Doveva essere nata sotto una cattiva stella l'Ambasceria Amherst, che tra il 1816 e il 1817 visitò la Cina. Iniziata tra grandi aspettative, fallì i suoi obiettivi diplomatici per la caparbietà e l'orgoglioso nazionalismo tanto dei cinesi quanto dei britannici; i suoi risultati scientifici andarono letteralmente in fumo tra gli scogli dell'Indonesia. Eppure, per la prima volta un nutrito gruppo di occidentali poté percorre per mesi l'interno del Celeste Impero e le numerose narrazioni che diversi membri della spedizione pubblicarono al loro ritorno contribuirono a cambiare la percezione della Cina in Europa. Una la scrisse il medico e naturalista Clarke Abel, che, se perse tutti i frutti delle sue ricerche, si guadagnò almeno l'onore di dare il proprio nome ai generi Abelia e, indirettamente, Abeliophyllum. Primo disastro: mi spezzo ma non mi piego Nel 1815, la Gran Bretagna era un paese orgoglioso dei propri successi: aveva tenuto testa alla Francia rivoluzionaria e napoleonica; aveva sconfitto e imprigionato l'odiato Boney; era di fatto diventata l'unica grande potenza coloniale ai danni non solo della Francia, ma anche di Spagna e Olanda; le sue navi dominavano gli oceani e le sue merci invadevano i mercati. Ma non quello cinese, ancora e sempre chiuso all'esterno. Le uniche transazioni commerciali passavano dagli empori concessi agli occidentali a Canton (Guanghzou), a condizioni rigorosamente dettate dai cinesi. Una situazione sempre più mal tollerata dalla Compagnia delle Indie che, insofferente delle ingerenze del viceré di Canton, chiese al re d'Inghilterra di inviare in Cina una missione diplomatica ufficiale, per cercare di ottenere condizioni più favorevoli. Nell'entusiasmo delle recenti vittorie e certo di un risultato positivo, il governo britannico accettò la richiesta, tanto più che la Compagnia si sarebbe fatto carico delle spese. Venne organizzata una ambasceria in grande stile (tra diplomatici, marinai, soldati, vi parteciparono diverse centinaia di persone), capeggiata da lord Amherst, affiancato da Henri Ellis e da Thomas Stauton, che da ragazzo aveva preso parte alla prima missione diplomatica britannica in Cina, l'ambasceria Macartney. Fu consultato pure Banks, che vent'anni prima aveva collaborato alla preparazione di quella missione, e grazie a lui la spedizione assunse anche carattere scientifico. Fu così che il dottor Clarke Abel, che inizialmente avrebbe dovuto essere solo il medico della spedizione, ne divenne anche il naturalista ufficiale. Banks lo istruì personalmente sui suoi compiti, gli procurò libri e attrezzature e gli affiancò un abile assistente, il giardiniere Thomas Hooper, che da cinque anni lavorava a Kew ed era considerato un grande esperto nella cura e nella riproduzione delle piante. L'ambasceria lasciò l'Inghilterra l'8 febbraio 1816, a bordo di due navi da guerra: l'Alceste, comandata da Murray Maxwell, e la Lyra, comandata a Basil Hall. Dopo sei mesi di navigazione, con brevi scali a Rio de Janeiro, Giava e Hong Kong, giunse in Cina all'inizio d'agosto; i diplomatici sbarcarono alla foce del Fiume bianco (Pei Ho), da dove avrebbero proseguito per Pechino. Calcolando che la missione avrebbe richiesto parecchi mesi di trattative, Amherst diede appuntamento alle navi per la fine dell'autunno a Canton, dove contava di reimbarcarsi per il viaggio di ritorno. Maxwell e Hull ne approfittarono per esplorare il Mar Giallo, quasi sconosciuto agli europei. Visitarono il mare di Pogai, toccarono le coste occidentali della Corea e le isole Ryukyu; in entrambi i casi (si trattava di stati tributari della Cina) furono i primi europei a prendere contatto con le autorità locali, che ignorarono la proibizione cinese in tal senso. I due capitani poterono correggere molti errori delle carte; durante il viaggio furono anche raccolte collezioni naturalistiche rilevanti. Ma torniamo a Amherst e ai suoi; giunto a Pechino all'alba il 29 agosto, fu immediatamente convocato per essere ricevuto dall'imperatore al Palazzo d'estate. Deciso a non eseguire il kowtow, il tradizionale omaggio rituale, consistente nel piegarsi fino a toccare la terra con la fronte per nove volte, Amherst rifiutò la convocazione, dichiarandosi malato e provato dal viaggio notturno. Il kowtow, che implicava il riconoscimento della sovranità universale del Figlio del Cielo, era infatti ai suoi occhi lesivo dell'onore della Gran Bretagna. A sua volta, l'imperatore considerò il rifiuto dell'ambasciatore britannico un oltraggio irrimediabile e ordinò che gli stranieri partissero immediatamente. Dunque la missione diplomatica fallì ancora prima di cominciare. Non così quella scientifica. Per raggiungere Canton, la missione infatti attraversò buona parte della Cina orientale, muovendosi per lo più lungo il Grande Canale, in un lungo viaggio di oltre quattro mesi. Tranne brevi tratti, la delegazione si mosse via acqua. Era la prima volta che un gruppo consistente di occidentali visitava quelle regioni. Ovunque passassero, il solerte Abel osservava quale vegetazione spontanea e quali coltivazioni crescessero lungo le rive; approfittò di ogni sosta per esplorare la campagna alla ricerca di piante; raccolse piante e semi, altri ne acquistò (ad esempio, in un mercato fece incetta di varie specie di felci, vendute come piante medicinali). Lo affiancava l'abile Hooper, che accudiva le piante vive, seccava e impacchettava semi, spesso di specie e talvolta di generi sconosciuti. Ovunque, Abel è affascinato dalla bellezza e dall'esotismo della flora, tanto spontanea quanto coltivata: i loti che letteralmente ricoprono il lago Kunming presso il Palazzo d'estate o vengono coltivati in grandi vasi dove nuotano pesci rossi e dorati; il sorgo che cresce altissimo; le sofore (Syphnolobium japonicum) che ombreggiano le rive; il Ficus repens così rigoglioso da nascondere le mura della cittadella di Nan-Kuo; i boschi di querce e conifere; le piante nanizzate (noi, con parola giapponese, abbiamo imparato a chiamarle bonsai); le peonie mountan che giudica le piante più belle che abbia mai visto. Non disdegna comunque le verdure che vede negli orti (peperoncini, melanzane, zucche e cetrioli e l'immancabile Pe Tse, ovvero Brassica chinensis, l'ancora oggi popolarissimo pak choi; le arachidi, così comuni che la parte aerea è consumata come verdura), gli alberi da frutto, le piante industriali; lo interessano particolarmente quelle oleifere (ricino, sesamo e Camelia oleifera, di cui è il primo occidentale a segnalare l'uso). L'incontro decisivo, quello che l'avrebbe fatto entrare nella storia della tassonomia botanica, avviene sulle rive del lago Po-Yang, a sud est di Shangai, nei pressi del villaggio di Ta Koo Tang, dove l'ambasceria sosta dal 14 al 19 novembre, in attesa che cessino le piogge. Sono eleganti cespugli dai rami flessuosi; i fiori bianchi sono quasi sfioriti, ma rimane la bellezza dei calici rosati persistenti. Di lì a pochi anni, riceveranno il nome con il quale li conosciamo: Abelia chinensis. Il lungo tragitto si concluse giusto il giorno di capodanno (1 gennaio 1817), quando la delegazione raggiunse Canton, dove la attendevano le navi. In attesa della partenza per l'Inghilterra, Abel visitò Canton, si informò sulle tecniche di preparazione della Moxa (pratica tradizionale basata sulla combustione di polvere di Artemisia vulgaris) e fece incetta di piante, soprattutto nei celebri vivai Fati, sulla riva sud del fiume, a 3 miglia di Canton. C'erano anche pianticelle di Camellia sinensis, su cui Banks contava per avviare piantagioni di tè nelle colonie britanniche. Secondo disastro: mi spezzo e vado in cenere Il 23 gennaio 1817 l'Alceste e la Lyra salparono alla volta dell'Inghilterra, facendo rotta per Giava. Dopo aver toccato Manila (3 febbraio), il 17 nello stretto di Gaspar, l'insidioso braccio di mare che separa le isole indonesiane di Belitung e Banka, l'Alceste urtò uno scoglio sommerso; si produsse una vasta falla che rese inutile il lavoro delle pompe. Il capitano Maxwell fece imbarcare sulla scialuppa più grande Amherst e diresse la costruzione di una zattera che, insieme alle imbarcazioni più piccole, riuscì a portare in salvo marinai e passeggeri, sbarcandoli sulla vicina isola di Pulo Leat, insieme a una certa quantità di bagagli e provviste. Il tutto si svolse con professionalità e disciplina e, come da tradizione, Maxwell fu l'ultimo ad abbandonare la nave, all'alba del 19 febbraio. Un solo neo per il povero Abel: per ordine di "un nobiluomo dell'ambasceria", un marinaio svuotò il mare le casse che contenevano i 300 pacchi di semi tanto coscienziosamente raccolti e conservati da lui e Hooper e se ne servì per portare in salvo gli abiti di quel gentiluomo. Pulo Leat era in gran parte ricoperta da un'impenetrabile foresta di mangrovie e non sembrava in grado di sostentare per un luogo periodo un gruppo di circa 300 persone, soprattutto per la scarsità di acqua potabile. Maxwell ordinò al suo primo comandante, H.P. Hoppner, di dirigersi il più velocemente possibile a Batavia, insieme a lord Amherst e a una cinquantina di uomini, per chiedere soccorso; un viaggio che, comunque, tra andata e ritorno, avrebbe richiesto almeno nove giorni. Una squadra di marinai fu inviata a recuperare ciò che rimaneva sul relitto (comprese le collezioni di Abel), ma, priva di armi, dovette desistere alla vista di un gruppo di pirati malesi intenti al saccheggio. Mentre il problema dell'acqua veniva risolto scavando un pozzo, Maxwell dispose a difesa i superstiti cannoni dell'Alceste e fece costruire una palizzata attorno all'accampamento. Il 22 inviò una squadra armata per cercare di riprendere la nave, ma i pirati risposero appiccandole il fuoco. L'incendio divampò tutta la notte; le fiamme distrussero, tra l'altro, tutte le collezioni tanto pazientemente raccolte da Abel (non solo piante, ma anche animali, conchiglie, rocce, oggetti etnografici). All'alba del 26 febbraio i pirati tornarono in forze, a bordo di due praho e due canoe. Gli inglesi riuscirono a respingere l'attacco e ad affondare un praho. Ma nei due giorni successivi ne arrivarono altri e incominciarono a bombardare l'accampamento. Il 14 marzo nella baia c'erano ormai quattordici praho. Mentre si teneva un disperato consiglio di guerra, una nave apparve all'orizzonte; era la Ternate, una nave della Compagnia delle Indie armata con 16 cannoni, inviata da Batavia in risposta all'appello di Lord Amherst. I pirati batterono in ritirata. Trasportati a Batavia, dove intanto Amherst si era procurato un'altra nave, i membri della sfortunata spedizione poterono intraprendere il viaggio di ritorno, durante il quale si fermarono a Sant'Elena per una visita a Napoleone (che evidentemente stava diventando un'attrazione turistica). Durante l'incontro con Amherst, l'ex imperatore pronunciò una frase che è rimasta celebre: "La Cina è un gigante addormentato. Quando si sveglierà, farà tremare il mondo". Al povero Abel rimaneva solo una speranza: prima di lasciare Canton, aveva donato alcuni doppioni delle piante più rare a Stauton (agente della Compagnia delle Indie, quest'ultimo era rimasto in Cina). Stauton in effetti poco dopo rientrò in Inghilterra e gliele restituì. Così Abel poté documentare almeno in parte le proprie ricerche, raccontando le sue avventure in Narrative of a Journey in the Interior of China, pubblicato nel 1818. Determinante fu l'aiuto di Banks, che gli mise a disposizione la sua biblioteca e, per la determinazione delle piante citate, lo affidò al solito Robert Brown (ormai mi sono convinta che avesse giornate di 36 ore e non dormisse mai). Il volume contiene il racconto dettagliato del viaggio, punteggiato dalla citazione minuziosa delle piante viste e raccolte (non sempre identificabili con certezza); è illustrato da diverse tavole, cinque delle quali botaniche. Per la storia della scienza, è importante l'appendice che contiene tra l'altro la prima segnalazione in Occidente dell'orango di Sumatra (che in onore di Abel sarà poi battezzato Pongo abelii); un breve paragrafo è dedicato alle "querce cinese", Quercus densifolia (non è chiaro a quale specie attuale corrisponda) e Q. chinensis, oggi Castanopsis sclerophylla (quella di Abel è la prima segnalazione); un altro alle piante oleifere, tra cui Camellia oleifera, descritta per la prima volta e così battezzata dallo stesso Abel. Affidata alla penna di Brown, conclude l'appendice la descrizione delle tre specie nuove: Hamamelis chinensis (oggi Loropetalum chinense, la prima segnalazione di una specie di questo genere), Eurya chinensis, e Abelia chinensis, appartenente a un genere nuovo, dedicato con "amichevole parzialità" allo sfortunato scopritore. In quale non fu molto fortunato neppure in seguito: il viaggio e il libro gli procurarono l'ammissione alla Royal Sociery (1819), ma quando lord Amherst venne nominato Governatore Generale dell'India lo volle con sé come chirurgo capo; e propri in India, a Kanpur, morì a soli 37 anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Otre a Abel, altri membri della spedizione diedero alle stampe le loro memorie di viaggio, contribuendo a cambiare l'immagine della Cina: se per gli uomini del Settecento era paese di grande civiltà da cui trarre insegnamento, ora diveniva l'Impero immobile (come lo chiamerà Peyrefitte), tagliato fuori dalla corrente della storia dall'autocentrismo, dalla diffidenza verso gli stranieri e da un potere tirannico, ma in sostanza inefficace e impotente. La prima guerra dell'oppio vi troverà senza difficoltà la sua giustificazione ideologica. Abelia e Diabelia: peggio i pirati o i tassonomisti? Il genere Abelia R. Br., appartenente alla famiglia Caprifoliaceae (Linneaceae secondo altre classificazioni), è molto noto agli appassionati per almeno una specie assai coltivata (oltre a godere il vantaggio di essere il primo in ordine alfabetico in qualsiasi enciclopedia di giardinaggio). La prima ad arrivare in Europa fu A. chinensis, dove fu introdotta nel 1844 da Robert Fortune; l'anno dopo arrivò A. uniflora. Ben presto entrambe furono soppiantate da A. x grandiflora, un ibrido orticolo tra le due specie, ottenuto la prima volta nel 1886 nel vivaio Rovelli a Pallanza. E' un arbusto semi-sempreverde sterile a lunga fioritura, in fiore fino ai primi freddi, un tempo molto popolare nei giardini. Infatti nel corso dei decenni, le possibilità di scelta hanno continuato ad allargarsi e, soprattutto negli ultimi trent'anni, sono state immesse nel mercato decine di nuovi ibridi, sfruttando anche le potenzialità di altre specie, come A. macrotera; particolarmente popolari quelli a foglie variegate, almeno una dozzina, le varietà compatte e quelle con foglie autunnali dai colori vivaci. Qualche approfondimento nella scheda. Eppure la maledizione del dedicatario sembra trasmettersi anche sul suo genere celebrativo. Qualche anno fa, sulla base delle ricerche filogenetiche, è stata evidenziata una stretta parentela tra tutti i generi della sottofamiglia Linnaeoideae (Abelia, Diabelia, Dipelta, Kolkwitzia, Linnaea, Vesalea, Zabelia); su questa base nel 2013 M. Christenhusz ha proposto di far confluire in Linnaea tutti gli altri generi, ad esclusione di Zabelia. Ad esempio, A. chinensis R. Br. diventa Linnaea chinensis (R.Br.) A.Braun & Vatke. La proposta è stata accolta da alcuni grandi repertori, come Plants of the Word. Ma questa volta forse i pirati (mi correggo: i tassonomisti) non avranno il sopravvento. Altri ricercatori la pensano in modo molto diverso; ad esempio, in uno degli studi più recenti (2015) H.F. Wang sostiene l'evidenza di sei generi distinti: quattro dell'Asia orientale (Abelia, Diabelia, Dipelta, Kolkwitzia), uno messicano (Vesalea), uno circumboreale (Linnaea). Questa linea è quella seguita da Plant list e, quello che forse più conta, dai ricercatori e dai repertori cinesi e giapponesi. Ad esempio, l'autorevole Flora of China elenca cinque specie di Abelia, diffuse tra Cina, Corea e Giappone: A. chinensis, A. forrestii, A. x grandiflora, A. macrotera, A. uniflora (un complex che raccoglie un gruppo molto variabile un tempo assegnato a specie diverse). Secondo questa soluzione, meno traumatica e a quanto pare anche meglio supportata dalle evidenze filogenetiche, il genere Abelia viene ridotto (un tempo comprendeva 30-40 specie, oggi come si è visto, cinque), ma confermato; continuano a farne parte le specie più note e coltivate, mentre ad essere escluse e a cambiare nome sono specie meno importanti dal punto di vista orticolo: la messicana A. floribunda, unica specie non asiatica, diventa Vesalea floribunda; il nuovo genere Diabelia va ad accogliere le tre specie cinesi D. serrata, D. spathulata, D. tetrasepala; mantiene la sua autonomia anche Zabelia. Diabelia significa "Abelia diversa, altra Abelia" e quindi è a tutti gli effetti un altro genere dedicato al nostro travagliato eroe. Troverete una breve presentazione nella scheda. Una curiosità: Zabelia è invece un falso amico, essendo dedicata al botanico tedesco H. Zabel. Abeliophyllum ovvero la forsizia bianca In realtà, già da tempo esisteva un altro genere indirettamente legato a Abel. Nel 1919 il botanico giapponese Nakai Takenoshin raccolse un arbusto dai profumati fiori bianchi a Jincheon, nella Corea meridionale. Sulla base della forma della foglie lo denominò Abeliophyllum ("con le foglie simili a Abelia") distichum. Appartenente alla famiglia Oleaceae, ha fiori assai simili alla Forsythia e, come quest'ultima, fiorisce all'inizio della primavera. In natura è sempre più raro e minacciato di estinzione: è presente in sole nove stazioni in tre province della Corea meridionale, con una distribuzione molto frammentata; la minaccia più grave è la deforestazione, che riduce progressivamente la quantità e la qualità del suo ambiente naturale. In coltivazione, poco nota fino a pochi anni fa, si sta invece sempre più affermando: grazie alla precocità della fioritura, con una profusione di candidi fiori stellati dal delicato profumo, è una pregevole acquisizione per i nostri giardini. Per quanto mi riguarda, l'ho messa in cima alla mia lista dei desideri. Qualche informazione in più nella scheda.
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Proprio l'anno scorso ha celebrato il suo duecentesimo anniversario l'Orto botanico di Bogor, nei pressi di Giakarta, il più antico del Sud est asiatico e uno dei più importanti per la conservazione, lo studio e la diffusione delle piante tropicali. Nacque infatti ufficialmente il 18 maggio 1817 su suggerimento di Caspar Georg Carl Reinhardt, botanico tedesco naturalizzato olandese. Nel suo breve soggiorno a Giava, Reinhardt proseguì, anche se meno di quanto avrebbe desiderato, le ricerche botaniche iniziate da Horsfield; a celebrarlo i generi Reinwardtia e Reinwardtiodendron. Con un'appendice sull'hortulanus Willem Kent, il genere Kentiopsis, l'(ex) genere Kentia e la viscosità della nomenclatura botanica. Il rilancio dell'impero coloniale olandese Nell'ambito delle complesse trattative diplomatiche che ridisegnano l'Europa postnapoleonica, nell'agosto 1814 l'Olanda e la Gran Bretagna sottoscrivono il Trattato di Londra, con il quale i britannici restituiscono agli olandesi parte del loro impero coloniale: tenuti per sé la Colonia del Capo, Ceylon e gli insediamenti in India e nei Caraibi, ritornano ai Paesi Bassi il Suriname, Giava, Sumatra e le Molucche. Per riprenderne il controllo, con qualche ritardo causato dalle convulsioni dei Cento giorni, nell'ottobre 1815 una piccola flotta parte infine dall'Olanda alla volta dell'Indonesia: agli ordini del governatore van der Capellen, 3000 soldati e un gruppo di funzionari che dovranno costituire il nuovo governo coloniale (durante gli anni rivoluzionari, la Compagnia olandese delle Indie Orientali, che aveva retto le isole per oltre duecento anni, è stata sciolta). A bordo della nave da guerra Admiral Evertsen c'è anche il botanico Caspar Georg Carl Reinhardt, cui con l'altisonante titolo di Direttore dell'Agricoltura, delle Arti e delle Scienze di Giava e delle isole vicine sono affidati tre compiti principali: studiare e valutare le potenzialità economiche delle isole, in vista di uno sfruttamento più razionale; migliorare l'educazione dei funzionari europei e i servizi sanitari offerti da ospedali e farmacie; raccogliere animali, piante e minerali destinati al Cabinetto nazionale di Amsterdam. Ad assisterlo in questo ultimo compito, un piccolo staff formato da due pittori, i fratelli Bik, e da un giardiniere, Willem Kent, che ha già lavorato per Reinwardt quando questi dirigeva l'orto botanico di Harderwijk. Farmacista di formazione, ma anche appassionato di botanica e di coltivazione di piante esotiche, Reinwardt ha infatti insegnato per alcuni anni storia naturale all'Università di Harderwijk e poi ad Amsterdam; sotto Luigi Bonaparte, ha diretto il progetto di creazione di uno zoo reale. Ammiratore di Humboldt, nei suoi studi botanici è particolarmente attento alla correlazione tra flora, clima, natura del suolo. Dopo otto mesi di navigazione, Reinwardt arriva a Giava nell'aprile 1816. Nell'attesa del passaggio di consegne da parte dell'amministrazione britannica, visita piantagioni di caffè, indaco, canna da zucchero nei dintorni di Batavia. Incontra Nikolaus Engelhardt, ex governatore della costa settentrionale di Giava, che gli mostra la sua notevole collezione di oggetti naturali, antichità, disegni, libri e manoscritti (tra i quali forse le note di campo del francese Jean Baptiste Leschenault de la Tour che era stato suo ospite tra il 1803 e il 1806). Entra in contatto con il presidente della Società di Arte e di Scienze di Batavia, che aveva sponsorizzato e pubblicato le ricerche di Horsfield. Incomincia anche a studiare il malese e, assistito da Kent, a raccogliere e descrivere erbe, licheni, alberi e fiori. A giugno, annota nel suo diario che hanno già raccolto 160 esemplari. La nascita del primo orto botanico del Sudest asiatico L'amministrazione olandese si installò ufficialmente ad agosto e anche Reinwardt assunse il suo incarico; i doveri amministrativi (il più pressante era la riorganizzazione delle scuole e della sanità) gli lasciavano poco tempo per gli studi naturalistici. Fu tuttavia in quei mesi che maturò l'idea di fondare un Orto botanico nei pressi del Palazzo del Governatore Generale a Buitenzorg (oggi Bogor). Il clima favorevole, il suolo vulcanico, la disponibilità d'acqua ne facevano il luogo ideale per coltivare piante di interesse economico raccolte in tutto l'arcipelago. Inoltre proprio qui, negli anni in cui governava Giava, Raffles aveva creato un giardino all'inglese. Il governo coloniale accolse la proposta di Reinwardt e mise a disposizione un terreno adatto; venne anche assunto un secondo giardiniere ad affiancare Kent, l'inglese Thomas Hooper, formatosi a Kew e giunto a Giava in circostanze rocambolesche: come assistente di Abel, aveva fatto parte della missione Amherst in Cina. A febbraio, si era ritrovato a Batavia tra i superstiti dell'Alceste, naufragata sugli scogli dell'arcipelago giavanese. Anziché tornare in patria, grazie all'allettante offerta di un salario mensile di 150 guilders, decise di rimanere a lavorare al neonato Orto botanico di Buitenzorg. L'anno successivo, l'équipe scientifica fu completato dall'arrivo a Giava di un altro botanico, il tedesco Carl Ludwig Blume. La costruzione del giardino iniziò nel maggio 1817. Comprendeva diverse aree: aiuole e campi per la coltivazione di piante da reddito, erbacee, fiori e alberi, granai per la conservazione dei raccolti, magazzini per gli attrezzi, stalle per i bufali e i buoi impiegati nei lavori, case per il personale indigeno (nel 1822 impiegava 65 aiutanti). Con il duplice obiettivo di presentare un panorama il più possibile completo della flora dell'Indonesia e di fungere da giardino di acclimatazione per piante tropicali di alto potenziale economico o decorativo, crebbe rapidamente. A cinque anni dalla fondazione, nel 1823, sulla base del catalogo redatto da Blume, vi si coltivavano circa 900 specie di piante, la maggior parte provenienti dalle montagne di Giava e dalle Molucche, ma anche da scambi con altri orti botanici (tra i più assidui, quelli di Calcutta e di Rio de Janeiro). In questo modo, l'orto di Buitenzorg diventò ben presto un nodo di rilievo nella grande rete che intrecciava conoscenza scientifica, sfruttamento coloniale, introduzione di nuove piante. Non a caso, avrebbe giocato un ruolo importante nelle sperimentazioni su varie specie di Cinchona destinate ad assicurare all'Olanda il monopolio della produzione del chinino. Ma torniamo a Reinwardt. La sua passione per le scienze naturali e la stessa attività scientifica devono passare in secondo piano rispetto alle attività amministrative. Riesce a creare una rete di raccoglitori, che coinvolge cacciatori indigeni, marinai e militari, funzionari e residenti olandesi, che gli procurano esemplari dalle diverse isole dell'arcipelago, destinate sia alla sua collezione privata sia al Gabinetto reale, ma deve ridurre a ben poco l'attività sul campo. A parte alcune escursioni minori, partecipa solo a due spedizioni scientifiche di una certa importanza: nel 1818, insieme a Kent e ai Bik, cui si è aggiunto un terzo pittore, Antoine Payen, i residenti generali e altri funzionari, nonché ben 130 portatori, intraprende un ampio tour di Giava; tra la fine del 1821 e il marzo 1822, visita le Molucche e altre isole orientali. Intanto in Olanda, in seguito alla morte di Brugmans, si è resa vacante la cattedra di botanica a Leida. Il re, soddisfatto dei servizi di Reinwardt (anche se molti dei suoi invii di curiosità naturali sono andati perduti nelle vicissitudini dei viaggi), lo nomina "Cavaliere dell'ordine del leone d'Olanda" e approva la sua nomina a successore di Brugmans. Reinwardt, che pensa di non aver concluso i suoi compiti a Giava, tergiversa e riesce a rimanere ancora un anno; poi, convinto anche da problemi di salute, il 15 giugno 1822 lascia Batavia per fare rientro in Olanda. Lo attende ancora una lunga carriera accademica (morirà nel 1854) durante la quale pubblicherà tuttavia soltanto tre brevi monografie sulla flora delle Indie orientali olandesi; la sua collezione di piante indonesiane sarà pubblicata solo dopo la sua morte dal suo successore alla cattedra di Leida, Willem Hendrik de Vriese. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La romantica storia di Pyoli, ovvero Reinwardtia A Reinwardt non sono mancati gli onori postumi. Nei Paesi Bassi lo ricorda l'Accademia Reinwardt, il dipartimento di museologia e conservazione dei beni culturali della Scuola d'Arte di Amsterdam; in Indonesia, Reinwardtia, la rivista dell'Orto botanico di Bogor, dove qualche anno fa gli è anche stata eretta una stele. Nella nomenclatura scientifica, lo celebrano il nome specifico di diversi animali (il più noto è il trogone di Giava, Apalharpactes reinwardtii), i generi Reinwardtoena (uccelli della famiglia dei colombi), Reinwardia (famiglia Linaceae), Reinwardtiodendron (Meliaceae). Reinwardtia Dumor. fu creato nel 1822 da B.C.J. Dumortier. E' un genere monotipico che comprende un'unica specie, Reinwardtia indica, un piccolo arbusto dai magnifici fiori giallo vivo. Di origine himalayana, fu inizialmente descritta da Roxburgh come Linum tryginum. Nella dedica, Dumortier, che scrive proprio mentre Reinwardt era in viaggio per tornare nei Paesi bassi, ricorda soprattutto le sue attività come divulgatore di piante rare negli anni di Amsterdam e, informato del suo soggiorno di cinque anni a Giava, si limita ad auspicare che pubblichi quanto prima i risultati delle sue ricerche. R. indica è una pianta graziosissima che non passa inosservata. Nota come Pyoli in India, è legata a una romantica leggenda. Pyoli era una fanciulla selvaggia che viveva nella foresta, dove era stata allevata dagli animali; non aveva mai incontrato nessun essere umano prima di imbattersi in un principe che vi si era perduto durante la caccia. Ovviamente i due si innamorarono e il principe persuase Pyoli a seguirla nel suo palazzo; nonostante l'amore, la ragazza cominciò a languire per la nostalgia della foresta. Sul punto di morire, chiese all'amato come ultimo desiderio di essere sepolta tra i suoi amici. Il principe la seppellì dove l'aveva incontrata per la prima volta. Poco dopo, in quel luogo sorse il fiore che porta il suo nome. Estremamente decorativa sia per il fogliame sempreverde sia per i grandi fiori a campana giallo puro (che sbocciano anche d'inverno), è coltivata da secoli nei giardini indiani e cinesi; non rustica può essere coltivata all'aperto nelle regioni dal clima mite oppure in vaso come pianta da serra o appartamento. Altre informazioni nella scheda. Negli anni successivi, altri botanici dedicarono a Reinwardt un genere Reinwardtia: Blume nel 1824, Sprengel nel 1825, Korthals nel 1841; tutti sono illegittimi in base alla regola dell priorità. E' invece entrato stabilmente nella nomenclatura botanica il genere Reinwardtiodendron (letteralmente "albero di Reinwardt") dedicatogli da S.H. Koorders nel 1898, sulla base di Reinwardtiodendron celebicum, raccolto da Reinwardt nell'isola di Celebes durante il suo viaggio alle Molucche, quindi da lui introdotto a Bogor. Reinwardtiodendron, della famiglia Meliaceae, è un piccolo genere che comprende sei/sette specie di alberi e arbusti dioici, per lo più sorretti da radici a contrafforte; hanno piccoli fiori globosi raccolti, quelli maschili, in pannocchie lasche, quelli femminili, in racemi o spighe, seguiti da bacche carnose. Affini ai generi Aglaia e Lansum (da cui tuttavia sono distinti, come hanno confermato anche le indagini genetiche) sono un gruppo di piante poco noto, esclusivo di un'area dell'Asia orientale compresa tra i Ghati a ovest, lo Yunnan a Nord, le Filippine e le isole della Sonda a est, con maggiore centro di diversità nelle Molucche (con cinque-sei specie). La più diffusa e anche più nota è R. humile, che è presente nelle macchie delle foreste subtropicali e tropicali dell'intero areale del genere. Qualche informazione in più nella scheda. Kentia ovvero la viscosità delle denominazioni botaniche Prima di chiudere questo post, torniamo a un personaggio che finora ha avuto solo il ruolo di comparsa: Willem Kent. Come ho già accennato era un giardiniere (hortulanus) che aveva lavorato sotto Reinwardt a Harderwijk, per poi passare a Leida. Lo seguì a Giava e rimase a lavorare all'Hortus di Bogor fino al 1825, quando divenne aiuto ispettore della coltivazione del caffè. Morì a Giava nel 1827. Un cenno biografico nella sezione biografie. Blume, che succedette a Reinwardt come direttore del giardino botanico di Bogor e lo ebbe come collaboratore, nel 1830 gli dedicò un genere di palme (Arecaceae), Kentia. Benché questa denominazione sia illegittima (il nome era già stato usato quasi settant'anni prima di Adanson per un genere di Fabaceae, dedicato a tutt'altra persona), ebbe grande fortuna e rimase in uso per circa un secolo, giungendo ad annoverare più di 50 specie. In realtà si trattava di un genere artificiale, che raccoglieva specie abbastanza diverse ma accomunate dalle grandi foglie pennate e dai fiori dei due sessi disposti a triade. Con il progresso della conoscenza delle palme (le Arecaceae sono una famiglia molto vasta che presenta particolari difficoltà di classificazione) è stato soppresso e le specie che ne facevano parte sono state assegnate a diversi altri generi. Nel frattempo però la denominazione Kentia aveva fatto in tempo sia a entrare indirettamente nella nomenclatura botanica (compare nella seconda parte del nome di almeno cinque generi di palme, per lo più appartenenti alla tribù Areceae, ad esempio Actinokentia o Physokentia), ma soprattutto a incollarsi a una delle palme più coltivate nei nostri appartamenti; anche se nel 1877 il grande botanico italiano Odoardo Beccari lo separò da Kentia, assegnandola al genere Howea, Howea fosteriana continua ad essere coltivata e commercializzata come Kentia o kenzia, per quella stessa viscosità dei nomi botanici che fa sì che si continui a chiamare gerani i Pelargonium o amarillis gli Hyppeastrum. In ogni caso, anche l'oscuro Willem Kent continua ad essere celebrato da un genere valido, sebbene in modo indiretto. Nel 1873 Brongniart denominò Kentiopsis (ovvero "simile a Kentia") un genere di palme endemiche della Nuova Caledonia. Diffuse in aree molto limitate, le sue quattro specie sono piante rare, a rischio di estinzione. Bellissime, leggere e d'aspetto veramente tropicale, sono talvolta coltivate nei giardini dei paesi a clima mite. Un approfondimento nella scheda. Negli anni eroici dell'esplorazione botanica, tra Settecento e Ottocento, le giovani vite spezzate sono quasi la norma. Nelle mie storie mi sono già imbattuta in tanti giovani e giovanissimi scienziati che hanno sacrificato la loro vita sull'altare della conoscenza; anche la perdita del frutto delle proprie ricerche in seguito a terremoti, naufragi, inondazioni, incendi, vicende belliche era tutt'altro che rara. Eppure la storia di William Jack, forse perché possiamo seguirla attraverso i ricordi commossi dell'amico Nathaniel Wallich e l'omaggio sincero di William Jackson Hooker, appare particolarmente commovente, con la doppia sciagura della morte precoce e della perdita delle collezioni. A ricordarlo il genere monotipico Jackiopsis che si riallaccia (in seguito a complicate vicissitudini) a Jackia, voluto da Wallich per celebrare l'amico tanto rimpianto. Precocità, passione e sventure Quella di William Jack, giovane medico scozzese, botanico appassionato e geniale, è una vita tutta di corsa, segnata da una precocità quasi presaga del poco tempo che il destino gli avrebbe riservato. E' un fanciullo prodigio che impara a leggere da solo a tre anni, frequenta la scuola con ragazzi che hanno il doppio della sua età, a sedici anni conclude gli studi superiori, a poco più di diciassette (nonostante una grave malattia che l'ha fermato per quasi un anno) supera l'esame come chirurgo e inizia una carriera di medico militare al servizio della Compagnia delle Indie. Ha scelto questa strada per andare in Oriente, dove conta di studiare le piante esotiche, lui che è appassionato di botanica fin da bambino. Il 29 gennaio 1813 festeggia il diciottesimo compleanno a bordo della nave che lo porterà in India; durante il viaggio due brevi scali a Funchal e Simon's Bay nella colonia del Capo gli offrono un primo assaggio della flora esotica. Alla fine dell'anno è di stanza a Dumdum, in Bengala, e tra il 1815 e il 1816 partecipa alla guerra anglo-nepalese. In Nepal contrae la tubercolosi; riprende anche le ricerche botaniche e sente il bisogno di entrare in contatto con altri studiosi, per confrontarsi sui risultati; sa che Roxburgh sta scrivendo un libro sulla flora indiana (i due volumi di Flora indica usciranno tra il 1820 e il 1824) e vorrebbe sapere se vi ha descritto le specie raccolte in Nepal che gli sembrano nuove per la scienza. Forse non osando prendere contatto direttamente con il patriarca della botanica indiana, nel 1817 scrive al suo assistente, Nathaniel Wallich: è un collega (anche lui è un chirurgo al servizio della Compagnia delle Indie), ha solo nove anni più di lui, ha fatto una spedizione in Nepal. Alla lettera acclude la descrizione di una Lobelia nepalese (non corrisponde ad alcuna descrizione, sarà una specie nuova?) e un pacchetto di semi. Seguirà una seconda missiva, con un pacco di specie nuove di cui verificare l'attribuzione. E' l'inizio di un'amicizia. Wallich presenta alcune delle piante nepalesi di Jack in un articolo per l'Asiatic Society e poi lo invita a raggiungerlo a Calcutta, dove potrà curarsi e iniziare la convalescenza. Jack arriva nel luglio 1818 e Wallich lo ospita addirittura a casa sua, chiedendogli di lavorare con lui all'Orto botanico. Jack accetta e inizia preparare la pubblicazione di alcune delle sue scoperte, realizzando egli stesso le illustrazioni (tra i suoi innumerevoli talenti, c'era anche la capacità di disegnare le piante con estrema precisione). Nel novembre in visita all'orto botanico di Calcutta arriva un ospite importante: il vulcanico Stamford Raffles, che è qui per proporre ai vertici della Compagnia delle Indie la fondazione di Singapore. Vi trascorre un'intera giornata, scortato dai due botanici. La preparazione di Jack lo colpisce e gli propone immediatamente di seguirlo a Sumatra (il botanico che lavorava per lui, James Arnold, è morto pochi mesi prima, subito dopo aver scoperto Rafflesia arnoldii). L'eco di quella scoperta e quella pianta stupefacente sono un richiamo irresistibile per Jack, nonostante la sua salute precaria: Sumatra è un territorio vergine, non ancora esplorato da nessun europeo, e promette meraviglie mai viste (in una lettera ai suoi, la definisce "la meraviglia del mondo vegetale"). E così accetta. Nei quattro anni successivi, come medico e botanico, farà parte dello staff di Raffles e lo seguirà prima a Penang, nella penisola malese, poi a Singapore e Bencoolen, nell'isola di Sumatra. Con un attivismo che è anche un modo per esorcizzare la malattia (scriverà alla madre che si sente malato solo quando non ha niente da fare) in questo brevissimo lasso di tempo realizza un lavoro eccezionale per quantità e qualità. A Penang, in un soggiorno di soli tre mesi, raccoglie 130 piante, 80 delle quali probabilmente nuove. A Singapore, dove l'insediamento cresce a velocità prodigiosa, raccoglie esemplari rari (tra cui due specie ignote di Nepenthes) prima che le asce dei boscaioli e dei carpentieri li distruggano per far posto alle costruzioni. A Sumatra, si occupa di botanica, ma non solo; impara il malese, aiuta Raffles nella stesura di articoli sulla fauna, svolge ricerche etnografiche, fa parte di una Commissione di studio sullo stato della società di Sumatra e sugli effetti del monopolio della Compagnia. Le esplorazioni e le raccolte botaniche toccano non solo l'area limitrofa a Bencoolen, ma anche il nord dell'isola (Tapanuli) e l'isola di Pulau. Nel 1821, con due amici, scala il Gunung Bungkuk; a un certo punto, le guide indigene rifiutano di proseguire, temendo la vendetta degli spiriti della montagna se degli stranieri violassero quella cima sacra. I tre non si fanno spaventare: completano da soli l'ascensione (che in effetti si rivela piuttosto impegnativa) e si godono il panorama. Chi crede alla maledizione di Tuthankamon, potrebbe evocare la maledizione degli spiriti della montagna: dei tre audaci, un anno dopo due erano morti (uno di loro era Jack). Lo sfortunato botanico contrasse la malattia fatale (la malaria) che aggiungendosi alla tisi l'avrebbe portato alla tomba in un'occasione apparentemente priva di pericoli: nel marzo del 1822, Raffles lo inviò in sua rappresentanza ad assistere all'incoronazione del nuovo sultano a Moco-Moco. Tornato a Bencoolen, la sua salute cominciò a deteriorasi rapidamente; a nulla servì neppure un soggiorno a Giava, dove era stato inviato nella speranza che gli giovasse cambiare aria. Quando ritornò a Sumatra a settembre, era ormai così grave che Raffles decise di rimandarlo in Inghilterra. Ma il maltempo impedì alla nave su cui era imbarcato di salpare; riportato a terra, spirò poco dopo nella casa del governatore. Aveva solo 27 anni. Una sintesi della sua vita breve ma intensa nella sezione biografie. Due anni dopo, una seconda tragedia: l'erbario di Jack, le sue note, i disegni fatti da lui stesso o da artisti locali, le copie non distribuite della rivista con la sua unica pubblicazione a stampa, andarono perduti nell'incendio della nave Fame. Una pietra miliare della botanica del sudest asiatico In tanta tragedia, una sola fortuna: tra il 1820 e il 1822, Jack aveva pubblicato una selezione delle piante da lui raccolte a Penang, Singapore e Sumatra in una rivista voluta dallo stesso Raffles, Malayan Miscellanies, sotto il modesto titolo Descriptions of Malayan Plants. E' un documento di grande importanza storica (si tratta della prima rassegna della flora dell'arcipelago malese e vi compiano per la prima volta decine di piante nuove per la scienza), ma anche di notevole valore; secondo il parere unanime dei botanici contemporanei e degli studiosi successivi, le descrizioni dello sfortunato botanico scozzese si segnalano per accuratezza, completezza e grande capacità di mettere a confronto e discriminare specie affini. L'importanza di questa pietra miliare della botanica dell'arcipelago malese è testimoniata dal fatto che nel corso dell'Ottocento è stata ripubblicata tre volte: tra il 1830 e il 1836, da W. J. Hooker successivamente in tre diverse riviste (Botanical Miscellany, Journal of Botany, Companion of the Botancal Magazine); nel 1843 da W. Griffith in Calcutta Journal of Natural History; tra il 1886 e il 1887 in Trübner's Oriental Series. Jack vi descrive circa 200 nuove specie; crea 31 nuovi generi (18 dei quali sono attualmente riconosciuti) e la famiglia Cyrtandraceae (oggi considerata una sottodivisione di Gesneriaceae). Tra i generi da lui stabiliti, forse il più noto agli appassionati è Aeschynanthus, che comprende alcune ricadenti dai fiori rossi oggi relativamente diffuse in coltivazione; ricordiamo poi Eurichoma, Euthemis, Lasianthus, Ixonanthes, Rhodamnia, Sphenodesme (ottimo linguista, cui il greco era familiare fin da bambino, Jack privilegiava nomi botanici formati da basi greche, non sempre eufonici). A questa pubblicazione principale, bisogna poi aggiungere tre comunicazioni inviate a Robert Brown e da questi pubblicate nel 1823 in Transaction of Linnean Society: sulle specie malesi del genere Melastoma; sulla famiglia Cyrtandraceae; sul genere Lansium e altre piante malesi. Dell'erbario si sono salvati pochi esemplari sparsi inviati ad altri botanici (soprattutto a Wallich e allo stesso Brown). Secondo la testimonianza di Hooker, sarebbe stata intenzione di Raffles scrivere una memoria sull'amico scomparso; ma prima la perdita dei materiali, poi la sua stessa morte, sopraggiunta dopo appena due anni dal rientro in Inghilterra, gli impedirono di realizzare il progetto. Su istanza di Wallich, a provvedere fu lo stesso Hooker che pubblicò un'informata biografia di Jack, in appendice a uno dei fascicoli della sua edizione di Description of Malayan Plants, avvalendosi dei ricordi di amici e familiari e di estratti di lettere dello stesso Jack. Un groviglio gordiano: perché Jackia è diventata Jackiopsis L'infelice destino di Jack, la sua reputazione e la stima universale che riscuoteva (come botanico e come persona: "la più bella mente e il più bel cuore io abbia mai incontrato", disse di lui Raffles) fecero sì che dopo la sua morte i colleghi facessero a gara a dedicargli un genere, creando non poca confusione. Non poteva mancare l'amico Wallich, che nel secondo volume di Flora indica di Roxburgh (1824) gli dedicò Jackia Wall. (famiglia Rubiaceae) con parole commoventi: "Ho dedicato questo nuovo genere alla memoria del mio amico dipartito, il fu Mr. Jack, della cui perdita prematura ho già parlato e le cui infaticabili e ben note attività nella storia naturale gli hanno da tempo guadagnato la più alta stima. E' stato per l'amabile modestia del suo carattere, e non per negligenza da parte mia, se ho rinunciato al mio progetto di dedicare una pianta a questo eccellente botanico finché era in vita". Un omaggio venne pure da un altro grande botanico attivo nel sud est asiatico, il tedesco Carl Ludwig Blume, che nel catalogo dell'orto botanico di Bogor (1823) creò Jakkia, famiglia Polygalaceae, commettendo un errore ortografico che corresse due anni dopo in Bijdragen tot de flora van Nederlandsch Indië. Rinominando il genere Jackia scrisse così: "Ho attribuito questo nome già nel 1823 in Enumeratio Plantarum Horti botanici Buitenzorgiani in memoria del Dr. Jack, botanico e esploratore del'isola di Sumatra di grandissimo merito". Infine, nel 1826 Kurt Sprengel in Systema Vegetabilium creò una terza Jackia (Malvaceae). Dato che non è ammesso che due o più generi abbiamo lo stesso nome, in questi casi vale la legge della priorità. Per parecchi decenni, la situazione è stata la seguente: Jackia Wall (pubblicato nel 1824) nome valido; Jackia Blume (1825) nome invalido perché la forma corretta è Jakkia (un'altra regola prevede che le trascrizioni latine errate non si correggano), che d'altra parte è sinonimo di un genere precedentemente creato da Roxburgh, Xanthopyllum; Jackia Spreng. (1826) nome illegittimo (è sinonimo di Eriolaena DC). Così per 150 anni la pianta dedicata da Wallich all'amico Jack (si tratta di un genere monotipico) ha portato il nome Jackia ornata. Finché negli anni '70 del Novecento alcuni studiosi fecero notare che Jackia non può essere considerato un errore per Jakkia, ma una sua variante grafica; dunque Jackia Wall. perde la priorità e non è più legittimo (vi gira un po' la testa? anche a me). E così nel 1979, C.E. Ridsdale propose di tagliare il nodo gordiano, creando il nuovo nome Jackiopsis. Con il sospetto che i tassonomisti a volte discutano del sesso degli angeli o che la maledizione degli spiriti della montagna colpisca ancora, mi adeguo. Dunque, eccola qui Jackiopsis ornata (Wall.) Ridsdale; è un imponente albero, alto anche più di 40 metri, scelto da Wallich per commemorare l'amico per la sua bellezza, ma anche per due caratteristiche che ne sintetizzano il destino: i fiori a quattro petali, raccolti in grandi grappoli penduli, bianchi come la neve oppure rosati, simboleggiano il lutto, il frutti caduchi la morte precoce. Anche la distribuzione geografica (Borneo, Malesia, Sumatra) corrisponde alla regione esplorata da Jack. In Malesia, dove cresce nelle foreste pluviali primarie intorno ai 400 metri, è considerata una pianta medicinale, di cui si usano le radici essiccate, dal piacevole gusto di ginseng, come antidolorifico, energetico, epatoprotettore, afrodisiaco. Qualche approfondimento nella scheda. Quella dell'americano Thomas Horsfield è la storia prima di un innamoramento, poi di un'amicizia: l'innamoramento per l'isola di Giava da cui nasce una vocazione di naturalista, così prorompente da farne il primo studioso della natura di quell'isola, che esplorò quasi palmo palmo per diciotto anni, dapprima senza il sostegno di alcuna istituzione, se non un gruppo di appassionati; l'amicizia con T. S. Raffles, che gli permetterà di continuare le sue ricerche in più grande stile e lo introdurrà negli ambienti scientifici londinesi. Botanico, zoologo, entomologo, vulcanologo, ha lasciato il suo nome a molte specie di animali e al genere Horsfieldia. Un naturalista poliedrico e instancabile Nell'anno 1800, un giovane medico della Pennsylvania, Thomas Horsfield, si imbarcò come chirurgo di bordo sul mercantile "China"; il breve scalo a Batavia (la capitale delle Indie Olandesi, nell'isola di Giava) cambiò per sempre la sua vita: "Fui così deliziato - sono parole sue - dalla bellezza di quello scenario, dalla magnificenza e dall'abbondanza della vegetazione, dalla ricchezza delle sue risorse in tutti i campi delle scienze naturali, che nella mia mente sorse il desiderio di conoscerla meglio". Tornato a casa, si procurò tutti i libri possibili sull'argomento, gli strumenti indispensabili, i materiali necessari per la raccolta e la conservazione degli esemplari e di lì a un anno era di nuovo a Giava. Vi avrebbe trascorso 18 anni, esplorando ogni angolo dell'isola e divenendo il primo occidentale (se si eccettua Louis Auguste Deschamps, che però aveva potuto accedere solo alla regione limitrofa a Batavia) a studiarne estesamente la flora, la fauna, la geologia. La Compagnia olandese delle Indie Orientali era estremamente gelosa delle sue prerogative e sospettosa di ogni straniero, tanto più in quegli anni di guerra. Per rimanere a Giava e iniziare le sue ricerche, proprio come Deschamps qualche anno prima, Horsfield entrò al suo servizio come chirurgo. Gli era vietato esplorare l'interno, ma gli fu permesso di visitare i distretti di Buitenzorg (oggi Bogor) e Tijanjur, a sud di Batavia, per studiare le piante medicinali usate dai nativi. Frutto di circa un anno di lavoro fu una relazione presentata al Comitato della Società di Arti e Scienze di Batavia, che attrasse l'attenzione del Governo e guadagnò a Horsfield il permesso di estendere le sue ricerche, oltre che alle piante medicinali, ad altri campi della botanica, alla zoologia e alla geologia. La Società (un'associazione privata creata da alcuni appassionati) decise anche di finanziare, sia pure non copiosamente, le sue ricerche e di pubblicarne i risultati sul proprio bollettino. Dopo aver visitato i dintorni di Batavia e il Priangan, all'inizio del 1804 fu autorizzato ad esplorare le regioni orientali dell'isola. Poté così visitarne le principali catene vulcaniche, dove raccolse molti esemplari della peculiare vegetazione di alta quota. Visitò la capitale del principato di Yogyakarta e le rovine del tempio di Prambanan. In un'altra escursione, percorse la costa meridionale in tutta la sua lunghezza. La spedizione più impegnativa si estese dal 1805 al 1807, portandolo a Surakata, la capitale dell'altro principato indipendente, di cui esplorò a fondo i dintorni nel corso di diverse escursioni, quindi a Surabaya, da cui si mosse per un giro generale della provincia più orientale, che percorse in lungo e in largo in tutte le direzioni: visitò estese foreste di teak, vide un vulcano eruzione, scalò montagne, osservò la preparazione dell'upas, ovvero un potente veleno il cui ingrediente principale era il succo di Antiaris toxicaria. In quest'area ricca anche di fauna individuò un viverride ancora sconosciuto, che assegnò al genere Prionodon. Visitò anche brevemente l'isola di Bali. Impossibilitato a tornare a Batavia per lo stato delle strade, si stabilì a Surakata, dove gli fu concesso dal governatore di lasciare in deposito le sue collezioni (sempre più ricche di animali, piante, minerali, disegni e mappe) per continuare le sue ricerche nei distretti meridionali e occidentali; iniziò anche a studiare le metamorfosi dei lepidotteri. Mentre era impegnato in queste attività, nel 1811 l'isola di Giava fu occupata dagli inglesi. Dapprima Horsfield guardò con preoccupazione questi rivolgimenti, temendo di perdere il frutto di nove anni di lavoro, come dipendente dal governo olandese. Il maggiore Robinson, Commissario della Compagnia, gli concesse di continuare le sue ricerche anche se senza alcun sostegno finanziario, in attesa di ordini superiori. Tuttavia nel novembre 1811 il nuovo governatore inglese, Thomas Stamford Raffles, giunse a Surakata in visita ufficiale al sultano; esaminò le collezioni di Horsfield e, comprendendone l'eccezionale valore, gli propose di entrare al servizio della Compagnia delle Indie britannica, che da quel momento avrebbe finanziato le ricerche del naturalista statunitense molto più generosamente degli olandesi. L'anno successivo lo inviò a Bangka (un'isola lungo la costa orientale di Sumatra) come membro della commissione che doveva studiare l'opportunità di un insediamento commerciale britannico; nel corso di due soggiorni, il naturalista statunitense esplorò anche quest'isola (che, a paragone con Giava, gli pareva misera e incivile; corse anche il rischio di rimanere ucciso, in seguito a un banale incidente in cui il suo disegnatore perse la vita e lui buona parte delle sue raccolte). Tornato a Giava, dedicò l'estate del 1814 all'esplorazione delle regioni occidentali appartenenti ai principati indipendenti, visitando tra l'altro le grotte delle rondini salangane (Collocalia esculenta). Per impulso di Raffles, che lo mise anche in contatto con Banks e Robert Brown, gli interessi di Horsfield si stavano sempre più spostando verso la zoologia: mentre gli esemplari botanici di maggiore interesse venivano inviati a Kew, gli animali andavano ad arricchire il Museo della Compagnia delle Indie, fondato nel 1801. La Gran Bretagna restituì ufficialmente Giava agli Olandesi nel 1815; dopo la definitiva partenza di Raffles (trasferito a Bencoolen nell'isola di Sumatra, che Horsfield visitò brevemente), avendo ottime relazioni anche con le vecchie autorità, poté trattenersi a Giava ancora un anno. All'inizio del 1819, costretto anche da ragioni di salute, lasciò definitivamente l'amatissima isola, giungendo a Londra a luglio. Una faticosa impresa editoriale a sei mani I molti anni che gli rimasero ancora da vivere (morì nel 1859, a 86 anni; una sintesi della sua vita nella sezione biografie) furono dedicati non più alla ricerca sul campo, ma alla sistemazione e alla pubblicazione delle raccolte proprie e altrui, con un interesse sempre più preponderante per la zoologia. Sicuramente grazie all'appoggio di Raffles, venne assunto come conservatore del Museo della Compagnia delle Indie, agli ordini del primo curatore, Charles Wilkins, cui più tardi succedette. Tra il 1821 e il 1824, pubblicò la sua opera più nota, Zoological Researches in Java and the neighbouring islands, che presenta una sintesi della fauna della grande isola indonesiana, con note sulla tassonomia, le caratteristiche morfologiche e il comportamento di primati, pipistrelli e uccelli, basandosi anche sulle osservazioni di altri studiosi, incluso Raffles. Quando quest'ultimo creò la Società zoologica di Londra (1826), lo volle accanto a sé come segretario; nel 1828 fu ammesso alla Royal Society. Come conservatore e poi curatore dell'India Museum, dove affluiva una crescente massa di esemplari di animali dal subcontinenti indiano, Horsfield fu impegnato a esaminarli, identificarli e catalogarli; ne risultò la descrizione di sei nuove specie di mammiferi dell'India e delle regioni limitrofe: i pipistrelli Rhinolophus affinis, Hipposideros larvatus, Kerivoula hardwickii, Scotophilus heathii, il gatto dorato Pardofelis temminckii e lo scoiattolo striato dell'Himalaya Tamiops mcclellandii. Culmine di questa attività fu nel 1851 la pubblicazione del Catalogue of the Mammalia in the Museum of the East India Company, in cui descrisse molto dettagliatamente gli animali del subcontinente, aggiungendo altre cinque specie nuove per la scienza. Collaborò anche con N.A. Vigors alla classificazione degli uccelli australiani e fu tra i promotori della Enthomological Society of London. La sua importanza come zoologo è anche testimoniata dai numerosi nomi specifici del regno animale che gli rendono omaggio (almeno una quindicina). Ma torniamo alla botanica. Quando giunse in Inghilterra, Horsfield portava con sé un voluminoso erbario di 2000 esemplari, cui si aggiungevano disegni e calchi in carta di riso (un ingegnoso metodo da lui elaborato per conservare almeno l'impronta delle piante, che nel clima tropicale era spesso molto difficile preservare); per organizzare questa massa di materiale secondo precisi criteri tassonomici, egli si rivolse a Robert Brown, che era allora il segretario di Banks (che sarebbe morto l'anno dopo, lasciandolo erede delle sua biblioteca e delle sue collezioni). L'esame degli esemplari e dei numerosi duplicati, l'identificazione delle specie e dei generi, il raggruppamento per famiglie richiesero un tempo molto lungo, rendendo impensabile una pubblicazione integrale; d'accordo con Horsfield, Brown selezionò le specie più interessanti o di per sé o per la loro novità. Ciascuna sarebbe stata corredata della descrizione in latino, delle osservazioni in inglese e illustrata da una tavola (le illustrazioni, giudicando Brown inadatte quelle eseguite a Giava da artisti locali, furono rifatte sulla base degli esemplari essiccati). Nonostante questa scelta drastica, a causa dei suoi mille impegni Brown non poté scrivere egli stesso le descrizioni, che alla fine dovette affidare a uno dei suoi collaboratori, John Joseph Bennett, assistente del dipartimento di botanica del British Museum. Dopo una lunghissima gestazione, con il titolo Plantae Javanicae Rariores, l'opera uscì infine tra il 1838 e il 1852 in quattro parti (ciascuna delle quali comprende 25 specie con altrettante tavole). Opera importante per la conoscenza della flora giavanese e magnifica per il corredo iconografico (i disegni sono di C. e J. Curtis, le incisioni di J. Curtis e E. Weddell), è tuttavia molto tardiva e certo non rende totalmente giustizia all'indefesso lavoro di Horsfield, che nel frontespizio risulta solo come raccoglitore, anche se il suo nome precede quelli di Bennett e Brown, scritti in corpo lievemente più piccolo. D'altra parte, corrispondeva a una scelta dello stesso Horsfield, che durante il soggiorno londinese aveva di fatto abbandonato la botanica per la zoologia. Horsfieldia, dalle foreste del sudest asiatico Gli omaggi non sono mancati anche nella nomenclatura botanica. Oltre ad essere ricordato da alcuni nomi specifici (tra gli altri, Sauromatum horsfieldii, Miliusa horsfieldii, Edychium horsfieldii), tre diversi botanici in tempi successivi gli dedicarono un genere Horsfieldia: Willdenow già nel 1806, Blume nel 1830 e Chifflot nel 1909. Per la regola della priorità, l'unico valido è Horsfieldia Willd. (famiglia Myristicaceae). Questa dedica precoce dimostra che anche in tempi di guerra e nonostante le lunghe distanze, nell'ambiente dei naturalisti le notizie continuavano a circolare, magari con qualche imprecisione. Creando il nuovo genere sulla base di una specie segnalata da Horsfield a Giava (H. odorata, oggi H. iryaghedhi), nella quarta edizione di Species plantarum Willdenow infatti scrive: "Ho denominato questa pianta in memoria del dottore statunitense Thomas Horsfield che per amore delle piante esplorò le Indie orientali". Il termine "memoria" e il tempo verbale danno l'impressione che il botanico tedesco avesse ricevuto la falsa notizia della morte di Horsfield in Oriente. Molto appropriatamente per questo appassionato del Sudest asiatico, Horsfieldia è un genere di circa cento specie di alberi sempreverdi delle foreste umide tropicali di bassa quota, diffuso in un'area che va dall'India e alle isole Salomone, passando per la Cina meridionale, l'Indocina e l'Indonesia. Il maggiore centro di diversità è la Nuova Guinea (con una trentina di specie), seguita dal Borneo; a parte poche eccezioni, quasi tutte le specie sono diffuse in una piccola parte di questa vasta zona e molte sono endemiche o subendemiche. Proprio per questo, parecchie sono minacciate, soprattutto per la restrizione del loro habitat naturale. Appartenenti alla stessa famiglia della noce moscata (Myristica fragrans), sono in genere piccoli alberi molto decorativi sia per il bel fogliame sempreverde, sia per le grandi infiorescenze molto ramificate, seguite da piccole bacche tondeggianti; dioiche, portano i fiori femminili e quelli maschili su piante separate. Alcune specie, già note alla medicina tradizionale, contengono l'alcaloide horsfilina con effetti analgesici. Altre sono invece coltivate per i frutti, da cui si ricava una cera. Tra di esse proprio H. iryaghedhi, originaria di Sri Lanka (e si teme ormai estinta in natura), ma introdotta forse dagli olandesi in Malesia e a Giava, dove veniva coltivata appunto per la cera. Qualche approfondimento nella scheda. La rarissima, strabiliante, Rafflesia arnoldii vanta il fiore più grande al mondo (oltre un metro di diametro). Non meno curiosa e interessante è la sua scoperta da parte della scienza occidentale (ovviamente, era nota da secoli alla popolazione locale, e usata nella medicina tradizionale) che coinvolse i due personaggi per sempre uniti nel suo nome: il botanico Joseph Arnold e il suo mecenate, Thomas Stamford Raffles, futuro fondatore di Singapore. Antefatti: un botanico sfortunato e un funzionario ambizioso Ufficialmente, la scoperta di quella che sarà battezzata Raffelsia arnoldii avvenne il 19 maggio 1818 a Sumatra. Tuttavia per trovare il primo botanico occidentale che vide una Rafflesia dobbiamo tornare indietro di oltre vent'anni e spostarci nell'isola di Giava, dove il botanico francese Louis Auguste Deschamps, superstite della spedizione Entrecasteaux, su richiesta del governatore olandese aveva condotto estese ricerche scientifiche nell'interno dell'isola. Probabilmente nell'agosto 1797, nell'isola di Nusa Kambangan, di fronte alla costa meridionale di Giava, si imbatté in una pianta ignota alla scienza occidentale, nota agli indigeni come Bunga patma (quasi certamente una Rafflesia, anche se è in discussione di quale specie). La descrisse e la disegnò. Nel 1802, quando Napoleone concesse l'amnistia agli emigrati che non avessero impugnato le armi contro la Repubblica, Deschamps rientrò in patria; ma nel corso del viaggio di ritorno la nave su cui viaggiava fu fermata dagli inglesi, che sequestrarono esemplari, appunti e disegni. Nonostante la scoperta non sia mai stata pubblicata (le carte dello sfortunato botanico, tuttora inedite, si trovano al British Museum), era nota ai botanici che operavano in quell'area e sembra circolassero persino copie del suo disegno. Negli anni successivi, le guerre napoleoniche coinvolsero anche le colonie del sudest asiatico. Per sottrarla al controllo francese, nel 1811 i britannici occuparono Giava e la amministrarono fino alla pace del 1814, quando fu restituita all'Olanda. A governarla fu chiamato un giovane e brillante funzionario della Compagnia delle Indie orientali, Thomas Stamford Raffles. Durante il suo breve mandato, oltre che per le riforme amministrative, egli si segnalò per l'interesse per la storia, la cultura (iniziò il restauro del tempio di Borobudur) e la natura giavanese. Per procurarsi animali e esemplari botanici, organizzò una squadra di raccoglitori indigeni, sotto la guida di un medico e naturalista americano, Thomas Horsfield; creò una specie di zoo, un rudimento di orto botanico e una collezione di oggetti naturali e etnografici. Fu il vero e proprio inizio delle ricerche naturalistiche a Giava, che avrebbe ispirato iniziative come la creazione dell'orto botanico di Bogor, fondato dagli olandesi nel 1817. A far conoscere la natura di Giava contribuì anche l'importante History of Java (pubblicato da Raffles nel 1817), che comprende capitoli sulla flora e la fauna. Quest'opera introdusse Raffles nell'establishment scientifico britannico, guadagnandogli l'ammissione alla Royal Society e l'amicizia di personalità come Joseph Banks. Il re lo nominò baronetto. Apprezzato a Londra, ma molto meno dai vertici della Compagnia, con una vera e propria retrocessione nel 1817 Raffles tornò in Asia come governatore generale di Bencoolen, una base commerciale di scarsa importanza sulla costa occidentale di Sumatra. Anche qui, come a Giava, si segnalò per l'energia delle sue riforme, le capacità diplomatiche e l'interesse per il mondo naturale. Adesso al suo servizio c'era un altro giovane naturalista, il medico inglese Joseph Arnold. Una scoperta sensazionale Ed eccoci ritornati a quel maggio 1818 in cui fu scoperta Rafflesia arnoldii, nel corso di una breve spedizione a metà tra missione diplomatica e esplorazione scientifica. Temendo le incursioni delle popolazioni locali nei territori della Compagnia situati lungo la costa meridionale di Sumatra, Raffles decise di muovere verso sud per cercare un accordo. La spedizione, oltre a Raffles e al dottor Arnold, comprendeva la moglie di Raffles, l'intrepida lady Sophia, alcuni soldati e una sessantina di portatori. Partito da Bencoolen intorno al 15 maggio, viaggiando a cavallo dopo due giorni il gruppo raggiunse Manna, dove gli si unirono ufficiali locali, il Pangeran (un alto nobile locale) e il residente della compagnia, Edward Presgrave. Il 19 maggio, nei pressi del villaggio di Pulau Lebar, uno dei servitori malesi richiamò l'attenzione del dottor Arnold, che si era separato dal gruppo per esplorare la foresta: "Signore, venga, venga con me. Un fiore molto grande, bellissimo, meraviglioso!". Arnold non se lo fece dire due volte: ed eccolo di fronte a un oggetto mai visto: una corolla enorme, con un diametro di più di un metro e spessi petali carnosi rossastri, macchiettati di bianco. Il peso era di quasi sette chili e la coppa interna conteneva non meno di sei litri d'acqua. Il tutto emanava esattamente l'odore della carcassa di un bufalo in avanzato stato di decomposizione. Poco dopo allo stupefatto botanico si unirono Raffles, Sophia e Presgrave. Arnold disegnò e raccolse l'esemplare (un fiore maschile che si decompose rapidamente; fu possibile conservare solo una piccola parte dell'apparato riproduttivo) e alcuni boccioli ancora chiusi. Pochi mesi dopo, Arnold morì di una febbre contratta in questa o in una successiva spedizione nell'interno, senza aver potuto completare né la descrizione né il disegno (a completarlo fu Sophia Raffles). Le note di Arnold, il disegno, i boccioli e ciò che si era potuto preservare del fiore furono spediti a Banks, a Londra, che li affidò per il riconoscimento e la descrizione a Robert Brown. A Sumatra, il successore di Arnold come botanico della Compagnia delle Indie, William Jack, continuò le ricerche, raccogliendo anche un esemplare femminile (anche i boccioli raccolti da Arnold risultarono maschili). Nel 1820, scrisse un articolo in cui descrisse diverse specie tropicali ignote alla scienza, tra cui quella che denominò Rafflesia titan. Lo inviò alla madre, con la richiesta di farlo pubblicare se in Inghilterra Rafflesia era ancora inedita; altrimenti di sopprimerlo. Questa strana richiesta si spiega con il desiderio di assicurare la priorità alla scienza britannica: temeva infatti che Deschamps (la cui scoperta era ben nota ai botanici che operavano tra Sumatra e Giava), nonostante la perdita dei materiali, potesse pubblicarla per primo. Pubblicato solo nel 1822 in Malayan Miscellanies, il nome è oggi considerato illegittimo perché preceduto dalla denominazione di Brown. Basandosi sul disegno e i materiali di Arnold, quest'ultimo aveva infatti comunicato la scoperta del gigantesco fiore di Sumatra nella riunione della Linnean Society del 30 giugno 1820; nella seduta del 21 novembre, aggiunse altre informazioni ricevute da Raffles e Jack. La pubblicazione ufficiale avvenne l'anno successivo in Transaction of Linnean Society. Inizialmente Brown aveva pensato di denominare il fiore gigante Arnoldia grandiflora, ma poi, seguendo le abitudini dell'epoca (era usuale privilegiare lo sponsor più che il botanico) decise di riunire il nome di due scopritori in Rafflesia arnoldii, scrivendo che lo stesso dottor Arnold avrebbe voluto così (è probabile, come dimostra l'analoga scelta di Jack). Illustrata da un magnifico disegno di Bauer, la pubblicazione destò scalpore: quel fiore mostruoso corrispondeva perfettamente a ciò che l'immaginario collettivo dell'epoca associava all'Oriente: il mistero, l'eccesso, l'esuberanza di una natura che affascinava e allo stesso tempo respingeva. Come scrive T.P. Barnard in The East India Company and the Natural World, da una parte divenne il simbolo dell'alterità delle regioni tropicali, dall'altra una giustificazione delle spedizioni per conoscerle e prenderne possesso. Quasi immediatamente (1825) ne vennero ordinati tre modelli in cera a grandezza naturale, uno per lo stesso Raffles, uno per la Linnean Society, l'altro per la Royal Horticultural Society. Quest'ultimo è l'unico sopravvissuto e può essere tuttora ammirato ai Kew Gradens. Epilogo: distruzione e creazione di un eroe Come nei romanzi ottocenteschi, prima di salutare i tanti personaggi comparsi in questa storia, due parole sulle vicende successive. Lasciamo da parte Deschamps, Horsfield e Jack che, come dedicatari rispettivamente di Deschampsia, Horsfieldia e Jackiopsis, saranno protagonisti di post tutti per loro. Arnold, l'ho già anticipato, morì pochi mesi dopo la sensazionale scoperta. Dopo la sua morte, gli vennero dedicati ben due generi, ma nessuno dei due è tuttora valido: nel 1824 il botanico francese Henri Cassini gli dedicò Arnoldia (famiglia Asteraceae), oggi sinonimo di Dimorphoteca; nel 1826 una seconda Arnoldia (famiglia Cunoniaceae) gli fu dedicata dal tedesco Blume, denominazione non valida per la priorità di quella di Cassini. Quanto a Raffles, doveva ancora conquistare il suo maggior titolo di gloria: la fondazione di Singapore, di cui comprese l'enorme valenza strategica, suggerendone la creazione alla Compagnia nel 1818 e gettandone le basi l'anno successivo. Lasciando da parte le vicende politiche (qualche cenno si troverà nella biografia), negli anni che avrebbe ancora trascorso nel Sudest asiatico continuò a promuovere l'esplorazione naturalistica di Sumatra avvalendosi della collaborazione di Jack (anch'egli morto di febbri nel 1822) per mettere insieme una collezione di oltre 2000 pezzi, che comprendeva anche disegni commissionati a pittori locali. Nei brevi periodi trascorsi a Singapore (funestati dall'ostilità crescente dei vertici della Compagnia e dalla rivalità con il Residente William Farquahr) promosse istituzioni scientifiche, fondando tra l'altro una scuola dove si potesse studiare sia l'inglese sia le lingue locali, nell'obiettivo di formare i figli tanto degli impiegati della Compagnia quanto dei leader malesi e cinesi. Ospitò Nathaniel Wallich, venuto qui in convalescenza, e insieme crearono un orto botanico e un giardino sperimentale, dedicato soprattutto alle piante di interesse commerciale. Probabilmente Raffles progettava di scrivere un'opera su Sumatra analoga a quella su Giava. Tuttavia tutte le sue carte, le collezioni naturalistiche, i disegni di piante e animali, andarono perduti nell'incendio della nave "Fame" su cui si era imbarcato con la famiglia nel gennaio del 1823 per tornare in patria. Nelle otto settimane seguenti, in attesa di un nuovo imbarco, commissionò ad artisti locali una serie di disegni (44 uccelli, 7 mammiferi e 27 piante), oggi conservati nella British Library. Rientrato in patria in pessime condizioni di salute, in totale rottura con la Compagnia delle Indie, si concentrò sugli interessi naturalistici. Nel 1825 fu tra i fondatori della Società zoologica di Londra (di cui fu il primo presidente) e promosse la creazione dello Zoo di Londra. Morì nel 1826, il giorno prima del suo quarantacinquesimo compleanno. In odio alle sue posizioni antischiaviste, il vicario della sua parrocchia (la cui famiglia si era arricchita con il commercio di schivi) gli rifiutò la sepoltura; la compagnia negò ogni pensione alla vedova e requisì le sue proprietà in risarcimento delle perdite subite durante la sua amministrazione. A riabilitarne la memoria si dedicarono prima la moglie, che gli sopravvisse per un trentennio, poi gli esegeti del colonialismo vittoriano, che ne fecero un eroe. Piante rare a rischio d'estinzione Il genere Rafflesia comprende circa 28 specie di piante parassite endemiche delle foreste pluviali del Sudest asiatico (Thailandia, Indonesia, Malaysia, Filippine). Sono endoparassiti, che vivono totalmente all'interno dei tessuti della pianta ospite (diverse specie di Tetrastigma, una liana della famiglia Vitaceae); il corpo della pianta è costituito da filamenti presenti nelle radici dell'ospite; è priva di foglie, fusti, radici; l'unica manifestazione esterna sono i fiori. I boccioli tondeggianti, simili a un cavolo, emergono dalla corteccia dell'ospite e dopo circa 9 mesi si apre un fiore massiccio, con cinque petali e una profonda coppa centrale, che contiene numerosi organi appuntiti, la cui funzione è sconosciuta, e molti litri di nettare. In quasi tutte le specie, i fiori maschili (dotati di stami) e quelli femminili (dotati di pistillo) sono portati da piante diverse, spesso molto distanti tra loro; inoltre, quelli femminili sono particolarmente rari. L'impollinazione viene effettuata da insetti sarcofagi, attratti dall'intenso odore di carne putrefatta. Il fiore appassisce dopo pochissimi giorni (da 5 a 7); questo, insieme alla distanza tra gli esemplari femminili e maschili e ai lunghi tempi di sviluppo del bocciolo, che rendono rara la fioritura contemporanea in aree sufficientemente prossime di esemplari dei due sessi, rende piuttosto difficile l'impollinazione. Se invece le cose vanno lisce, alla fioritura seguirà un frutto tondeggiante, di circa 15 cm di diametro, che contiene migliaia di piccoli semi. La dispersione di questi ultimi avviene grazie a piccoli roditori che si cibano dei frutti. Tutte queste caratteristiche hanno due conseguenze: le Rafflesiae sono poco conosciute e rischiano di estinguersi. Per studiarne i tessuti, bisogna necessariamente uccidere sia la pianta sia l'ospite. Inoltre, mancando (fiore a parte) tutti gli altri organi tipici delle piante superiori, la classificazione di questo genere (e dei generi affini Rhizanthes e Sapria, che insieme formano la famiglia delle Rafflesiaceae) è un vero rebus, che è stato risolto solo di recente grazie allo studio del DNA, dimostrando con prove convincenti che la famiglia più vicina è costituita dalle Euphorbiaceae (il che desta stupore, pensando che a questa famiglia appartengono piante con fiori molto piccoli). Le particolarissime esigenze e le specificità della riproduzione delle Rafflesiae, unite alla costante diminuzione del loro habitat, ne mettono inoltre a rischio la sopravvivenza; nessun orto botanico, compreso quello di Singapore, è finora riuscito a coltivare con successo R. arnoldii; R. patma è invece coltivata nell'orto botanico di Bangor, a Giava, dove sono stati sperimentati con successo metodi di riproduzione agamica (mentre è fallita la riproduzione per semi). L'unica strada per conservare questa meraviglia della natura è dunque preservarne l'ambiente naturale, una sfida senza dubbio difficile. A Sabah, nel Borneo settentrionale, sono stati creati giardini di conservazione (la specie presente qui è R. keiti) e si incoraggiano i proprietari dei terreni dove ne è stata segnalata la presenza a mantenerli intatti, a proteggere i boccioli nei lunghi mesi che precederanno la fioritura, a segnalare l'apertura dei fiori e ad accogliere i turisti, in cambio di un contributo statale; in altri paesi sono in atto iniziative analoghe di turismo ecosostenibile. Con la sua rarità e il suo fascino esotico, Rafflesia è infatti anche un'attrazione turistica, che alimenta un'industria i cui proventi si spera possano contribuire a salvarla. Qualche approfondimento nella scheda. L'abbé Nolin (così viene per lo più chiamato) è la primula rossa della botanica francese del Settecento. Direttore dei vivai reali dal 1765 al 1794, consigliere botanico di Luigi XV e Luigi XVI, con un ruolo di primo piano in grandi progetti come il reimpianto del parco di Versailles e la creazione della stazione sperimentale di Rambouillet, corrispondente di Franklin e di molti altri, il suo nome salta sempre fuori nelle vicende botaniche dell'epoca; eppure fu ben presto dimenticato e di lui sappiamo pochissimo. Doveroso omaggio di un botanico al quale cambiò la vita, rimane a ricordarlo il genere Nolina. Un direttore innovativo per i vivai reali Un piccolo aneddoto, riferito dal grande botanico Petit-Thouars, che a sua volta avrebbe diretto quell'istituzione, ci racconta come l'abate Pierre-Charles Nolin fu nominato sovrintendente dei vivai del re. Nolin era un modesto canonico del convento parigino di Saint-Marcel, ma si era fatto una discreta fama di naturalista e di agronomo; nel piccolo giardino annesso al convento coltivava piante rare e nel 1755 ne aveva pubblicato il catalogo nell'opuscolo Essai sur l'agricolture moderne, scritto a quattro mani con un confratello, l'abate Blavet. Nel 1764, Mme de Pompadour volle visitare quel giardino; l'abate gliene offrì i più curiosi prodotti; la favorita, colpita, lo introdusse presso il re che poco dopo lo nominò controllore dei vivai reali. Le Pépinières du Roi erano preposte alla coltivazione di alberi, arbusti, bulbose e perenni da fiore destinati alle residenze reali. Un primo piccolo vivaio era stato creato a Parigi nel 1640, ma l'enorme numero di essenze necessarie per il parco di Versailles (inizialmente prelevate in natura o acquistate da privati), lo rese insufficiente, spingendo a creare una serie di vivai anche a Versailles. Istituiti nel 1693, inizialmente occupavano appena tre arpenti, cioè poco più di un ettaro; una trentina di anni dopo, erano progressivamente cresciuti, fino a estendersi su 142 arpenti (ovvero un sessantina di ettari), divisi in 14 parcelle. Il loro scopo principale era la coltivazione degli alberi destinati ai viali e ai boschetti di Versailles e Marly: olmi, tigli, ippocastani, frassini, castagni, querce, carpini, aceri, e "épines", ovvero arbusti spinosi, in particolare prugnoli e biancospini; importanti erano anche i bossi, che formavano le bordure delle aiuole formali. Al vivaio parigino, spostato più a nord nel 1720 e da quel momento denominato Pépinières du Roule, continuò ad essere affidata la produzione di perenni da fiore, bulbose, arbusti da fiore, arbusti da potare in forme geometriche (in particolare agrifogli), esotiche. A presiedere questo complesso sistema l'ispettore dei vivai reali (controleur des Pépinières du Roi); il primo fu Noël Baudet de Morlet, che mantenne l'incarico fino alla morte, nel 1725, trasmettendolo poi al figlio, Charles-Nicolas Beaudet de Morlet, che aveva collaborato con il padre fin da giovanissimo e diresse i vivai per un quarantennio, fino al 1764, quando gli subentrò appunto l'abate Nolin. Nolin era un agronomo e un botanico innovatore, in corrispondenza con colleghi di molti paesi stranieri; proprio in Essai sur l'agricolture moderne aveva espresso apertamente le sue critiche al giardino formale alla francese e il suo desiderio che anche i giardini della sua patria si aprissero alle specie esotiche e al nuovo gusto naturale. Nelle prime righe della prefazione, leggiamo: "L'abbondanza e la varietà sono il principale merito di un grande giardino; tuttavia, osservando la maggior parte dei giardini di questo paese, sembra che l'immensa e ammirevole fecondità della Natura ci sia estranea, e che non sia fatta per noi. Gli Inglesi, gli olandesi, e anche altri, non la pensano così, e i loro giardini non sono meno ben disegnati dei nostri, e in più hanno il vantaggio di unire molte specie di alberi e arbusti. [...]. Le diverse forme date da un abile architetto non possono evitare la noiosa uniformità del nostro modo di piantare; e infatti, che cosa si trova nelle varie parti di un vasto giardino? Viali di tigli, di olmi e di ippocastani, eternamente fiancheggiati da carpini, salici e boschetti piantati allo stesso modo". Come cambiare, lo spiega qualche pagina dopo: "Piantare un vasto giardino in modo simmetrico con le stesse specie di alberi è un errore, e non lo è meno usare la stessa simmetria nell'organizzazione delle singole parti che lo compongono. Un'aria di disordine, di capriccio, quasi di trascuratezza, vuol dire dare un aspetto di verità, un'aria campestre, più analoga alla Natura e che meglio ne imita l'amabile bizzarria". Queste idee innovative, che probabilmente erano in consonanza con i gusti e i desideri del re Luigi XV, poterono realizzarsi solo in parte: non nei vivai di Versailles, il cui compito era per natura conservativo, ma piuttosto in quello parigino, che riforniva le piante per la residenza preferita del sovrano, il Trianon. La gestione dei vivai reali Infatti, i vivai reali di Versailles e di Parigi avevano compiti differenti, ed erano affidati, sulla base di un appalto, a due diversi imprenditori privati. In base ai contratti che ci sono pervenuti, quelli di Versailles avrebbero dovuto essere in grado di fornire annualmente una quantità enorme di piante: 25.000 alberi di tutte le specie e dimensioni; 9.000 alberi da frutto; 270.000 carpini di tutte le dimensioni; 450.000 olmi, aceri, "épines" e altri; 90.000 querce e castagni; 500 scatole di bossi (cioè quasi un milione di pianticelle). Di fatto, le richieste erano molto inferiori: ad esempio, tra il 1762 e il 1772, vennero forniti 8483 alberi da frutto, cioè in dieci anni meno della produzione fissata per un singolo anno. All'inizio di ogni anno, il controllore degli edifici reali redigeva una lista delle piante necessarie per la manutenzione, da consegnare nell'autunno per l'impianto; Nolin, nella sua veste di controllore dei vivai, ratificava l'ordine e lo trasmetteva all'imprenditore, che avrebbe curato la fornitura. Mediamente, per la manutenzione di Versailles, questa ammontava per ciascun anno a circa 3300 alberi, cui si aggiungevano 630 carpini, una cinquantina di scatole di bossi e altrettanti agrifogli. Ai vivai giungevano anche richieste di privati, in particolare membri della corte, che venivano accettate solo se le piante erano disponibili una volta soddisfatti gli ordini reali. In teoria, dunque, la produzione eccedeva enormemente i bisogni; in pratica, i problemi non erano pochi. Ripetutamente, Nolin lamenta che i vivai vengono devastati dai cervi, dai caprioli e dai daini, penetrati dagli accessi lasciati aperti da cacciatori e viandanti; gli animali fanno strage anche delle pianticelle trapiantate nel parco reale, decimate pure dalla mancanza di cure e dal trapianto in terreni poco adatti e ormai troppo sfruttati; l'ombra è eccessiva e toglie luce a molte piante. Si aggiunga una crescente crisi finanziaria; gli imprenditori non vengono pagati e vogliono stracciare i contratti; a loro volta non possono pagare i lavoratori, che sono ridotti alla fame. Un anno, le piante, pur disponibili nei vivai, non vennero piantate perché a Versailles mancavano i giardinieri che avrebbero dovuto occuparsi del trapianto. Il degrado divenne tale che, come vedremo, nel 1774-75, all'avvento di Luigi XVI, fu necessario un reimpianto totale. Essendo le piante destinate alla manutenzione ordinaria (i cosiddetti regarnis) e non a nuovi impianti, nessuna innovazione era in questione. Dunque oggetto delle richieste erano gli eterni e tanto deprecati olmi, carpini, querce ecc. Diverso il discorso per il vivaio parigino, destinato a coltivazioni più specializzate e aperto alla sperimentazione; su una superficie di circa 5 arpenti (un ettaro e mezzo) comprendeva venticinque quadrati, venti grandi e cinque piccoli, ciascuno con una destinazione specifica: nei cinque piccoli si coltivavano i bulbi, dei grandi uno era destinato alle margotte, quattro agli agrifogli (predisposti per la successiva potatura formale), tre alle conifere, uno ai sempreverdi, due ai lillà, sette agli arbusti da fiore (in particolare ai rosai), due alle erbacee da fiore. A parte gli agrifogli (destinati a Versailles), la produzione era rivolta ad altre residenze reali, in particolare al parco del Trianon. Qui Luigi XV, sordo alle richieste di Nolin per quanto riguarda Versailles (per lui, nulla di più che un terreno di caccia) aveva fatto costruire il Nouveau Jardin du Roi, cui non lesinava denaro e attenzioni; oltre a un piccolo zoo, comprendeva anche un frutteto modello dove si coltivavano esotiche ancora poco note in Francia e si sperimentavano sempre nuove varietà (particolarmente di moda le fragole coltivate da Duchesne). A partire dal 1759, si aggiunse un orto botanico che, sotto la direzione di Claude Richard, divenne uno dei più importanti d'Europa, con oltre 4000 varietà. Dunque, le innovazioni di Nolin qui erano benvenute. Grazie ai suoi contatti internazionali (che spaziavano dai missionari in Cina ai collezionisti britannici ai primi venditori americani) egli poteva procurarsi piante rare, da mettere a disposizione del Jardin des Plantes, dell'orto botanico del Trianon e anche dei viavai provinciali che forse vennero creati per sua iniziativa; in tal modo, secondo Petit-Thouars, la Pépinière du Roule "divenne una specie di metropoli che forniva ai vivai delle province alberi esotici utili e piacevoli". Secondo la testimonianza di Thomas Blakie, volle anche creare un giardino di acclimatazione nei pressi di Tolone o Marsiglia, dove venivano coltivate le piante ritenute inadatte agli inverni parigini; tra di esse, uno dei primi Ginkgo biloba coltivati in Francia. Nel 1774 Luigi XVI succedette al nonno; il suo regno, che si sarebbe concluso tanto tragicamente, venne salutato con speranza come una nuova era anche in campo botanico. Nolin mantenne il suo ruolo di consulente reale e fu coinvolto direttamente nei principali progetti botanici del giovane sovrano, in primo luogo il reimpianto del parco di Versailles. Attuato nell'inverno 1774-75, comportò l'abbattimento di alberi e arbusti risalenti all'epoca di Luigi XIV; le siepi che formavano le pareti delle "sale verdi" furono soppresse e sostituite con boschetti. A Nolin fu affidato il compito di indicare le specie più adatte; con l'aiuto di Leroy e Thouin, l'abate redasse una lista dettagliata, scegliendo le specie anche in base alla natura del terreno e all'esposizione. Niente costose esotiche, comunque. La preferenza andò a tigli, ippocastani e soprattutto querce. A Rambouillet, acquistato dal re nel 1773, venne invece creato un centro sperimentale che comprendeva anche un vivaio per la sperimentazione, la moltiplicazione e l'acclimatazione di essenze esotiche, soprattutto alberi forestali americani che si sperava potessero rinvigorire il patrimonio forestale nazionale. Di nuovo Nolin fu coinvolto e mise a disposizione i suoi contatti americani (tra cui Franklin, con il quale scambiava semi e pianticelle) per assicurare il successo della missione di André Michaux, inviato nel 1785 negli Stati Uniti per cercare piante adatte ad arricchire le foreste e i giardini francesi. Negli ultimi anni della sua vita, Nolin volle essere affiancato da un nipote, Louis de Lezermes. Forse il suo ultimo contributo fu la trasformazione di un giardino donato allo stato nell'isola di Hyères in giardino di acclimatazione. Qui, a partire dal 1782, Nolin creò un aranceto modello, che assicurava l'indipendenza finanziaria dell'istituzione, e un giardino destinato alla coltivazione delle specie esotiche. Scoppiata la rivoluzione, nel 1792 ebbe il dispiacere di vedere questo gioiello messo in vendita come bene nazionale, nonostante il tentativo di Broussonet di salvarlo trasformandolo in una sezione del Jardin des Plantes riservata allo studio delle piante dei paesi caldi. Nolin morì poco dopo, nel 1794 o nel 1795. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Piante che non hanno mai sete Proprio ad André Michaux, che Nolin aveva contributo a inviare negli Stati Uniti, si deve la dedica del genere Nolina (nel primo volume di Flora boreali-americana, 1803). Oggi assegnato alla famiglia Asparagaceae nel sistema APG III, è stato precedentemente assegnato alle Ruscaceae oppure a una famiglia propria, Nolinaceae (con i quattro generi Nolina, Beaucarnea, Calibanus e Dasylirion). Comprende circa 25 specie xerofile del Messico e degli Stati Uniti meridionali (dal Texas alla California), caratterizzate da una rosetta di centinaia di foglie nastriformi, coriacee, con margini seghettati, ruvidi al tatto, che in alcune specie nascono al livello del terreno, in altre coronano un tronco legnoso più o meno alto. L'infiorescenza, eretta, molto decorativa, comprende migliaia di piccoli fiori crema; a differenza di specie affini come le agavi, sono policarpiche e dioiche. Poco noto da noi (mentre è notissima Beaucarnea recurvata, spesso ancora conosciuta con il vecchio nome Nolina recurvata), comprende specie molto decorative, tutte resistentissime alla siccità, alcune delle quali sorprendentemente rustiche. Tra le più interessanti, la messicana N. nelsonii, dall'aspetto di una piccola palma, con una corona di strette foglie grigio-azzurre che si dipartono da un tronco che in un esemplare maturo può raggiungere tre o quattro metri; N. longifolia, originaria del Messico, con fusto ingrossato alla base, portamento arboreo, dimensioni imponenti, foglie molto lunghe che ricadono a cascata e infiorescenze irregolarmente ramificate che superano il metro. N. bigelowii, priva di tronco, si presenta come un grande ciuffo d'erba; originaria degli altipiani degli Stati Uniti sudoccidentali e del Messico, è rustica. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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