Torniamo a solcare i mari delle Indie orientali per incontrare, dopo Garcia de Orta, l'altro dedicatario del genere linneano Garcinia. E' il chirurgo e poi medico franco-svizzero Laurent Garcin che per otto anni lavorò per la VOC visitando molti dei paesi che si affacciano sull'Oceano indiano, dalla Persia all'Indonesia. Oltre alla dedica da parte di Linneo, vari aspetti della sua biografia lo accomunano a Orta: entrambi sono figli di rifugiati per motivi religiosi, entrambi studiano da pionieri flore quasi sconosciute in Europa, entrambi tengono in grande considerazione le tradizioni mediche locali. E, ovviamente, entrambi hanno scritto del mangostano, ovvero Garcinia mangostana. Un chirurgo navale fuori dal comune Nel 1733, il medico franco-svizzero Laurent Garcin pubblica nelle Transactions della Royal Society, di cui è membro corrispondente, una memoria in cui propone l'istituzione di un nuovo genere di piante "detto secondo i malesi Mangostano". Qualche anno dopo (1737), Linneo, che probabilmente lo conosce di persona (all'epoca entrambi vivono nei Paesi Bassi e frequentano gli stessi ambienti), in Hortus Cliffortianus gli intesta il nuovo genere, con la seguente motivazione: "Ho chiamato questo nuovo genere di albero Garcinia, da Garcin, che primo ne ha dato i caratteri nelle Transactions, e da Garcia de Horta che l'ha descritto per primo". E' perciò nel segno del mangostano che due pionieri dello studio della flora delle Indie orientali si trovano congiunti nella nomenclatura botanica. Torniamo dunque anche noi nelle Indie, quasi un secolo e mezzo dopo il rogo di Goa che ridusse in cenere le spoglie di Garcia de Orta e le pagine dei suoi Colóquios dos simples (l'ho raccontato in questo post), per seguire i passi del co-dedicatario Laurent Garcin. Nel loro destino c'è una strana coincidenza: come il medico portoghese era figlio di ebrei spagnoli, espulsi dalla loro patria nel 1492, Garcin era figlio di calvinisti francesi che dovettero abbandonare la Francia in seguito alla revoca dell'editto di Nantes del 1685. Il padre era un medico e decise di stabilirsi con la famiglia non lontano dal confine, a Neuchâtel, all'epoca un principato retto in unione personale dal re di Prussia, ma di fatto largamente autonomo. All'epoca in cui lasciò la Francia, Laurent, di cui non conosciamo con esattezza la data di nascita, doveva avere circa 4 anni. Intorno ai 14 anni fu mandato a studiare nei Paesi Bassi (un paese calvinista e assai all'avanguardia nella scienza medica); secondo alcune fonti, studiò medicina sotto il celebre Boerhaave, ma poiché non risulta immatricolato in nessuna università olandese, è più probabile che sia stato affidato come apprendista a un maestro chirurgo. Intorno al 1704 (di nuovo, poco sappiamo della sua giovinezza) si arruolò come chirurgo militare in un reggimento fiammingo nel quale servì per sedici anni, nelle Fiandre, in Spagna e in Portogallo. Nel 1720 lasciò l'esercito e fu assunto dalla Compagnia olandese delle Indie orientali (d'ora in avanti VOC) come chirurgo di bordo di una nave in partenza per Batavia, il quartier generale dell'impero olandese delle spezie. Aveva dunque circa 40 anni, un'età in cui - lo sottolinea egli stesso - i suoi colleghi, se erano stati abbastanza fortunati da sopravvivere, intraprendevano il viaggio di ritorno. La VOC lo assegnò come capo chirurgo (oppermeester) alla Oudenaarde, in partenza il 20 maggio dal porto di Middelburg. Circa sette mesi dopo, il 19 gennaio 1721, Laurent Garcin sbarcava a Batavia. A questo punto, avrebbe potuto essere assegnato all'ospedale della VOC a Batavia oppure alle navi della compagnia che facevano la spola tra i porti e gli empori asiatici. Probabilmente prestò servizio in entrambi i ruoli, ma soprattutto come chirurgo di bordo, visto che risulta abbia visitato la Persia, Surat, la costa del Coromandel, il Bengala, Ceylon e varie isole indonesiane, nel corso di almeno tre viaggi. In tutti questi paesi, osservò fenomeni naturali poco noti, si dedicò a osservazioni barometriche, raccolse semi e esemplari di piante, e si informò sistematicamente sulle pratiche mediche locali. A impressionarlo, furono soprattutto la competenza medica dei bramini indù e dei medici cinesi che incontrò in Malacca. Oltre a corrispondere ai suoi interessi, imparare a riconoscere le erbe locali e le loro proprietà officinali era anche una necessità per un chirurgo impegnato nelle Indie, sia per rifornire la farmacia della nave con rimedi freschi, sia per far fronte alle malattie tropicali che i medici europei non conoscevano e non sapevano come affrontare; invece i medici locali possedevano un tesoro di pratiche e saperi tradizionali che, forse, erano più disponibili a spartire con un chirurgo che con uno spocchioso medico formato in un'università europea. Fu dunque con un bagaglio materiale di semi e piante essiccate e immateriale di conoscenze mediche (ma non solo) che il 1 novembre 1728 Garcin si imbarcò sulla Valkenisse per il viaggio di ritorno. Il 26 giugno sbarcò nei Paesi Bassi. Deciso a esercitare la medicina anche in Europa, a quasi cinquant'anni dovette rimettersi a studiare: si fermò ancora un anno a Leida per completare gli studi medici con Boerhaave e si laureò a Reims. Le competenze acquisite nelle Indie in medicina, botanica, meteorologia gli aprirono le porte della società scientifica europea, come attesta la corrispondenza con personaggi come Daniel Bernoulli, Pieter van Musschenbroek (l'inventore della bottiglia di Leida), Hans Sloane, Réamur, Bernard de Jussieu. Nel 1731 fu ammesso alla Royal Society come membro onorario. Nei Paesi Bassi, oltre a Boerhaave, il suo principale referente era Johannes Burman, cui cedette gran parte dell'erbario raccolto nelle Indie, che fu poi utilizzato dal figlio Nicolaas Laurens Burman per la sua Flora indica (1768). E' probabile che a casa di Burman abbia conosciuto Linneo, anche se non sono rimaste lettere tra i due. E' certo però che fu il primo a far conoscere il sistema linneano in Svizzera, preferendolo a quello di una gloria locale come Haller. Dopo la laurea, ritornò per qualche tempo in Svizzera per sposarsi e rivedere la famiglia. Quindi lavorò come medico a Hulst, in Zelanda e dal 1739 si stabilì definitivamente a Neuchâtel, divenendo un membro eminente della piccola comunità scientifica del principato. Ammesso come membro corrispondente anche all'Accademia delle scienze francese, pubblicò articoli su diversi argomenti, oltre che sulle Transactions della Royal Society, sul Journal helvétique/Mercure Suisse, per il quale teneva anche una rubrica meteorologica, e collaborò alla revisione del Dictionnaire universel de commerce (1742). Morì a Neuchâtel nel 1752. Una sintesi della vita nella sezione biografie. Anche suo figlio Jean-Laurent Garcin (1733–1781), poeta e letterato, si occupò di botanica e rivide per l'Encyclopédie d’Yverdon le voci botaniche scritte da Jean-Jacques Rousseau. Frutti tropicali e pigmenti trasparenti Il mangostano, nome botanico Garcinia manogostana, è la specie più nota di un genere molto vasto delle Clusiaceae (il secondo per dimensioni della famiglia), che comprende da 260 a 400 specie di alberi e arbusti diffusi nella fascia tropicale e subtropicale di tutti i continenti. Sempreverdi, sono in genere dioici e in qualche caso possono riprodursi per apomissia (ovvero senza fecondazione). Per l'estrema varietà delle strutture fiorali, Garcinia è considerato un genere dalla tassonomia discussa, come dimostra anche l'incerto numero di specie. Molte di esse, come altre Clusiaceae (che proprio per questa ragione un tempo si chiamavano Guttiferae), producono resine bruno-giallastre per la presenza di xantonoidi come la mangostina, talvolta usate come purganti o lassativi piuttosto drastici, ma più spesso come coloranti. Molte specie producono frutti eduli, talvolta dolci e da consumare crudi, talvolta acidi e da consumare essiccati. Il frutto più noto è ovviamente proprio il mangostano: è originario del Sud Est asiatico (il nome deriva dalla lingua malese) dove è talmente amato da essere chiamato "regina dei frutti"; già prima dell'arrivo degli europei, fu diffuso in altri paesi asiatici: sicuramente era già noto in India nel Cinquecento, come attestano proprio i Colóquios dos simples di Garcia de Orta. Furono gli inglesi a introdurlo nel resto del mondo: arrivato a Kew intorno 1850, fu importato nelle Antille britanniche, specialmente in Giamaica, che divenne il centro di diffusione in paesi come Guatemala, Honduras, Panama e Ecuador. Tuttavia richiede condizioni ambientali difficili da riprodurre; il sudest asiatico conserva il primato nella produzione mondiale (il paese leader è la Thailandia), e le coltivazioni in altre aree giocano un ruolo marginale. Poco noto da noi fino a pochi anni fa, oggi non è difficile vederlo in vendita tra i frutti tropicali anche sui banchi dei supermercati. I frutti di altre specie sono consumati per lo più a livello locale. Ma non sono solo i frutti a rendere interessanti le Garciniae. Da qualche anno sono stati lanciati sul mercato capsule o estratti di Garcinia gummi-gutta (in genere commercializzati sotto il sinonimo G. cambogia); ricavati dalla scorza dei frutti, dovrebbero facilitare la perdita di peso. Studi scientifici in doppio cieco hanno in realtà dimostrato che la loro efficacia è pari a quello del placebo, mentre sono stati evidenziati effetti collaterali a carico del fegato e dell'apparto gastro-intestinale. Nel sudest asiatico, i frutti essiccati di G. gummi-gutta, ma anche di molte altre specie, dal gusto acido, sono un ingrediente di diversi piatti della cucina tradizionale, come il kaeng-som della Tailandia meridionale. In Vietnam, per dare colore e sapore al bún riêu, si usa G. multiflora. La resina estratta da varie specie di Garcinia, in particolare G. hanburyi, G. morella, G. elliptica e G. heteranda, è nota con il nome gommagutta; in inglese è conosciuta come gamboge, derivato dal Gambogia, il nome latino della Cambogia, paese di origine di G. hanburyi. Trasparente e di colore giallo vivo, arrivò in Europa nel Seicento (la prima attestazione come nome di colore in Inghilterra è del 1634) e fu assai apprezzata come pigmento nella pittura a olio e ad acquarello: la utilizzarono, tra gli altri, Rembrandt, Turner e Reynolds. All'inizio dell'Ottocento l'illustratore botanico William Hooker (omonimo del celebre botanico), avendo bisogno di un verde trasparente per le sue illustrazioni di frutti, mescolò la gommagutta con il blu di Prussia, ottenendo il pigmento ancora oggi noto come verde di Hooker. Un tempo la gommagutta era anche utilizzata come velatura per le stampe, ma all'inizio del Novecento, essendo molto costosa, è stata sostituita da un colorante sintetico, l'aureolina, che è anche più resistente alla luce. Altri approfondimenti su questo interessante genere nella scheda.
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Nel settembre 1534, il medico portoghese Garcia de Orta, figlio di una coppia di ebrei espulsi dalla Spagna e costretti alla conversione forzata, sbarca a Goa. A spingerlo a venire in India, da una parte, l'angosciosa situazione dei marrani, gli ebrei convertiti; dall'altra la curiosità per quel mondo esotico, ma in qualche modo familiare, visto che ne sono originarie molte droghe che usa nella sua professione. Si stabilisce a Goa, diventa il medico di fiducia di maggiorenti indiani e portoghesi, commercia in spezie e gioielli, impara dai suoi numerosi corrispondenti i principi delle medicine unani e ayurvedica, fa esperimenti e coltiva un orto botanico di acclimatazione. Frutto di trent'anni di vita e di ricerche nel subcontinente il suo originalissimo Colóquios dos simples e drogas he cousas medicinais da Índia segna il primo vero incontro tra la botanica europea e la flora indiana. Ma, come il suo autore, sarà vittima dell'intolleranza religiosa: dodici anni dopo la sua morte, l'Inquisizione sottopone Garcia de Orta a un processo postumo e ne condanna le spoglie al rogo e i libri all'Indice. Se nonostante tutto, i Colóquios hanno lasciato un segno nella storia della botanica e nella conoscenza delle piante indiane è merito di Corolus Clusius, che li scoprì durante un viaggio in Portogallo e li tradusse in latino. Un medico di origini ebraiche scopre l'India Il 12 marzo 1534, al comando di Martim Afonso de Sousa, ammiraglio dei mari delle Indie, una squadra di cinque navi salpa da Lisbona alla volta di Goa. A bordo, nelle vesti di medico personale dell'ammiraglio e di medico capo della flotta, il dottor Garcia de Orta. Ha poco più di trent'anni, e potremmo considerarlo un uomo arrivato: è molto reputato nella sua professione e da qualche anno tiene lezioni di filosofia naturale all'Università della capitale. Eppure quando don Martim Afonso gli propone di accompagnarlo in India, non esita a lasciare tutto per seguirlo. Dietro quella scelta, almeno due ragioni. Una è il fascino dell'India, ancora quasi inedita per gli Europei, se si pensa che Vasco da Gama è sbarcato sulle sue coste appena nel 1497. Inedita, ma in un certo senso anche familiare, visto che proprio dall'India parte la via delle spezie e proprio da lì arrivano molte delle sostanze che egli usa nel suo lavoro. Anzi, è stupito che i suoi conterranei vedano l'India solo come una fonte di guadagno, senza provare alcuna curiosità per quel mondo tutto da scoprire. La seconda ragione è più drammatica. Garcia de Orta è figlio di una coppia di conversos, ebrei che sono fuggiti dalla Spagna nel 1492 in seguito al decreto di espulsione dei re cattolici e nel 1497, per poter rimanere in Portogallo, si sono dovuti sottomettere alla conversione forzata. Hanno avuto la fortuna di trovare un protettore nel nobile Lobo de Sousa (il padre di dom Martim Afonso), grazie al quale Garcia ha potuto studiare nelle prestigiose università spagnole di Salamanca e Alcalá, e poi avviare una carriera di successo come medico e insegnante universitario. Ma è pur sempre un converso, anzi un marrano (un insulto che forse significa porco) che potrebbe cadere vittima di un pogrom come quello della Pasqua del 1506, quando a Lisbona la folla, istigata dai frati domenicani, massacrò quasi 2000 ebrei convertiti. E si vocifera che l'Inquisizione stia per essere istituita anche in Portogallo. A settembre la flotta getta l'ancora a Goa e Garcia de Orta sbarca per la prima volta nella terra che non lascerà più fino alla morte, trentaquattro anni dopo. Per quattro anni, accompagna il suo protettore in tutte le sue imprese: la cessione di Diu e la costruzione della sua fortezza; la devastazione dei porti del Samorin di Calcutta e dei suoi alleati; la guerra contro i corsari. Ogni volta che ne ha l'occasione, scende a terra, avido di scoperte: osserva ogni cosa, si informa sulle persone, i costumi, le lingue, impara tutto quello che può sulle piante e le tradizioni mediche locali. Un incontro molto importante è quello con il sultano di Ahmadagar, Buhran Nizam Shah, un principe tollerante, che si circonda di uomini di scienza e lettere senza badare alla loro origine; alla sua corte, Garcia da Orta conosce medici arabi e indiani, da cui apprende i principi delle medicine unani e ayurvedica. Nel 1538, quando l'ammiraglio viene momentaneamente richiamato in patria, il medico preferisce rimanere in India: la ama con tutto il cuore, ha ancora molto da scoprire, inoltre i suoi timori si sono concretizzati con l'istituzione dell'Inquisizione anche in Portogallo nel 1536. Si stabilisce a Goa, dove acquista una casa e esercita la professione medica, integrata con attività redditizie come il commercio di spezie e di pietre preziose. Ha molti clienti, sia tra i portoghesi sia tra gli indiani, ma anche incarichi ufficiali, come medico dell'ospedale cittadino e della prigione. Piante indiane e Inquisizione Da questo momento, troppo impegnato con le sue varie attività, Garcia de Orta non viaggia più, ma vivendo a Goa, il centro del commercio portoghese delle spezie, ha modo di incontrare persone di ogni genere e di accedere a molte fonti di informazione. Nelle botteghe multietniche del bazar (i mercanti sono indiani, arabi, persiani) trova oggetti curiosi, frutti esotici, spezie ed erbe medicinali. La sua rete di agenti commerciali e di corrispondenti gli spedisce piante e semi da altre regioni del subcontinente. Il dottore, che oltre al portoghese, all'ebraico e alle lingue classiche, parla bene anche l'arabo, si intrattiene con tutti, si interessa di tutto, ma soprattutto di medicina, spezie, piante: di ciascuna vuole conoscere il luogo di coltivazione, gli usi, gli effetti terapeutici. Nella sua casa c'è un piccolo museo di curiosità (che anni dopo farà la delizia del poeta Luis de Camões, suo intimo amico) e una fornita biblioteca, dove accanto ai classici che ha portato con sé dal Portogallo e ai testi arabi che ha acquistato in India, ci sono tutte le più importanti novità dei medici e dei naturalisti europei che si fa spedire dalla madre patria. Sul retro ci sono un piccolo orto-giardino dove coltiva le piante medicinali che sperimenta sui suoi pazienti e qualche albero da frutto. Nel 1541 Martim Afonso de Sousa ritorna a Goa come viceré, incarico che manterrà fino al 1546, e di nuovo vuole Garcia de Orta come medico personale. Anche i successori lo stimano e uno di essi nel 1548 gli assegna in enfiteusi l'isola di Mombain (qui più tardi sorgerà la città di Bombay, oggi Mumbai); il dottore ora può fare esperimenti molto più in grande nel curatissimo orto botanico o giardino di acclimatazione, dove coltiva piante di ogni provenienza. E' un personaggio estremamente stimato, con molti amici, tra cui appunto Camões, che arriva a Goa nel 1555, e il dottore Dimas Bosque, che vi giunge nel 1558 al seguito del nuovo governatore Constantino de Bragança. E' probabilmente questa rete di amici e protettori a tenere lontane dalla sua persona le ombre dell'Inquisizione. Dal canto suo, il dottore bada ad allontanare ogni sospetto: va a messa ogni giorno, ha relazioni cordiali con francescani, domenicani e gesuiti e assiste alle loro cerimonie pubbliche. Tuttavia, il pericolo si fa sempre più vicino. Nel 1548, le sorelle Isabel e Catarina, rimaste in Portogallo, vengono arrestate; rilasciate, fortunatamente possono raggiungerlo a Goa, insieme alla vecchia madre e alle rispettive famiglie. Ma proprio a Goa, nel 1557, si tiene un processo contro un gruppo di venti conversos accusati di praticare segretamente il giudaismo; poiché nella colonia non esiste ancora l'Inquisizione, vengono inviati a Lisbona dove una donna è arsa viva. E' la premessa per l'istituzione dell'Inquisizione anche a Goa, nel 1560 (a richiederla a gran voce è Francesco Saverio). Orta riesce probabilmente a ingraziarsi l'inquisitore Aleixo Dias Falcão, appena arrivato nell'isola; rassicurato dalla fama del dottore e dai suoi protettori altolocati, nel 1563 egli concede l'imprimatur alla pubblicazione di Colóquios dos simples. Egli ignora che in quel momento Garcia de Orta è già nella lista dei sospetti: nel 1561 a Lisbona è stato arrestato un suo nipote; rilasciato dopo lunga detenzione, ha fatto il nome dello zio e l'Inquisizione portoghese ha aperta un'inchiesta su di lui. Falcão viene a trovarsi in una situazione imbarazzante che forse spiega perché, fino alla morte di Gracia de Orta, avvenuta nei primi mesi del 1568, questi venga lasciato in pace. Ma pochi mesi dopo, sua sorella Catarina è nuovamente arrestata, processata, costretta alla confessione e bruciata viva in un autodafé; sottoposta a tortura, ha denunciato anche il fratello. Se il dottore è ormai irraggiungibile, non lo sono né le sue spoglie né la sua opera. Nel 1572 gli viene intentato un processo postumo, in cui è assolto; ma, processato nuovamente nel 1580, viene condannato: l'Inquisizione ordina di esumare il cadavere e di gettarlo alle fiamme insieme a tutte le copie reperibili dei Colóquios. Il suo nome diventa maledetto e la sua opera proibita. Per una sintesi della vita, si rimanda alla sezione biografie. Dialoghi sui semplici e le droghe dell'India In questo modo rischiò di scomparire l'opera che segna il primo incontro tra la botanica europea e le piante indiane: Colóquios dos simples e drogas e coisas medicinais da Índia, "Dialogo sui semplici, le droghe e la materia medica dell'India", che come ho anticipato Garcia de Orta pubblicò a Goa nel 1563. Era il frutto di un trentennio di studi ed esperienze sulla medicina, le spezie e le piante medicinali dell'India, anche se non sappiamo quando esattamente il medico portoghese abbia iniziato a scriverla. Quando venne data alle stampe, l'arte della tipografia era neonata a Goa, e il tipografo Ioannes de Endem commise tanti errori che per correggerli furono necessarie più di venti pagine di errata corrige, un record nella storia dell'editoria. Il libro è aperto dalla dedica al viceré Martim Afonso de Sousa, dall'introduzione di Dimas Bosque e da due poesie: una di un poeta locale non meglio noto, l'altra di Camões, la prima sua ad essere pubblicata: è una lirica encomiastica in cui il viceré è paragonato ad Achille e Garcia da Orta al centauro Chirone, suo maestro nell'arte medica e nella conoscenza delle erbe. Non mancano giochi di parole tra Orta, il cognome del dottore, e orta, che in portoghese significa giardino. Colóquio dos simples è un'opera originale da ogni punto di vista, a cominciare dalla lingua e dalla forma. Garcia de Orta decise di scriverla in portoghese, anziché in latino, una scelta che ne limitava la diffusione internazionale, ma allargava il pubblico potenziale dei lettori portoghesi ai non specialisti. La forma è quella del dialogo tra due personaggi: lo stesso Garcia de Orta e il dottor Ruano, che si immagina laureato ad Alcalá e appena giunto a Goa con l'intenzione di saperne di più sulle piante medicinali e le spezie indiane. Occasionalmente intervengono anche altri personaggi, tra cui la schiava Antonia, assistente di Orta, Dimas Bosque e un medico indiano. Si ritiene generalmente che entrambi i personaggi principali siano proiezioni dell'autore: Ruano è Orta al momento del suo arrivo in India, un giovane studioso con una preparazione ancora libresca, ma desideroso di apprendere, Orta è sempre lui, ma vecchio e ormai esperto di cose indiane dopo trent'anni di vita e pratica medica in India. Suddiviso in 59 dialoghi, di cui il primo funge da introduzione, Colóquios dos simples tratta in ordine alfabetico una settantina di sostanze medicamentose o semplici, 56 delle quali vegetali; si aggiunge qualche prodotto animale (l'ambra, il benzoino, l'avorio, le perle) o minerale (i diamanti e le pietre preziose). Molte sono allo stesso tempo familiari e esotiche: percorrendo la via delle spezie, raggiungono l'Europa da secoli, sono oggetto del commercio più redditizio (e i portoghesi sono qui proprio per assicurarsene il monopolio), ne parlano gli autori antichi, a cominciare da Dioscoride, Plinio e Galeno, oppure gli scrittori arabi. Tuttavia quelli che arrivano nelle botteghe degli speziali e nelle cucine dei ricchi sono semi, foglie, cortecce, radici essiccate; delle piante in sé, si sa poco o nulla. Orta è perfettamente consapevole di essere praticamente il primo studioso europeo ad averle viste nelle loro condizioni naturali; e, benché conosca bene i classici, proclama che la loro autorità viene meno di fronte all'esperienza diretta: "Inutile cercare di intimorirmi con Dioscoride o Galeno, io dico solo la verità e ciò che so". Altrettanta indipendenza di pensiero dimostra verso i botanici contemporanei, che in Europa discettano da lontano di ciò che non hanno mai visto. Dunque, anche se in Europa di molte piante si conosce il nome o i prodotti, Colóquios dos simples è un'opera di novità assoluta. Ovviamente ci sono le spezie e le sostanze aromatiche note fin dall'antichità e citate dagli autori classici: cannella, cardamomo, chiodi di garofano, zenzero, noce moscata, pepe, aloe, canfora, calamo aromatico, incenso, mirra; quelle che avevano raggiunto l'Europa solo nel Medioevo, di cui parlavano le fonti arabe: curcuma, galanga, sandalo, tamarindo; ma in molti casi, soprattutto per i frutti, quella di Garcia de Orta è la prima trattazione: carambola, giuggiola, mangostano, jackfruit, litchi, cocco delle Maldive, mango, neem. E anche quelle apparentemente note finalmente escono dalla leggenda e dal sentito dire. Ogni dialogo tratta una singola sostanza, o al più un gruppo di sostanze affini, e segue uno schema ricorrente, che possiamo esemplificare con la prima ad essere discussa, Aloe socotrina (Dialogo 2), forse da identificarsi con Aloe perryi Baker. Si inizia con il nome in varie lingue: prima latino e greco, quindi arabo, diverse lingue indiane, spagnolo, portoghese, turco, persiano. Si prosegue con la provenienza: è coltivata in vari luoghi, ma la migliore viene da Socotra. Seguono informazioni sul suo commercio, correggendo la falsa credenza che cresca ad Alessandria, dovuta al fatto che, prima che i portoghesi aprissero la via diretta con le Indie, la via delle spezie faceva capo a quel porto. A questo punto Orta ne discute l'uso medico, riportando sia quanto ne dicono le fonti arabe sia quanto ha appreso da altri medici sia ancora ciò che egli stesso ha sperimentato sui suoi pazienti. La pianta non viene descritta (e questa è l'eccezione, non la regola), ma se ne analizza il sapore e l'odore. Infine si discutono gli effetti collaterali, sui quali, in base alla sua esperienza, Orta si trova in accordo con Avicenna, e in disaccordo con Mesuè (ovvero Yuhanna ibn Masawayh). Nei dialoghi si inseriscono ogni sorta di digressioni, con informazioni sulla geografia, i popoli, i commerci, e aneddoti curiosi. Per la storia della medicina, è di particolare interesse il dialogo 17, in cui, a proposito del Costus, Gracia de Orta dà la prima descrizione clinica del colera. Era una malattia nuova per i medici portoghesi, che non sapevano come curarla; Orta raccolse informazioni sulle cure e le erbe usate dai medici locali, rivolgendosi anche ai loro pazienti portoghesi, visto che i medici indiani era poco inclini a svelare i segreti professionali, e le provò sui suoi pazienti, ottenendo risultati molto migliori di quelli dei colleghi. Eseguì anche un'autopsia su una delle vittime, la prima praticata in Asia da un medico europeo. Traduzioni, rifacimenti, plagi e giardini Pubblicati nella remota Goa in un'edizione infarcita di errori tipografici, in una lingua periferica e condannati all'oblio dall'Inquisizione, nonostante la loro importanza i Colóquios dos simples hanno rischiato di sparire dalla storia della scienza. Libro rarissimo, è stato preservato in meno di venti copie, nessuna delle quali si trova a Goa. Ma prima della condanna, qualcuna aveva fatto in tempo ad arrivare nelle biblioteche portoghesi. Appena un anno dopo la pubblicazione, una capitò nelle mani di Carolus Clusius, che stava visitando la penisola iberica come accompagnatore di un giovane Fugger. Capì immediatamente la sua importanza e decise di tradurlo in latino, la lingua internazionale della scienza. Tornato nelle Fiandre, lo pubblicò ad Anversa per i tipi di Plantin con il titolo Aromatum, et simplicium aliquot medicamentorum apud Indios nascentium (1567). Come spiega lo stesso Clusius nell'introduzione, non si tratta di una traduzione integrale, ma di un compendio e in un certo senso di un rifacimento: "Ho tradotto i Colloqui in latino, quindi li ho ridotti in epitome, scrivendo ogni capitolo in modo individuale e in un ordine più adatto di quello originale, espungendo diversi argomenti che non giudico importanti". In particolare, Clusius elimina la forma dialogica e trasforma il libro in un trattato; scarta le digressioni non rilevanti per la botanica e la medicina; aggiunge un indice dei nomi e le referenze bibliografiche degli autori citati; inoltre, per quanto riguarda l'origine geografica e le virtù medicinali delle piante, integra quanto più possibile il testo con notizie ricevute da altri informatori. Insomma, un libro tutto diverso, e decisamente più rispondente agli standard accademici; senza parlare dell'edizione: non c'è raffronto possibile tra la terremotata edizione dell'apprendista tipografo Joannes de Endem e la curatissima edizione plantiniana, corredata anche da una quindicina di xilografie. Non stupisce dunque che a circolare non sia stata l'edizione originale, ma l'epitome di Clusius; il botanico fiammingo continuò a lavorarci per tutta la vita, pubblicandone cinque edizioni successive, costantemente riviste e ampliate, e incluse quella finale nella sua ultima opera, Exoticorum libri decem (1605). Risalgono anche al testo di Clusius le traduzioni in lingue moderne, come quella italiana precoce di Briganti (1589). E' invece almeno in parte un rifacimento del testo originale di Orta il Tractado de las drogas y medicinas de las Indias Orientales del medico portoghese Cristóvão da Costa, più noto con il nome spagnolo Cristobal Acosta, pubblicato in lingua spagnola nel 1567. Acosta era vissuto a lungo in India e aveva conosciuto di persona Garcia de Orta. Anch'egli riorganizzò la struttura dei Colóquios, ne corresse gli errori, corredò il testo di illustrazioni e aggiunse la trattazione di semplici non contemplati nell'originale; ma il Tractado, in modo meno trasparente del lavoro di Clusius, non si presenta come un'epitome dei Colóquios, ma come un'opera a sé che "verifica" quanto scritto da Orta, come enuncia il sottotitolo: "Trattato delle droghe e delle medicine delle Indie Orientali [...] di Cristobal Acosta, medico e chirurgo che le vide con i suoi occhi: nel quale si verifica molto di ciò che è stato scritto dal dottor Garcia de Orta". Ecco perché molti commentatori parlano esplicitamente di plagio. In ogni caso, grazie a Clusius (che tradusse in latino ed incluse in Exoticorum libri decem anche il testo di Acosta) l'opera e il nome di Garcia de Orta furono conosciuti dai botanici europei, andando a costituire una fonte imprescindibile per gli studiosi successivi. Per leggere il testo originale, tuttavia, bisognò attendere il 1872 quando ne fu stampata la prima edizione moderna, che lo riproduce pagina per pagina ma corregge silenziosamente gli errori tipografici, e quindi non è un facsimile. Seguì tra il 1891 e il 1895 la prima edizione critica commentata. Ormai i tempi erano cambiati e il marrano Garcia de Orta poteva essere riconosciuto come una gloria nazionale. Nel 1998, in occasione dell'Expo di Lisbona, nel Parque das Nações è stato creato il Jardim Garcia d'Orta che ospita cinque giardini tematici con ecosistemi delle zone toccate dai navigatori portoghesi nell'età delle scoperte: la foresta temperata di Macao e dell'isola di Coloane; la vegetazione di Goa, dominata dai palmizi; la foresta tropicale umida di São Tomé e Príncipe; la flora della Macaronesia (Madera, Azzorre e Canarie); la flora semidesertica e le savane della costa orientale dell'Africa. Un piccolo giardino con lo stesso nome si trova anche a Panjim, la capitale del distretto nord di Goa. A rendere omaggio a Orta i botanici avevano pensato da un pezzo, dedicandogli successivamente tre generi: Garcinia, stabilito da Linneo nel 1753; Garciana, creato dal conterraneo Loureiro nel 1770 (oggi sinonimo di Phylidrum); Horta, stabilito dal brasiliano Vellozo e pubblicato nel 1829 (oggi sinonimo di Clavija). L'unico valido è dunque quello linneano; ma poiché Garcia da Orta deve condividerlo con un altro dedicatario, per saperne di più dovete aspettare il prossimo post. Nel 1978, l'astronomo russo Nikolaj Stepanovič Černych scopre un nuovo asteroide della fascia principale; decide di battezzarlo 3195 Fedchenko in onore di una eccezionale famiglia di scienziati: l'esploratore, glaciologo, zoologo e antropologo Aleksej Pavlovič Fedčenko; sua moglie, la botanica Ol'ga Aleksanderovna Fedčenko; e il figlio di entrambi, Boris Alekseevič Fedčenko, anch'egli botanico. Tutti e tre furono scienziati eminenti, anche se la figura più affascinante è probabilmente Ol'ga, coraggiosa compagna d'avventura del marito prima, tenace curatrice del suo lascito dopo l'improvvisa morte di lui, ma soprattutto grande botanica, la prima donna a studiare le piante in modo professionale nel suo paese, esperta di fama mondiale della flora del Turkestan. Esploratori della ricca flora dei monti dell'Asia centrale, madre e figlio sono ricordati anche da numerosi eponimi: fedtschenkoi o fedtschenkoanus in onore di Boris, fedtschenkoae o più spesso olgae in onore di Ol'ga, che è anche celebrata dall'unico genere valido dedicato al trio: il genere Olgaea, che raggruppa una quindicina di specie di grandi cardi asiatici. Una coppia nella vita e nella scienza Nella Russia degli zar, l'Università era preclusa alle donne. Tuttavia Ol'ga Aleksandrovna Armfeld (1845-1925) poté giovarsi di un ambiente familiare eccezionalmente aperto e stimolante. Suo padre, Aleksandr Osipovič Armfeld, discendente da una famiglia di origine tedesca, era uno stimato professore di medicina legale all'Università di Mosca, e dal 1838 svolgeva anche il ruolo di ispettore dell'Istituto Nikolaevskij, una scuola secondaria per ragazze di buona famiglia che preparava all'insegnamento. La madre Anna Vasilievna Dmitrovskaja, che a sua volta era stata educata nel famosa scuola femminile Ekaterinskij, era l'animatrice di un frequentatissimo salotto, uno dei centri della vita artistica e culturale della città, con ospiti del calibro di Gogol', Lermontov e Lev Tolstoj. Insieme alle sorelle, Ol'ga (era la terza di una nidiata di ben nove tra figli e figlie) inizialmente venne educata in casa, ma nel 1857, a dodici anni, iniziò a frequentare l'Istituto Nikolaevskij, concentrandosi soprattutto sulle lingue straniere, la musica, il disegno e la pittura. Nel curriculum le scienze naturali, troppo "maschili", non erano previste, ma Ol'ga le scoprì e se ne innamorò durante i soggiorni estivi nella tenuta di famiglia a Možajsk. Incominciò a collezionare minerali, conchiglie, insetti e uova d'uccelli, e creò il suo primo erbario, così ben fatto che Nikolaj Kaufman lo incluse nella sua Moskovsakaja flora: un risultato notevole per una ragazzina sedicenne che stava studiando la botanica da autodidatta, traducendo le descrizioni dai grandi repertori stranieri. Nel 1864 Ol'ga si diplomò con il grado di candidat, e rimase al Nikolaevskij come insegnante di lingue. Lo stesso anno (all'epoca aveva diciannove anni) fu tra i fondatori della Società degli amanti delle scienze naturali, antropologia, etnografia (più tardi Società delle scienze naturali di Mosca), nota con la sigla OLEAE, un'associazione sorta attorno all'Università di Mosca tra i cui soci figuravano scienziati ma anche colti dilettanti. Incominciò anche a collaborare come volontaria al Museo di zoologia, aiutando a tenere in ordine le collezioni, traducendo in russo testi scientifici dal francese, dal tedesco, dall'inglese, curando la corrispondenza con studiosi europei e disegnando illustrazioni naturalistiche. Un altro dei fondatori dell'OLEAE era Aleksej Pavlovič Fedčenko (1844-1873), un giovane naturalista che si era appena laureato all'Università di Mosca. Aleksej era nato a Irkustsk, in Siberia, ma nel 1860 si era trasferito a Mosca, dove già viveva un fratello maggiore; insieme a lui, nel 1863 Aleksej fece la sua prima escursione scientifica nella regione dei laghi salati della Russia meridionale, appassionandosi di entomologia e raccogliendo una notevole collezione di imenotteri e ditteri, oggetto della sua prima pubblicazione. Dopo la laurea, entrò al Nikolaevskij come insegnante di scienze naturali. Ol'ga e Aleksej si innamorarono e divennero una coppia di scienza e di vita. Nel 1867 si sposarono. Nel frattempo, su richiesta del governatore del Turkestan Kaufman, l'OLEAE aveva varato una spedizione scientifica in quella regione recentemente annessa all'Impero russo e decise di affidarne la direzione a Aleksej Fedčenko, la persona più indicata per la vastità degli interessi che spaziavano dalla zoologia alla geologia all'antropologia. Ol'ga volle accompagnarlo, come membro ufficiale ma non pagato della spedizione. Era una decisione inaudita: non solo nessuna donna russa prima di lei aveva partecipato a una grande spedizione scientifica, ma il territorio da esplorare era particolarmente difficile e pericoloso. Largamente inesplorato, impervio, con una popolazione per lo più ostile agli occupanti russi, era anche un luogo strategico in cui si incontravano (e scontravano) le aspirazioni russe e quelle britanniche alla base del "grande gioco". I Fedčenko si prepararono seriamente alla missione visitando musei e collezioni in patria e all'estero. Il viaggio di nozze li portò in Finlandia e in Svezia. Infine, nell'ottobre del 1868 partirono per il Turkestan: Aleksej si sarebbe occupato della geografia, della zoologia, dell'antropologia; Ol'ga della botanica, delle carte e delle illustrazioni. All'epoca anche i collegamenti con quella remota regione erano difficili, e il viaggio in vettura di posta richiese più di cinquanta giorni. La spedizione vera e propria iniziò dalla valle dello Zeravshan (attuale provincia di Samarcanda nell'Uzbekistan), da pochissimo annessa alla Russia; i Fedčenko si muovevano a cavallo, accompagnati da una scorta di cosacchi. Dopo aver esplorato le aree attorno alle città di Tashkent e Samarcanda, si spostarono nel deserto del Kizilkum, il vastissimo bassopiano arido che separa i bacini dell'Amu Darya e del Syr Darya, al confine tra Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan. L'esplorazione continuò con i Monti Zeravshan, la fertile valle di Fergana e i Trans-Alaj, la catena dorsale che separa la valle dell'Alaj dal Pamir. I Fedčenko si muovevano tra scenari mozzafiato, con laghi, ghiacciai immensi e cime che superano i 7000 metri d'altitudine. Aleksej scoprì (e Ol'ga disegnò) la vetta maggiore del sistema, il Monte Kaufman (dal nome del governatore del Turkestan), poi Picco Lenin e oggi Picco Ibn Sina (7134 m sul livello del mare). Avrebbero voluto proseguire per il Pamir, il "tetto del mondo", che faceva sognare gli europei fin dal tempo di Humboldt. Ma dovettero tornare indietro: non aveano più provviste ("abbiamo fatto lo sciopero della fame per due giorni", annotò Aleksej). La spedizione era finita. Dopo tre anni esatti dalla partenza, nel novembre 1871 i Fedčenko erano di ritorno a Mosca con un immenso bottino; le sole piante raccolte da Ol'ga erano più di 1500, con molte specie nuove per la scienza. Iniziava il lavoro per la pubblicazione dei risultati. Nel dicembre 1871 Aleksej presentò alla Imperiale società geografica russa una relazione che destò sensazione per le informazioni inedite sul Pamir. Grande interesse fu suscitato anche dal padiglione dedicato al Turkestan, allestito dai Fedčenko nel 1872 per l'Esposizione politecnica panrussa di Mosca. Subito dopo, i coniugi partirono per un viaggio di studio in Europa occidentale. La prima tappa fu la Francia, quindi Lipsia, dove a Aleksej fu offerto un lavoro nel laboratorio dell'Università e Ol'ga seguì lezioni di botanica. Proprio a Lipsia, a dicembre, nacque l'unico figlio della coppia, Boris. Nell'estate, con il neonato si spostarono a Heidelberg e quindi in Svizzera, dove Aleksej intendeva studiare i ghiacciai per prepararsi a una nuova spedizione nel Pamir. Il 2 settembre 1873, accompagnato da due guide locali, Aleksej mosse da Chamonix per raggiungere il ghiacciaio del Gigante. Proprio mentre si trovavano sul ghiacciaio, il tempo peggiorò all'improvviso e Fedčenko ebbe un malore. Le guide, piuttosto inesperte e a loro volta esauste, decisero di lasciarlo a se stesso e scesero in cerca di soccorsi. Quando questi arrivarono, lo trovarono già morto. Ol'ga era invece convinta che fosse ancora vivo, e che se le autorità locali avessero inviato un medico, avrebbe potuto essere salvato. Al momento della morte, Aleksej Pavlovič aveva 29 anni. Fu sepolto a Chamonix e sulla sua tomba Ol'ga fece collocare una lapide con l'epigrafe "Dormi, ma le tue fatiche non saranno dimenticate". Vedova, madre, ma soprattutto botanica! Subito dopo la mesta cerimonia, Ol'ga ritornò a Mosca con il piccolo Boris. Negli anni successivi, una serie di sventure colpì la famiglia Armfeld; la più dolorosa fu l'arresto della sorella minore Natal'ja, impegnata nel movimento populista, seguito dalla deportazione in Siberia e dalla morte. Le condizioni economiche di Ol'ga Fedčenko peggiorarono, e la donna fu costretta a mantenere se stessa e il figlio con una modesta rendita. Ancora nel 1873, pubblicò il suo primo lavoro: la traduzione di Sketch of the geography and history of the Upper Amu-Daria di Henry Yule, con le note di Aleksej. Un lavoro eccellente che le guadagnò una medaglia della Società Geografica. Molto successo godettero anche i suoi disegni e le sue vedute dei monti del Turkestan, Nonostante le difficoltà personali, Ol'ga si era data un compito sacro: assicurare la catalogazione, lo studio e la pubblicazione dei materiali raccolti durante la spedizione in Turkestan. Aleksej aveva fatto in tempo solo a scrivere Viaggio in Turkestan (che fu pubblicato nel 1875). Nella Russia di fine Ottocento, era impensabile che una donna dirigesse un lavoro così impegnativo e così costoso. Tuttavia il presidente dell'OLEAE riuscì a convincere il governatore Kaufman che la signora Fedčenko era l'unica a poter garantire il successo dell'impresa; ufficialmente, a curare la pubblicazione fu un comitato editoriale ad hoc, ma Ol'ga ne faceva parte ed era lei a coordinare tutte le attività e a corrispondere con i diversi autori coinvolti nel progetto. Solo grazie al suo impegno e alla sua perseveranza, tra il 1874 e il 1902 uscirono i venti volumi dedicati alla spedizione, con le descrizioni della geografia, della geologia, della flora e della fauna della regione. I volumi dedicati alle piante si devono a Ol'ga Fedčenko, che ormai era una botanica internazionalmente riconosciuta. In questi anni, si occupò anche dell'erbario dell'Orto botanico dei farmacisti di Mosca e pubblicò una catalogo dei muschi dell'Orto botanico di San Pietroburgo. Ma Ol'ga aveva ancora un sogno: tornare in Pamir e riprendere quel viaggio interrotto. Per tornare sul campo dovette aspettare quasi vent'anni, fino al 1891. Ora accanto a lei c'era un nuovo compagno: suo figlio Boris, che si era appena iscritto all'Università di Mosca dove studiava botanica. Il loro primo viaggio, tra il 1891 e il 1892, li portò negli Urali sudoccidentali, una regione con caratteristiche geologiche e una flora molto varia, dalle comunità delle steppe a quelle di alta montagna. L'anno dopo erano in Crimea, e quello successivo nel Caucaso. Nel 1897 (adesso Boris era assistente all'Università di Mosca) madre e figlio andarono nel Tian Shan. Ol'ga trascorse i due anni successivi a studiare le collezioni degli orti botanici e degli erbari dell'Europa occidentale, inclusi quelli di Parigi, Berlino e Londra, mentre Boris veniva assunto come botanico principale dell'Imperiale orto botanico di Pietroburgo. Finalmente, nel 1901 i Fedčenko poterono intraprendere la sognata esplorazione del Pamir. A cinquantacinque Ol'ga ritrovava i paesaggi che l'avevano affascinata quando era una giovane donna. La regione era ancora largamente inesplorata e sottoposta all'occupazione militare, ma era divenuta meno irraggiungibile, grazie alla ferrovia che ora arrivava a Tashkent. La spedizione durò cinquantadue giorni e li portò fino al confine dell'Afghanistan. Ol'ga cavalcò per intere giornate, riposandosi il minimo indispensabile, e sostentandosi con tè e pane secco. I risultati della spedizione furono pubblicati da Ol'ga Fedčenko in Flora Pamira (1903-1905) e Definizione delle piante del Pamir (1910). A quattro mani con Boris è l'imprescindibile Conspectus Florae Turkestanicae (1913), pubblicato contemporaneamente in russo e in tedesco, che copre 4145 specie. Adesso Ol'ga viveva con suo figlio a San Pietroburgo, dove dal 1905 Boris era diventato capo dell'erbario (il cui fiore all'occhiello erano proprio le collezioni dei Fedčenko), ma soggiornava spesso nella tenuta degli Armfeld a Možajsk. Qui, a partire dal 1895, madre e figlio avevano creato un eccezionale orto botanico privato, chiamato Ol'gino: era un giardino di acclimatazione, dove coltivavano e studiavano le piante raccolte durante le spedizioni; erano anche molto generosi nel distribuirne i semi ad altri orti botanici. Le piante preferite di Ol'ga erano le Iris, gli Allium e gli Eremurus. Nel 1906 Ol'ga divenne membro corrispondente dell'Accademia delle Scienze di San Pietroburgo: la seconda donna, e la prima naturalista, ad ottenere questo onore. Seguirono ancora due viaggi nell'amato Turkestan, sempre con Boris, uno nel 1910 e l'altro nel 1915. Alla vigilia della guerra, nel corso del suo ultimo viaggio in Europa, visitò anche l'Italia e erborizzò nei dintorni di Napoli. Nonostante la salute declinante e i rovesciamenti politici, rimase attiva fino alla morte nel 1921. Aveva appena fatto in tempo a pubblicare il suo sessantaduesimo lavoro, una monografia sull'amato genere Eremurus. Una sintesi della vita della prima botanica professionista russa nella sezione biografie. Per concludere, qualche riga su Boris Alekseevič Fedčenko, a sua volta uno dei più importanti botanici della sua generazione. Come ho già detto, nel 1902 era stato nominato curatore dell'erbario dell'Orto botanico di San Pietroburgo; gli fu affidata anche la direzione della rivista dell'Istituto, Bulletin of the Imperial Institute. Nel 1908, insieme al micologo A. A. Elenkin e al botanico A. F. Flerov, iniziò a pubblicare una rivista indipendente, Journal Russe de Botanique, che uscì fino al 1915, quando fu costretto a chiudere in seguito allo scoppio della Prima guerra mondiale. Sempre con Flerov, tra il 1908 e il 1910 pubblicò Flora Evropejskoj Rossii ("Flora della Russia europea"), che contiene 3.542 nuove specie, e una flora dell'Oka. Questi volumi furono criticati da alcuni colleghi per le descrizioni essenziali; era una scelta voluta, per mantenere loro un formato tascabile, che li rese un bestseller tra appassionati e escursionisti, Negli anni '20, Fedčenko fu impegnato in escursioni sul campo nella Russia asiatica, grazie alle quali poté completare Flora Asiatskoj Rossii "Flora della Russia asiatica" (1912-1924), ancora con Flerov. Nel 1931, quando l'Orto botanico e il Museo Botanico di Leningrado vennero fusi per creare l'Istituto Komarov, sotto la direzione dello stesso Vladimir Komarov, Fedčenko lo sostituì come editore capo della grandiosa Flora dell'Unione sovietica, di cui curò diversi volumi fino alla sua morte nel 1947. Olgaea, un ritratto vegetale? Aleksej Pavlovič Fedčenko era soprattutto uno zoologo ed è onorato dall'epiteto fedtschenkoi (la barbara grafia si deve alla trascrizione tedesca del cirillico) di alcune specie di animali; come geografo e glaciologo, a ricordarlo è soprattutto il ghiacciaio Fedčenko, il maggiore del Pamir, anzi il più grande al di fuori dei Poli, scoperto nel 1878. Le numerose piante con nome specifico fedtschenkoi o più raramente fedtschenkoanus sono invece dedicate a suo figlio Boris. Probabilmente la più famosa è Kalanchoe fedtschenkoi, una specie malgascia che nel 1915 fu dedicata dallo scopritore Perrier de la Bâthie al "sapiente e gentile dottor Fedčenko dell'Orto imperiale di San Pietroburgo". Nel 1941 Kudrjasev gli dedicò inoltre il genere Fedtschenkiella, oggi sinonimo di Dracocephalum. Moltissimi onori sono giustamente andati a sua madre Ol'ga Armfeld Fedčenko, una grande botanica di fama europea. Il primo omaggio venne nel 1878 da Regel, il botanico tedesco che dirigeva l'orto botanico di San Pietroburgo, con Rosa fedtschenkoana, una bellissima specie nativa dalle regioni coraggiosamente esplorate da Ol'ga e Aleksej. Nel 1882 replicò con il genere Fedtschenkoa, oggi sinonimo di Strigosella. La maggior parte delle piante che la ricordano hanno però una denominazione basata sul suo nome personale: sono un centinaio le specie di trenta famiglie diverse che portano in suo onore l'eponimo olgae. Nella maggior parte dei casi, si tratta di piante delle steppe e delle montagne dell'Asia centrale, da lei scoperte nel corso dei suoi viaggi. Tra di esse, non poteva mancare Eremurus olgae, un altro omaggio di Regel. Non fanno eccezione alcune specie del genere Olgaea, omaggio postumo di M. M. Ilijn (1922). Questo piccolo genere di cardi della famiglia Asteraceae comprende infatti una quindicina di specie distribuite tra l'Asia centrale, l'Himalaya e le aree temperate dell'Asia orientale; ma il loro territorio di elezione, il centro di diversità, sono proprio le impervie montagne dell'antica regione del Turkestan, oggi divisa tra varie repubbliche. Sono erbacee perenni piuttosto imponenti, assai ramificate e piuttosto spinose, con fiori viola o blu che ricordano quelli dei carciofi, adattate a resistere all'aridità e a condizioni climatiche estreme, con inverni glaciali ed estati torride. Sono piante bellissime e austere, che credo non sarebbero spiaciute alla tenace e coraggiosa dedicataria, di cui potrebbero anche essere un occulto ritratto vegetale. Qualche approfondimento nella scheda. Nel 1805, nel momento di massima ascesa dell'astro napoleonico, lo zar Alessandro I e i suoi consiglieri guardano a Oriente. E' in questo contesto che, con enorme spesa, parte per la Cina un'elefantiaca ambasceria, nella speranza di impressionare i cinesi e di strappare condizioni più favorevoli per il commercio russo. Sarà un disastro: l'ambasciatore Jurij Golovkin e il suo seguito non vanno oltre Urga (oggi Ulan-Bator), capitale dello stato tributario della Mongola. A fermare il conte Golovkin, esattamente come lord Macartney dodici anni prima e lord Amherst dieci anni dopo, il rifiuto di eseguire il kotow, l'umiliante cerimonia della prosternazione al figlio del Cielo. Dal punto di vista scientifico, però, le cose vanno diversamente. I numerosi studiosi che accompagnano l'ambasceria, non potendo proseguire per la Cina, si sparpagliano per la Siberia e fanno incontri inaspettati: Julius Klaproth getta le basi per una brillante carriera di orientalista; lo zoologo Mikhail Adams guida una spedizione nella Siberia orientale, risale la Lena e scopre il primo esemplare intatto di mammut; il botanico Johann Redowsky vorrebbe andare in Kamčatka ma ad attenderlo c'è la nera signora. Anche per Joseph Rehmann, il medico della spedizione, il viaggio non è inutile: si impegna nella vaccinazione antivaiolosa, studia le acque termali, il commercio del rabarbaro e del muschio bianco e alcune erbe medicinali siberiane; ma soprattutto, incontra gli ospitali buriati e i loro medici-lama, depositari della tradizione medica tibetana. Un'esperienza fondamentale che lascerà un'impronta nella sua futura attività terapeutica. Tra le erbe usate nella medicina tibetana (e cinese) c'è anche Rehmanniae radix, ovvero la radice essiccata di Rehmannia glutinosa. Dunque la dedica di questo genere a colui che fu uno dei primi ad interessarsi di questa tradizione medica risulta assai opportuna. Russia e Cina, l'incontro atteso che non ci sarà Nei primi anni del regno di Alessandro I, la Russia incominciò a guardare ad Oriente, anche come reazione all'espansione francese, che stava erodendo la sfera d'influenza russa nell'Europa orientale. Insieme alla spedizione Krusenstern e al contestuale invio di una delegazione diplomatica in Giappone (ne ho parlato qui), il terzo tassello della politica orientale russa fu una grande ambasceria in Cina, che nelle intenzioni dello zar e dei suoi consiglieri avrebbe dovuto ridisegnare totalmente le relazioni diplomatiche e commerciali tra i due paesi. Il vecchio trattato di Khiakta, che prevedeva che tutti i commerci sino-russi transitassero da questo posto di frontiera e un'unica carovana di mercanti raggiungesse Pechino ogni tre anni, stava ormai stretto alla Russia, che ora controllava l'intera Siberia orientale e aveva appena creato promettenti avamposti in Alaska. Il ministro del Commercio Nikolaj Rumjancev e il vice ministro degli Esteri Adam Czartoryski fissarono obiettivi molto ambiziosi: la libera navigazione sul fiume Amur, che avrebbe assicurato un facile collegamento tra Irkutsk e il golfo di Okhotsk; una sede diplomatica permanente a Pechino; una seconda stazione commerciale in Mongolia, sul fiume Buktharna; l'autorizzazione a commerciare direttamente nel porto di Canton, senza passare attraverso intermediari britannici. Ancor meno realisticamente, speravano che la Cina concedesse ai Russi l'apertura di una via commerciale che, attraverso il Tibet, raggiungesse l'India; tutto politico era poi l'obiettivo di riaprire il paese ai gesuiti. Czartoryski credeva fermamente nel progetto, e, consapevole delle difficoltà, lesse avidamente le relazioni della missione Macartney (fallita nel 1793 a causa del rifiuto del diplomatico britannico di eseguire il rituale kotow). Nella tradizione illuminista, volle che l'ambasceria fosse anche una spedizione scientifica, con la partecipazione di un nutrito gruppo dei studiosi scelti dall'Accademia delle scienze: tra di essi, l'astronomo Friedrich Theodor von Schubert, lo zoologo Michail Adams, il botanico Johann Redowsky, il mineralogista Lorenz von Pansner e l'orientalista Julius Klaproth. L'Accademia fissò anche gli obiettivi scientifici: quelli del botanico Redowsky prevedevano tra l'altro la raccolta di tutte le informazioni possibili sulla coltivazione del tè e l'acquisto di pianticelle, nella speranza di importare la coltivazione in Russia. Al gruppo degli scienziati, con il quale collaborò in vari modi, va aggiunto il medico ufficiale dell'ambasceria, il tedesco Joseph Rehmann. Come responsabile scientifico, Czartoryski nominò un connazionale, il conte polacco Jan Potocki (l'autore del celebre romanzo "gotico" Manoscritto trovato a Saragozza), uomo di cultura enciclopedica, curioso di tutto, che, come esperto viaggiatore, si ritagliò un ruolo di consulente del capo ufficiale della missione, il conte Jurij Golovkin. Superficiale, frivolo, arrogante, privo di tatto, costui era la classica persona sbagliata nel posto sbagliato. Nato in Svizzera da una famiglia immigrata, allevato a Parigi e imparentato con l'alta nobiltà di mezza Europa, non parlava una parola di russo e si circondava di aristocratici e profittatori del suo stesso stampo. Quando Potocki lo invitò a leggere gli scritti dei gesuiti e dei diplomatici che erano stati in Cina, rispose che non era necessario, perché "sotto qualsiasi cielo, non c'è nulla che valga di più di un buon cuoco e di vini pregiati". Contava di abbagliare i cinesi con "la magnificenza dell'equipaggio, il prestigio dello zar e il proprio talento" (le parole sono di A. Peyrefitte in L'impero immobile). L'ambasciatore pretese un seguito principesco che dilatò le spese (si calcola che la missione sia costata all'erario russo un milione di rubli) e il numero dei partecipanti, che superò le trecento persone. Pessima mossa, che nei cinesi non destò meraviglia ma sospetto. La notizia dell'enorme corteo, partito da San Pietroburgo nel maggio 1805, spinse l'interlocutore diretto dei russi, il wang di Urga (ovvero il principe tributario della Mongolia) a scrivere a Golovkin una serie di lettere in cui gli ingiungeva di ridurre il suo seguito a non più di settanta persone. Con un tira e molla tipicamente orientale, che costrinse la delegazione russa a sostare nei pressi di Khiakta per quasi tre mesi, alla fine i cinesi concessero una delegazione di centoventiquattro persone, a patto che l'ambasciatore si impegnasse formalmente ad eseguire il kotow. Il 18 dicembre il corteo russo varcò finalmente la frontiera cinese, salutato da fuochi d'artificio. Faceva così freddo che nelle tazze sulla superficie del tè appena versato si formavano cristalli di ghiaccio. I russi furono invitati a una festa all'aperto che si sarebbe tenuta due giorni dopo a Urga (l'attuale Ulan Bator). Golovkin si presentò accompagnato da una splendida cavalcata. Il wang lo condusse di fronte a un tavolo su cui ardevano incensi profumati, e lo invitò ad eseguire come lui la cerimonia del kotow. L'ambasciatore rifiutò: era disposto a prostrarsi di fronte all'imperatore, ma non a quel simulacro; sottoporsi a quel rito avrebbe significato equiparare lo zar di Russia, che egli rappresentava, a un vassallo della Cina, come lo stesso wang. Golovkin, mal informato dal suo servizio segreto, era convinto che si trattasse di un'alzata di ingegno del principe mongolo, e attese per venti giorni, in un clima glaciale da ogni punto di vista, che arrivasse la risposta ufficiale da Pechino. Che fu totalmente negativa: ai russi veniva ingiunto di sottomettersi, o di tornare indietro. A Golovkin e alla sua infreddolita compagnia non rimase che ritornare sui propri passi fino a Irkustk. L'imperatore Alessandro (da poco reduce dalla batosta di Austerlitz) non la prese bene: a Golovkin fu ordinato di rimanere in Siberia, e solo nell'autunno gli fu concesso di rientrare in Russia. Un trio di medici e naturalisti in cammino verso la frontiera Insomma, sul piano diplomatico il fallimento fu totale. Non così su quello scientifico. Per i giovani studiosi che accompagnavano la missione, si trattò di una importante esperienza formativa, che alcuni di loro non vollero interrompere dopo la conclusione della missione ufficiale. Ad esempio, Julius Klaproth, che aveva appena ventidue anni al momento della partenza e stava apprendendo il cinese da autodidatta, si giovò moltissimo degli insegnamenti degli interpreti dell'ambasciata; durante il viaggio attraverso la Siberia e nei tre mesi trascorsi a Khakta, incominciò a studiare le lingue locali, a raccogliere materiali etnografici e riuscì anche a procurarsi molti libri. Così, al suo ritorno a Pietroburgo, fu ammesso all'Accademia delle Scienze come associato e immediatamente spedito nelle regioni caucasiche recentemente annesse all'Impero russo per studiarne i popoli e le lingue. Negli anni successivi, divenne uno dei più eminenti orientalisti europei. Ancora più inattesi gli incontri che attendevano i due naturalisti e il medico ufficiale della spedizione: Michail Adams, Johann Redowsky e Joseph Rehmann. Quando fu scelto per la missione come zoologo, Adams aveva venticinque anni, ma aveva già esperienza di ricerca sul campo. Nato a Mosca, ma di lingua madre tedesca (il suo nome di nascita era Johann Friedrich Michael Adam), adolescente studiò presso l'Accademia medico-chirurgica di San Pietroburgo e ventenne partecipò alla spedizione nel Caucaso diretta da Apollo Musin-Puškin e dal maresciallo von Bieberstein (1800-02); oltre che uno zoologo, era anche un eccellente botanico. I suoi due compagni di avventura appartenevano all'entourage del conte Aleksej Razumovskij, alla cui raccomandazione dovettero probabilmente la nomina rispettivamente a botanico e medico dell'ambasceria. Johann Redowsky, ventottenne, era un tedesco del Baltico nato a Memel, in Lituania. Aveva studiato a Königsberg e a Jena, dove si era laureato in medicina. Nel 1799 si trasferì a Mosca (prendendo il nome russo Ivan Redovskij) e nel 1803 fu assunto da Razumovskij prima come assistente poi come curatore del suo giardino botanico privato; situato a Gorenki, non lontano da Mosca, all'interno dell'immensa tenuta di famiglia, e fondato appena nel 1798, nell'arco di pochi anni divenne il più importante dell'Impero russo. Sotto la gestione di Redowsky, anche grazie ai numerosi contatti con botanici europei, le collezioni crebbero rapidamente, come risulta anche dal primo catalogo, da lui redatto nel 1803, in cui sono elencate 2486 specie. Il ventiseienne Joseph Rehmann, discendente da una illustre famiglia di medici, era nato a Donaueschingen nel Baden-Württemberg, dove il padre era il medico personale dei principi Fürstenberg; aveva però studiato a Vienna, dove si era laureato in medicina nel febbraio 1802. Fresco di laurea, era stato assunto come medico personale da Andrej Razumovskij, l'inviato russo alla corte di Vienna (nonché mecenate di Beethoven e dedicatario dei "Quartetti Razumovsky") e lo aveva accompagnato a Mosca, dove era entrato al servizio della sua famiglia. Entusiasta della nomina, Rehmann si affrettò a presentare al Collegio dei medici una memoria in cui proponeva di affiancare alla missione una campagna di vaccinazione antivaiolosa, soprattutto nelle aree della Siberia in cui la "felice scoperta" non era ancora sufficientemente praticata. Il progetto fu approvato, anche se fu respinta la sua richiesta di un secondo medico che potesse sostituirlo durante la permanenza in Cina. Nel corso del viaggio di avvicinamento alla frontiera, che toccò successivamente Kazan, Ekaterinburg, Krasnojarsk e infine Irkutsk, secondo le istruzioni ricevute, Rehmann visitò puntigliosamente gli ospedali militari e incoraggiò le vaccinazioni, praticandole egli stesso dove i medici locali erano troppo tiepidi. Con Redowsky e Adams formò una squadra molto affiatata: mentre lui si dedicava soprattutto ai suoi compiti medici, i due naturalisti misero insieme una notevole collezione botanica; da Irkustk, tra settembre e ottobre, visitarono le rive del lago Baikal, dove Redowsky raccolse semi per Gorenki. Durante la lunga sosta nei pressi di Kiatka, Rehmann, oltre a interrogare i mercanti locali sul commercio del rabarbaro e del muschio bianco, fu impegnatissimo nelle vaccinazioni, con l'aiuto di un abile chirurgo militare di nome Petrov. Fu grazie a quest'ultimo, che ne parlava la lingua e se ne era già conquistata la fiducia, che il medico tedesco incontrò i Buriati, la popolazione di origine mongola che viveva (e vive tuttora) lungo la frontiera tra Russia e Cina intorno al lago Baikal. Al contrario dei russi, spesso diffidenti verso la vaccinazione, i Buriati - consapevoli delle devastanti conseguenze del vaiolo - l'avevano accolta con entusiasmo. Così, tra ottobre e dicembre 1805, Rehmann vaccinò personalmente 792 persone, di cui 91 russi e gli altri buriati. Come egli racconta nella sua relazione al ministero dell'Interno, per questi ultimi la vaccinazione era una festa collettiva: "Quando arriva il vaccinatore, tutti i candidati del circondario si raccolgono nella casa di uno dei lama o dei taisha [ovvero i capi della comunità], vestiti con i loro abiti più belli, le donne e le ragazze adornate con una quantità di coralli; allora tutti quelli che non hanno mai avuto il vaiolo, giovani e vecchi, sono vaccinati in massa [...]. Venire a partecipare a questa operazione salutare è per loro una festa!" E prosegue lodando l'ospitalità di questo popolo che si dimostra molto più saggio e civile dei russi: "I personaggi più considerevoli mi sono sempre venuti incontro a cavallo. Appena entravo in una jurta, mi offrivano latte, acquavite e una specie di tè che mescolano con grasso e sale. E ogni volta che mi sono recato al tempio del Lama, sono sempre stato ricevuto al suono della musica del servizio dei loro dei. E' impossibile lodare a sufficienza la premura, l'ospitalità e la dolcezza di carattere di questo popolo". Dai Buriati, come medico Rehmann aveva anche altro da imparare. Il buddismo era arrivato nella regione nella seconda metà del Seicento, grazie ad alcuni lama tibetani che insieme alla religione avevano importato i principi della medicina tibetana. Benché le basi teoriche rimontassero al Collegio di medicina dei monasteri di Lhasa e Labrang, i medici-lama buriati avevano saputo adattare la farmacopea tibetana alle condizioni locali. Come spiegarono a Rehmann, l'80% degli ingredienti usati nella regione del Baikal erano di raccolta locale; inoltre le medicine, che potevano comprendere anche 40 diversi ingredienti, tenevano conto del clima, della dieta e del metabolismo dei pazienti. Rehmann fu così affascinato dalla sapienza medica dei dottori buriati da invitare uno di loro, Tsultim Tseden, a venire a studiare all'Accademia medico-chirurgica di San Pietroburgo, un progetto che non si realizzò a causa della morte di Tsultim. Inoltre acquistò una farmacia portatile contenente 60 semplici, si informò delle loro proprietà presso i medici buriati e cercò di identificare le sostanze con l'aiuto del suo amico Redowsky. Sperava anche di introdurre la vaccinazione antivaiolosa in Cina, nonostante sapesse che i cinesi di Canton si erano opposti ai medici inglesi che la praticavano. Da bravo illuminista, contava di convincerli con argomenti razionali: scrisse e fece tradurre da uno degli interpreti un proclama in cui raccontava la storia della scoperta e della diffusione della vaccinazione in tutti i paesi della Terra. La spedizione continua: altri incontri inaspettati Anche il suo sogno, come quello di Golovkin, si infranse a Urga. I tre amici presero mestamente la via di Irkutsk insieme allo scornato ambasciatore. Lungo la strada, nel febbraio 1806, Rehmann studiò le acque minerali di Turkic, e, probabilmente con l'aiuto di Adams e Redovsky, la fauna ed la flora della regione circostante. Mentre una parte del corteo (tra cui una banda musicale al completo) riprendeva la via di Mosca, essi furono tra quelli che rimasero a Irkutsk con il seguito dell'ambasciatore, in attesa della primavera e di nuove istruzioni. Infine, dall'Accademia delle Scienze arrivò l'ordine di riprendere le ricerche: Adams avrebbe esplorato la Siberia orientale, per poi proseguire lungo la dorsale dei monti Stanovoy; Redowsky, accompagnato dal geodeta Ivan Kozevin, avrebbe dovuto raggiungere la Kamčatka dove si sarebbe unito ad alcuni membri della spedizione Krusenstern per un'ampia missione di tre anni nella penisola, lungo la costa pacifica, nelle Curili e a Sakhalin. Forse per farsi perdonare, l'ambasciatore Golovkin diede tutto il sostegno possibile a Redowsky, curando personalmente l'equipaggiamento di strumenti scientifici, polvere da sparo, denaro, merci da scambiare, doni per le popolazioni locali. Infine, il botanico fu pronto a partire a il 20 maggio. Secondo alcune fonti, Adams fece il primo tratto di strada con lui, ma è difficile pensarlo, visto che, dopo aver visitato le regioni di Nerčinsk e Tunkinskij, a giugno si trovava già a Jakustk, nella Siberia centrale. Fu qui che apprese che qualche anno prima presso la foce della Lena era stata rinvenuta la carcassa di uno strano animale conservato nel ghiaccio. Accompagnato da tre cosacchi, risali rapidamente il fiume, si recò sul posto e, anche se buona parte della carne nel frattempo era stata mangiata dai lupi o data ai cani, riuscì a recuperare lo scheletro quasi intatto e quasi 20 kg di peli del primo mammut rinvenuto intatto; spedito a San Pietroburgo, dove fu ricostruito da Tilesius, lo scheletro venne esposto nel gabinetto delle meraviglie dell'Accademia delle scienze, divenendone il reperto più celebre, con il nome di "mammut di Adams". L'anno successivo Adams scrisse un resoconto della spedizione e del ritrovamento, quindi terminò la sua carriera come professore di botanica presso l'Accademia medico-chirurgica di San Pietroburgo. Nel frattempo Redowsky, nella sua marcia di avvicinamento al Pacifico, esplorò la cresta di Aldan e la costa del Mare di Okhotsk, raccogliendo piante, pesci e campioni di minerali. Il 9 settembre era a Okhotsk, da dove spedì via mare il grosso delle attrezzature, intenzionato a raggiungere la Kamčatka via terra. All'inizio del 1807 si trovava a Gižiginsk, dove morì inaspettatamente l'otto febbraio. Sulla sua morte ci sono molte versioni: si sparse la voce che i locali, avendolo scambiato per una spia russa, lo avessero avvelenato con sublimato corrosivo; secondo altri, annegò mentre tentava di attraversare il fiume Gižiga; secondo Langsdorff, che avrebbe dovuto unirsi a lui in Kamčatka, si suicidò; altri ancora pensano a una malattia. L'unica certezza è che a soli trentun anni si spense una sicura speranza della botanica russa. Quanto a Rehmann, presumibilmente rimase con l'ambasciatore Golovkin fino all'autunno del 1806, visto che la sua relazione sulla campagna vaccinale è datata "Irkutsk, 25 settembre 1806". Tornato a Mosca, riprese i suoi doveri di medico della famiglia Razumovskij e aprì una piccola clinica privata, in cui sperimentava con alterno successo i rimedi appresi dai colleghi buriati e siberiani: la scorza del melograno come sostituto economico della corteccia di Cinchona; la Ballota lanata (oggi Panzerina lanata) come rimedio per l'idropisia associata a casi di cirrosi. Le sue esperienze in Siberia e in Mongolia sono anche alla base di una copiosa produzione di saggi: su un trattato cinese di ostetricia; sul commercio del rabarbaro e del muschio bianco; su un'epidemia di vaiolo bovino avvenuta i Siberia nel 1805-6. Il più interessante è indubbiamente quello dedicato alla farmacia portatile acquistata in Buriazia, con i nomi originali e traslitterati, un tentativo di identificazione (per circa il 50% dei semplici trattati) e informazioni su loro uso nella medicina tibetana. Si tratta del primo scritto occidentale dedicato a questa antica tradizione medica. Nel 1810, quando il suo patrono Aleksej Razumovskij fu nominato Ministro dell'Istruzione, Rehmann lo seguì a Pietroburgo. Poco dopo divenne uno dei medici personali dello zar Alessandro, che accompagnò in diversi viaggi all'estero. Nel 1817 fu nominato professore di farmacologia presso l'Accademia medico-chirurgica, dove ritrovò l'amico Adams. Più tardi divenne capo del servizio medico civile. Morì a San Pietroburgo di colera nel 1831. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Rehmannia, salute e bellezza in giardino La terminologia botanica ricorda in vario modo i tre amici. Ad Adams furono dedicati due diversi generi Adamsia, da Willdenow nel 1808 e da Steudel nel 1821, oggi rispettivamente sinonimi di Puschkinia (un genere creato proprio da Adams) e di Geum. E' ricordato però dall'eponimo di alcune specie, come il siberiano Rhododendron adamsii, che vive anche sulle sponde del lago Baikal. Redowsky fu invece ricordato da Chamisso, che dopo la sua morte pubblicò una parte delle sue raccolte botaniche, con il genere Redowskia, oggi sinonimo di Smelovskia. Lo ricordano però i nomi specifici di diverse piante, come Coriospermum redowskii, Erysimum redowskii, Rhododendron rodowskianum. L'unico ad essere omaggiato da un genere valido è dunque Joseph Rehmann, dedicatario di Rehmannia. La storia di questa dedica è anch'essa curiosa. Il primo a descrivere e nominare Rehmannia glutinosa, una specie molto importante della medicina tradizionale cinese, fu Joseph Libosch, medico personale dello zar Alessandro I, morto prima di poterla pubblicare (1824). Anni dopo il suo erbario e i suoi manoscritti furono esaminati da Friedrich Fischer e da Carl Anton Meyer, che pubblicarono genere e specie nel 1835. Entrambi medici dello zar, Libosch e Rehmann erano colleghi e sicuramente si saranno scambiati pareri medici e informazioni; ed è anche possibile che la radice di Rehmannia glutinosa, ovvero Radix Rehmanniae, sia una delle radici non identificate contenute nella piccola farmacia portatile buriato-tibetana. In ogni caso, la dedica di questo piccolo genere endemico cinese a un medico affascinato dalla tradizione medica cinese e tibetana è sicuramente azzeccata. Infatti Rehmannia glutinosa è una delle cinquanta erbe fondamentali della farmacopea cinese, che ne usa la radice, con proprietà antinfiammatorie e depurative. Nei nostri giardini, invece, da qualche anno è arrivata R. elata, spesso venduta con il nome un po' improprio "digitale cinese"; è una bellissima erbacea perenne semirustica con grandi fiori a campana rosa-porpora. In effetti, in passato il genere Rehmannia fu assegnato alla stessa famiglia e alla stessa tribù di Digitalis (famiglia Scrophulariaceae, tribù Digitalideae), ma non senza controversie; altri botanici infatti lo inclusero nelle Gesneriaceae. Più recentemente, sulla base delle analisi molecolari è stato trasferito nella famiglia Orobanchaceae, di cui costituisce uno dei soli tre generi non parassiti. Altre informazioni nella scheda. |
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November 2024
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