Tra i sovrani citati da Plinio per aver dato il proprio nome a una pianta, eccone finalmente uno che nello studio delle proprietà medicinali dei semplici era qualcosa di più di un dilettante: Mitridate VI re del Ponto, celebre per il fenomeno che dal suo nome è detto "mitridatismo" e per il mithridatum, o mitridato, antidoto e antiveleno di fama secolare. A ricordarlo nella nomenclatura botanica il genere linneano Eupatorium, tratto dal suo soprannome onorifico Eupatore, il "ben nato" "di nobili natali"; ridimensionato dai tassonomisti, ha sua volta dato il nome a una piccola corona di generi affini, tutti centro e sudamericani: Austroeupatorium, Eupatoriastrum, Eupatoriopsis. ![]() Ossessionato dai veleni Tra i nemici di Roma, il più irriducibile e più pericoloso, forse anche più di Annibale, fu Mitridate VI del Ponto, detto Eupatore, che per un venticinquennio tenne sulla corda lo stato romano, in tre guerre (guerre mitridatiche, 89-85 a-C., 83-81 a.C., 74-63 a.C.) che si intrecciarono con la crisi della repubblica e la guerra civile tra Mario e Silla. Eppure è con sincera ammirazione che Plinio ne parla nei primi paragrafi del libro XXV, in cui traccia una breve storia dello studio delle piante officinali. Lo celebra come un uomo di grande cultura e intelligenza, versatissimo nelle lingue (ne parlava 22); dopo averne ricordato il profondo interesse per la medicina e gli esperimenti che fece su se stesso, fino a rendersi immune dai veleni, dichiara che la formula del suo celebre antiveleno, il mithridatium, trovata nei suoi forzieri da Pompeo e tradotta dal liberto di quest'ultimo, Leneo, è stata benefica per la vita quanto la conquista del regno lo è stata per Roma. L'interesse di Mitridate per la medicina e le erbe medicinali nasceva da un'ossessione: quella di essere avvelenato. Quando era adolescente (doveva avere tra 11 e 13 anni) suo padre morì di veleno, in seguito a una congiura in cui ebbe parte presumibilmente anche la moglie (e madre di Mitridate) Laodice, che divenne reggente. Il ragazzo si convinse che, in combutta con la cara mammina, i suoi tutori stessero cercando di assassinare anche lui; si ritirò nelle più remoti regioni del regno, dove si dedicò alla caccia e allo studio della natura, cercando soprattutto un metodo per proteggersi dai veleni. Divenuto maggiorenne e assunto il potere, continuò le ricerche e gli esprimenti. Inventò la pratica, che da lui è detta mitridatismo, di assumere quotidianamente piccolissime dosi di veleno per rendersene immune. Alla sua corte creò un vero e proprio centro di ricerca che comprendeva una biblioteca di testi di etnobotanica e tossicologia, giardini dedicati a piante tossiche e antidoti, vivai e laboratori; prese al suo servizio un'equipe internazionale, diretta dal greco Crateva (o Crateuas), dove altri medici come ellenici come Papias e Thimotheos erano affiancati da sciamani sciti e magi persiani, e forse medici indiani ayurvedici e druidi celtici. Era in corrispondenza con scienziati di tutto il mondo antico, come il greco Asclepiade che, pur rifiutando il suo invito di passare al suo servizio, gli dedicò un trattato e gli spedì formule di antidoti; l'egiziano Zopiro, che aveva creato un rimedio universale che comprendeva 20 ingredienti; gli sciamani Marsi che gli inviavano i loro medicamenti a base di veleni. Sperimentò gli effetti di centinaia di veleni e di antidoti su se stesso, sui suoi collaboratori e su prigionieri condannati a morte. Con il tempo si immunizzò contro i più noti veleni tanto che, con gusto teatrale, durante i banchetti amava esibirsi mangiando e bevendo vivande che per altri sarebbero state letali. L'obiettivo principale delle ricerche del re e della sua équipe era mettere a punto un antidoto universale, capace di proteggere da tutti i veleni. Secondo Plinio, attraverso ricerche instancabili e ogni possibile esperimento, fu ottenuto un farmaco la cui particolarità era unire insieme veleni e antidoti. Gli ingredienti sarebbero stati ben 54. Tra di essi, veleno di vipere, carne di salamandra, sangue di anitre del Bosforo che si cibavano di piante velenose, miele tossico, orpimento (solfuro d'arsenico), e moltissime piante, alcune probabilmente tossiche, altre aromatiche, resinose, depurative. Mitridate utilizzò le sue conoscenze tossicologiche anche come arma di guerra: durante la campagna di Pompeo, fece trovare ai soldati romani giare colme di miele tossico, tratto da polline di Rhododendrum ponticum, che indebolì le truppe avversarie tanto da permettergli di sconfiggerle. Dopo la morte di Mitridate, la formula della sua panacea, nota come mithridatium, giunse a Roma e fu variamente rielaborata. Ce n'è giunta una ricetta di Celsio, un medico dell'epoca di Augusto e Tiberio, che comprende 36 elementi (essenzialmente resine, spezie e erbe aromatiche, senza alcun elemento tossico a parte l'oppio); modificato da Andromaco, medico di Nerone, e Galeno, medico di Marco Aurelio, che aggiunsero come ingrediente fondamentale la carne di vipera, con il nome teriaca rimase in uso come rimedio universale almeno fino alla fine del Settecento. Quanto a Mitridate, rimase nell'immaginario collettivo come personaggio quasi leggendario. Machiavelli ne lodò l'abilità politica e militare. Gessner gli intitolò un libro che raccoglieva dati su circa 130 lingue; nel Seicento Racine gli dedicò una tragedia e nel Settecento Mozart (e non fu il solo) un'opera lirica. Una sintesi della sua lunga (anche la sua longevità, in un'epoca in cui la speranza di vita si aggirava sui 45 anni, fu considerata eccezionale) e burrascosa vita nella sezione biografie. ![]() Eupatorium e i suoi fratelli Plinio riferisce che Creteva dedicò al suo re due piante. La prima, denominata mithridatia, è stata identificata da alcuni botanici con Erythornium dens-canis; ma l'identificazione non è convincente (non corrispondono né la descrizione né le proprietà officinali). A fine Settecento, non sappiamo per quale ragione, Commerson riprese il nome, battezzando Mitridatia quadrifida un endemismo di Mauritius, già descritto da Sonnerat come Tambourussa quadrifida. Si tratta dunque di un sinonimo. La seconda, denominata eupatorium, ha fatto discutere i botanici. In Dioscoride con il nome di eupatorion viene descritta un'erbacea generalmente identificata come Agrimonia eupatoria; è possibile che la pianta di Plinio sia la stessa, ma la sua descrizione sembra più vicina al nostro Eupatorium cannabinum, una specie le cui foglie e radici contengono alcune sostanze tossiche, ma allo stesso tempo sono usate da secoli nella medicina popolare per curare una varietà di affezioni. Questa duplicità fa pensare che potrebbe davvero trattarsi di uno dei componenti del mithridatium. In ogni caso, questa era l'opinione di Linneo che nel 1753 in Specie plantarum creò il genere Eupatorium. Appartenente alla famiglia Asteraceae, in passato era vastissimo (più 800 specie), ma nel corso del '900 è stato ripetutamente riclassificato e smembrato. Oggi comprende 40-60 specie di erbacee perenni presenti esclusivamente nelle regioni temperate dell'emisfero boreale, in America settentrionale, Europa e Asia. In Europa (e in Italia) abbiamo un'unica specie, appunto Eupatorium cannabinum, una grande perenne amante dei boschi e dei luoghi umidi, presente in tutto il continente, in Asia occidentale (compreso l'antico Ponto, regno del nostro Mitridate) e in Africa settentrionale. La medicina tradizionale le ha riconosciuto molte proprietà, sebbene sia tossica e pericolosa a concentrazioni elevate. Molto vigorosa e piuttosto infestante, è comunque utilizzata nei giardini informali, soprattutto sui bordi dei laghetti. Molte specie di grande valore ornamentale, spesso ancora descritte come Eupatorium nei testi di giardinaggio, sono stati trasferite ad altri generi: E. coelestinum è Conoclinium coelestinum, E. sordidum è Barttlettina sordida, E. rebaudianum, ovvero la stevia, nota per le sue proprietà dolcificanti, è Stevia rebaudiana. Ma soprattutto sono state trasferite a Eutrochium alcune spettacolari specie nordamericane, che almeno in Italia conosciamo come Eupatorium: Eutrichium purpureum, E. fistulosum, E. maculatum. Attorno a Eupatorium, c'è per altro una piccola corona di generi sudamericani più o meno affini che ne riprendono parzialmente il nome. Austroeupatorium, ovvero "Eupatorium nell'emisfero australe", creato da R. M. King e H. Robinson nel 1970, comprende 13 specie di piante erbacee e suffruticose presenti esclusivamente in Sud America (A. inulifolium, considerato estremamente invasivo, si è naturalizzato in alcune aree dell'Asia). Eupatoriastrum, creato nel 1903 da J.M. Greenman, è un piccolo genere endemico del Centro America (Messico, Salvador, Guatemala) con 5 specie. Eupatoriopsis ("di aspetto simile a Eupatorium"), creato da G.H. Hieronymus nel 1893, è un alquanto misterioso genere monotipico brasiliano, endemico dello stato di Manas Gerais, rappresentato dalla sola E. hoffmanniana. Per qualche approfondimento su Eupatorium, Austroeupatorium, Eupatoriastrum, Eupatoriopsis, si rimanda alle rispettive schede.
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Quandoque bonus dormitat Homerus, "Qualche volta anche il buon Omero sonnecchia", diceva Orazio: insomma anche a un grande come Omero capita di prendere una cantonata. E in questa storia di grandi botanici che sonnecchiano ce ne sono più di uno. All'inseguimento del dedicatario della Lysimachia, facciamo le pulci a Plinio, Boerhaave e Linneo, scoprendo che il copia-incolla non è nato con il web. ![]() Dalla ricerca della "vera" lisimachia... Nel libro XXV della Naturalis historia, subito dopo aver parlato di Genzio e della sua genziana, prima di passare alla regina Artemisia e alla pianta che (forse) ne porta il nome, Plinio si sofferma su un'altra erba che prenderebbe il nome dal suo scopritore, la lisimachia: "Anche Lisimaco scoprì [la pianta] che da lui prende il nome, lodata da Erasistrato. Ha foglie verdi simili a quelle del salice, fiore purpureo, portamento cespuglioso con rami eretti, odore acre. Nasce in luoghi paludosi. La sua forza è tanta che posta sul giogo di due bestie da soma che litigano ne frena l'aggressività". Non dice altro su chi sia questo Lisimaco e su come abbia scoperto i poteri della magica pianta, ma va subito sottolineato che tra il suo nome e questi ultimi c'è un legame etimologico: Lisimaco è composto da λυσις (lysis, "liberare", "sciogliere"), e μαχη (mache, "battaglia"), dunque è interpretabile come "scioglitore di contese", o anche "pacificatore". Se alla pianta è stata attribuita la virtù di pacificare gli animali in forza del nome dello scopritore o se, al contrario, è stata collegata a un Lisimaco in forza di una credenza precedente, sono ipotesi aperte. La parola è greca e sicuramente Plinio si rifà a fonti greche (forse a quello stesso Erasistato, celebre medico del III sec. a.C.); in effetti anche in Dioscoride si parla di una pianta simile, che si chiama però lysimacheion. Le proprietà officinali sono quelle che anche Plinio cita nel libro successivo: è essenzialmente una pianta vulneraria, particolarmente efficace per curare le ferite recenti e stagnare il sangue; bruciandola, il suo fume acre tiene lontani i serpenti e uccide gli insetti. Anche l'habitat paludoso è lo stesso e così l'aspetto generale; le due descrizioni sono simili, tranne per due particolari: la pianta di Plinio è purpurea e ha un odore acre, quella di Dioscoride è giallo-dorata e inodora. E' probabile che queste discrepanze siano dovute a una svista (o, se preferite, a un colpo di sonno) di Plinio che ha tradotto con purpureus il gr. πυρρός, pyrròs, che non significa rosso ma giallo rossastro e ha scambiato il fumo acre della pianta bruciata con il suo odore da fresca. Oppure stanno parlando di piante diverse. In ogni caso, nei secoli successivi, la contraddizione non ha mancato di produrre i suoi effetti nefasti; i botanici successivi, puntando su erbacee palustri più o meno cespugliose con foglie simili al salice e con fiori rossi o gialli, hanno moltiplicato le ipotesi identificative; sotto l'etichetta lysimachia sono finite almeno una decina di piante anche molto lontane tra loro, tra cui Epilobium hirsutum, Oenothera biennis, Stachys palustris, o addirittura un arbusto, la ginestra dei tintori, Genista tinctoria, tirata in ballo da un addormentatissimo Ruel. Ma a contendersi la palma sono soprattutto il purpureo Lythrum salicaria (forse la "lisimachia purpurea" di Plinio) e la gialla Lysimachia vulgaris (forse il "lysimacheion dorato" di Dioscoride). Nel suo grande commento a Dioscoride (1544), Mattioli non ha dubbi: è proprio quest'ultima la vera lisimachia; la descrive e la fa disegnare sotto l'etichetta lisimachia prima, ma riserva qualche riga anche all'altra, battezzata lisimachia seconda "per avervi ritrovato quasi le medesime facultà". Ha le idee un po' meno chiare l'inglese William Turner che in A New Herball (il primo erbario in lingua inglese, 1551) pensa si tratti di due tipi della stessa pianta; con una traduzione letterale (ciò che i linguisti chiamano calco) conia il nome comune inglese loosestrife "che scioglie la lotta", battezzando quella gialla yealow loosstryfe e quella rossa red loosstryfe o purple losestryfe; è per questo che in inglese ancora oggi sia Lythrum sia Lysimachia sono ugualmente dette loosestrife. Non fa molta chiarezza neppure Caspar Bauhin che nel Pinax theatri botanici (1596) ne elenca e descrive undici tipi, molti dei quali oggi sono attribuiti a tutt'altri generi. Il nodo viene infine sciolto da Pitton de Tournefort che in Élémens de botanique (1694) crea il genere Lysimachia come lo intendiamo oggi. La sua scelta è poi validata da Linneo in Species plantarum 1753. ![]() alla ricerca del "vero" Lisimaco Ma è ora di tornare a Lisimaco. Come abbiamo visto, Plinio non dà alcuna indicazione sulla sua identità. Va detto che si tratta di un nome piuttosto comune nell'antichità (l'autorevolissima Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft di Pauly e Wissowa ne elenca 21). Il più famoso di tutti è il diadoco Lisimaco, guardia del corpo e generale di Alessandro Magno e dopo la sua morte re di Tracia, Asia Minore e Macedonia. Visto il contesto (Plinio sta parlando di piante che hanno ricevuto il nome da un sovrano), la maggioranza dei commentatori concorda nell'identificare in lui il personaggio citato dallo scrittore romano. L'identificazione, già avanzata nel Medioevo dalla principessa bizantina Anna Comnena, è corrente nei commentari del Cinquecento e del Seicento: Mattioli lo nomina come Lisimaco di Macedonia e Bauhin precisa: "La lisimachia è detta così dallo scopritore, re Lisimaco figlio di Agatocle". L'indicazione è corretta: il padre di Lisimaco il diadoco si chiamava Agatocle. Eppure è probabilmente proprio la precisazione di Bauhin ad aver causato involontariamente il peggiore colpo di sonno di tutta questa storia. Nel 1727, il medico e botanico olandese Herman Boerhaave, illustre luminare ammirato da Linneo, pubblica il catalogo dell'orto botanico di Leida Historia plantarum quae in Horto Academico Lugduni-Batavorum crescunt; tra le piante esaminate c'è anche la lisimachia, di cui Boerhave scrive: "La Lysimachia prende il nome da Lisimaco, figlio del re di Sicilia, di cui si dice che per primo abbia scoperto questa pianta". Da dove spunta questo "Lisimaco figlio del re di Sicilia"? Anche se a quanto pare nessuno finora l'ha sottolineato, a mio parere nasce evidentemente da una lettura frettolosa del testo di Bauhin. Come per gli antichi il Lisimaco per antonomasia era il diadoco, o per noi la Vittoria per antonomasia è Vittoria d'Inghilterra, così l'Agatocle per antonomasia è Agatocle di Siracusa (che dal 307 a.C. alla morte si attribuì il titolo di re di Sicilia, l'unico a portarlo nell'antichità). Boerhaave, leggendo "re Lisimaco figlio di Agatocle", prende fischi per fiaschi e inventa un fantomatico figlio di Agatocle di Sicilia. Nel 1751, Linneo in Philosophia botanica inserisce una lista di nomi di piante derivati da opere letterarie, dal mito, da sovrani e promotori della botanica; nell'elenco di quelle dedicate ai re, troviamo "Lysimachia: Lisimaco di Sicilia". Evidentemente, senza fare alcuna verifica, ha ripreso la nota di Boerhaave. E così, sotto l'autorevole mantello linneano, il colpo di sonno di Boerhaave è (come si direbbe oggi) diventato virale. Non si contano le pubblicazioni (anche di alto livello scientifico) in cui Lysimachia è associata a un "Lisimaco figlio del re di Sicilia" o anche "Lisimaco re di Sicilia". Non parliamo poi della rete, in cui il top è la pagina di disambiguazione di Wikipedia inglese in cui si elencano tredici personaggi (reali o letterari) chiamati Lisimaco, tra cui "Lysimachus, a King of Sicily whom the Lysimachia, a genus of flowering plants, was named after". Sarebbe bastato consultare un repertorio come il Pauly-Wissowa per verificare che nessun figlio di Agatocle si chiamava Lisimaco e che nessun Lisimaco (neppure leggendario) ha mai regnato in Sicilia. Per completezza, visto che parliamo di repertori, va detto che proprio il Pauly-Wissowa avanza un'interpretazione alternativa (accolta da qualche testo e qui e là anche in rete): il Lisimaco di Plinio potrebbe anche non essere un re ma un medico o un botanico. Due sono i personaggi papabili: Lisimaco scrittore di agricoltura e botanica, citato come fonte da Varrone, Columella e dallo stesso Plinio; il medico Lisimaco di Kos, forse allievo di Erasistrato, commentatore del corpo ippocratico. Di nessuno dei due sappiano molto ed è possibile che siano la stessa persona. L'ipotesi, soprattutto grazie al collegamento con Erasistrato, è suggestiva, ma sembra adattarsi poco al contesto, in cui si parla di sovrani. Dunque, mi schiero con Mattioli e Bauhin a favore di Lisimaco di Tracia, personaggio colorito sulla cui vita troverete qualcosa in più nella sezione biografie. Ma alla nostra storia di errori manca ancora un breve capitolo. Come abbiamo visto, il laconico Plinio non spiega come Lisimaco, chiunque fosse, scoprì le virtù della sua erba eponimica. Una lacuna che qualcuno ha colmato confezionando una affascinante leggenda: un giorno Lisimaco (quasi sempre il re di Sicilia, a volte il figlio del re di Sicilia, ma anche il re di Tracia) mentre attraversava un campo fu assalito da un toro furioso; preso dalla disperazione, colse una lisimachia e la agitò davanti all'animale che immediatamente si calmò. Benché sia ripetuta in innumerevoli testi, questa storia è del tutto apocrifa e non risale all'antichità; sospetto che sia stata creata in epoca relativamente recente in ambiente anglosassone, sulla suggestione del termine comune loosestrife. Come per ogni leggenda metropolitana che si rispetti, non mancano le varianti: in una versione particolarmente colorita, la bestia furiosa è un leopardo; in una più realistica, Lisimaco calma semplicemente i suoi buoi facendo loro bere un infuso di lisimachia. ![]() Chi ha paura della Lysimachia? Lysimachia è un grande genere, un tempo assegnato alla famiglia Primulaceae, quindi alle Myrsinaceae, che però a loro volta sono state riassorbite nella vastissima famiglia Primulaceae nella classificazione APG III. E' diffuso praticamente in tutto il mondo, soprattutto nelle fasce temperate, e comprende circa 160 specie per lo più erbacee. Sebbene L. vulgaris vanti, come abbiamo visto, un millenario uso officinale (è utilizzata soprattutto come febbrifugo e lenitivo) e sia anche una pianta tintoria (la sua tintura veniva usata per imbiondire i capelli o schiarire il mantello dei cavalli), le lisimachie sono soprattutto note come piante da giardino. Alcune sono di così facile coltivazione da essere considerate invasive. Ma sono tutte così belle (e tutto sommato non difficile da contenere), che vale la pena di accettare la sfida. Tra le specie alte, tutte scarsamente esigenti e amanti dei suoli umidi, le più coltivate sono L. punctata, una scelta vincente per giardini con terreno argilloso, umido e pesante; la bianca L. clethroides, con strane infiorescenze ricurve a collo d'oca, amante dei terreni acidi; L. ciliata, con fiori meno decorativi, ma molto apprezzata per le foglie purpuree nella bella cultivar 'Fireckraker'. Tra le tappezzanti, due specie sono particolarmente adatte anche per situazioni ombrose: L. nummularia, una strisciante con foglie tondeggianti, effettivamente molto invasiva nella forma comune, ma inestimabile nella cultivar 'Aurea' con foglie verde giallastro, più facile da controllare e insuperabile anche negli angoli più ingrati del giardino e come ricadente da muretti e fioriere; la mia preferita (amo le Lysimachiae e loro amano il terreno umifero del mio giardino-bosco) è però la spettacolare L. congestiflora 'Persian carpet', con foglie semi sempreverdi verde scuro variegate di porpora che contrastano con le infiorescenze dorate. Qualche approfondimento nella scheda. Chissà se aveva ragione Plinio, e la genziana prende veramente il nome da Genzio, l'ultimo re degli Illiri? In tal caso, poco fortunato nelle sue iniziative politiche, che gli costarono il regno e la libertà, l'infelice sovrano ha avuto un'eccezionale fortuna postuma, dando il suo nome alle genziane in molte lingue europee e tenendo a battesimo ben quattro generi botanici: Gentiana, Gentianella, Gentianopsis, Gentianothamnus. ![]() Breve la vita felice di re Genzio Come si era visto in questo post, nel libro XXV della Naturalis historia, Plinio, passando in rassegna le erbe medicinali, collega il nome di alcune di esse a personaggi del mito e della storia (per altro, dal punto di vista di un uomo dell'antichità, tra le due cose non c'è poi tanta differenza). Uno di loro è Genzio (Genthios in greco, Gentius in latino), l'ultimo sovrano indipendente degli Illiri. Qualche informazione su di lui ci è giunta solo da fonti romane o filoromane, soprattutto Tito Livio e Polibio. Roma si era inserita nell'area da un quarantennio (prima guerra illirica, 229-228 a.C) acquisendo il controllo della costa e dell'interno a sud della Drina; il padre di Genzio, Pleurato, era un fedele alleato di Roma; Genzio, succedutogli intorno al 181, dapprima continuò la politica paterna, anche se non mancavano attriti con Roma che lo accusò di favorire la pirateria che danneggiava i traffici della repubblica nell'Adriatico. Lo scoppio delle ostilità tra Roma e Perseo di Macedonia (terza guerra macedonica, 171-168 a.C.) costrinsero Genzio ad allearsi con quest'ultimo contro Roma. Il risultato fu un breve conflitto (terza guerra illirica, 160 a.C.), che si concluse con la totale disfatta degli Illiri; Genzio, catturato e portato prigioniero a Roma, dovette sfilare nel trionfo del vincitore, il pretore L. Anicio Gallo, insieme alla famiglia, per poi morire in prigionia in una data non precisata dalle fonti. Qualche particolare in più sulla sua vita nella sezione biografie. Polibio traccia un pessimo ritratto del personaggio, accusandolo di aver fatto assassinare il fratello e di essere un ubriacone che beveva notte e giorno, accentuando così la sua indole tirannica. Gli albanesi, invece, in anni recenti ne hanno esaltato la figura come precursore della loro nazione, vedendolo come un campione dell'indipendenza contro l'imperialismo romano; la sua figura è stata rappresentata sul verso di alcune banconote e il suo nome (nella forma Genti o Gentian) è diventato relativamente popolare. Ma torniamo a Plinio. Senza offrire alcun particolare, egli si limita a dire che "Genzio scoprì la genziana, una pianta che nasce ovunque, ma tuttavia in Illirico vi è quella più pregiata". Segue poi una descrizione della pianta che, nonostante qualche imprecisione, è agevolmente riconoscibile come Gentiana lutea. Il collegamento tra Genzio e la genziana è riferito anche da Dioscoride. In che senso dovremmo intendere invenit, "scoprì"? Genzio non avrà certo scoperto la pianta, comunissima - come del resto dice anche Plinio - in tutte le aree montuose e subalpine, ma piuttosto le sue virtù medicinali. Ma che l'avesse usata per curare qualche affezione particolare (una febbre oppure morsi di serpente) o addirittura un'epidemia scoppiata nel suo popolo, questo le fonti non lo dicono. Si tratta di illazioni, dovute a commentatori posteriori. Del resto, forse anche il collegamento tra Genzio e la genziana (gr. genthiane, lat. gentiana) è apocrifo. Molti linguisti pensano si tratti di una semplice etimologia popolare (un'etimologia falsa, basata su una somiglianza di suono). D'altra parte, altri fanno notare che il suffisso -an è frequente nei nomi illirici. ![]() Per cominciare, Gentiana Insomma, un collegamento per lo meno dubbio, che ha però il merito di permetterci di parlare della genziana. Anzi, delle genziane. Non solo perché ce ne sono moltissime specie, ma perché più di uno sono i generi formati a partire dal lat. gentiana, il nome classico della genziana maggiore, ovvero Gentiana lutea. Pianta officinale nota fin dall'antichità e descritta in tutti gli erbari (in genere come Gentiana major), ha trasmesso il suo nome a buona parte delle lingue europee occidentali: italiano genziana, spagnolo genciana, francese e inglese gentian, tedesco Entian, olandese gentiaan, svedese gentiana. Obbligata dunque la scelta onomastica di Tournefort che nel 1697 in Eléments de botanique creò ufficialmente il genere Gentiana, descrivendone 23 specie. Egli fece comunque notare che avrebbe avuto senso creare due generi distinti: Gentiana per le specie con i fiori a campana molto svasata e Gentianella per le specie con fiori tubiformi (ipotesi a cui rinunciò, ma che, come vedremo, avrà un futuro). Da parte sua Linneo riprese la denominazione di Tournefort in Systema naturae 1735 e Species plantarum 1753. Il genere dà anche il nome alla famiglia delle Gentianaceae (circa 1500 specie) e all'ordine delle Gentianales (con cinque famiglie). Genere vastissimo (da 350 a 800 specie, a seconda dei criteri utilizzati), Gentiana ha una storia tassonomica tormentata. Nel corso di 350 anni, ne sono stati staccati, ricongiunti e nuovamente separati altri generi; attualmente gli si attribuiscono circa 350 specie, ben 240 delle quali vivono in Cina (in Europa sono presenti una quarantina tra specie e sottospecie; circa 24 sono le specie presenti in Italia). Citiamo almeno G. lutea, molto apprezzata anche in liquoreria, e G. acaulis, uno dei fiori simbolo delle nostre Alpi. Tra le "orientali", sono particolarmente apprezzate come piante da giardino alcune specie a fioritura autunnale, come G. sino-ornata (originaria della Cina sudoccidentale e del Tibet), con fiori blu profondo e gola striata di bianco, e G. farreri, con fiori azzurro pallido. Qualche approfondimento nella scheda. ![]() Le "piccole genziane": Gentianella Nel 1794, in Methodus Plantas horti botanici et agri Marburgensis Moench riprese il suggerimento di Tournefort proponendo di separare da Gentiana il genere Gentianella (diminutivo di Gentiana, quindi "piccola genziana"); la differenza principale è che, mentre in Gentiana i lobi sono collegati tra loro da piccole pliche, esse mancano in Gentianella; inoltre, mentre i semi di Gentiana sono appiattiti e in genere alati, quelli di Gentianella sono arrotondati e privi di ali. Lasciata inizialmente cadere, la proposta di Moench fu recuperata nel Novecento e confermata dalle ricerche genetiche. Anche Gentianella è un genere alquanto vasto (e a sua volta pone non pochi problemi tassonomici), con circa 250 specie; anche se non mancano rappresentanti in Eurasia e in America settentrionale, è soprattutto sudamericano (al contrario di Gentiana, tipico dell'emisfero boreale); alcune specie sono presenti anche in Australia e Nuova Zelanda. In Sud America, sono caratteristiche di ecosistemi come la puna (le praterie di montagna andine, con clima secco e freddo) e il paramo (la steppa andina tropicale), soprattutto in Perù. Mentre le specie dell'emisfero boreale sono per lo più porpora, viola o blu, quelle sudamericane sfoggiano un'incredibile gamma di colori, che comprende verde, bruno, porpora, giallo, blu, rosa, arancio, rosso e bianco (alcune specie combinano due o tre colori). Il genere è ben rappresentato nella nostra flora, con una dozzina di specie. Tra le più note G. amarella, una specie a fioritura autunnale, soprattutto nordeuropea; e G. campestris, che colonizza i pascoli acidi o neutri delle Alpi tra 1000 e 2000 metri. Piuttosto ostiche da coltivare e di breve vita, sono raramente presenti nei giardini. Altre informazioni nella scheda. ![]() Le "genziane sfrangiate": Gentianopsis Nel 1951 il botanico cinese Yu Chuan Ma separò da Gentiana un altro genere, Gentianopsis, "d'aspetto simile a Gentiana". Comprende 24 specie, diffuse in Europa, Asia e America settentrionale; presentano solo quattro lobi più o meno sfrangiati. In Italia è presente una specie, G. ciliata. Diffusa in un ampio aerale, che va dall'Europa meridionale e centrale all'Asia occidentale, è un'annuale dei boschi e dei parti di media e alta montagna. La specie più decorativa è l'americana G. crinita, un'annuale o biennale che fiorisce alla fine dell'estate o all'inizio dell'autunno con fiori blu brillante quasi iridescente e lobi finemente sfrangiati. Si aprono solo nelle giornate soleggiate, mente rimangono chiusi quando il tempo è nuvoloso. Anche in questo caso, si rimanda alla scheda per qualche dettaglio in più. Per concludere questa rassegna di nomi di generi collegati, se non a Genzio, almeno a Gentiana, aggiungiamo Gentianothamnus ("genziana arbustiva"), un genere monotipico del Madagascar rappresentato da G. madagascarensis, un arbusto con grandi fiori campanulati gialli o aranciati, che appartiene anch'esso alla famiglia Gentianaceae, anche se è piuttosto lontano dai generi fin qui esaminati. Una sintesi delle poche informazioni reperibili in rete nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
February 2025
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