All'inizio la botanica fu al servizio della medicina e si studiarono le piante officinali; poi se ne scopersero le valenze economiche, e si studiarono le piante utili; ma dalla fine del Settecento, alcuni scienziati iniziano a studiare la natura di per se stessa. E il microscopio apre orizzonti sconosciuti. Una pagina non insignificante di questa storia l'ha scritta Otto Friedrich Müller, secondo curatore di Flora Danica, e dedicatario - grazie al figlio di Linneo - dell'elusiva Muellera. ![]() Uno zoologo armato di microscopio Nel 1772, a continuare la grande impresa di Flora Danica, interrotta dl licenziamento di Oeder, fu chiamato Otto Friedrich Müller. Una scelta forse discutibile, dettata da motivazioni politiche: Müller, essenzialmente uno zoologo, era lo scienziato danese più noto all'estero e soprattutto non era tedesco, o, per lo meno, era nato in Danimarca. Infatti, anche se suo padre era un musicista di corte di origine tedesca, era nato a Copenhagen nel 1730; aveva studiato teologia e legge all'Università, poi, prima di laurearsi era passato al servizio della potente famiglia nobile Schulin, come precettore del piccolo Frederik Ludwig detto Fritz. Inspirato dalla splendida natura che circondava la tenuta degli Schulin, Fridrichsdalin, Müller incominciò a studiare scienze naturali da autodidatta, per insegnare a se stesso e al proprio allievo. Si servì in particolare dei libri di Linneo, che a partire dagli anni '60 divenne anche uno dei suoi corrispondenti. All'inizio, a interessarlo fu soprattutto la botanica, ma ad affascinarlo erano anche gli insetti. Nel 1761 si procurò il primo microscopio e incominciò a specializzarsi nello studio degli animali piccolissimi. Tra il 1765 e il 1767, accompagnò il suo pupillo in un grand tour che portò i due in Germania, Svizzera, Italia, Francia, Olanda. Visitarono musei, palazzi e teatri; ovunque, Müller ebbe cura di prendere contatto con gli ambienti scientifici e, in un certo senso, promuovere se stesso; grazie alle nuove conoscenze e alla stesura di brevi opuscoli, divenne così membro di molte accademie europee. Con molti importanti scienziati strinse duraturi rapporti scientifici e corrispose per tutta la vita; citiamo tra gli altri von Haller, Scopoli e Allioni. Fu quest'ultimo, nel 1766, a pubblicare un'opuscolo di Müller, Manipulus insectorum taurinensium, in cui il danese descrisse 185 insetti raccolti a Torino, tra la collina e l'area della Dora. Nel 1767, durante una sosta di cinque mesi a Strasburgo, Müller pubblicò la sua unica opera di botanica, Flora Fridrichsdalina, un catalogo delle piante che vivevano nei pressi della tenuta degli Schulin. Per un breve periodo, tra il 1771 e il 1772, egli lavorò poi come archivista del dipartimento norvegese dello Schacchiere, incarico che fu soppresso dopo la caduta di Struensee. Ma proprio allora per lo scienziato, sposatosi nel 1773 con una ricchissima vedova norvegese, grazie alla sicurezza economica, iniziò il periodo più proficuo. Gli anni 1774-1784 furono segnati da uno stupefacente numero di pubblicazioni, in particolare nei campi della zoologia trascurati da Linneo e dalla sua scuola; oltre a insetti, vermi, molluschi, si dedicò in particolare allo studio degli animali unicellulari con un importante libro sugli infusori. Quando uscirono i primi volumi di Flora Danica, concepì il progetto di realizzarne il contraltare nel campo della fauna, raccogliendo in Fauna Danica le tavole illustrative e le descrizioni di tutti gli animali del regno di Danimarca-Norvegia. Mentre già lavorava a questo progetto, gli venne assegnato l'incarico di continuare la pubblicazione di Flora Danica: due opere mastodontiche di cui ovviamente non era destinato a vedere la fine. Benché il suo interesse prioritario andasse all'opera zoologica (riuscì a scriverne l'introduzione, il Prodromus, importantissimo per la sua classificazione innovativa degli invertebrati, e due dei quattro volumi), il suo intervento su Flora Danica non fu di semplice routine. Anche se a sfogliare le tavole non avvertiamo alcuna discontinuità (la mano di pittore e incisore è ancora quella dei Rössler), in realtà sta cambiando sottilmente il focus dell'opera: dalle piante di interesse economico, secondo il progetto originale del botanico-economista Oeder, al mondo vegetale in tutte le sue manifestazioni, anche le più umili (i funghi, all'epoca, erano ancora considerati vegetali). Ecco allora farsi via via più numerosi, nei cinque fascicoli curati da Müller, le alghe, i funghi, i licheni. Alcune tavole destarono persino l'indignazione di un anonimo recensore: sono quelle che rappresentano le muffe che crescono sulla frutta marcia e su una mosca morta; chi avesse acquistato il libro per conoscere le piante utili e nocive nella produzione dei foraggi, fa notare l'anonimo, a vedersi davanti frutta marcia e mosche schifose, l'avrebbe gettato via per sempre! Ai nostri occhi meravigliati, invece, il fungo saprofita che avvolge la mosca, ingrandito molte volte, appare quasi una flora fantastica, degno di un artista visionario come Leo Lionni. In un'altra tavola, viene ritratta una diatomea: la scoperta e la descrizione della prima diatomea (Bacillaria paradoxa) si deve infatti a Müller, che la scoprì in una delle esplorazioni delle acque del golfo di Oslo a cui si dedicava ogni estate. Esausto dal superlavoro, Müller morì poco più che cinquantenne, nel 1784. Come sempre, qualche notizia in più nella biografia. ![]() Muellera: frutti come collane Al grande scienziato danese il figlio di Linneo aveva voluto dedicare nel 1782 un nuovo genere di leguminose sudamericane, Muellera. Nei secoli successivi, esso darà del filo da torcere ai tassonomisti; appartenente alla tribù Millettieae delle Fabaceae (il genere più noto di questo gruppo è Wisteria, quello del glicine), fino a qualche anno fa le si assegnavano per lo più due specie, una più meridionale, un albero delle foreste umide dalla Colombia al Brasile, M. denudata; una più settentrionale, un albero o arbusto delle foreste aride dal Messico al sud America settentrionale, M. frutescens (oggi sinonimo di M. monilis). Elemento più caratteristico gli strani baccelli, detti "moniliformi": i restringimenti e le dilatazioni ricordano le perle di una collana. La maggior parte degli studiosi propendeva anzi per considerare Muellera un sinonimo di Lonchocarpus. A rivoluzionare questa situazione, nel 2012 uno studio basato sul DNA, condotto da un gruppo di botanici brasiliani, ha confermato l'indipendenza del genere Muellera, al quale dovrebbero anzi essere assegnate ben 26 specie, in parte prima attribuite a Lonchocarpus, in parte ad altri generi affini. La proposta ha faticato un po' ad imporsi; nell'estate del 2016, quando ho redatto questo post, Plant list gli attribuiva ancora solo tre specie (due delle quali diverse da quelle citate). Oggi (estate 2019) la situazione si è capovolta: Plants of the world on-line accetta pienamente il genere, cui attribuisce 32 specie distribuite nelle regioni tropicali dell'America centrale e meridionale. Una delle più interessanti tra queste "nuove" specie è M. sericea (sin. Bergerona sericea), un albero nativo della foresta pluviale di Argentina, Bolivia e Paraguay, a volte usato anche come ornamentale per i bei fiori rosa porpora. Rinvio alla scheda per qualche approfondimento.
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Per un ventennio, il medico tedesco Oeder è l'attivissimo factotum della botanica danese; è lui, tra l'altro, a ideare e a varare la magnifica Flora Danica, uno dei testi più imponenti e belli della storia della botanica. Ma il suo zelo riformatore gli costò molto caro. Grazie a Linneo, gli rimase se non altro la dedica della poco nota Oedera. ![]() Un botanico molto impegnato Nel Settecento, con la nascita della dottrina fisiocratica, che lega all'agricoltura la prosperità della nazione, cresce l'interesse per lo sfruttamento economico delle piante. E' in questa atmosfera che nel 1752 J. H. E. Bernstorff, ministro degli esteri danesi, chiama un giovane medico e botanico bavarese, Georg Christian Oeder, a rivestire la neonata cattedra di "Economia sociale" all'Università di Copenhagen; la levata di scudi dell'ambiente accademico danese, ostile alla nomina di uno studioso straniero, fa fallire il progetto. Tuttavia, con l'appoggio del re Federico V e del primo ministro Moltke, Bernstorff rilancia: nasce l'Istituzione Botanica Reale, modellata sul Jardin des Plantes di Parigi, del tutto autonoma dall'università, finanziata dalla Corona, con lo scopo di istituire un giardino botanico e una biblioteca. Oeder diventa così curatore del Giardino botanico e lettore di botanica applicata, con il titolo di Professor botanices regius. Oltre alle lezioni, attivissimo, Oeder si impegna su tre fronti. Il primo luogo, l'allestimento del Giardino Botanico. Fin dal Seicento l'Università di Copenhagen si era dotata di un orto dei semplici ma l'istituzione, priva di fondi, aveva finito per declinare. Il nuovo giardino, fondato nel 1752, era situato a nord dell'Ospedale Frederik, diviso in due parti da Amaliegade: la parte occidentale, con una serra, fu aperta al pubblico nel 1763; la parte orientale non venne mai realizzata. In effetti, già nel 1778 il giardino fu trasferito nei pressi di Charlottenborg, dove si trova ancora oggi. Il secondo impegno fu la realizzazione di una biblioteca specializzata, con particolare attenzione alla botanica applicata. Grazie ai fondi messi a disposizione dal sovrano e ai contatti esteri, nel 1754 venne acquistata l'intera biblioteca del medico britannico Richard Mead, con oltre 1300 volumi; altri testi inglesi e americani furono procurati da Philip Miller, direttore del Chelsea Physic Garden. Il terzo progetto fu il più ambizioso. Nel 1753 Oeder propose di studiare e documentare la flora del regno di Danimarca-Norvegia e dei possedimenti della corona (Schleswing-Holstein, Oldenburg-Dalmenhorst, Islanda, isole Faroe e Groenlandia), pubblicando i risultati in una serie di volumi in folio con descrizione e usi di ciascuna specie, corredate da grandi tavole realizzate in calcografia. Lo scopo era duplice: individuare piante utili in medicina, orticultura, agricoltura e giardinaggio; diffondere la conoscenza della botanica e delle proprietà economicamente utili delle piante. Nasce così Flora Danica, un monumento della botanica e un capolavoro dell'illustrazione botanica, destinato a impegnare Oeder per quasi vent'anni e tre o quattro generazioni di botanici danesi per oltre un secolo: il primo volume uscirà infatti nel 1761, l'ultimo 123 anni dopo, nel 1883. Per raccogliere le piante, Oeder si impegna in diversi viaggi, in particolare tra il 1758 e il 1760 visita le montagne della Norvegia, dove rinnova la conoscenza con Gunnerus, vescovo di Trondheim, che sarà suo corrispondente negli anni successivi. A partire dal 1761, riesce a pubblicare un fascicolo all'anno (per un totale di 10 fascicoli, con 600 tavole). All'inizio degli anni '70, tuttavia, l'energico e abile botanico, come economista, si trovò coinvolto in una delle pagine più discusse della storia danese. Dal settembre 1770, per circa sedici mesi, in seguito alla grave malattia mentale del re Cristiano VII, il potere fu di fatto nelle mani del medico personale del re, il tedesco Johann Friedrich Struensee, convinto illuminista, che varò a ritmo febbrile una serie di riforme invise alla corte e alla nobiltà danese: tra le altre, l'emancipazione dei servi, l'abolizione della tortura, la cancellazione del carcere per debiti. Oeder, a sua volta un riformatore illuminista, convinto sostenitore della necessità di una riforma agraria e dell'emancipazione dei contadini, sui quali gravavano ancora vincoli feudali, diventò uno dei suoi più ascoltati consiglieri ed entrò a far parte di molte commissioni. Quando venne varato un catasto, base indispensabile per una tassazione più equa, fu Oeder a predisporre i dati delle parrocchie di varie aree del paese. Fece parte anche della commissione che doveva elaborare la riforma universitaria. Tuttavia nel gennaio 1772, una congiura di corte portò alla caduta di Struensee che venne arrestato, processato per alto tradimento - con l'accusa, fondata, di essere l'amante della regina - e condannato a morte. Seguì una reazione feroce, che portò alla cancellazione di tutte le riforme e al siluramento dei collaboratori di Struensee. Tra loro, anche Oeder che perse il posto di professore (quindi anche gli incarichi di curatore dell'orto botanico, della biblioteca e di Flora danica). Da quel momento, visse una vita oscura di piccolo funzionario a Oldenburg, località presto ceduta a un duca tedesco - di fatto un esilio mascherato; solo due anni prima della morte (avvenuta nel 1791) venne nobilitato da un altro convinto riformatore, l'imperatore Giuseppe II. Quale informazione in più nella biografia. ![]() Dalla botanica alla mensa reale Ma torniamo a Flora Danica. Il progetto varato da Oeder si rivelò ambiziosissimo ed è improbabile che, anche se non fosse stato silurato, egli sarebbe riuscito a realizzarlo. Tanto che, in corso d'opera, l'impresa cambiò natura: poiché i testi che avrebbero dovuto accompagnare le tavole (le descrizioni delle piante e le indicazioni dei loro usi economici e medici) non furono mai scritti, si trasformò in uno spettacolare album illustrato. Oeder riuscì unicamente a scrivere un'introduzione alla botanica e una lista parziale delle piante (relativo alle sole crittogame). Il licenziamento gli impedì di scrivere altri testi e i suoi successori vi rinunciarono definitivamente. Flora Danica si presenta dunque come una raccolta di splendide tavole calcografiche in folio (ben 3240), il catalogo completo della flora spontanea danese; in via di principio, le piante, ritratte dal vero, sono a grandezza naturale (tranne le piante grandi, riprodotte in scala con particolari a grandezza naturale) e occupano una tavola ciascuna - ad eccezione di alcuni muschi. I particolari che permettono di distinguere una specie dall'altra sono disegnati a parte; per le piante più piccole e i particolari minuti, venne utilizzata una lente d'ingrandimento. Gli artisti di cui si servì Oeder erano anch'essi tedeschi, padre e figlio: Michael Rössler (1705-77), il padre, era l'incisore e Martin Rössler (1727-82), il figlio, il pittore. Come si è detto, l'opera aveva anche un fine divulgativo. Per questo, ne vennero predisposte due versioni: una di base, con le tavole stampate in bianco e nero, una di lusso con le tavole colorate a mano; grazie al sostegno del re, vennero vendute a un prezzo "politico": ciascun fascicolo di 60 tavole costava 4 rix-dollari nella versione economica, 6 in quella di lusso. Inoltre per la diffusione si coinvolse la chiesa: copie dell'edizione base vennero inviate ai vescovi che avrebbero provveduto a distribuirle ai pastori, alle scuole parrocchiali e alle persone colte; in effetti, nella Danimarca del Settecento, non esistevano scuole pubbliche laiche, l'istruzione passava totalmente attraverso la chiesa luterana, che d'altra parte, in quanto chiesa di stato, dipendeva dal re. Dopo il siluramento di Oeder, l'opera rischiò di essere a sua volta abbandonata. Tuttavia, dopo qualche anno di interruzione, fu affidata a Otto Friedrich Müller, uno zoologo di chiara fama, scarsamente interessato alla botanica, tanto che in otto anni (1775-1782) pubblicò soltanto cinque fascicoli. Con il terzo curatore l'opera tornò nelle mani di un botanico, il grande Martin Vahl (1787-1799) e proseguì, tra interruzioni e riprese, fin quasi alla fine del XIX secolo, con J. W. Hornemann (1806-1840), S. Drejer, J. F. Schouw e Jens Vahl (1843), F. Liebmann (1845-1853), J. Steenstrup e Johan Lange (1858), Johan Lange da solo (1861- 1883), che concluse l'opera e ne scrisse gli indici. Giunta alla fine, l'enorme pubblicazione era costituita da 51 parti e 3 supplementi. Grazie alla biblioteca nazionale danese, è possibile non solo conoscerne meglio la storia, ma sfogliare la spettacolare opera, che è stata integralmente digitalizzata nel sito Flora danica on-line. Non perdetevi una visita: la bellezza artistica e la precisione scientifica hanno qui raggiunto uno dei loro vertici. Ma nel frattempo Flora Danica conosceva una nuova incarnazione, quella che probabilmente l'ha resa più nota. Nel 1790 il principe ereditario Federico ordinò alle manifattura di Copenhagen un servizio da tavola decorato con disegni tratti dalle tavole di Flora Danica, che avrebbe dovuto essere donato alla zarina Caterina II; in finissima ceramica, completamente dipinto a mano, a realizzarlo fu chiamato Johan Christoph Bayer, uno dei pittori botanici che aveva lavorato per i volumi sotto la supervisione di Martin Vahl. Lo splendido servizio, che comprendeva 1802 pezzi, però non giunse mai in Russia; rimase in possesso della corona danese, che ancora oggi se ne serve in occasione di ricevimenti di stato. Diventato uno dei più prestigiosi servizi di porcellana di ogni tempo, è tuttora in produzione alla Royal Copenhagen (dipinto rigorosamente a mano, scegliendo tra oltre 3000 motivi decorativi tratti dalle illustrazioni di Flora Danica). ![]() Oedera, un'asteracea sudafricana Quanto a Oeder, poco prima di essere silurato fece in tempo a ricevere l'omaggio di Linneo che nel 1771 (Mantissa Plantarum altera) gli dedicò il genere sudafricano Oedera separandolo dall'europeo Buphthalmum. Oedera, della famiglia Asteraceae, è un genere endemico del Sud Africa, con circa 18 specie delle Province del Capo orientale e del Capo orientale. Si tratta di piccoli arbusti eretti, di portamento che può ricordare quello dell'erica, con foglioline spesso strette, aghiformi, adatte a sopportare l'aridità, e capolini gialli, singoli in alcune specie, raccolti in dense infiorescenze in altre. Una dozzina di specie è caratteristica di un ambiente molto particolare, il fynbos, la vegetazione arbustiva che riveste una piccola striscia costiera del Capo Occidentale, soprannominato Cape Floral Kingdom per l'abbondanza di piante (almeno 8000 specie) e la ricchezza di endemismi (circa 4000 specie). Similmente alla macchia mediterranea, che ne è l'equivalente nelle nostre latitudini, è una formazione vegetale xerofita dominata da arbusti. Tra i gruppi più importanti, si annoverano anche numerose Asteraceae, appartenenti a generi affini tra loro, Relhania, Rosenia, Nestlera, Leysera, e appunto Oedera, che si distingue dagli altri per alcune caratteristiche, ad esempio per le foglie prive di tomento. Alcune di esse, come O. genistifolia e O. squarrosa possono talvolta assumere il ruolo di specie dominanti. Qualche informazione in più nella scheda. Nel Settecento può anche succedere che un vescovo crei una società scientifica e si improvvisi naturalista per il progresso della nazione e a maggior gloria di Dio. Così il norvegese Gunnerus, filosofo e teologo, divenuto vescovo di Trondheim, fonda la società scientifica più settentrionale d'Europa, pubblica articoli sulla fauna marina, corrisponde con Linneo e scrive la pionieristica, sebbene farraginosa, Flora norvegica. E l'amico Linneo gli dedica una pensierosa Gunnera. ![]() Dalla Bibbia al libro della natura La Norvegia nel Settecento avrebbe potuto essere definita un'area depressa. Appartenente al regno di Danimarca, ne costituiva una provincia povera, quasi totalmente rurale, scarsamente abitata (ancora a inizio Ottocento aveva poco più di 800.000 abitanti) e non sufficientemente conosciuta. Le incessanti guerre che avevano coinvolto la Danimarca nel Seicento l'avevano ulteriormente impoverita. Marginale era ugualmente la vita culturale; non vi esisteva neppure un'Università. E' in questa situazione che si colloca l'opera pionieristica di Johan Ernst Gunnerus. Nato a Cristiania (oggi Oslo) nel 1718, figlio del medico della città, aveva studiato dapprima a Copenhagen, poi in Germania, a Halle e Jena, dove si era laureato e aveva iniziato una modesta carriera di filosofo e teologo. Richiamato in Danimarca, aveva preso i voti e, dopo pochi anni come insegnante di teologia all'Università di Copenhagen, nel 1758 era stato nominato dal re Federico V vescovo della diocesi di Nidaros, con sede a Trondheim in Norvegia. Qui Gunnerus dedicò tutte le sue energie non solo alla cura pastorale della sua enorme diocesi (si estendeva da 63° al 71° di latitudine, dalla Norvegia centrale fino a Capo Nord), ma anche al rilancio della vita culturale norvegese e alle ricerche naturalistiche. Il connubio era allora meno inconsueto di quanto possa apparire oggi: nella formazione universitaria del tempo non esisteva separazione tra materie "umanistiche" e "scientifiche"; per Gunnerus la scienza era una sola, e si poteva ricavare dalla lettura di due libri: la Bibbia e il libro della natura, la cui bellezza e infinita varietà era per lui la più grande prova dell'esistenza di Dio. Del resto, non fu l'unico vescovo luterano a coltivare interessi scientifici: Erik Pontoppidan, vescovo di Bergen, di qualche anno più vecchio di Gunnerus, era anche uno zoologo, autore di The natural history of Norway (Londra, 1755). Appena giunto a Trondheim, Gunnerus si impegnò per la fondazione di una società scientifica, simile a quelle che aveva conosciuto in Germania e alle numerosissime che sorgevano nel Settecento in tutta Europa, sul modello della Royal Society londinese. Nel 1760 insieme agli storici Gerhard Schöning e Peter Frederik Suhm fondò Det Trondhiemske Selskab, ovvero la Società di Trondheim, che nel 1767 ricevette la conferma reale e divenne la Società reale norvegese di scienze e lettere; era la prima società scientifica della Norvegia, e la più settentrionale d'Europa. La Società si dotò di una biblioteca (esiste ancora oggi, e porta il nome di Gunnerusbiblioteket, "Biblioteca Gunnerus") e di un gabinetto di collezioni scientifiche e archeologiche. Nel 1761 incominciò a uscire un bollettino (Skrifter), con articoli di vari argomenti; Gunnerus diede il suo contributo scrivendo inizialmente di teologia, ma poi soprattutto di zoologia (in particolare sugli uccelli e la fauna marina). Importanti studiosi stranieri del tempo ne divennero membri; Gunnerus ne fu il vicepresidente fino alla morte (il ruolo onorifico di presidente fu attribuito al governatore della Norvegia, il principe Karl von Hessen). Intenzionato a esplorare le risorse naturali della Norvegia - questo ruolo poteva essergli stato affidato dallo stesso re, e corrispondeva a quella valorizzazione del territorio che caratterizza molte monarchie europee del Settecento - Gunnerus dapprima cercò di interessare all'impresa i pastori della sua diocesi, a cui chiese di raccogliere e inviargli esemplari di ogni tipo per il gabinetto di naturalia della Società; ma spesso i risultati furono deludenti (la richiesta fu scambiata per quella, tradizionale, di doni come pesci, frutti, primizie). Decise quindi di dirigere egli stesso le ricerche, approfittando dei numerosi viaggi pastorali che lo portarono a vistare molte parti della sua amplissima diocesi. Gunnerus, che in Germania aveva seguito studi vasti e eclettici, non aveva una specifica preparazione di naturalista; oggi lo definiremmo un colto e ben intenzionato dilettante, più che uno scienziato. Cercò di supplire con vaste letture e con contatti con scienziati più preparati. Un punto di riferimento divenne in particolare Linneo, di cui studiò con attenzione le opere e di cui fu assiduo corrispondente. I due non si incontrarono mai, ma stabilirono una relazione basata sulla stima reciproca, utile a entrambi: Gunnerus riceveva consiglio e un aiuto esperto, Linneo esemplari per arricchire le sue collezioni. Assistito da ottimi disegnatori e con una certa propensione all'anatomia, che probabilmente gli derivava dal padre medico, le sue descrizioni di animali marini e i disegni che li accompagnavano furono giudicati eccellenti da Linneo. Grazie al dono di una bottiglia d'acqua marina, nel 1770 Gunnerus fu il primo studioso a esaminare dal vivo un copepode (minuscolo crostaceo), Calanus finmarchicus . Sempre a lui si deve la prima descrizione scientifica e la denominazione binomiale dello squalo elefante (Squalus maximus, oggi Cetorhinus maximus). ![]() La Flora norvegica L'interesse di Gunnerus per la botanica potrebbe essere nato nei pochi anni che trascorse a Copenhagen prima di essere nominato vescovo e di tornare in Norvegia. E' probabile che qui abbia conosciuto Georg Christian Oeder che nel 1753 fu incaricato dal re di dirigere la monumentale Flora danica, un'opera che si proponeva di descrivere il patrimonio botanico della Danimarca e di tutti i territori che ne dipendevano. Tra il 1758 e il 1760, Oeder visitò le montagne della Norvegia e soggiornò a Trondheim, dove fu amichevolmente accolto da Gunnerus; negli anni successivi i due rimasero in contatto epistolare. Forse fu questo esempio a spingere il vescovo a studiare la flora norvegese e a progettare un'opera specifica (Oeder non aveva visitato la Norvegia settentrionale dove invece si svolsero i viaggi e le ricerche di Gunnerus). In vista di questo progetto, intorno al 1764 iniziò a raccogliere piante in modo sistematico. Il lavoro procedette rapidamente; già nel 1766 uscì il primo volume, che comprende 314 specie, mentre il secondo (813 specie) rimarrà incompleto e sarà pubblicato postumo nel 1776. Per quanto Gunnerus non avesse alcuna preparazione botanica, il suo è un lavoro diligente: scritto in latino, per poter essere letto da un pubblico internazionale, si avvale delle denominazioni binomiali - Linneo fu spesso consultato da Gunnerus per risolvere problemi di identificazione - ma non della classificazione linneana; anzi questo è uno dei suoi punti deboli: le piante si susseguono in ordine casuale, forse quello in cui vennero raccolte e esaminate. Al nome latino seguono i nomi locali, norvegese e lappone per le piante del Finnmark, e in altre lingue europee, una descrizione succinta - spesso ripresa da altre opere, puntualmente citate nelle ricche referenze bibliografiche -, indicazioni sommarie sull'habitat, informazioni di tipo economico, medico, etnografico sui possibili usi. Il numero e il livello di approfondimento delle informazioni è molto variabile, e diminuisce per il secondo volume, che sicuramente l'autore non ebbe modo di rivedere. Le piante descritte per la prima volta sono tre: Arenaria norvegica, Carex maritima, Gnaphalium norvegicum (oggi Omalotheca norvegica), cui si aggiunge il lichene Lichen normoericus (oggi Cornicularia normoerica). Pur con molti limiti, l'opera - arricchita da tavole di eccellente qualità - rimane interessante proprio per il suo carattere pionieristico. Qualche notizia in più sull'autore, che morì nel 1773 in seguito a un'infreddatura, nella biografia. ![]() Gunnerae giganti, Gunnerae pigmee All'amico Gunnerus Linneo volle dedicare una pianta adatta alla sua personalità e alla sua dignità vescovile; scelse un'erbacea africana dalle grandi foglie, che forse gli ricordavano il colletto pieghettato della veste talare. E in omaggio all'amico, uomo ponderato, riflessivo, che non amava giungere a conclusioni affrettate prima di attribuire un esemplare a una nuova specie, la battezzò Gunnera perpensa. In latino, il verbo perpenso significa infatti soppesare attentamente, considerare con ponderazione, e fa riferimento sia all'impatto di questa specie maestosa sia alle caratteristiche del suo dedicatario. Evidentemente, Linneo ci aveva pensato bene prima di attribuirla a un nuovo genere! Egli non poteva sospettare che qualche anno dopo sarebbero state scoperte specie ben più imponenti in Centro e Sud America, nel Madagascar e nelle isole del Pacifico. Se Gunnera perpensa può raggiungere anche il metro d'altezza, G. manicata, la specie più nota e più frequentemente coltivata nei giardini d'acqua, la supera di gran lunga: con i suoi tre metri d'altezza e le foglie dal diametro di 2,5 m (anche 3 m in coltivazione), è la pianta erbacea più grande del mondo, seconda solo alla gigantesca ninfea Victoria amazonica. Sono piante così particolari che i botanici le hanno assegnate a una famiglia specifica, Gunneraceae, di cui Gunnera è l'unico genere, con 40-50 specie native di una vasta area, che comprende l'America latina, l'Australia, la Nuova Zelanda, le isole del Pacifiche e del sud est asiatico, il Madagascar, l'Africa. Non tutte sono così gigantesche: se G. masafuerae, delle Isole Juan Fernandez al largo del Chile contende il primato a G. manicata con gambi lunghi un metro e mezzo e foglie lunghe quasi 3 m e la brasiliana G. magnifica ha infiorescenze che superano i 2 m di altezza e possono pesare fino a 13 kg, la minuscola G. albocarpa, della Nuova Zelanda, ha foglie lunghe appena 1-2 cm, mentre quelle della graziosa G. magellanica raggiungono 5-9 cm. Antichissime (si calcola che esistano da almeno 150 milioni di anni), le Gunnerae sono le uniche angiosperme ad aver sviluppato una simbiosi con cianobatteri (le cosiddette alghe azzurre, appartenenti principalmente al genere Nostoc) che si accumulano in apposite ghiandole, contenute nei piccioli, fornendo alla pianta l'azoto che essa difficilmente potrebbe ricavare dal terreno perennemente umido in cui vive in natura. Altre informazioni su questo genere curioso e affascinante nella scheda. Nella Ferrara del Cinquecento, grazie al favore del suo duca, Antonio Brasavola impianta un orto botanico e mette alla prova le conoscenze farmaceutiche di antichi e moderni usando il metodo sperimentale. Diventa un medico così dotto da guadagnarsi un soprannome onorifico dal re di Francia e la fiducia delle maggiori teste coronate del tempo. A onorare i suoi meriti botanici, la splendida e fragrante Brassavola. ![]() Brasavola, il nuovo Antonio Musa Sebbene più recente e meno famoso degli atenei di Padova o della vicina Bologna, nel Rinascimento anche lo Studio ferrarese, ovvero l'Università di Ferrara, fu un centro di prim'ordine, caratterizzato da grande libertà e apertura culturale, capace di attirare molti studenti stranieri (basti ricordare Niccolò Copernico, che qui si laureò nel 1503). A conferirgli risonanza europea nel campo della medicina e della botanica, fu un personaggio poliedrico che a Ferrara nacque, si formò e insegnò per molti anni: Antonio Brasavola (o Brassavola). Filosofo, precoce commentatore dell'Isagoge di Porfirio (un importante testo del III secolo a.C., su cui si basava l'insegnamento della logica medievale), a soli 19 anni si laureò in filosofia e medicina. Entrato al servizio del duca Ercole II, lo accompagnò in Francia dove il giovane medico ferrarese (al momento aveva 28 anni) ebbe modo di dimostrare le sue conoscenze enciclopediche e la sua abilità dialettica in tre giorni di discussione de quodlibet scibile (ovvero su qualsiasi argomento, a scelta del pubblico) di fronte ai dottori della Sorbona; ammirato, il re Francesco I gli conferì la croce di San Michele e lo ribattezzò Antonio Musa, vedendo in lui la reincarnazione del celebre medico dell'imperatore Augusto (se ne parla in questo post). Il soprannome rimase e dal quel momento il nostro fu per sempre Antonio Musa Brasavola. Contro una scienza medica e botanica tutta libresca (come ancora troviamo anche nella grande opera di Mattioli) egli sente l'esigenza di sottoporre a verifica le reali proprietà dei semplici citati nelle opere degli antichi. Nel 1536 crea l'Orto botanico ("ingens viridarium") del Belvedere, su un isolotto messogli a disposizione dal duca, che viene sistematicamente arricchito con piante esotiche provenienti dalla Grecia e dall'Asia minore - l'area nativa dei semplici descritti da Dioscoride. Fu una delle prime istituzioni del genere, che precede di nove anni Padova: ma mentre l'orto padovano può vantarsi di essere l'orto botanico universitario più antico del mondo, essendo sopravvissuto nei secoli, quello ferrarese andò perduto con le vicissitudini del ducato estense del secondo Cinquecento; l'attuale orto botanico di Ferrara sorge in tutt'altro luogo e risale al XVIII secolo. Grazie ai numerosi viaggi che compie con il duca, Brasavola mette anche insieme uno dei più notevoli erbari del tempo; anche la pratica dell'ortus siccus, ovvero l'idea di sostituire gli erbari figurati con raccolte di piante essiccate, era ai suoi esordi, grazie a Luca Ghini e ai suoi allievi. Il medico farrese sperimenta sistematicamente l'efficacia dei semplici sia sui cani sia su detenuti messi a sua disposizione del duca; i risultati del suo lavoro pionieristico sono esposti nella sua opera maggiore, Examen omnium simplicium medicamentorum, "Esame di tutti i semplici d'uso medico"; si tratta sia di un catalogo di tutte le piante, i semi, i frutti (nonché, secondo il dettato di Dioscoride, delle pietre, terre e metalli con proprietà medicamentose) in uso nelle farmacie di Ferrara, sia una discussione delle loro reali proprietà medicinali, basate sull'osservazione diretta. Come molti suoi contemporanei, Brasavola si preoccupa della corretta identificazione delle piante citate dagli antichi; ad esempio osserva che il cedro descritto da Teofrasto e Plinio è tutt'altra cosa di quello che cresce in Liguria e in Campania, quindi non ha senso attribuire al secondo le proprietà del primo. Ma va molto più in là: è perfettamente consapevole dell'inadeguatezza delle conoscenza degli antichi: “E’ certo che neppure la centesima parte delle erbe è stata descritta dagli antichi ma ogni giorno impariamo a conoscerne di nuove”. Le conoscenze mediche dei classici, oltre ad essere spesso inficiate da fraintendimenti e cattive traduzioni, erano limitate e infarcite di errori; né si può respingere ciò che gli antichi non conoscevano e l'esperienza dimostra efficace: "Noi non vogliamo imitare coloro che rifiutano l'uso del decotto di guaiaco perché gli antichi non ne hanno parlato". Con parole quasi identiche a quelle celebri di Leonardo ("l'esperienza è madre di ogni certezza") Brasavola sottolinea la funzione insostituibile dell'esperienza, "signora di tutte le cose", sia nella ricerca di nuove specie vegetali sia nella verifica delle loro proprietà medicinali. Dottissimo in molti campi, medico appassionato e celeberrimo, conteso da sovrani e pontefici (fra i suoi pazienti illustri si annoverano, oltre ai duchi d'Este Alfonso I e Ercole II, Francesco I di Francia, l'imperatore Carlo V, Enrico VIII d'Inghilterra, il papa Paolo III), era così dedito anche al più umile dei malati da fare sempre tenere pronta la mula - quasi uno status symbol del medico del tempo - per accorrere in caso di necessità a loro capezzale anche più volte al giorno. Dimostrò la sua indipendenza di pensiero confutando le teorie che vedevano nella sifilide (il terribile "mal francese" che aveva cominciato a imperversare in Italia dopo la calata di Carlo VIII del 1495) una punizione divina, identificandone correttamente l'origine e introducendo cure innovative, tra cui, appunto, l'uso del legno di guaiaco. Qualche approfondimento nella sezione biografie. ![]() Brassavola, signora della notte Questo nobile ferrarese, di casa alla corte di principi e pontefici, non avrebbe disdegnato la pianta che ne ha eternato il nome: nobile e sontuosa è infatti la Brassavola (con due esse, mentre nella grafia del cognome del celebre medico si alternano le due forme Brasavola / Brassavola), un'orchidea che Robert Brown ribattezzò in suo onore nel 1813, quando stabilì il genere staccandolo da Epidendrum. Proprio come il suo dedicatario, pioniere della ricerca sperimentale, degli orti botanici e degli erbari, nonché di audaci operazioni chirurgiche (si dice che sia stato il primo a praticare una tracheotomia), anche la Brassavola ha giocato un ruolo pionieristico nella storia della coltivazione delle orchidee. Nel 1698 B. nodosa fu la prima orchidea ad essere importata e coltivata in Europa: dalla nativa Curaçao, grazie alle navi della Compagnia delle Indie occidentali, approdò a De Hortus, l'appena inaugurato orto botanico di Amsterdam, come attesta il catalogo redatto da Caspar Commelin, e vi fiorì la prima volta nel 1715. Con i suoi delicati fiori bianchi e il soave profumo citrato che inizia a diffondersi verso sera, si guadagnò il soprannome di "Signora della notte" e inaugurò l'inarrestabile passione per le orchidee. Linneo la descrisse in Systema naturae, assegnandola al genere Epidendrum, da cui sarà separata, appunto, per opera di Brown. Il genere Brassavola comprende una ventina di specie, tutte americane (dal Messico fino al Brasile, passando per le Antille), epifite o litofite, con uno pseudobulbo allungato da cui nasce un'unica foglia carnosa. I fiori, solitari o raccolti in racemi, bianchi o bianco-verdastri, colpiscono per le forme singolari: il labello cuoriforme di B. nodosa oppure i lunghissimi sepali e petali di B. cucullata che la fanno assomigliare a un insetto stravagante. Sono proprio queste forme estrose ad aver suscitato l'interesse degli ibridatori. Com'è noto, nella famiglia delle Orchidaceae è possibile ottenere ibridi fertili anche incrociando generi diversi, purché non troppo lontani geneticamente; è quello che, avviene per esempio, incrociando Brassavola con Laelia e Cattleya (i tre generi appartengono alla medesima sottotribù); ecco allora x Brassocattleya, i meravigliosi ibridi tra Brassavola e Cattleya; x Brassolaelia, ibridi tra Brassavola e Laelia; x Brassolaeliocattleya, che discendono da tutti e tre i generi. x Ryncovola è invece un ibrido tra Brassavola e Ryncholelya. Altre notizie nella scheda. Partito dalla Spagna ragazzo per inseguire il sogno dell'Eldorado, Bernabé Cobo invece dell'oro scopre in una volta sola due vocazioni: quella di missionario e quella di naturalista. Dei quasi sessant'anni trascorsi in America, ne dedica almeno quaranta alla ricerca e alla stesura della sua grande opera sul Nuovo mondo rimasta inedita per oltre duecento anni. Cavanilles, che la riscoprì, gli dedicò l'opulento genere Cobaea. ![]() Da avventuriero a missionario e ricercatore Tra le duemila persone che nel febbraio 1596 si accalcano nel porto di Sanlúcar, pronti a imbarcarsi per le Indie, c'è un ragazzo di poco più di 15 anni, Bernabé Cobo. Penultimo dei sei figli di una famiglia della piccola nobiltà andalusa, privo di istruzione (sa appena leggere e scrivere) e di un qualsiasi mestiere (lavorare sarebbe indegno della sua condizione di hidalgo), come i suoi compagni di viaggio lascia la Spagna alla volta del mitico Eldorado; Antonio de Berrio, governatore di Trinidad, assicura che il successo e la ricchezza non mancheranno, la terra lastricata d'oro li aspetta a braccia aperte. Gli esiti saranno ben altri: sbarcati in parte a Trinidad, in parte a San Tomé, sull'Orinoco, gli avventurieri - tra loro anche numerose donne - vengono decimati della fame, delle malattie, degli indigeni cannibali e dei corsari inglesi. Più fortunato, Bernabé Cobo, forse per la giovane età, viene inviato a Hispaniola, dove rimane un anno. Di qui si trasferisce a Panama e durante il viaggio conosce un gesuita, Esteban Paez che, intuendo le sue buone qualità, gli propone di accompagnarlo a Lima per frequentare il Collegio dei Gesuiti. E' la svolta che deciderà per sempre la sua vita: da avventuriero si trasforma prima in studente, poi in erudito, missionario gesuita, scienziato. Non tornerà mai più in Spagna. Il suo Eldorado sarà la storia, l'etnografia, la natura del Nuovo mondo. Dopo aver completato gli studi presso i gesuiti di Lima, infatti, Cobo prese i voti e servì l'ordine in diverse località del Perù; apprese le lingue locali e si legò di amicizia con Alonso Topa Atau, discendente dei sovrani inca, grazie al quale poté accedere a quanto rimaneva delle tradizioni incaiche. Intorno al 1613, nacque così l'ambizioso progetto di una Storia del Nuovo Mondo, che avrebbe dovuto riunire la geografia, la storia naturale (in particolare la flora e la fauna), l'etnografia, le vicende della colonizzazione. Padre Cobo lesse i documenti conservati negli archivi, visitò buona parte del viceregno del Perù, ovunque raccogliendo con scrupolo e eccezionale spirito di osservazione informazioni etnografiche, storiche, naturalistiche. Nel 1629, ottenuto il permesso dei superiori, passò in Messico, poi in Nicaragua e in Guatemala, in modo da estendere le sue ricerche alla Mesoamerica. Rientrato a Lima nel 1643, dedicò gli ultimi anni al completamento della sua monumentale Historia del Nuevo Mundo. Qualche approfondimento nella biografia. Ma anche quest'opera, preziosissima per la massa di informazioni di prima mano e chiara nel linguaggio, come tante che incontriamo in questo blog, non ebbe fortuna. Degli iniziali tre volumi si è conservato solo il primo e parzialmente il secondo, mentre il terzo è andato totalmente perduto. Per fortuna dei cultori di scienze naturali, è proprio il primo ad essere dedicato alla geografia, alla fauna e alla flora del Nuovo Mondo. Segnalato e parzialmente pubblicato da Cavanilles nel 1804, quanto rimane del grande lavoro di Cobo venne stampato solo a fine Ottocento, a cura di M. Jiménez de la Espada (1890-1895). ![]() Alla scoperta dei "piani della vegetazione" del Perù Per quanto siano notevoli anche i capitoli sui minerali e gli animali, a occupare il centro degli interessi di padre Cobo è soprattutto la botanica: tre capitoli sono dedicati alle piante esclusive dell'America (di fatto, la sua sarà la prima flora regionale del Perù), uno all'introduzione delle piante spagnole nel Nuovo Mondo. Quasi due secoli prima di Humboldt, Cobo fu il primo studioso a introdurre il concetto di "piano altitudinale della vegetazione": osservando la natura peruviana, capì infatti che l'altitudine, l'esposizione e il regime delle piogge condizionano il tipo di vegetazione. Partendo dall'alto, distinse sei piani di vegetazione, a partire dalla puna brava (4500-5300 m), la regione degli altopiani freddi, con vegetazione intermittente, dove le specie del piano inferiore mancano o non riescono a fruttificare; quindi il secondo piano, dove si coltivano le patate e l'Oxalis tuberosa; il terzo, dove si coltivano mais e lino; il quarto, dove attecchiscono le piante da frutto portate dalla Spagna; il quinto, con le piante che richiedono più calore; il sesto, dove maturano i datteri, le banane e i meloni. Secondo le consuetudini del tempo anche Cobo ebbe un particolare interesse per le piante medicinali. Fu tra i primi a segnalare le virtù febbrifughe della china (Cinchona sp.), anche se è del tutto infondata la notizia che sia stato lui a introdurne l'uso o addirittura a portarne la scorza in Europa (come si è visto, infatti, non fece più ritorno in patria). Ricordiamo inoltre Datura stramonium e D. inoxia, di cui segnala le proprietà narcotiche e allucinogene; Baccharis lanceolata, usata dagli indigeni come cicatrizzante e contro le malattie da raffreddamento; Nicotiana paniculata, chiamata "coro" e usata per diverse malattie; Argemone mexicana, chiamata "cardo santo" e usato come purgante. Cobo riferisce anche di aver contribuito all'acclimatazione di piante spagnole nel Nuovo Mondo, facendosi inviare semi dalla madre patria; nel 1629, a quanto racconta, mentre si trovava in Guatemala gustò il frutto di Annona cherimola e gli piacque tanto che ne inviò i semi in Perù, dove non era coltivato; tredici anni dopo, al ritorno a Lima, scoprì che era diventata abbastanza comune da essere venduta al mercato. La notizia è curiosa, visto che questa pianta è ritenuta originaria degli altipiani andini, non del centro America, e forse attesta una antica coltivazione. ![]() Cobaea, una splendida arrampicatrice Come si è visto, fu Cavanilles a inizio Ottocento a riscoprire e a pubblicare parzialmente l'opera di Cobo; qualche anno prima, nel 1791, aveva provveduto a rendergli omaggio dedicandogli il genere Cobaea: scelta opportuna, visto che, sebbene sia essenzialmente messicano, alcune specie vivono anche in Perù e Guatemala. Cobaea comprende 18 specie di rampicanti erbacee o legnose della famiglia Polemoniaceae; ha caratteristiche così peculiari che alcuni studiosi in passato le hanno addirittura assegnato una famiglia specifica, Cobaeaceae. La più nota e coltivata è senza dubbio la bella C. scadens, introdotta in Europa alla fine del Settecento; nativa del Messico, fu una delle piante scoperte dalla Real Expedición Botánica a Nueva España (1787-1803), classificate appunto da Cavanilles. E' una rampicante di rapida crescita, coltivata come annuale nelle aree soggette a gelate, altrove come perenne, molto apprezzata per la copiosa fioritura di grandi fiori campanulati viola o blu profondo, larghi anche 5 cm. Di sera e di notte è profumata (in Messico è impollinata da farfalle notturne e da pipistrelli). La sua capacità di arrampicarsi aggrappandosi ai sostegni con le foglie terminali trasformate in viticci ha destato la curiosità di Charles Darwin, che ne ha parlato in The Movements and Habits of Climbing Plants (1875). Meno nota e di fascino più discreto, un'altra specie messicana, C. pringelei, ha fiori candidi a tromba. Altre notizie nella scheda. Il bello della ricerca è che spesso riserva sorprese. Tutti crediamo di sapere che la Robinia si chiama così in onore del giardiniere del re di Francia Jean Robin che primo la piantò in Europa, e a testimoniarlo c'è anche il matusalemme degli alberi parigini. Ma a scavare, a interrogare le fonti, si scopre che, forse, non è andata proprio così. ![]() Jean Robin, un giardiniere intraprendente Lungo la rive gauche della Senna, proprio di fronte a Notre Dame, Square Viviani è una piccola oasi verde che si vanta di ospitare l'albero più vecchio di Parigi: è un'acacia, o meglio una Robinia pseudoacacia. Secondo la tradizione, l'avrebbe piantata qui nel 1602 Jean Robin, farmacista e erborista del re Enrico IV. Il venerabile esemplare, per quanto imponente (30 m d'altezza, 3,5 m di diametro), è alquanto acciaccato: per permettergli di rimanere ancora in piedi, cemento è stato colato nelle fessure del tronco, a sua volta sostenuto da tre pilastri sempre di cemento, dove si arrampica un'edera che deve periodicamente essere rimossa affinché non soffochi il fragile quattro volte centenario. Ma chi era Jean Robin e come gli è giunta questa pianta americana (la Robinia pseudoacacia è originaria degli Appalachi, nell'America settentrionale) a cui avrebbe per sempre legato il suo nome? Iniziamo dalla prima domanda. Farmacista, con una discreta formazione (scrisse in latino la maggior parte delle sue opere, in cui dimostra una buona conoscenza delle acquisizioni della botanica del tempo; Pitton de Tournefort lo riteneva il miglior conoscitore delle piante della sua epoca), Jean Robin intorno al 1586 fu nominato "arborista e erborista" del re Enrico III, incarico che gli sarebbe stato confermato dai successori Enrico IV e Luigi XIII. Nel 1597 la facoltà di medicina gli affidò la cura del piccolo orto annesso all'école de medicine di rue de la Bucherie, creato già nei primi anni del secolo, dove si coltivavano i semplici da "dimostrare" ai futuri medici. Non si trattava di un vero orto botanico, ma di un semplice horticulus (simile a quello creato da Rondelet nel cortile della facoltà di medicina di Montpellier) con non più di duecento specie. Il curatore, oltre a occuparsi della gestione dell'orto, impartiva anche lezioni di botanica pratica e erboristeria ai futuri medici. Per quanto prestigiosi, non erano tuttavia gli incarichi di "botanico del re e curatore del giardino della celeberrima scuola di medicina", ad arricchire l'intraprendente Robin che, stimolato dalla moda dei fiori esotici introdotta a corte dalla regina Maria de' Medici, negli stessi anni creò un giardino privato sulla punta occidentale dell'Ile de la Cité, dove coltivava piante esotiche di cui si procurava i semi e i bulbi attraverso una vasta rete di contatti, che includevano tra l'altro John Tradescant il vecchio, Mathias de l'Obel e Carolus Clusius. Suo stretto collaboratore fu il figlio Vespasien che tra fine Cinquecento e inizio Seicento viaggiò moltissimo per raccogliere piante e rinsaldare la rete di fornitori; fu in Inghilterra, nelle Fiandre, in Germania, in Italia, in Spagna e visitò addirittura alcune isole al largo della Guinea portoghese. Che cosa coltivasse Jean Robin nel suo giardino lo sappiamo grazie al Catalogus stirpium tam indigenarum quam exoticarum quæ Lutetiæ coluntur (1601), "Catalogo delle specie sia indigene sia esotiche che si coltivano a Parigi", in cui si elencano le 1300 specie che vi crescevano. Tra di esse quella che riscuoteva maggiore successo era la tuberosa (Polyantes tuberosa) che era appena stata introdotta dal Messico ed era ancora estremamente costosa; un contemporaneo accusò Robin di essere così geloso dei suoi bulbi più esclusivi da distruggerli piuttosto che donarli agli amici. Guy Pantin, il mordace decano della facoltà di medicina di Parigi, rincarò la dose soprannominandolo "Eunuco delle Esperidi", ovvero feroce guardiano del suo harem vegetale. Forse una critica un po' esagerata, se pensiamo che il giardino - vicinissimo al Louvre e a Notre Dame - era aperto ai visitatori, era frequentato sia dalle dame di corte sia dagli studiosi che i due Robin accompagnavano lungo i viali, mostrando le specie più interessanti e dissertando sulle loro proprietà. ![]() Uno splendido florilegio Per promuovere la sua impresa commerciale, nel 1608 Jean Robin si associò con Pierre Vallet (o Valet), "ricamatore del re", un grande pittore botanico e incisore che lavorava per la corte disegnando modelli floreali da ricamare: la moda degli abiti con ricami di fiori esotici, lanciata da Maria de' Medici, furoreggiava tra le dame di corte. Il frutto della loro collaborazione fu lo spettacolare florilegio Le jardin du Roy très chréstien Henry IV. Preceduto da un pomposo frontespizio, che ritrae l'ingresso di un giardino alla francese, con ordinate aiuole e serre (immagine ideale o reale riproduzione del giardino di Robin?), fiancheggiato dalle statue dei numi tutelari Clusius e l'Obel, comprende una sessantina di splendide tavole in cui Vallet ha ritratto dal vero piante da fiore spesso esotiche e assai ornamentali, coltivate nel giardino di Robin o nei giardini del Louvre; particolarmente notevoli le bulbose, tra cui anche alcune specie africane. I brevi testi e la dedica alla regina, in latino, si devono a Jean Robin. Lo scopo della squisita opera era duplice: fornire modelli destinati ai ricamatori e far conoscere alcune specie recentemente importate da Vespasien dalla Spagna e dalla Guinea. L'opera ottenne abbastanza successo da indurre gli autori a pubblicarne una seconda edizione accresciuta nel 1626, con il titolo Le jardin du Roy tres chrestien, Loys XIII. Alla morte di Jean Robin (1629), i suoi incarichi passarono al figlio Vespasien che era stato da lui formato e che, come abbiamo visto, da tempo era il suo principale collaboratore. Insieme nel 1624 avevano pubblicato la seconda edizione del catalogo del loro giardino, Enchiridion isagogicum ad facilem notitiam Stirpium tam indigenarum quam exoticarum quæ coluntur in horto D.D. Joan. & Vespasiani Robin, dove le piante elencate sono ben 1800. Ma intanto anche a Parigi, per la tenace volontà di Guy de La Brosse, stava per nascere un vero orto botanico. Istituito con patente reale nel 1626, il Jardin du Roi (il futuro Jardin des Plantes) nasce nel 1635 e viene inaugurato nel 1640. Vespasien Robin, che ormai ha una cinquantina di anni ed è un botanico di grande preparazione ed esperienza, viene nominato sottodimostratore del giardino; di fatto, sarà il braccio destro e il principale collaboratore di de La Brosse fino alla morte (1662). Anche le sue piante traslocano nel nuovo giardino, tanto più che l'area in cui era sorto il vecchio giardino di Jean Robin era stata nel frattempo inglobata in place Dauphine. Qualche notizia in più sui due Robin nella sezione biografie. Nella gallery alcune immagini tratte da Le jardin du roy très chréstien Henry IV. Le tavole furono stampate in bianco e nero, ma Vallet allegò le indicazioni dei colori; ci sono pervenute alcune copie con le immagini successivamente colorate a mano. ![]() Il mistero si infittisce: chi ha introdotto davvero la Robinia? Ma torniamo alla Robinia di Square Viviani. La targa apposta dalla Municipalità di Parigi informa che fu piantata da Jean Robin nel 1602. Altri parlano invece del 1601. Secondo la versione più nota, nel 1601 Jean Robin avrebbe ricevuto alcuni semi della pianta dal corrispondente inglese John Tradescant il vecchio (come si è visto in questo post, il figlio del giardiniere inglese visitò l'America settentrionale e ne riportò molte piante); sarebbe riuscito a farne germinare alcuni e ne avrebbe piantato un esemplare nel suo giardino dell'Ile de la Cité. Improbabile in effetti che l'Eunuco delle Esperidi avesse trapiantato il primo, preziosissimo esemplare, nel giardino della scuola di medicina; dunque quello di Square Viviani sarebbe un secondo esemplare, piantato/trapiantato l'anno dopo (dal punto di visto topografico i conti tornano: rue de la Bucherie sbocca in square Viviani). Ma, con buona pace dei parigini, non è finita qui. La Robinia (che all'epoca veniva chiamata Acacia) non è menzionata né nel Catalogo del suo giardino pubblicato da Robin padre nel 1601, né in Histoire des plantes nouvellement trouvées en l'isle de Virginie et autres lieux scritta da Robin figlio nel 1620, né nella seconda edizione del catalogo del 1626. La prima opera francese a menzionarla (con il nome Acacia americana Robini, l'acacia americana di Robin) è Plantarum canadensium historia del 1635, del botanico Jacques Philippe Cornuti, allievo di Jean e amico di Vespasien. L'anno prima, 1634, la pianta è invece citata da John Tradescant nel catalogo del suo giardino; nel Theatrum botanicum di Parkinson del 1640 si dice che nel giardino di Tradescant ce n'era un grande esemplare (quindi doveva essere stato piantato da qualche anno). Un'altra data sicura è il 1636, anno in cui Vespasien Robin trapiantò una Robinia nel Jardin des Plantes (l'esemplare non esiste più, ma ancora sopravvivono piante ricavate dai suoi polloni). Dunque, la Robinia di Square Viviani non è il primo esemplare mai seminato in Europa, non è nato né né nel 1601 né nel 1602, ma in una data imprecisata tra il 1626 e il 1636, seminato da Jean oppure da Vespasien (più probabilmente da quest'ultimo); con qualche anno di meno, continua a conservare il primato di pianta più vecchia di Parigi e presumibilmente di più antica Robinia pseudoacacia d'Europa ancora in vita (in effetti, la sua longevità è del tutto eccezionale: si tratta di alberi che in genere non superano i sessant'anni). Probabilmente la data tradizionale è un falso, dovuto a motivi nazionalistici. Ma nazionalismo per nazionalismo, è bene ricordare che la presenza della Robinia è attestata all'orto padovano proprio nel 1602 (prima o dopo Tradescant? mistero!). Nel 1738 Linneo visitò Parigi e anche a lui, come a ogni turista che si rispetti, fu presentata la famosa pianta. Prendendo per buona la sua storia e avendo riconosciuto che apparteneva a un genere diverso dall'Acacia, in Species plantarum (1753) la ribattezzò Robinia pseudoacacia, in onore dei due Robin, Jean e Vespasien. Robinia (famiglia Fabaceae, un tempo Leguminose) è un genere esclusivamente nord americano, dal Canada al Messico settentrionale. Il numero delle specie è discusso (da 4 a 10); la più nota è proprio R. pseudoacacia che, dai tempi dei Tradescant e dei Robin, ha fatto in tempo a naturalizzarsi in Europa, diventando la specie esotica più diffusa in Italia, apprezzata per il legname resistente e duraturo, gli splendidi fiori dolcemente profumati e l'abbondante produzione di nettare, da cui le api ricavano il rinomato miele d'acacia. E' tuttavia anche una specie invasiva che, grazie alla rapidità di crescita dei polloni, compete vittoriosamente con le specie autoctone, creando boschi con poche specie e scarso sottobosco. Coltivata invece nei giardini, nei viali e nelle piazze cittadine, non desta problemi e offre anche numerose cultivar che ne allargano le potenzialità ornamentali. Altre informazioni nella scheda, dove si parla anche delle sue sorelline meno note ma estremamente interessanti. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
February 2025
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