imperiale formulata dal cancelliere dell'Impero, il cardinale umanista Mercurino Arborio di Gattinaria. La realtà era ben diversa; alle interminabili guerre tra Carlo V e Francesco I, che non aveva esitato ad allearsi con il sultano turco, si aggiungevano la frattura religiosa tra cattolici e protestanti, con il suo seguito di scontri sempre più sanguinosi. Lotte in cui Laguna si trovò coinvolto in prima persona quando l'imperatore lo inviò come ambasciatore a Metz, nel 1540. La città era la capitale del ducato di Lorena, di lingua francese, ma formalmente parte dell'Impero, una zona di confine in cui le idee riformate avevano incontrato largo seguito. Medico e anatomista già celebre, Laguna fu invitato ad assumere l'incarico di medico cittadino e rimase nella città lorenese per cinque anni, allontanandosi solo per venire a Colonia in occasione del celebre discorso. In Lorena, Laguna come medico affrontò la battaglia contro la peste e come agente imperiale cercò di combattere la diffusione del protestantesimo; i suoi rapporti con il duca di Lorena, la cui politica oscillava tra la fedeltà all'imperatore e l'avvicinamento alla Francia, si fecero tesi fino al punto di rottura; nel 1545, quando venne richiesta la sua consulenza in un processo di stregoneria contro due anziani accusati di aver causato una grave infermità al duca, dimostrò con un esperimento empirico l'infondatezza delle accuse; il suo parere non piacque né ai giudici (i malcapitati furono condannati) né al duca stesso, e poco dopo Laguna lasciò la città. La tappa successiva fu l'Italia. Il medico umanista incominciava forse a capire che quella dell'Impero universale era un'ideologia anacronistica, e che era giunta l'ora delle monarchie nazionali. L'Italia era per lui la patria dell'Umanesimo, dove avrebbe trovato manoscritti da studiare, colleghi con cui discutere, tipografie all'avanguardia; ma era anche uno dei più importanti domini della monarchia spagnola. La prima tappa fu Bologna, dove ottenne la laurea magistrale in medicina che ancora gli mancava. Visse poi soprattutto a Roma, dove fece parte dell'entourage dell'influente cardinale Francisco de Mendoza y Bobadilla, che lo introdusse presso i papi Paolo III e Giulio III, di cui divenne medico personale. Frequentò anche Napoli, nelle cui campagne raccolse piante officinali, e fu più volte a Venezia e a Padova. Fu forse il desiderio di seguire da vicino le vicende che portarono all'abdicazione di Carlo V che nel 1554 lo spinsero a lasciare l'Italia per le Fiandre, dove nel 1555, come vedremo meglio tra poco, pubblicò la sua celebre tradizione di Dioscoride, dedicata a quel principe Filippo d'Asburgo che presto sarebbe diventato il re di Spagna Filippo II. Seguendo il suo nuovo sovrano tornò infine in Spagna nel 1557, morendo però poco dopo, alla fine del 1559. Una sintesi della sua vita errabonda nella sezione biografie. ![]() Filologia e pratica medica Nella storia della botanica, Laguna (che fu anche prolifico autore di opere mediche, ma soprattutto di edizioni e di traduzioni di testi antichi, tra cui una influente epitome dell'opera omnia di Galeno) conta soprattutto per la mirabile traduzione di Dioscoride, Pedacio Dioscorides Anazabareo. Acerca de la materia medicinal y de los venenos mortiferos (1555). L'interesse di Laguna per l'opera di Dioscoride risale agli anni parigini, quando come abbiamo visto egli fu discepolo di Jean Ruel, autore di una importante traduzione in latino di Materia medica; un interesse che sicuramente lo accompagnò in tutte le sue peregrinazioni, e fu probabilmente anche una delle ragioni che lo spinsero a trasferirsi in Italia, dove erano usciti sia l'editio princeps del testo greco pubblicata da Manuzio (1499) sia i commentari di Mattioli (la prima edizione è del 1544). Anche se è possibile che avesse cominciato a lavorarvi da tempo, la traduzione prese corpo proprio negli anni italiani; e nella nuova atmosfera politica, significativamente Laguna decise che non sarebbe stata in latino, ma in spagnolo (o meglio, in castigliano): era una scelta politica, un contributo al progresso scientifico di quella che, ormai gli era chiaro, era e sarebbe rimasta la sua unica patria. Simbolicamente, la data di pubblicazione (1555) coincide con l'anno di abdicazione di Carlo V, ovvero con la presa d'atto da parte del vecchio imperatore del fallimento del suo progetto politico. Nella sua edizione di Dioscoride Laguna seppe unire allo scrupolo filologico e alla perfetta padronanza delle lingue classica la sua ampia esperienza di medico e di studioso dell'anatomia e delle piante medicinali. Come testo di partenza si basò sulla traduzione latina del suo maestro Ruel, ma la collazionò, oltre che con l'edizione aldina, con tutti i manoscritti che poté consultare, rilevando e correggendo circa 100 errori; la sua traduzione, chiara e precisa, è accompagnata da un ricco apparato di note in cui trasfuse il sapere che aveva accumulato in una vita divisa tra l'interpretazione dei testi antichi, la pratica medica e lo studio dal vivo della natura; sappiamo dal suo stesso racconto che erborizzava, visitava giardini, scambiava esemplari con altri naturalisti, creando anche una piccola collezione di oggetti naturali che portò con sé nei suoi spostamenti; soprattutto interrogava ogni possibile categoria di informatori sulla provenienza e gli effetti dei semplici: medici, mercanti, viaggiatori, addirittura donne di vita. E ciò che apprendeva, lo metteva alla prova sui suoi pazienti, convinto com'era che nulla potesse essere affermato con certezza se non era stato verificato sperimentalmente. Per gli studiosi di oggi, il suo Dioscoride è dunque una miniera di informazioni sulle tecniche mediche, la botanica applicata e la farmacologia del Cinquecento. Entro il XVIII secolo, in Spagna il Dioscoride di Laguna raggiunse 22 edizioni, un testo così popolare da meritare una citazione nel Don Chisciotte di Cervantes; sulle sue pagine si formarono i medici iberici che avrebbero studiato le piante del Nuovo Mondo (una realtà ancora quasi ignorata da Laguna, se non per poche piante viste per lo più come succedaneo più economico delle rare o perdute piante degli antichi). Veramente figlio del Rinascimento per lo scrupolo filologico e l'adozione di una prassi basata sulla verifica sperimentale, Laguna è invece piuttosto tradizionale per l'impostazione generale, ancora fedele alla teoria degli umori di Galeno. ![]() Un falso ibisco che arriva da lontano Particolarmente attento all'identificazione delle specie citate da Disocoride (per identificale correttamente aveva persino pensato di recarsi nell'impero ottomano, impresa da cui fu distolto dagli amici veneziani), Laguna descrisse anche per la prima volta alcune piante orientali che aveva potuto conoscere attraverso i suoi informatori. E' il caso di una Malvacea presente anche in Nord Africa, oggi Abelmoscus ficulneus, che nel 1786 Cavanilles chiamò in suo onore Laguna aculeata; il genere Laguna è oggi considerato sinonimo di Hibiscus. Ugualmente non valido è Lagunea, creato nel 1790 da Loureiro e riformulato come Lagunaea da Agardh, oggi sinonimo di Persicaria. Memore della proposta di Cavanilles, nel 1824 de Candolle denominò Lagunaria una sezione del genere Hibiscus; cinque anni dopo Reichenbach la elevava a genere. Lagunaria (DC) Rchb. è piccolo genere della famiglia Malvaceae, che comprende due specie native dell'Australia, Lagunaria patersonia, un albero endemico delle isole di Lord Howe e Norfolk e della costa del Queensland, e L. queenslandica, endemica del medesimo stato dell'Australia orientale. Abbastanza coltivato anche da noi in zone a clima mite, L. patersonia (spesso commercializzata con la grafia errata L. patersonii) è un bellissimo sempreverde con chioma piramidale e foglie verde oliva, che in estate si ammanta di grandi fiori rosa-lilla a stella. La colonna staminale prominente e i cinque petali ricurvi possono ricordare Hibiscus rosa sinensis, ma le foglie, intere, ovate, coriacee sono completamente diverse. Molto simile è l'altra specie, a lungo considerata una sottospecie con il nome L. patersonia susbp. bracteata, che si distingue per gli organi sessuali ancora più prominenti con nettari esterni al fiore e un diverso habitat: vive lungo i corsi d'acqua e nelle insenature costiere, mentre l'altra specie è tipica della foresta pluviale. Quale informazione in più nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
February 2025
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