Scoperto nel giardino abbandonato di un monastero buddista birmano, quello che fu presto soprannominato "l'albero più bello del mondo" venne battezzato dal botanico Nathaniel Wallich Amherstia nobilis in onore di Sarah e Sarah Elizabeth Amherst, rispettivamente moglie e figlia del governatore dell'India. Sembrerebbe il solito, banale, omaggio cortigiano se non fosse che le due ladies si erano rese benemerite della botanica come pioniere dell'esplorazione della flora indiana, scoprendo e introducendo in Europa, tra l'altro, una beniamina dei nostri giardini, Clematis montana. Una nobile pianta... Nel marzo del 1826, il trattato di Yandaboo metteva fine alla prima guerra anglo-birmana (1824-1826) con la cessione all'Inghilterra di Assam, Manipur, Arakan e Tenasserim. Lord Amherst, il governatore generale dell'India, inviò immediatamente nella Birmania meridionale una missione esplorativa capeggiata dal medico e esperto diplomatico John Crawfurd; ne faceva parte anche il botanico Nathaniel Wallich, direttore dell'orto botanico di Calcutta, il cui compito principale era valutare le potenzialità forestali della regione. Alla fine del mese, mentre Wallich rimaneva a Rangoon, Crawford con alcuni accompagnatori esplorò la zona tra Rangoon e la foce del fiume Thanlwin. Il 4 aprile, il gruppo visitò la grotta naturale di Kogún, decorata con centinaia di tavolette votive di terracotta; tra le offerte dei fedeli, manciate di splendidi fiori rossi. Erano stati raccolti poco lontano, nel giardino incolto di un monastero buddista semiabbandonato, dove cresceva "un albero alto circa venti piedi, abbondante di lunghi grappoli penduli di fiori di un ricco color geranio, con lunghe eleganti foglie lanceolate" (An Account of Martaban in March and April 1826). Crawfurd capì subito di trovarsi di fronte a una pianta ancora ignota alla scienza, impressione confermata al ritorno a Rangoon da Wallich, cui mostrò i campioni raccolti. Nei mesi successivi, il botanico danese la cercò inutilmente nelle foreste birmane, finché la ritrovò nel sito già segnalato da Crawfurd. Ne prelevò anche diversi germogli che poi trapiantò nell'orto botanico di Calcutta. Al suo ritorno in Inghilterra, pubblicò lo splendido albero in Plantae asiatiacae rariores (1830) come Amheristia nobilis, in onore della moglie e della figlia del governatore. Sembrerebbe il più scontato degli omaggi cortigiani, se non fosse che quel riconoscimento la madre, la contessa Sarah Amherst, e la figlia, Sarah Elizabeth Amerherst, se l'erano guadagnato davvero non solo come protettrici della scienza, ma come instancabili raccoglitrici di piante. Lo ricorda nella dedica lo stesso Wallich: "Dedicato alla nobile contessa Amherst e a sua figlia lady Sarah Amherst, in segno di riconoscimento della somma cura, della debita assiduità e degli indefessi e felici successi con i quali, finché dimorarono in India, coltivarono e promossero la scienza botanica". Tanto più che, quando Wallich scrisse queste parole, la burrascosa carriera pubblica di lord Amherst era ormai giunta al termine. William Pitt Amherst (1773-1857) è passato agli annali della diplomazia come responsabile del fallimento della sfortunata ambasceria in Cina (1816) a causa del suo rifiuto di prostrarsi di fronte all'imperatore. Anche il suo mandato in India, di cui fu governatore generale tra il 1823 e il 1828, fu sfortunato e discusso. Poco dopo il suo arrivo nel subcontinente, egli si lasciò incautamente convincere a dichiarare guerra alla Birmania, convinto che il conflitto si sarebbe risolto in poche settimane. Invece durò due anni, costò 13 milioni di sterline, scatenò un'epidemia di colera, provocò l'ammutinamento dei sepoys, rovinò l'economia indiana e le finanze della Compagnia delle Indie. Se non avesse avuto potenti protettori a Londra, primo fra tutti il duca di Wellington, egli sarebbe stato destituito. La conclusione positiva della guerra, insieme a una sua condotta più prudente, fece cambiare idea ai vertici della compagnia. Tuttavia, nel 1826, con una tipica operazione promoveatur ut amoveratur, il re lo nominò visconte, ma contemporaneamente fu richiamato in patria e per i quasi trent'anni che gli rimasero dal vivere non gli fu più affidato alcun incarico pubblico. Molto più gloriosi dunque gli allori botanici (e ornitologici) di sua moglie e sua figlia. E due nobili raccoglitrici La contessa Amherst (1762-1838), nata Sarah Archer, apparteneva all'alta nobiltà britannica. Sedicenne, si sposò con un cugino, il conte di Plymouth, da cui ebbe diversi figli. Rimasta vedova, nel 1800 si risposò con lord Amerhest, da cui ebbe una figlia, appunto Sarah Elizabeth, e tre figli. Non sappiamo come fosse nata la sua passione per le piante né se precedesse il soggiorno indiano. Come molte dame del suo ceto, coltivava le arti del disegno e della musica, che aveva trasmesso anche alla figlia. Nel 1823, quando partì alla volta dell'India con il marito, la figlia Sarah Elizabeth e il figlio maggiore Jeffrey, la contessa aveva già compiuto sessant'anni. Sui circa cinque anni trascorsi in India siamo ben informati grazie alle lettere di Sarah Elizabeth ai fratelli e soprattutto grazie al diario della stessa lady Amherst, di notevole freschezza e ammirevole semplicità. Il 18 marzo 1823 la famiglia sbarcò a Madras, dove fu ricevuta in pompa magna; proseguì poi via terra per Calcutta, dove giunse il 1 agosto. La residenza del governatore, Gouvernment House, era, anzi è, un lussuoso palazzo posto al centro di un vastissimo complesso, di cui conosciamo l'aspetto all'epoca grazie a uno schizzo di Sarah Elizabeth. Lady Amherst, che considerava assurdi i tentativi delle sue compatriote di ricreare in India cloni dei giardini inglesi, con piante portate dalla madrepatria condannate a morte certa, era decisa a crearvi un giardino popolato di piante locali. Fu forse con questo intento che visitò ripetutamente l'orto botanico della Compagnia delle Indie, a Shibpur, a una decina di km dall'area governativa di Calcutta. Fondato nel 1787, sotto la direzione prima di William Roxburgh e ora di Nathaniel Wallich, era divenuto un centro di studio e di acclimatazione di prim'ordine e un'oasi verde con migliaia di specie provenienti da tutte le regioni del subcontinente, ma anche da altri paesi tropicali. Diligente, lady Sarah ne percorreva i sentieri disegnando schizzi, prendendo note, chiedendo lumi al direttore, che divenne subito un amico. Fu forse su suo incoraggiamento che la nobildonna, con l'aiuto dell'inseparabile figlia, iniziò a creare il suo erbario indiano, con le piante raccolte e preparate "in modo abile e industrioso" (sono parole di Wallich). I numerosi viaggi ufficiali cui partecipò a fianco del marito le diedero occasione di visitare diverse aree del paese e di mettere insieme una collezione di non meno di cinquecento specie. Non è però il caso di immaginare le due ladies nei dimessi panni di cacciatrici di piante in gonnella. Coinvolgendo la prima dama del paese, anche una breve escursione diventava un affare di stato. Ad esempio, come leggiamo nel diario della contessa, nel gennaio 1825 madre e figlia, scortate da aiutanti di campo, risalgono il fiume in battello per visitare le rovine del forte di Gaukachi; fanno un picnic nella foresta, accettano graziosamente gli omaggi di banane, arance, latte offerte dai contadini; poi, mentre i battitori le aprono la strada a colpi di machete, lady Amherst issata su un elefante può penetrare nella giungla, che le si mostra come uno scrigno prezioso e selvaggio di alberi coperti di fiori e frutti. Alla sera, le due dame tornano trionfanti a casa con i loro trofei: piante, schizzi, fiori. Tra battellieri, cuochi, servitori, portatori, battitori la gitarella ha coinvolto qualche centinaio di persone. Lo stesso anno, un viaggio fluviale di una decina di giorni con la famiglia Amherst al completo impegnerà, tra servitori, battellieri e soldati di scorta, circa cinquecento persone. Tra i viaggi ufficiali, il più lungo e impegnativo fu quello che tra il giugno 1826 e il luglio 1827 portò il governatore (accompagnato dalla consorte e dalla figlia) a visitare gran parte dell'India settentrionale. Nella primavera del 1827, dopo una lunga visita di stato al moghul a Dehli, Amherst raggiunse Simla, dove doveva incontrare il maharaja del Punjab e l'ex re di Kabul. Fu così che scoprì quella che qualche anno dopo sarebbe diventata anche ufficialmente la "capitale estiva del Raj Britannico". Situata a un'altitudine di oltre 2000 metri e circondata dalle maestose cime dell'Himalaya, incantò tutti; le più felici erano la contessa e sua figlia che nei due mesi e mezzo trascorsi a Simla poterono sfogare la loro passione per la natura arrampicandosi instancabili sulle pendici di colline e montagne alla ricerca di piante rare o sconosciute alla scienza. In quel paradiso botanico che erano tra le prime ad esplorare scoprirono numerose nuove specie, tra cui Spiraea argentea Benth. (forse da identificarsi con S. media), Astragalus amherstianus, Allium leptophyllum (oggi A. rubellum), Bosea amherstiana, Wulfeniopsis amherstiana, Anemone vitifolia (oggi Eriocapitella vitifolia). Nel sottobosco di una foresta di cedri deodora, la scoperta più bella: Clematis montana, nella forma alba. Al loro ritorno a Calcutta, Sarah Elizabeth si ammalò gravemente. Il governatore e la sua famiglia dovettero così attendere l'inizio del 1828 per lasciare l'India. All'appello mancava Jeffrey che nel 1826 era morto di febbri a soli 24 anni. Nei loro bagagli, molti souvenir indiani, un erbario di cinquecento specie, semi e piante vive da introdurre in Inghilterra e una coppia di splendidi fagiani birmani, dono del re di Birmania alla contessa. Oggi sono noti come "fagiani di lady Amherst", Chrysolophus amherstiae. Ormai escluso dalla vita pubblica, lord Amherst si ritirò a vivere a Montreal, la sua casa di campagna nel Kent. Nel giardino e nelle serre, la contessa coltivava le piante portate dall'India, ma anche altre esotiche, come le brasiliane Justicia amherstiae (oggi J. brasiliana) e Grobya amherstiae. Il magnifico giardino che aveva creato attorno alla Gouvernment House non sopravvisse alla sua partenza: la moglie del nuovo governatore, lady Bentinck, dichiarò che quei fiori erano "veramente malsani" e tempo una settimana fece spiantare tutto. Una sintesi della vita delle due ladies Amherst nella sezione biografie. Una gara tra giardinieri La pubblicazione di Amherstia nobilis da parte di Wallich destò sensazione; la pianta venne immediatamente proclamata "l'albero più bello del mondo" e destò la cupidigia dei collezionisti. Tuttavia, al momento si conosceva solo l'esemplare di Kogún e i virgulti trapiantati da Wallich a Calcuitta che ci misero qualche anno a fiorire. Nel 1836 il duca di Devonshire spedì in India a caccia di piante l'aiuto giardiniere John Gibson: le sue istruzioni recitavano "procurarsi tutte le orchidee possibili e ritrovare Amherstia nobilis". Gibson ebbe la fortuna di arrivare a Calcutta proprio al momento della fioritura delle Amherstiae trapiantate da Wallich; si dice che ne fu così emozionato da mettersi a battere le mani come un bambino piccolo. Poi andò in Martaban a raccogliere semi e talee che però non sopravvissero. Un anno dopo tornò in Inghilterra con 300 nuove specie, tra cui 80 orchidee, e una pianticella di Amherstia nobilis. Per accoglierla degnamente, il duca fece costruire nel suo giardino di Chatsworth una serra apposita, la Amherstia house. Ma nonostante tutte le cure, la pianta morì qualche anno dopo, senza mai essere arrivata a fiorire. Negli anni successivi, la stessa sorte toccò ad altri esemplari coltivati a Syon House e a Kew. Il successo sarebbe arriso a un'altra signora, Louisa Lawrence. Moglie di William Lawrence, presidente del reale ordine dei chirurghi di Londra, a partire dal 1838 creò a Ealing un giardino famoso per la bellezza, la grande varietà di piante rare, la perfezione con cui erano coltivate. Orgogliosa della sua abilità e molto competitiva, Louisa accumulava premi su premi alle principali mostre orticole; il suo più grande rivale era Joseph Paxton, il capo giardiniere del duca di Devonshire. Nel 1849 gli inflisse la suprema umiliazione di riuscire a far fiorire per la prima volta Amherstia nobilis; ottenne quel risultato semplicemente lasciando aperta la porta della serra. Da allora, finché Louisa visse, il miracolo si ripeté ogni anno. Alla sua morte, nel 1855, la pianta venne trasferita a Kew, dove fiorì ancora per tre anni, poi morì. Ma nel frattempo i suoi fiori erano stati offerti alla regina Vittoria e aveva fatto in tempo a vederla e disegnarla anche Marianne North. Come scrive nelle sue memorie, furono anzi quei meravigliosi fiori ad accendere il suo desiderio di viaggiare per dipingere piante esotiche: "Una volta Sir William Hooker mi diede un mazzo di Amherstia nobilis, uno dei più grandi fiori esistenti. Era la prima volta che fioriva in Inghilterra, e quel dono mi fece desiderare ancora di più di vedere i tropici". Amherstia nobilis è l'unica specie del suo genere (famiglia Fabaceae). E' originaria delle foreste umide della Birmania e della Tailandia, ma in natura è molto rara. Considerata sacra, nel sudest asiatico viene spesso piantata nei giardini dei templi, in modo da poterne offrire i fiori freschi alle immagini del Budda. Inoltre è stata introdotta in altri paesi tropicali, anche se, come si è potuto notare, la sua coltivazione non è semplice, quindi a coltivarla sono soprattutto gli orti botanici. E' un albero sempreverde, alto fino a 15 metri, con chioma arrotondata, eleganti rami penduli e lunghe foglie composte. Fiorisce due volte l'anno, in ottobre e in aprile, e ciascuna volta per appena due o tre giorni. Le infiorescenze, lunghe anche 80 cm, portano venti fiori o più; retti da piccioli con la parte terminale cremisi, hanno cinque petali diseguali, quelli superiori più piccoli anch'essi cremisi, quelli medi cremisi con apici gialli, quello centrale di dimensioni maggiori, a forma di ventaglio con un triangolo giallo che si estende dal labbro alla gola; molto decorativi anche gli stami arcuati, rosso chiaro con antere gialle. Anche i frutti, a forma di scimitarra e dapprima rossi, sono di piacevole aspetto. La spettacolare pianta è nota anche con il nome "orgoglio di Birmania". Altre informazioni nella scheda.
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Morto a 29 anni negli anni più turbolenti della rivoluzione francese, il medico alsaziano Benjamin Pierre Gloxin avrebbe lasciato ben poche tracce di sé se non fosse per la sua tesi di laurea, in cui aveva discusso alcune piante nuove e rare coltivate nell'orto botanico della sua università. Capitata nelle mani del botanico L'Héritier de Brutelle, gli guadagnò la dedica del genere Gloxinia, un nome abbastanza noto anche se la gloxinia o glossinia dei fiorai ora si chiama Sinningia. Dalle piante alla rivoluzione Discendente di una famiglia di medici, farmacisti e intellettuali di origine tedesca stabilitasi a Colmar da più di un secolo e figlio del medico cittadino, Benjamin Pierre Gloxin (1765-1794) nel 1785, ad appena vent'anni, si laureò in medicina all'università di Strasburgo discutendo una tesi di botanica. A incoraggiarlo in questa scelta fu il suo relatore, il professore Jean Hermann (1738-1800) che era anche il direttore dell'orto botanico universitario. Nella sua dissertazione Gloxin esamina alcune specie "nuove e rare" coltivate nel giardino: Salvia leonuroides (oggi Salvia formosa), Cyperus aegyptiacus (oggi Cyperus capitatus), Mesembryanthemum cordifolium e soprattutto, a partire dalle due specie di Martynia presenti nell'orto, presenta una disanima complessiva dei generi Martynia L., Craniolaria L., Proboscidea Schmidel, analizzando scrupolosamente la letteratura precedente. Giunge alla conclusione che nessun carattere distintivo saliente giustifica la separazione di questi generi e propone una nuova classificazione del genere Martynia in sei specie: Martynia perennis (oggi Gloxinia perennis), M. capensis (oggi Rogeria longiflora), M. diandra (oggi M. annua), M. craniolaria (oggi Craniolaria annua), M. proboscidea (oggi Proboscidea luisianica), M. fruticosa (oggi Gesneria fruticosa). Stampato in accuratissima veste grafica dal tipografo-editore Dannbach, il fascicolo (un in quarto di una ventina di pagine) comprende anche tre tavole calcografiche di Balz incise da Jean Martin Weis e godette di una discreta circolazione, come attestano le recensioni, le citazioni nella letteratura botanica, la presenza in collezioni pubbliche e private. A favorire la notorietà dell'operina e del suo autore fu sicuramente la quasi immediata dedica a Gloxin del genere Gloxinia da parte di L'Héritier de Brutelle nel primo fascicolo di Species novae (1785). Il genere fu istituito sulla base di una delle specie studiate dal neomedico alsaziano, M. perennis. L'Héritier rileva che essa non può essere assegnata a Martynia (l'assegnazione risale a Linneo) avendo l'ovario infero anziché supero; inoltre si differenzia da Gesneria per la corolla campanulata anziché tubolare; va dunque attribuita a un nuovo genere che egli chiama Gloxinia "in memoria del celebre amico Benjamin Petrus Gloxin, medico di Colmar, di ottimi meriti per la botanica". Certo, può sembrare curioso un simile omaggio a un ventenne esordiente, ma come si deduce dalle parole di L'Héritier si sarà trattato in parte di un attestato di stima, in parte di un gesto di amicizia. Di lì a poco, l'esistenza tanto del dedicante quanto del dedicatario - e di milioni di francesi - sarebbe stata sconvolta dalla rivoluzione. Sappiamo che il giovane medico, oltre ad essere molto impegnato nella professione (come il padre, fu medico cittadino e più tardi diresse l'ospedale), coltivava anche interessi culturali e letterari. Era membro della Tabagie litterarie, un club di lettura di impronta illuminista fondato nel 1785, possedeva una ricca biblioteca per incrementare la quale nel 1786 si recò ad Amsterdam, dal 1791 fu ammesso alla American Philosophical Society. Ma con lo scoppio della rivoluzione, si gettò animo e corpo nella lotta politica. Gloxin era un esponente della borghesia luterana che, almeno tra il 1789 e il 1793, aderì in gran parte alla causa rivoluzionaria. L'Alsazia, dopo aver fatto parte per secoli dell'impero, era stata annessa al regno di Francia da poco più di cent'anni, all'epoca del re Sole, e in virtù di una serie di trattati conservava in parte le proprie libertà e le proprie particolarità. Dal punto di vista religioso, era un caleidoscopio di fedi: cattolica, luterana, calvinista, anabattista, ebraica, senza parlare di un numero non irrilevante di intellettuali liberi pensatori. I luterani alsaziani godevano della libertà di culto, ma erano esclusi da tutti gli incarichi pubblici. Attivi nelle professioni liberali, nell'industria e nel commercio, erano una minoranza ricca e influente che si sentiva oppressa dai tentativi di imporre il cattolicesimo e dallo strapotere della chiesa cattolica e aspirava a una piena parità giuridica, come evidenziano i cahiers de doléances redatti dalla comunità per gli Stati generali. Colmar, in precedenza città libera dell'impero, era divenuta francese nel 1679, con il trattato di Nimega. Di lingua tedesca, era per due terzi luterana. Con i suoi 13.000 abitanti, era la principale città dell'Alto Reno, la regione alsaziana che abbracciò con maggior favore la rivoluzione, al contrario del cattolico e "austriaco" Basso Reno. I decreti dell'agosto 1789 e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che finalmente mettevano fine alle discriminazioni, guadagnarono infatti l'adesione di buona parte dei protestanti alsaziani. Più tardi, la ricca borghesia luterana si giovò largamente dell'acquisto delle proprietà ecclesiastiche requisite come beni nazionali. Gloxin, un medico e un intellettuale molto noto in città, si schierò in prima fila, divenendo un esponente di punta del giacobinismo alsaziano. Nel 1791 fu tra i fondatori della Société des Amis de la Constitution di Colmar, di cui fu nominato presidente. La situazione, in Francia come in Alsazia, evolveva rapidamente, e in quella regione di confine si faceva sempre più tesa. Gli attriti tra le diverse confessioni religiose furono inaspriti dalla chiusura dei conventi, dalla spaccatura tra clero girato e refrattario (che non risparmiò i pastori protestanti), dalla vendita dei beni ecclesiastici; ne seguirono i primi arresti e i primi processi. Nel 1792, lo scoppio della guerra, inizialmente disastrosa per i francesi, con la concreta minaccia di un'imminente invasione della regione, esacerbò gli animi, alimentò sospetti e innescò una radicalizzazione che spinse buona parte della comunità luterana a schierarsi con i girondini e la loro "guerra ad oltranza". Tuttavia anche in Alsazia il processo e l'esecuzione del re (21 gennaio 1793) scavò un solco nell'opinione pubblica, allontanando anche molti protestanti dalla rivoluzione o spostandoli su posizioni più moderate. Tra loro non c'era il dottor Gloxin: quando la Società degli amici della Costituzione si trasformò nella più radicale Société populaire des Amis de la Liberté et de l’Égalité, egli ne divenne vicepresidente; era anche ufficiale della Guardia nazionale. Convinto che fosse possibile conciliare gli ideali cristiani e le parole d'ordine della rivoluzione, nel dicembre del 1793, quando la collegiata Saint Martin venne trasformato in tempio della Ragione, partecipò senza esitare alle cerimonie di inaugurazione. Ma ormai le sue preoccupazioni erano altre. Come direttore dell'ospedale cittadino si trovò a fronteggiare un accentuato incremento di ricoveri e decessi; tra le cause, la carestia provocata dal susseguirsi di annate di maltempo e cattivi raccolti, ma soprattutto la concentrazione in città dei soldati e dei volontari accorsi per unirsi all'armata del Reno. Fosse vaiolo, fosse tifo, fossero "febbri tifoidi", si determinò una crisi sanitaria di cui fu vittima lo stesso Gloxin che morì nei primi giorni nel 1794, ad appena ventinove anni. Una sintesi della sua breve vita nella sezione biografie. Credevo fosse una Gloxinia, invece era... Gloxinia perennis fu la prima specie del genere a giungere in Europa; il primo a descriverla, in Hortus cliffortianus (1738), fu Linneo, che la denominò Martynia foliis serratis; mettendola a confronto con due specie di Martynia raccolte da Houstoun in Colombia e coltivate al Chelsea Physic garden (da identificarsi con M. annua e Proboscidea louisianica), insiste che si tratta di una terza specie longe alia, "totalmente diversa". Non ne conosciamo esattamente la provenienza perché egli si accontentò di indicare genericamente "cresce in America". Nel 1753 in Species plantarum le assegnò il binomiale Martynia perennis, che come abbiamo visto fu conservato da Gloxin. L'Héritier invece la rinominò Gloxinia maculata (l'eponimo linneano fu recuperato a fine Ottocento per la legge della priorità). A lungo fu anche l'unica specie coltivata nel nostro continente. Nel 1815 Joachim Conrad Loddiges, proprietario di un grande vivaio nei pressi di Londra, ricevette probabilmente da uno dei cacciatori di orchidee che aveva sguinzagliato in Brasile una magnifica specie tuberosa con grandi fiori a campana. Egli coltivava anche Gloxinia maculata (allora si chiamava ancora così) e, notando la somiglianza, la pubblicò come Gloxinia speciosa (1817). La nuova introduzione ottenne un successo strepitoso, divenne una pianta amatissima, nota a tutti semplicemente come gloxinia (in italiano, anche glossinia). Intanto, con le sempre più numerose spedizioni in Sud America, soprattutto in Brasile, stavano arrivando molte altre specie che vennero via via inserite in Gloxinia. Una fu raccolta nel 1824 dal famoso cacciatore di piante David Douglas, di passaggio a Rio de Janeiro. Inviò i semi in Europa, dove il botanico boemo Mikan la classificò come Gloxinia schottii. Ma nel frattempo qualche seme, tramite Heller, il direttore dell'orto botanico di Würzburg, era pervenuto al suo collega di Bonn, il botanico Nees von Esenbeck, un grande tassonomista che capì che questa Gesneriacea non apparteneva a nessun genere conosciuto e denominò la nuova pianta Sinningia helleri, in onore del suo capo giardiniere (1825). Ma Gloxinia speciosa continuò a chiamarsi così per un altro mezzo secolo; solo nel 1877 il botanico britannico William Philip Hiern aggiustò il tiro e mise la pretesa glossinia al suo posto, rinominandola Sinningia speciosa. Ma, ovviamente, le abitudini sono dure a morire e continua ad essere la glossinia per antonomasia, o "Gloxinia dei giardinieri". Dopo altre vicende complicate che lo hanno visto allargarsi e contrarsi, oggi al genere Gloxinia L'Hérit., famiglia Gesneriaceae, sono assegnate solo quattro specie: G. alternifolia, G. erinoides, G. perennis, G. xantophylla. Il genere è distribuito soprattutto nelle Ande dell'America centrale (dall'Honduras a Panama) e in Sud America (dal Venezuela all'Argentina); solo una specie, appunto G. perennis, raggiunge i Caraibi, una presenza che però potrebbe essere il frutto di un'antica introduzione. G. alternifolia, scoperta solo di recente, è un endemismo del Mato Grosso. L'ambiente prevalente delle Gloxiniae è la foresta a galleria, in particolare su affioramenti rocciosi. Sono erbacee di piccole dimensioni che si distinguono dai generi della stessa tribù per i rizomi squamosi, fiori bratteati riuniti in infiorescenze simili a racemi con corolla bianca, lilla, rosata o parzialmente marrone, frutti secchi privi di tricomi uncinati. La specie più comunemente coltivata è G. perennis, ma talvolta si coltiva anche G. ericoides, caratterizzata da foglie molto attraenti. Nel corso delle vicissitudini che hanno segnato la storia tassonomica di Gloxinia, ne sono stati separati anche due piccoli generi che rendono indirettamente omaggio al nostro medico rivoluzionario. Entrambi sono stati creati nel 2005. Gloxinella (H. E. Moore) Roalson & Boggan comprende una sola specie, G. lindeniana, in precedenza nota solo in coltivazione, ma recentemente riscoperta nelle Ande colombiane. E' un erbacea eretta, molto ramificata, con foglie villose con nervature chiare su fondo scuro e vistosi fiori ascellari singoli. Anche Gloxiniopsis è un genere monospecifico, limitato a G. racemosa, un endemismo colombiano. Apparentemente è piuttosto simile a Gloxinia perennis, con fiori campanulati bianchi raccolti in racemi, ma i dati molecolari ne dimostrano l'appartenenza a un genere proprio. L'inglese William Sherard è una figura chiave della botanica a cavallo tra Seicento e Settecento. Eppure, a parte un modesto catalogo degli orti botanici di Parigi e Leida, non ha pubblicato nulla di proprio. Per tutta la vita ha cercato di scrivere una grande opera che però non è mai riuscito a completare: a distoglierlo dal compito, oltre alle necessità concrete della vita, fu soprattutto la sua generosità senza limiti, che lo spinse ad affiancare il lavoro di tanti amici più famosi come raccoglitore, donatore di semi, exsiccata e somme di denaro, curatore di opere altrui. Fu generoso anche nelle sue ultime volontà, con le quali non solo legò all'università di Oxford il suo importante erbario, le sue note e una notevole collezione di disegni e manoscritti, ma anche un lascito per istituire la prima cattedra di botanica in terra d'Inghilterra, che ancora porta il suo nome: Sherardian professorship. A ricordarlo è anche il genere monospecifico Sherardia, omaggio di un amico che godette della sua generosità in vita e in morte. Una vita al servizio degli amici Quando il diciottenne William Sherard (1659-1728) giunse a Oxford per studiare diritto non sapeva ancora che il suo destino, più che a codici e leggi, sarebbe stato legato alle piante. La conversione sulla via di Flora avvenne tra le aiuole dell'orto botanico di Oxford, il solo esistente in Inghilterra all'epoca. A fargliene conoscere le meraviglie fu il curatore, Johann Bobart il Giovane, che fu anche il primo di una lunga lista di amici a beneficiare della sua passione e del suo altruismo: egli stava curando la pubblicazione postuma di Historia Plantarum Universalis Oxoniensis di Morison e Sherard lo aiutò raccogliendo per lui piante nelle campagne dei dintorni. Nel 1683 si laureò in legge e divenne membro del suo college, ma ormai il suo interesse andava tutto alla botanica; studiarla in Inghilterra non era possibile, perché non era insegnata in nessuna università; Sherard attraversò la Manica - il primo di tanti viaggi europei - e si trasferì a Parigi per seguire le lezioni di Pitton de Tournefort al Jardin du roy; anche a lui, per il quale nutriva un'ammirazione che rasentava la venerazione, non lesinò il suo aiuto, raccogliendo piante nei dintorni di Parigi. Nel 1686, quando Paul Hermann venne a visitare il Jardin du roy, strinse amicizia con lui, e decise di seguirlo in Olanda. In attesa che i suoi ammirati maestri potessero mettere mano ai cataloghi degli orti di Parigi e Leida, nel 1688 pubblicò una lista delle loro collezioni; sotto il titolo Schola botanica, è la sua unica opera edita e per modestia è firmata con le sole iniziali S.W.A. Nel 1689 tornò in Inghilterra e mise le sue nuove competenze al servizio di un altro amico: fece importanti raccolte nell'Inghilterra meridionale e nelle Channel Island, ma invece di pubblicarle a suo nome, cedette le sue note a John Ray, che le pubblicò in appendice a Synopsis methodica stirpium britannicarum (1690). In teoria era membro del St John College e avrebbe dovuto tornare a insegnare a Oxford, ma evidentemente l'impiego non soddisfaceva né le sue tasche né il suo cuore; preferì diventare tutor o insegnante privato di una serie di gentiluomini. Il primo fu il baronetto irlandese Arthur Rawdon che possedeva una vasta tenuta a Moira nella Contea di Down; era un grande appassionato di orticoltura e giardinaggio, tanto da essersi guadagnato il soprannome di "padre del giardinaggio irlandese". Possedeva un notevole giardino con una delle prime serre riscaldate d'Europa, un labirinto, uno stagno e molte piante esotiche, incluse 400 piante fatte arrivare dalla Giamaica e uno dei primi esemplari noti di Robinia pseudoacacia, famoso per le sue eccezionali dimensioni. Per Sherard il soggiorno in Irlanda, che si prolungò per tre anni, fu una gioia e gli permise anche di esplorare la flora dell'Ulster. Nel 1694 era di ritorno a Oxford dove divenne dottore in diritto civile, ma ben presto ne ripartì per accompagnare il visconte Charles Townshend nel suo gran tour in Europa. Nel febbraio del 1795 si fermò a Leida, dove si assunse il difficile compito di preparare per la pubblicazione il manoscritto di Paradisus batavus di Paul Hermann. Tornò poi in Inghilterra giusto il tempo necessario per trovare un altro ingaggio, questa volta come chaperon del giovane marchese di Tavistock, il futuro secondo lord Bedford, con il quale visitò la Francia e l'Italia. Fu l'occasione per visitare giardini e incontrare altri botanici; in Italia conobbe Francesco Cupani e Paolo Boccone, dal quale appreso il metodo della stampa naturale (che consiste nell'utilizzare come matrici le piante stesse, inchiostrate e pressate sulla carta; ne ho parlato qui). A Parigi strinse amicizia con Sébastien Vaillant. Questi incontri e queste amicizie lo spinsero a concepire l'idea di aggiornare il Pinax di Bauhin, aggiungendo le piante scoperte e pubblicate dopo il 1623. Un'impresa che, come vedremo, lo accompagnò tutta la vita, ma non giunse mai a termine. Tornato in Inghilterra verso la fine del 1698, si lasciò ancora una volta convincere a diventare tutor di un altro giovane gentiluomo, un nipote della duchessa vedova di Beaufort. La nobildonna era una grande appassionata di piante e giardini e contava sui contatti internazionali di Sherard, il cui nome incominciava ad essere piuttosto noto tra i botanici europei, per incrementare le sue collezioni. Purtroppo il giovane morì dopo meno di un anno, e Sherard si trovò disoccupato. Per breve tempo si rassegnò a insegnare a Oxford come borsista, quindi fece parte di una commissione governativa che si occupava dei prigionieri di guerra, finché nel 1703 la Compagnia del Levante gli offrì un posto come console a Smirne. Egli accettò: una decisione pessima per i suoi studi botanici e ottima per le sue tasche. Nei dieci anni che visse in Turchia infatti, privo di libri e troppo occupato con i suoi compiti quotidiani, dovette mettere da parte la botanica, ma in compenso accumulò una notevole fortuna. Cercò anche altri interessi, ricopiando antiche iscrizioni e collezionando monete. Nel 1711 acquistò una casa a sette miglia da Smirne. Nell'impero ottomano era impossibile viaggiare da soli, e non trovando altri accompagnatori nelle sue escursioni botaniche, dovette limitarsi a un solo viaggio, che sempre nel 1711 lo portò a Alicarnasso. Alla fine del 1716 o all'inizio del 1717 lasciò Smirne e tornò in Inghilterra. Nel frattempo anche suo fratello minore James (1666-1738) aveva fatto fortuna; farmacista, gestiva una bottega di successo a Londra, nella centralissima Mark Lane. Negli anni giovanili, era stato un notevole musicista dilettante e un virtuoso del violino, ma ora la gotta gli impediva di suonare. Dopo il ritorno di William dal Levante, decise di andare in pensione e di fare della botanica la sua nuova passione. Acquistò una splendida proprietà a Eltham, un sobborgo di Londra, dove, con l'aiuto del fratello maggiore, creò un giardino presto famoso in tutta Europa per le sue piante rare. William riprese a lavorare alla revisione del Pinax, ma nel 1721 viaggiò di nuovo nel continente insieme al fratello, per cercare piante per Eltham. Visitò anche l'orto botanico di Giessen, dove conobbe il giovane botanico Jacob Dillenius. Dopo essere stato per tutta la vita generoso di semi, esemplari e tempo con i suoi amici, ora poteva esprimere la sua generosità anche come mecenate: propose a Dillenius di trasferirsi in Inghilterra per aiutarlo con l'interminabile revisione del Pinax e con la catalogazione del giardino di Eltham. Dillenius accettò: avrebbe portato a termine il secondo compito, scrivendo il magnifico Hortus Elthamensis, ma non il primo. Nel 1723 e nel 1727 Sherard tornò nuovamente a Leida, per aiutare Boerhaave a pubblicare l'opera postuma dell'amico Vaillant, Botanicon parisiense. Assisté anche Catesby, aiutandolo con le identificazioni della prima parte di Natural History of Carolina. Solo con un "collega" ci fu uno screzio: non sappiamo esattamente perché, si scontrò con Hans Sloane - un amico di lunga data anche di suo fratello - che rifiutò di mettergli a disposizione gli erbari di Plukenet e Petiver. Verso il 1727 ci fu una riconciliazione, ma ormai la salute di Sherard stava declinando, con crisi di quella che è stata definita "demenza senile". Consapevole che in Inghilterra, proprio come ai tempi della sua giovinezza, ancora mancava una cattedra universitaria di botanica, volle rimediare con le sue ultime volontà: non solo lasciò all'università di Oxford il suo erbario di oltre 12,000 pezzi, le sue carte, le sue collezioni di disegni e manoscritti, ma stabilì un lascito per istituire una cattedra di botanica. Impose però una condizione: il primo titolare doveva essere Dillenius. Morto William Sherard nel 1728 (una sintesi della sua vita nella sezione biografie), ne seguì una lunga trattativa tra l'Università e il suo esecutore testamentario, ovvero suo fratello James. Di conseguenza, Dillenius assunse l'incarico solo nel 1735, avendo nel frattempo anche completato Hortus elthamensis. Ma non la revisione del Pinax. La grande opera della vita di Sherard rimase un torso inedito. Secondo H.M. Clokie, studioso del suo erbario, la causa prima stava nella eccessiva generosità di questo botanico dal carattere troppo amabile: "Sembra che la sua difficoltà fosse concentrarsi sul proprio lavoro invece di aiutare gli amici. La sua generosità sembra non aver conosciuto limiti". Sherardia, dal Mediterraneo alla conquista del mondo Nonostante non abbia pubblicato quasi nulla di suo, curando la pubblicazione di due opere centrali come Paradisus batavus di Hermann e Botanicon parisiense di Vaillant e sponsorizzando il lavoro di Dillenius, senza parlare delle raccolte botaniche messe generosamente a disposizione di tanti illustri colleghi, Sherard ha avuto un ruolo di rilievo nella botanica negli anni a cavallo tra Seicento e Settecento; è riuscito a far dialogare e a integrare tra loro le diverse scuole botaniche europee, da quella francese a quella olandese, da quella italiana a quella tedesca, contribuendo come nessuno allo sviluppo della scuola britannica, come sottolinea la creazione della cattedra di Oxford. Sia Vaillant sia Dillenius si sono ricordati del loro benefattore con la dedica di un genere Sherardia. Particolarmente toccanti le parole di Sébastien Vaillant: "Dato che i botanici, quando creano un nuovo genere hanno il diritto di dargli il nome dei loro autori, o dei loro benefattori o dei loro amici, per resuscitare i primi e immortalare i secondi nella botanica, io ho imposto a questo [genere] il nome dell'illustre Mr. Sheridan che è allo stesso tempo un vero amico, un benefattore per le piante essiccate; per diventare illustre più di tutti gli autori messi insieme non gli rimane che terminare il suo Pinax e offrirlo al pubblico che attende questo capolavoro con estrema impazienza". Linneo, tuttavia, nell'ufficializzare il genere Sherardia in Species plantarum (1753) scelse quello di Dillenius (famiglia Rubiaceae) e non quello di Vaillant (famiglia Valerianaceae); quest'ultimo fu ripreso da Miller, ma troppo tardi (1754); la denominazione valida è dunque quella di Dillenius - Linneo. Sherardia L. è un genere monotipico rappresentato dalla sola S. arvensis, una piccola pianta erbacea diffusa in tutta Europa, nel bacino del Mediterraneo e in Vicino oriente; si è inoltre largamente naturalizzata in altri continenti, tanto da essere ormai considerata cosmopolita. E' un'annuale comune in campi, prati, incolti, aree disturbate; piuttosto simile a Galium, da cui si distingue per la lunghezza del tubo corollino, ha piccole foglie lineari riunite in verticilli di 4-6 e minuscoli fiori da rosa pallido a lilla con un lungo tubo e quattro petali liberi raccolti in gruppi di 6-10 e circondati da un anello di sei brattee simili alle foglie. Come la robbia (Rubia tinctoria) dalle sue radici si estraeva un colorante rosso. E' una pianta modesta, ma graziosa, e come il suo dedicatario è una grande viaggiatrice. In fondo, un accettabile ritratto vegetale. Una sintetica presentazione nella scheda. Nella seconda metà del Cinquecento, nonostante i legami diplomatici e commerciali tutt'altro che sporadici con l'impero ottomano, che lo rendevano facilmente raggiungibile, il Levante continuava ad essere ben poco noto. Pochi viaggiatori occidentali ne avevano percorso le strade, e quasi nessun naturalista. Uno dei primi fu il medico tedesco Leonhard Rauwolf, raccoglitore appassionato di piante, che aveva studiato a Montpellier alla scuola di Rondelet imparando alla perfezione come allestire un erbario. Molte avventure gli toccarono nella sua vita, e non meno capitarono al suo erbario che passò di mano in mano prima di approdare a Leida, dove ancora si trova. Terzo protagonista, il genere Rauvolfia che, come tutte le Apocynaceae, va preso con cautela. Un "lupo irsuto" dalla vita avventurosa Come ho raccontato in questo post, grazie al carisma di Guillaume Rondelet e alla politica di porte aperte verso i protestanti, nella seconda metà del Cinquecento la facoltà di medicina dell'Università di Montpellier richiama un gran numero di studenti dalla Francia settentrionale, dalle Fiandre, dalla Svizzera e dalla Germania. Tra le matricole del 1560 troviamo due tedeschi di Augusta: Jeremias März o Mertz, che alla latina si fa chiamare Martius (ca. 1535 - ca. 1585) e Leonhard Rauwolf (1535-1596). Martius, figlio di un tessitore, ha potuto studiare grazie al suo ingegno e alla protezione dei Fugger, che hanno finanziato i suoi studi prima a Ingolstadt e ora in Francia; presumibilmente è cattolico. Rauwolf invece è figlio di un facoltoso mercante, ha studiato prima a Tubinga, poi a Wittenberg ed è luterano. Le diverse fedi religiose non sono un ostacolo all'amicizia, cementata dagli interessi comuni, dall'ammirazione per il maestro Rondelet e dall'entusiasmo per la lussureggiante natura meridionale. Da Rondelet imparano come preparare un erbario e battono assiduamente la regione, "per monti e per valli", come scriverà lo stesso Rauwolf ricordando il sodalizio botanico con "il sapientissimo Jeremias Martius, mio eccellente amico". Meta preferita la montagna di Cette, dove raccolgono diverse centinaia di "semplici". L'anno dopo da Basilea arriva un ventenne che è giù un botanico esperto e si unisce immediatamente alle loro scorribande erborizzatrici: è il grande Jean Bauhin (1541-1613). Nel 1562 Rauwolf si laurea in medicina a Valence (dove la licenza era più a buon mercato rispetto a Montpellier). Nel 1563 entrambi gli amici sono in Italia: Martius studia a Padova, poi viene inviato dai Fugger a Firenze, quindi rientra ad Augusta dove si laurea nel 1565; divenuto medico cittadino, si fa un nome come traduttore dal latino, dall'italiano e dal francese. La sua traduzione più nota è probabilmente quella del ricettario di Nostradamus Excellent & moult utile Opuscule (Michaelis Nostradami, ... zwey Bücher, 1572). Rauwolf se la prende più comoda. In Italia visita Padova, Verona, Mantova, Ferrara, Bologna, Firenze, Modena, Piacenza, Parma, Milano e Como, senza mai trascurare di incrementare le sue raccolte. Approfitta del viaggio di ritorno per erborizzare sul san Gottardo e nella Foresta Nera e fare una capatina a Zurigo dove incontra Gessner e a Tubinga per un saluto a Fuchs. Così, quando rientra ad Augusta nel 1565, ai due volumi d'erbario raccolti nel Midi se n'è aggiunto un terzo, per un totale di circa 600 specie. Gli "anni di apprendistato" sono finiti e il trentenne Rauwolf deve mettersi al lavoro. Si sposa con la figlia di un patrizio della città, crea forse un piccolo hortus medicus dove riceve la visita di Clusius, esercita la professione prima a Aichach, quindi a Kempten, infine dal 1570 a Augusta dove è medico cittadino come l'amico Martius. E' in contatto epistolare con altri botanici e ama firmarsi con lo scherzoso pseudonimo Dasylychus, dal gr. dasùs "peloso, irsuto, selvaggio" e lukos "lupo", calco del cognome Rauwolf. Dopo qualche anno tranquillo, si presenta l’occasione di un viaggio molto più avventuroso. Ad offrirgliela è suo cognato Melchior Manlich, un mercante di alterne fortune che intorno al 1570 era attivo nel commercio con il Levante; aveva agenzie a Marsiglia, Costantinopoli, Famagosta, Tripoli in Libano, Aleppo e Alessandria d’Egitto, da cui importava merci di vario tipo: spezie, telerie, metalli, uvetta, tappeti, perle e pietre preziose. Nel 1573, quando i ribelli delle Fiandre si impadroniscono di una delle sue navi con un carico di pepe, si trova sull’orlo del fallimento; per risollevare le sue sorti pensa di mandare in Oriente il suo agente di Marsiglia, Hans Ulrich Krafft, e Rauwolf decide di accompagnarlo. Manlich spera di potersi giovare della sua competenza di medico e botanico per individuare piante medicinali da vendere con profitto sul mercato europeo. Partiti da Augusta nel maggio 1573, Rauwolf e Krafft si imbarcano a Marsiglia e a settembre raggiungono Tripoli; successivamente Rauwolf visita Aleppo, la Siria e l’Armenia turca, quindi raggiunge Costantinopoli. Nel 1574 è a Bagdad, da dove, percorrendo una strada aperta da poco, discende il corso dell’Eufrate per poi risalire il Tigri fino a Mosul. Sogna di proseguire alla volta dell’India, ma deve rassegnarsi a tornare indietro. Nel 1575 è a Gerusalemme e a novembre di nuovo a Tripoli, dove si imbarca per l’Europa, rientrando ad Augusta nel febbraio 1576. A parte Guilandino (che, però, perse tutte le sue raccolte in un naufragio) è il primo botanico europeo a esplorare la flora del vicino Oriente. Ad Augusta Rauwolf riprende l’attività di medico, tuttavia nel 1588, quando le autorità cittadine tornano al cattolicesimo, come luterano è costretto a trasferirsi a Linz, dove lavora per otto anni. Nel 1596 si arruola come medico militare delle truppe impegnate in Ungheria contro i Turchi, ma l’anno successivo muore di dissenteria. Una sintesi della sua vita avventurosa nella sezione biografie. Viaggi di botanici, viaggi di erbari Di questo inquieto botanico viaggiatore rimangono il resoconto del suo viaggio in Levante, Aigentliche beschreibung der Raisz [...] inn die Morgenländer ("Descrizione veritiera del viaggio in Levante", 1582) e un importante erbario. Scritto poco dopo il rientro in patria, in uno stile vivace e con accurate descrizioni dei popoli, dei costumi e dei pericoli del Levante, il libro di Rauwolf divenne un bestseller e fu più volte ristampato e tradotto tra l'altro in olandese e inglese, nell'ambito di una raccolta di resoconti di viaggio curata da Ray. L'autore pretende di riferire solo ciò che ha visto con i suoi occhi e toccato con le sue mani, anche se in realtà si appoggiò anche su numerose fonti, inclusa la Bibbia. Le pagine più celebri sono quelle dedicate alla preparazione e al consumo del caffè, una bevanda all'epoca del tutto sconosciuta in Occidente. Un intero capitolo è dedicato alla descrizione di 364 specie di piante con i nomi locali e dettagliate informazioni sul loro uso; è accompagnato da 42 xilografie che furono sicuramente eseguite a partire da piante dell'erbario di Rauwolf, che in Levante raccolse circa 200 esemplari, che andarono a formare il quarto volume del suo erbario. Quest'ultimo conobbe vicende avventurose quasi come quelle del suo creatore. I quattro volumi, notevolissimi anche per l'eccellente preparazione e il montaggio degli esemplari, dopo la morte di Rauwolf furono acquistati dall'imperatore Rodolfo II e custoditi nella sua "camera del tesoro" a Praga. Nel 1620, all'inizio della guerra dei Trent'anni, furono però rubati da soldati dell'elettore di Baviera Massimiliano I e portati a Monaco, dove trovarono un provvisorio rifugio nella sua Wunderkammer. Provvisorio perché pochi anni dopo anche la camera delle meraviglie di Massimiliano fu saccheggiata, questa volta dagli svedesi di Gustavo Adolfo. Insieme a molti preziosi libri preda di guerra, l'erbario di Rauwulf finì nella biblioteca reale di Stoccolma, finché, intorno al 1655, la regina Cristina, che aveva appena abdicato e non aveva denaro per pagare il salario arretrato al suo bibliotecario, il famoso bibliofilo Isaac Vossius, liquidò le sue spettanze in libri, incluso l'erbario di Rauwolf. Vossius lo portò con sé a Londra, dove visse fino alla morte, nel 1689. E finalmente, il prezioso erbario trovò la sua casa definitiva: la biblioteca e le collezioni di Vossius furono acquistate dall'Università di Leida. Custodito nel sancta sanctorum degli esemplari più preziosi, è oggi uno dei tesori dell'Erbario nazionale olandese. Il direttore della biblioteca dell'Università di Leida era il celebre filologo Johann Friederich Gronovius (1611-1671), ovvero il nonno dell'omonimo botanico Jan Frederik che si basò sull'erbario di Rauwolf per scrivere la sua Flora orientalis. L'opera era ovviamente ben nota al suo amico Linneo che, riprendendo un genere già creato da Plumier, dedicò al nostro botanico viaggiatore il genere Rauvolfia. Appartenente alla famiglia Apocynaceae e distribuito nella fascia tropicale di America, Africa, Asia e in diverse isole del Pacifico, comprende una settantina di specie di alberi o arbusti sempreverdi, con foglie verticillate in gruppi di 3-6 e infiorescenze di piccoli fiori per lo più bianchi, anche se talvolta con calice o tubo rosso; i rami spezzati secernono un lattice biancastro. Molte specie hanno proprietà medicinali. La più nota da questo punto di vista è probabilmente R. serpentina, nativa del subcontinente indiano e dell'Asia orientale: è una delle cinquanta essenze fondamentali della medicina cinese; la medicina ayurvedica, dove è chiamata sarpagandha, oltre a utilizzarla come anti ipertensivo, ritiene purifichi la mente e favorisca la meditazione, tanto che l'infuso della sua radice fu usato anche da Gandhi. Negli anni '50 ne fu estratto l'alcaloide reserpina, che in passato trovò ampio impiego nella terapia farmacologica dell'ipertensione e di alcune psicosi; a causa dei gravi effetti collaterali in molti paesi è stato ritirato dal commercio. Anche la centro e sud americana R. tetraphylla occupava una posizione importante nella medicina tradizionale degli indios. D'altra parte, gli estratti di altre specie, come l'africana R. mannii e la malgascia R. media, sono utilizzati come veleni, topicidi e insetticidi. La duplice natura è evidente in R. vomitoria, di origine africana ma naturalizzata in Cina e altri paesi: tossica in tutte le sue parti, viene usata per avvelenare le frecce o preparare veleno per i topi, ma allo stesso tempo la decozione o estratti delle radici, o talvolta la polpa dei frutti, trovano impiego come emetici, purganti e nella cura di una varietà di affezioni. Insomma, un'arma a doppio taglio che è meglio evitare. Altre informazioni nella scheda. Situata nel villaggio di Emame nelle Fiandre, Huis Beaucarne è una dimora storica che si inorgoglisce di una spettacolare "serra dell'uva", con viti di circa 250 anni; ma anche di aver dato il nome al genere Beaucarnea che qui fiorì per la prima volta in coltivazione. Merito del notaio Beaucarne, al suo tempo celebre collezionista di orchidee, un grande appassionato che nelle sue serre sapeva offrire alle piante le condizioni ideali e le migliori tecniche di coltivazione. Una visita a casa Beaucarne Oggi Emame fa parte della municipalità di Oudenarde. Un tempo vi sorgeva una delle abbazie più importanti del Belgio, quella di San Salvatore che tuttavia nel 1795, in seguito all'occupazione francese, fu smantellata. Il sindaco della cittadina, Jean François Beaucarne, mise in salvo (o, si impadronì, dipende dai punti di vista) diversi arredi che andarono ad arricchire la sua casa, Huis Beaucarne, una dimora storica che si affaccia sulla piazza del paese e appartiene alla famiglia dal 1748. Con i suoi interni d'epoca e collezioni d'arte e curiosità, oggi è un monumento nazionale protetto; è anche una meta turistica, che offre visite guidate, tè del pomeriggio e location per matrimoni e altri eventi. Tra le attrazioni più notevoli, la maestosa vigna piantata due secoli e mezzo fa che occupa il secondo piano dell'arancera settecentesca, sopraelevata nell'Ottocento proprio per ospitarla. Il giardino, passato attraverso molti rifacimenti, appare un po' trascurato e incoerente, ma nell'Ottocento era uno dei più celebri del Belgio, soprattutto per le sue serre. Merito di uno dei membri della famiglia, il notaio Jean Baptiste Beaucarne (1802-1889); al contrario di almeno due dei suoi fratelli, impegnati in politica e protagonisti della rivoluzione del 1830, egli si divideva tra la professione e la passione per le piante, alle quali dedicava ogni momento libero. La sua era una famiglia di notabili, e non gli mancava la disponibilità finanziaria; aveva al suo servizio diversi giardinieri (nei registri comunali ne risultano almeno sette) ma sicuramente sapeva dirigerli con competenza. La sua lunga vita gli permise di diventare il decano dei collezionisti-amatori belgi. Il suo nome compare con una certa frequenza nelle riviste di giardinaggio dell'epoca. Era famoso soprattutto come orchidofilo, citato con elogio anche da Linden; le sue piante, esposte in patria e all'estero, gli guadagnarono menzioni e premi, come la medaglia d'oro alle Floralies di Gand del 1883. Un articolo comparso sulla Revue d'horticulture belge et étrangere nel 1886 ci consente di farci un'idea delle sue serre ai tempi d'oro. Mentre oggi sopravvivono solo la serra dell'uva e quella delle orchidee, trasformata prima in orangerie poi in cafeteria, allora ce n'erano almeno cinque. Proprio come la casa, tutto era lindo e pinto, con i muri tinteggiati di fresco e i pavimenti ben piastrellati. Due grandi serre erano riservate alla collezione di camelie e azalee, all'epoca considerate demodé, ma coltivate benissimo e con molte varietà recenti. La terza serra, di tipo "olandese", ovvero con le finestre a 90 gradi per ricevere il massimo della luce solare nei mesi invernali, era il regno di Agave, Dasilyrion e Yucca, di cui il notaio possedeva la più completa collezione del paese, con molte rarità: piante di dimensioni contenute, poco esigenti, coltivate in modo ottimale a giudicare dal loro rigoglio. Accanto a loro, altre piante ornamentali, una collezione di Araliaceae, qualche palma e una spettacolare Medinilla magnifica. Al piano terra della serra dell'uva venivano ricoverate le piante poco rustiche che trascorrevano la bella stagione all'esterno. Infine, eccoci giunti al clou, la serra delle orchidee. Diversamente dalle altre, non era pavimentata e vi era mantenuta un'atmosfera caldo-umida. Al momento della visita, ad attirare gli sguardi era un'impressionante Vanda lowii (oggi Dimophorchis lowii) in fiore, con due scapi lunghi 1,65 cm e 22 fiori ciascuno; nel 1876 Beaucarne era stato il primo a far fiorire questa una rarità. Ma c'erano molte altre orchidee fiorite, e tutte colpivano per il vigore eccezionale; nell'articolo si citano Vanda, Aerides, Saccolabium e Phalaenopsis; tra le altre spiccavano una notevole Laelia x brysiana (oggi Cattleya elegans) e una Vanda parishii (oggi Phalaenopsis hygrochila). Al momento della visita il notaio, che accolse i suoi ospiti con affabilità, era già ultraottantenne e morì pochi anni dopo, nel 1889. Almeno una parte delle piante fu messa in vendita dagli eredi. Il catalogo d'asta registra 694 tra specie e varietà. L'asta richiamò acquirenti anche dall'estero e durò due giorni, il primo riservato alle azalee e alle camelie, il secondo a tutto il resto. Oltre a numerosissime orchidee, furono offerte palme, Bromeliaceae e Amaryllis (presumibilmente Hippeastrum). Fiorirà la Beaucarnea... Non fu però un'orchidea a guadagnare al notaio Beaucarne un posticino nella storia della botanica, ma una delle piante senza troppe pretese che coltivava nella serra "olandese". A spiegarci perché è Charles Antoine Lemaire, curatore della celebre rivista L'Illustration agricole. Il primo settembre 1861 egli si trovò a far parte della giuria dell'esposizione floricola di Oudenarde, a due passi da casa Beaucairne. Il notaio presentò un esemplare di Pincecnitia, Pincinectia o Pincenectia (un nome barbaro scritto in vari modi), una pianta che da qualche tempo era abbastanza coltivata nelle serre temperate belghe; non rara, e neppure di dimensioni eccezionali: Lemaire ne aveva viste alte e grosse il doppio o il triplo, ma... quella del notaio era in piena fioritura! Fino ad allora, nessuno era riuscito a farla fiorire e i fiori erano ignoti. Già da un primo sommario esame, Lemaire capì che doveva trattarsi di un'Asparagacea; ne ebbe la conferma studiando a suo agio l'infiorescenza "per la graziosa cortesia del possessore". Giunse così alla conclusione che la specie andava assegnata a un genere nuovo che battezzò Beaucarnea, in onore appunto del nostro Jean-Baptiste Beaucarne. Denominò la specie Beaucarnea recurvata, un nome che conserva anche oggi; nota anche con il nome comune di "pianta mangiafumo", è una delle più diffuse piante d'appartamento. La si può acquistare ovunque, incluso il negozietto di Huis Beaucarne, di cui ovviamente è il genius loci. E' la specie più conosciuta del genere Beaucarnea, che comprende una dozzina di specie di succulente pachicauli delle foreste xerofile di Messico, Belize e Guatemala; è molto affine a Nolina, ma recenti ricerche ne hanno confermato l'indipendenza, inserendovi anche le due specie precedentemente assegnate a Calibanus. Chi desiderasse saperne di più, non deve mancare di visitare il Jardín Botánico Francisco Javier Clavijero a Xalapa, nello stato messicano di Veracruz; qui si trova la "Colección Nacional de Beaucarneas" con oltre 400 esemplari di sette specie. Di lenta crescita, hanno fusto ingrossato alla base e foglie lineari, in alcune specie lunghissime, raccolte in ciuffi apicali; i fiori, riuniti in una grande pannocchia, sono numerosissimi ma molto piccoli. A produrli solitamente sono solo gli esemplari piuttosto vecchi: cosa che rende ancora più eccezionale l'impresa del notaio Beaucarne e dei suoi giardinieri. Qualche approfondimento nella scheda. Tra le piante più venerabili del Jardin des plantes di Parigi, c'è un albero di pistacchio famoso non solo per la sua età (un po' più tre secoli) ma per aver permesso a Sébastien Vaillant di comprendere i meccanismi della riproduzione sessuale delle piante. Quando egli presentò i risultati in pubblico, le sue parole destarono scandalo, forse anche perché non risparmiò le metafore antropomorfe. Linneo ne aveva invece grande stima e considerava il suo Botanicon parisiense il vero inizio della botanica moderna. Riprendendo una denominazione di Tournefort, lo celebrò con Valantia, un piccolo genere che annovera anche due rari endemismi siciliani. Scandalose nozze delle piante Il 10 giugno 1717, tra gli studenti che affollavano l'anfiteatro del Jardin royal c'era una certa attesa per la prolusione con la quale Sébastien Vaillant (1669-1722) avrebbe inaugurato il corso di botanica. Vaillant, che lavorava nel giardino già da una quindicina di anni e da una decina era sotto dimostratore (l'insegnante "pratico" che mostrava come riconoscere le piante) non era certo una faccia nuova. Ma quell'anno avrebbe tenuto anche il corso teorico, come supplente del professore titolare, il dimostratore Antoine de Jussieu, in missione botanica nella penisola iberica. Forse in quel che successe quel giorno c'entrò anche un pizzico di spirito di rivalsa. Al contrario di Jussieu, medico e accademico di Francia, Vaillant aveva fatto la gavetta e non aveva titoli accademici. Nato in una famiglia contadina, inizialmente aveva ricevuto una formazione come musicista; poi era divenuto chirurgo (ricordo che all'epoca i chirurghi non erano laureati, ma artigiani che imparavano il mestiere con l'apprendistato), lavorando prima nell'esercito poi all'Hôtel-Dieu di Parigi. Incominciò così a seguire i corsi di botanica, chimica, anatomia del Jardin royal. Appassionato raccoglitore, fu d'aiuto a Tournefort per la sua flora dei dintorni di Parigi Histoire des plantes qui naissent aux environs de Paris. Fu notato da Fagon che ne fece il suo segretario. Nel 1702 gli fece ottenere il brevetto di «inserviente del laboratorio del Giardino reale», un titolo modesto che ne faceva il responsabile delle coltivazioni. Nel 1708, gli cedette il suo posto di sotto dimostratore di botanica, mentre a Tournefort, morto quell’anno, succedeva come professore il medico Antoine-Tristan Danty d’Isnard. Dopo appena un anno, quest’ultimo diede le dimissioni; Vaillant, che dal 1709 era stato nominato anche direttore del Gabinetto reale delle droghe, sarebbe stato il più qualificato ad assumere la cattedra, ma non era né medico né laureato. Così il posto andò a un outsider, il medico lionese Antoine de Jussieu che aveva solo ventiquattro anni, diciassette meno di lui. Tra i due c'era anche una certa rivalità scientifica: Jussieu era uno stretto seguace di Tournefort, mentre Vaillant aveva espresso da tempo riserve su Institutiones rei herbriae e conduceva ricerche sperimentali che lo stavano portando su strade nuove. E qui entra in scena il famoso pistacchio (Pistacia vera). Era nato nei primi anni del secolo dai semi portati dal Levante da Tournefort, prosperava, fioriva, ma non portava frutti. Vaillant venne a sapere che anche nel Giardino dei farmacisti ce n'era uno, con fiori diversi, che ugualmente fioriva senza fruttificare. Nel 1716 tagliò una fronda fiorita del pistacchio del Jardin e la scosse presso l’altro albero e viceversa. Poco tempo dopo l'albero del Giardino dei farmacisti (un esemplare femminile), così fecondato, diede i primi frutti, cosa che non fece quello del Jardin des plantes, maschio. Era la prova che serviva a Vaillant per spiegare la funzione del polline. Così decise di inaugurare il corso di botanica del 1717 con una prolusione dedicata alla funzione sessuale dei fiori. Che le piante avessero organi sessuali e che una pianta potesse portare solo fiori maschili, solo fiori femminili, oppure fiori sia femminili sia maschili non era un’idea nuova. All'inizio del Seicento, era stata suggerita da Prospero Alpini; nel 1681 Nehemiah Grew ipotizzò che gli stami fossero gli organi maschili e in Historia plantarum (1686) Ray portò numerosi esempi di piante dioiche; nel 1694 il tedesco Rudolph Camerarius in De sexu plantarum epistola diede la dimostrazione sperimentale della funzione del polline. Tuttavia, oltre ad essere ancora inaccettabile per l’opinione pubblica, la sessualità delle piante era stata respinta proprio dal maestro di Vaillant, Joseph Pitton de Tournefort, che riteneva il polline un «escremento» delle piante. Vaillant, oltre tutto, entrò in campo a gamba tesa, usando metafore antropomorfe e sessualmente esplicite, con espressioni come «letto nuziale», «consumare il matrimonio», «questi focosi non sembrano che cercare altro che soddisfare i loro violenti trasporti». Gli studenti furono elettrizzati, i professori dell’Accademia delle scienze un po’ meno. A indignare era anche il fatto che Vaillant avesse osato criticare un mostro sacro come Tournefort, mostrando quella che veniva considerata vera e propria ingratitudine. L'Accademia, alla quale Vaillant era stata ammesso nel 1716 (prima del fattaccio) arrivò addirittura ad ammonirlo ufficialmente di non attaccare più il suo maestro. Nei salotti non si parlava d'altro e quando Jussieu tornò dalla Spagna, le acque erano ancora agitate. Fino a quel momento, egli aveva seguito le idee di Tournefort ma, non essendo un dogmatico, volle capire meglio. Scrisse al farmacista Joan Salvador i Riera, che lo aveva accompagnato in Spagna, di raccogliere esemplari di fiori di piante fruttifere e non fruttifere di palme da dattero, e capì che Vaillant aveva ragione. L'anno successivo, nella prolusione del 1718, abbracciò le sue tesi, anche se le espresse con un prudente linguaggio neutro e distaccato. Vaillant applicò le sue scoperte alla sua opera maggiore Botanicon parisiense, frutto di trent’anni di ricerche, in cui descrisse sistematicamente la flora di Parigi e dintorni delineando un nuovo sistema di classificazione basato sugli organi sessuali, criticò anche con asprezza il sistema di Tournefort e usò per la prima volta nel significato moderno i termini stame, ovario, ovolo. In vista della pubblicazione, fece eseguire accuratissimi disegni a Claude Aubriet, ma si trovò impossibilitato a pagarlo; tanto meno aveva i soldi per la stampa, che certo l'Accademia non avrebbe finanziato. Nel maggio 1721, si risolse a scrivere a Boerhaave, il direttore dell'orto botanico di Leida, che liquidò il debito con Aubriet e insieme a William Sherard, amico comune, curò la pubblicazione. Una prima edizione senza figure uscì nel 1723 e Vaillant, morto nel 1722, non fece in tempo a vederla. Nel 1727, sempre a Leida, seguì una seconda edizione, con trecento tavole di Aubret incise da Jan Wandelaar, che qualche anno dopo avrebbe collaborato con Linneo per Hortus Cliffortianus. Per l'Académie, Vaillant rimase un paria: contrariamente all'uso, alla sua morte non venne commissionato il consueto elogio a Fontenelle. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Endemismi siciliani Non molto tempo prima di morire, Tournefort in una Memoria letta all'Accademia delle scienze aveva dedicato all'allievo il genere Valantia: uno di quelli che lo stesso Vaillant contestava, visto che lo considerava identico a Cruciata; del resto esprimeva le sue riserve anche sull'abitudine di denominazioni ricavate dai nomi dei botanici. Linneo lo recuperò in Species plantarum. Non solo aveva grande stima di Vaillant, in cui vedeva un proprio precursore considerando Botanicon parisiense il vero inizio della botanica moderna, ma riteneva il genere particolarmente adatto. Non certo per la sua bellezza: si tratta di pianticelle minime, che passano inosservate, ma per le singolari caratteristiche dei fiori perfette per celebrare lo studioso della differenziazione sessuale. Questo piccolo genere della famiglia Rubiaceae raggruppa sette specie di minute erbe rupicole diffuse attorno al bacino del Mediterraneo, dalla Macaronesia al Vicino oriente. Hanno minuscole foglie carnose verticillate in gruppi di quattro, da cui il nome comune di «erba croce»; i fiori sono raggruppati in verticilli di tre: quello centrale è bisessuale, i due laterali maschili. Quattro specie (V. calva, V. deltoidea, V. hispida, V. muralis) fanno parte della flora italiana; V. calva è endemica dell’isola di Linosa dove cresce sulle pendici laviche del Monte Vulcano e di Montagna rossa. V. deltoidea è invece un endemismo della Rocca Busambra, il rilievo maggiore dei monti Sicani, dove vive nei pascoli aridi intorno a 1600 metri. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
March 2024
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