Quando José Celestino Mutis arriva in Colombia (anzi, nel Nuovo Regno di Granada, come si chiamava all'epoca) è un giovane medico di ventotto anni. In America pensa di fermarsi solo qualche anno, invece vi rimarrà per tutta la vita. E per tutti diventerà "el sabio Mutis", il sapiente Mutis, il primo scienziato del paese, anzi dell'intera America latina. Come matematico e fisico farà conoscere la meccanica newtoniana e si scontrerà con l'inquisizione, ancora rimasta al modello tolemaico; come medico riformerà l'insegnamento di medicina e chirurgia e sosterrà l'inoculazione del vaiolo; come astronomo, fonderà il primo osservatorio d'America; come mineralogista riattiverà miniere che si credevano esaurite; come zoologo, studierà le formiche su suggerimento dell'amico Linneo; come botanico scoprirà che anche in Colombia cresce la Cinchona, e di qualità non inferiore a quella peruviana. Ha trent'anni quando chiede per la prima volta alla corona spagnola di finanziare una spedizione scientifica; ne ha cinquantuno quando finalmente viene posto a capo della Expedición Botánica del Nuevo Reino de Granada. La dirige con abilità e competenza, attorniandosi di una intera generazione di giovani naturalisti, raccoglitori, artisti (questi ultimi sotto la sua supervisione elaborano un peculiare stile di illustrazione botanica, passato alla storia come "stile Mutis"). Nonostante viva nella lontana Colombia, il suo nome è ben noto in Europa; corrisponde con diversi colleghi europei, primo fra tutti Linneo; e quando Humboldt e Bompland arrivano in America, non mancano di fargli visita, rimanendo stupefatto da quanto ha già fatto e quanto si propone di fare nonostante l'età avanzata. Mutis era davvero uno studioso senza uguali; e quale genere più adatto a celebrarlo della bellissima Mutisia di cui Linneo diceva "Non ho mai visto una pianta che la superi in singolarità"? Una lunghissima attesa Nel 1760, al giovane medico originario di Cadice José Celestino Mutis (1732-1808) potrebbe aprirsi una carriera di successo nella capitale, dove si è trasferito nel 1757. Ha brillantemente superato l'esame presso il Protomedicato che abilita alla professione, tanto da essere nominato professore supplente di chirurgia presso l'ospedale maggiore, ed ha un'ottima clientela. Ora il suo protettore, il ministro della Guerra Ricardo Wall, che è anche riuscito a farlo nominare medico da camera del re Ferdinando VI, gli offre una borsa di studio per perfezionarsi a Parigi, Londra o Bologna. Ma a Mutis, grande appassionato di botanica (è allievo di Barnades e frequenta assiduamente l'orto botanico di Migas Calientes) contemporaneamente giunge una proposta molto più allettante: Pedro Messia de la Cerda, appena nominato Viceré della Nuova Granada, gli chiede di accompagnarlo in America, promettendogli di lasciargli tempo e agio per le ricerche naturalistiche. Mutis accetta: riprenderà il percorso interrotto dalla morte di Löfling e, chissà, di lì a qualche anno, tornerà in Spagna come direttore di un Gabinetto di scienze naturali e di un orto botanico indipendente e più scientifico di quello di Migas Calientes, che ancora vede la botanica come ancella della medicina e della farmacia. Dopo una passata a Cadice per salutare parenti e amici (tra cui l'allievo di Linneo Claes Alströmer) il 7 settembre Mutis si imbarca con il viceré e il suo seguito sul vascello La Castilla diretto a Cartagena de Indias, dove giungono il 29 ottobre. Qui e lungo il tragitto che li porterà a Santa Fe de Bogotà, la sede vicereale, affascinato dalla ricchezza e dalla varietà della natura tropicale, incomincia a raccogliere esemplari e ad annotare osservazioni su piante, animali, ambienti e paesaggi, costumi dei nativi, in vista di una Storia naturale dell'America settentrionale spagnola. Purtroppo a Bogotà (dove arriva il 24 febbraio 1761) la realtà si rivela diversa dalle aspettative: come uno dei pochi medici laureati della colonia è indaffaratissimo; inoltre, su sollecitazione di alcuni giovani del seguito vicereale, a partire dal maggio 1762 inaugura la cattedra di matematica superiore al Colegio Mayor del Rosario (cui dal 1764 si aggiungerà l'insegnamento di fisica o filosofia naturale) che introduce in America la meccanica newtoniana e il metodo sperimentale. Per le ricerche sul campo rimane poco, pochissimo tempo. Nel 1763 Mutis si risolve ad inviare al re Carlo III una petizione, in cui sollecita il finanziamento di una spedizione naturalistica «molto utile per la scienza, la corona e i suoi vassalli»; le raccolte dovrebbero andare a costituire un Gabinetto di scienze naturali con orto botanico annesso. L'anno successivo reitera la richiesta, ma senza ottenere risposta. Seguono alcuni anni di incertezza: nel 1766 abbandona la corte vicereale, la carriera di medico e l'insegnamento per trasferirsi a San Antonio del Real de Montuosa Baja dove forma una società per lo sfruttamento di una miniera, sperando di ottenere l'indipendenza economica che gli permetterà di continuare i suoi studi; nel 1770 rientra a Bogotà e riprende a insegnare; nel 1772 prende gli ordini sacerdotali; lo stesso anno scopre che anche in Colombia crescono piante di china; nel 1773 sostiene pubblicamente il sistema copernicano al Collegio del Rosario e l'anno dopo deve difendersi davanti all'Inquisizione; nel 1777 lascia di nuovo Bogotà per una seconda avventura mineraria, alla miniera El Sapo di Inagué, dove fino al 1782 vivrà in solitudine "gli anni più felici della sua vita". Nel frattempo non ha mai smesso di studiare, di raccogliere, di scrivere, di corrispondere con altri studiosi, primo fra tutti Linneo cui invia molti esemplari, ricevendone in cambio un'insolita attestazione di stima e di amicizia. Su suo invito, inizia a studiare le formiche del nuovo mondo, tanto quelle guerriere del genere Eciton quanto le tagliafoglie del genere Atta. Una spedizione senza uguali A questo fecondo isolamento lo sottrae il nuovo viceré, l'arcivescovo Antonio Caballero y Góngora, che lo conosce in occasione di una visita pastorale. Lo convince a tornare con lui a Bogotà e gli affida la direzione della "Spedizione botanica del Nuovo Regno di Granada", di cui sollecita l'approvazione reale. Che arriverà con decreto del 1 novembre 1783, vent'anni dopo la petizione di Mutis. Quest'ultimo è nominato "Primo Botanico e Astronomo" della Real Expedición Botánica de la América Septentrional, più nota come Real Expedición Botánica del Nuevo Reino de Granada. Mutis si mette immediatamente al lavoro e crea una spedizione che si distingue da tutte le altre promosse in quegli anni dalla corona spagnola. Lo scopo è niente meno che redigere un inventario completo delle risorse naturali del Vicereame, non solo per scopi utilitari, ma più largamente scientifici; per farlo si circonda di un'ampia squadra di giovani, in gran parte creoli, molti dei quali sono stati suoi allievi: tra di essi, i botanici Juan Eloy Valenzuela, Sinforoso Mutis (suo nipote), Francisco Antonio Zea, il chimico e zoologo Jorge Tadeo Lozano, il botanico, astronomo e ingegnere militare Francisco José de Caldas. Mutis fissa la sede della spedizione a Mariquita, una località ai piedi delle Ande nel bacino del fiume Magdalena, che aveva visitato durante gli anni "minerari". Raramente raccoglie di persona (ha superato i cinquant'anni), ma coinvolge nelle raccolte decine di raccoglitori provenienti dalle più diverse categorie sociali. Gli esemplari confluiscono alla Casa della Botanica di Mariquita, dove viene creata un orto botanico e un laboratorio di pittura; qui una squadra di giovani di talento viene istruita direttamente da Mutis sulla disposizione degli esemplari e i particolari da ritrarre. Grazie ad allievi e collaboratori, l'area coperta dalla spedizione si allarga ad altre zone: ad esempio, il suo discepolo preferito Francisco José de Caldas tra il 1802 ed il 1805 esplora parte dell'attuale Ecuador, raccogliendo oltre 6000 esemplari e disegnando interessanti mappe con l'indicazione delle fasce di altitudine delle piante. Mentre i pittori creano migliaia di disegni, el sabio Mutis, il "sapiente Mutis", come ormai tutti lo chiamano, è impegnato a scrivere i testi della Flora de Bogotá o del Nuevo Reino de Granada. Dato che ha contratto la malaria, nel 1791 è costretto a trasferire la sede della spedizione a Bogotà; ormai si tratta di una vera e propria istituzione scientifica, con una sede propria (la seconda Casa della botanica), un orto botanico, una biblioteca e attrezzature scientifiche. Qui Mutis e i suoi collaboratori riordinano le collezioni, studiano, scrivono, dipingono. Humboldt e Bompland, che gli fanno visita nel 1801, rimangono stupefatti dall’eccellente organizzazione, dalla quantità di lavoro svolto e progettato da quest'uomo orami in età avanzata, da una biblioteca di forse ottomila volumi, seconda solo a quella di Banks a Londra. E' un centro scientifico polivalente, tanto che tra il 1802 e il 1803 nel suo giardino viene eretto l’Osservatorio, il primo del continente americano; Mutis ne affida la direzione all'allievo Francisco José de Caldas che da parte sua avrebbe preferito occuparsi di botanica. Quando Mutis muore, nel 1808, la sua Flora (un'opera immensa, tanto che l'edizione moderna prevede 55 tomi) non è finita e la stampa non è neppure iniziata. Nel corso degli anni, con la scusa che l'opera non è terminata, egli ha inviato a Madrid solo pochi esemplari a mo' di campione; in realtà è convinto che debbano rimanere in Colombia a disposizione degli studiosi colombiani. Dopo la sua morte la spedizione continuò per qualche tempo sotto la direzione di suo nipote Sinforoso Mutis, finché nel 1810, in seguito alle convulsioni della guerra d'Indipendenza (di cui molti allievi di Mutis furono dirigenti e protagonisti) si interruppe. Nel 1815 le truppe di Bolivar invasero la Casa della Botanica e l’osservatorio, ma i materiali si salvarono fortunosamente; nel 1816, per ordine del generale spagnolo Morillo, che aveva ripreso il controllo della colonia, furono imballati e inviati a Madrid, dove furono divisi tra il Gabinetto di storia naturale (gli animali e i minerali) e il Real Jardín Botánico (i vegetali e i manoscritti), dove rimasero a prendere polvere nei magazzini. Nel suo complesso, in trentacinque anni la Real Expedición Botánica del Nuevo Reino de Granada, tra raccoglitori, scienziati, pittori, aveva coinvolto 55 persone, coperto un’estensione di 8000 km² e raccolto 20.000 esemplari botanici e 7000 zoologici. Un lascito importante è costituito dalle illustrazioni botaniche, più di 6600 tavole create da oltre 30 artisti, sotto la supervisione diretta di Mutis, tanto che gli studiosi parlano di «stile Mutis», caratterizzato da uso della tempera anziché dell’acquarello, attenta disposizione del soggetto, combinazione di più esemplari per rappresentare in un’unica tavola tutti gli stadi della vita della pianta, dalla fioritura alla fruttificazione. La spedizione ebbe anche conseguenze politiche: molti degli allievi di Mutis, compreso suo nipote Sinforoso, grazie ad essa presero coscienza della loro identità di americani e si fecero paladini dell’indipendenza; pagarono queste idee con il carcere, l’esilio, Caldas e Lozano, fatti fucilare da Morillo, con la vita. Una pianta singolare Ancora incerto se cambiare mestiere e dedicarsi a tempo pieno all'attività mineraria, nel 1773 José Celestino Mutis inviò in Svezia l'allievo Clemente Ruiz a perfezionarsi nei metodi di estrazione e purificazione dei minerali; ne approfittò per trasmettere a Linneo un ricco erbario e altri oggetti. Conteneva molte meraviglie che entusiasmarono il vecchio botanico, come egli scrive all'amico Mutis in una lettera datata 20 maggio 1774 : "Non ho mai avuto tanto piacere in tutta la mia vita, per tanta ricchezza di piante rare, uccelli e altri oggetti che mi hanno lasciato attonito. Giorno e notte negli ultimi otto giorni l'ho sfogliato e risfogliato e sempre si rinnovava la felicità di incontrare piante mai viste. Chiamerò Mutisia [oggi M. clematis] la numero 21: non ho mai visto una pianta tanto singolare: ha fiori di Singenesia [ovvero di Asteracea], presenta viticci, le foglie sono composte e tomentose, l'aspetto è di clematide; chi ha mai visto una pianta simile in questo ordine naturale? Ti felicito per il tuo nome immortale che il tempo non potrà mai offuscare." Sappiamo che Linneo, nel dedicare un genere a una persona, amava che ne fosse il ritratto vegetale. Qui molto probabilmente nel immortalare il sapiente amico pensava alla sua singolarità, che lo rendeva altrettanto senza pari tra gli studiosi quanto lo era Mutisia tra le piante della sua famiglia. Egli non fece però in tempo a pubblicare il nuovo genere; la sua volontà fu tuttavia rispettata da suo figlio Carl il giovane che lo fece per lui in Supplementum Plantarum, 1781. Mutisia L.f. è oggi un grande genere della famiglia Asteraceae cui sono assegnate oltre 60 specie, con una interessante distribuzione disgiunta: la maggior parte si distribuiscono lunga la catena delle Ande dalla Colombia settentrionale alla Patagonia, mentre un secondo gruppo di quattro specie si trova nella foresta pluviale del Brasile sudorientale (Mata Atlantica) e nelle aree adiacenti di Paraguay, Uruguay e Argentina; vivono in una grande varietà di habitat dal livello del mare a 4000 metri di altitudine. Sono per lo più grandi arbusti, ma anche liane rampicanti, con foglie lineari, oblunghe o pinnate, talvolta con margini dentati, che spesso presentano un viticcio terminale che permette loro di arrampicarsi su arbusti ed alberi. I vistosi capolini solitari sono situati all'apice dei rami, hanno lunghi involucri usualmente verdi, e sono simili a margherite, con fiori del raggio (i "petali" della margherita) molto lunghi e vistosamente colorati: il colore prevalente è l'arancio vivo, ma possono essere anche bianchi, rosa, rossi. In effetti, si nota una differenza di forme e di colori dei fiori in base all'habitat e agli impollinatori: diverse specie delle savane aperte del Cile meridionale o di alta montagna sono arbusti nani con ricettacolo più breve e capolini più corti e piatti bianchi, crema o rosa pallido, impollinati da vari tipi di insetti; le specie con grandi capolini dai colori brillanti della foresta pluviale tanto andina quanto brasiliana sono invece impollinate da colibrì. Ne è un esempio proprio la specie tipo M. clematis, un endemismo delle foreste andine della Colombia tra 2000 e 4000 metri; è una liana provvista di viticci che può raggiungere anche i 10 metri d'altezza; i fiori terminali, larghi anche 10 cm, penduli, sono provvisti di un lungo involucro con quattro-cinque serie di brattee e hanno nove o dieci fiori del raggio arancio o scarlatto brillante, disposti orizzontalmente o con apici lievemente ricurvi. Tipica del cono sur è invece M. decurrens, distribuita in una fascia tra i 500 e i 2000 metri in Cile lungo la cordigliera centro-meridionale e in Argentina nei boschi patagonici; anch'essa è una liana, ha foglie semplici dal bordo dentato e spinoso, e grazie ai viticci si arrampica fino a 4-5 metri, ricoprendo densamente arbusti e piccoli alberi; i fiori terminali e solitari hanno diametro fino a 5 cm con 7-14 flosculi del raggio arancio intenso. Ha distribuzione simile M. spinosa, che si distingue per le foglie con bordi spinosi e i fiori rosa o lilla chiaro. Un esempio delle Mutisiae arbustive è M. acerosa, un arbustino nativo delle steppe alpine aride della sezione centrale della cordigliera, in Cile e in Argentina. Come adattamento all'aridità presenta foglie lineari, rigide, simili a aghi di pino; i fiori simili a margherite rade sono relativamente piccoli, con "petali" (i flosculi ligulati) bianchi e appena toccati di rosa all'esterno. Concludiamo con un raro endemismo della provincia di Loja in Ecuador scoperto da pochi anni: la spettacolare Mutisia magnifica, il cui ambiente naturale è la foresta montana tropicale o subtropicale. Anch'essa può arrampicarsi su altri alberi e si distingue per gli enormi capolini con involucro cilindrico lungo quasi 10 cm, corolla di 12 cm di diametro, fiori del raggio arancio brillante lunghi fino a 6 cm e larghi fino 3, fiori del disco cilindrici con lunghissimi stimmi. Qualche informazione in più e altre specie nella scheda.
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L'orto botanico di Madrid rimase a lungo una roccaforte del sistema di Tournefort. Bisognò attendere la morte del primo cattedratico José Quer nel 1764 perché finalmente si aprisse alla nomenclatura e alla classificazione linneane, grazie al suo successore Miguel Barnades. Anche lui catalano, ma formato a Montpellier, era molto più aperto del suo predecessore ed educò ai nuovi principi una generazione di validi botanici, il più famoso dei quali è José Celestino Mutis. Per i suoi studenti scrisse Principios de botánica, in cui si dimostra buon conoscitore degli apporti dei botanici europei e adotta una posizione ecclettica che accanto a Linneo valorizza anche i tentativi di classificazione naturale della scuola francese, in particolare di Michel Adanson. Era la prima opera di botanica scritta in castigliano; ciò comportò la creazione di un intero vocabolario, per il quale Barnades, al semplice adattamento dal latino, spesso preferì attingere alla lingua parlata. Lo ricorda il genere sudamericano Barnadesia, omaggio dell'allievo José Celestino Mutis. Il primo manuale di botanica in lingua castigliana Come si è visto in questo post, il Reale orto botanico di Madrid, sito inizialmente a Migas Calientes, nacque nel 1755; già nel 1757 furono attivi corsi di botanica per i futuri medici e farmacisti, tenuti dal primo professore e direttore del giardino José Quer e dal secondo professore Joan Minuart. Entrambi catalani e allievi di Jaume Salvador, si erano formati nel credo tournefortiano cui improntarono anche il loro insegnamento. Tutto cambiò nel 1764 quando Quer morì e fu sostituito da un altro medico catalano, Miguel Barnades (1708-1771) che, avendo studiato a Montpellier dove era stato allievo di Boissier de Sauvages, aveva una formazione più aggiornata. Anche se non era un linneano di stretta osservanza, apprezzava sia la nomenclatura binomiale sia il sistema artificiale di Linneo, di cui riconosceva la praticità e l'efficacia didattica. Convinto assertore dell'utilità della botanica non solo per la salute pubblica, ma anche per l'economia, attraverso l'agricoltura, l'allevamento, le applicazioni industriali, per permettere al maggior numero possibile di studenti di appropriarsi dei principi della botanica decise di divulgarli in un'opera in lingua volgare, Principios de botanica: sacados de los mejores escritores y puestos en lengua castellana (Madrid 1767), come egli dichiara esplicitamente: "Il desiderio di rendere più facile alla gioventù spagnola lo studio metodico della botanica mi spinge, o lettore, a presentarti la spiegazione dei principi di questa scienza naturale in lingua castigliana". L'opera si apre con un profilo storico della botanica che dimostra quanto Barnades si tenesse aggiornato e quanto fosse privo di pregiudizi e aperto all'innovazione. Dopo un excursus sull'antichità e gli arabi, egli si sofferma sul Cinquecento, l'epoca dei restauratori, sul Seicento, l'epoca degli ordinatori, e sul proprio secolo, l'epoca dei riformatori. Tra i moderni, elogia in primo luogo Linneo, raccomandando in particolare Filosofia botanica e Genera plantarum; cita positivamente anche il suo maestro Sauvages, Ludwig, Duhamel de Monceau, Haller, Adanson e Oeder. Si noti che Familles de plantes di Adanson era stato pubblicato nel 1763-64; di Elementa botanicae di Oeder era uscito l'anno prima il primo volume, mentre del secondo si attendeva la pubblicazione, come Barnades aveva saputo dell'autore stesso, evidentemente uno dei suoi corrispondenti. L'approccio del botanico catalano era dunque eclettico e poteva conciliare la classificazione artificiale di Linneo con quella naturale di Adanson, a proposito della quale faceva notare che individuare gruppi di piante affini era particolarmente utile per la botanica farmaceutica perché "le piante della stessa famiglia naturale e anche più dello stesso genere naturale" hanno spesso proprietà simili. Dopo un capitolo dedicato all'utilità della botanica, il libro prosegue con capitoli sulla botanica in generale, le piante e le loro divisioni, le parti delle piante, distinte in durevoli, secondarie e temporanee (quelle attinenti alla fruttificazione, dal fiore al frutto al seme), la fruttificazione (definita "clandestina") di felci, muschi ed alghe. Il breve capitolo conclusivo, sulla traza ovvero l'habitus o aspetto generale, era inteso come preludio a una seconda parte che avrebbe dovuto insegnare a riconoscere in modo chiaro e distinto le piante e a nominarle in modo corretto; questo secondo volume tuttavia non fu mai scritto. Il maggiore contributo del libro di Barnades consiste indubbiamente nel tentativo di creare un'intera terminologia; nel descrivere in modo analitico le varie parti delle piante, egli introduce centinaia di neologismi. Al semplice adattamento della parola latina, in genere egli preferisce un equivalente nella lingua comune; ad esempio, per le infiorescenze troviamo le seguenti equivalenze: corymbus = maceta; umbella = copa; cyma = cimero; panicula diffusa = panoja; panicula coartata = mazorca; thyrsus = toba; racemus = racimo; spadix = tamarra; spatha = garrancha; spica = espiga; verticillus = rodajuela. E' una scelta estrema, che corrisponde al desiderio di avvicinare alla botanica anche chi non aveva alcuna familiarità con il latino, ma che ebbe poco seguito. Rimanendo al nostro esempio, gli unici termini ancora usati nella terminologia botanica spagnola sono espiga e racimo, non a caso i più vicini alla forma latina. Solitamente si considera il manuale di Barnades troppo teorico per avere lasciato una traccia permanente, ma certamente contribuì al vero merito del medico e botanico catalano: aver gettato le basi della moderna botanica iberica aprendo la strada alla metodologia linneana, che sarà poi assai approfondita dai suoi successori Casimiro Gomez Ortega e Antoni Palau y Verdera. Tra i suoi allievi, il più noto è José Celestino Mutis, con il quale strinse amicizia durante il suo soggiorno a Cadice e che poi lo seguì a Madrid, dove la sua attività didattica dovette iniziare in modo ufficioso prima della nomina a professore all'Orto botanico, visto che Mutis lasciò la Spagna nel 1760. Una dedica americana Si deve proprio a lui (con la complicità del figlio di Linneo) l'omaggio al botanico catalano del genere Barnadesia, descritto dal primo ma pubblicato dal secondo in Supplementum Plantarum (1781) con questa breve annotazione: "In memoriam Botanici Hispanici Barnadez dixit Mutis". Questo genere della famiglia Asteraceae, esclusivamente sudamericano, comprende 22 specie di arbusti e piccoli alberi, distribuite dalla Colombia all'Argentina, per lo più andine, tranne una singola specie che dal sudest del Perù si spinge fino al Brasile. Tra le caratteristiche distintive, la presenza di spine lungo i fusti e all'ascella delle foglie, i lunghi peli unicellulari presenti in tutte le parti del capolino e le corolle bilabiate dei fiori del raggio e talvolta anche di quelli del disco. I colori prevalenti delle corolle sono il rosa e il viola; alcune specie producono grandi quantità di nettare, il che ha fatto pensare siano impollinate da colibrì. L'analisi del DNA di Bernadesia e altri generi affini ha segnato un'importante tappa negli studi filogenetici sull'evoluzione delle piante. Nel 1987 un team guidato da Jansen e Palmer scoprì che in questi generi è assente una particolare mutazione (inversione) del DNA, presente invece in tutte le altre Asteraceae (oltre 20,000 specie) e assente nelle altre angiosperme. Ciò significa che questo gruppo (che proprio in base a questa scoperta è andato a costituire la sottofamiglia Barnadesieae - 10 generi e 85 specie) è il più antico delle Asteraceae, precedente la mutazione che si ipotizza sia avvenuta tra 38 e 42 milioni di anni fa. Le Barnadesiae sono piante molto attraenti soprattutto al momento della fioritura, ma sono raramente coltivate al di fiori dei paesi d'origine: piante d'altura delle Ande tropicali di cui si è detto che ogni giorno si sperimenta l'estate e ogni notte l'inverno, vivono in condizioni estreme difficili da riprodurre ad altre latitudini o in serra. Per la Spagna, il Settecento fu un secolo di grandi spedizioni geografiche e scientifiche: dal 1735 al 1800 se ne susseguirono una sessantina, geografiche, idrografiche, cartografiche, astronomiche e naturalistiche. Questo attivismo toccò il suo vertice con il regno di Carlo III (1759-1788) che promosse tre importanti spedizioni botaniche nei vicereami americani: il vicereame del Perù (che comprendeva Perú e Cile), quello di Nueva Granada (l'attuale Colombia) e quello di Nuova Spagna (Messico e America Centrale). La serie fu inaugurata dalla Expedición botanica al virreinato del Perú (1777-1788), frutto della cooperazione con la Francia, potenza alleata grazie al "patto di famiglia (su entrambi i troni sedevano esponenti dei Borboni) ma anche sospetta rivale per il dominio coloniale e il prestigio scientifico. I protagonisti furono tre giovani botanici: gli spagnoli Hipólito Ruiz e José Antonio Pavón e il francese Joseph Dombey. Tra vicissitudini di ogni genere, tra cui la più vasta rivolta della storia coloniale sudamericana, un naufragio che portò alla perdita di considerevoli raccolte, un incendio devastante, senza contare gli insanabili dissidi tra Dombey e i colleghi spagnoli, la spedizione ottenne risultati straordinari: oltre 3000 esemplari di piante essiccate, 2500 disegni botanici, con la scoperta di almeno 500 nuove specie e 140 generi. Molte furono pubblicate insieme da Ruiz e Pavón, che prima nella ricerca sul campo poi a Madrid costituirono un inossidabile sodalizio scientifico; anche a loro, che avevano dedicate dozzine dei generi da loro scoperti a uomini politici e scienziati, spetta l'ambito riconoscimento di un genere celebrativo: il monotipico Ruizia, endemico dell'isola di Réunion, e il ben più noto Pavonia. Entrambi si devono a Cavanilles, futuro direttore dell'Orto botanico di Madrid, e, per giustizia poetica, appartengono alla stessa famiglia, quella delle Malvaceae, mantenendo almeno in questo un legame tra i due inseparabili compagni. Una spedizione franco-iberica Nel 1774, di recente nominato Controllore generale delle finanze, il ministro francese Turgot chiese alla corona spagnola di autorizzare l'invio di un botanico francese in Sud America, per studiare la flora locale e cercare di recuperare le carte di Joseph de Jussieu che, rimasto in Perù 35 anni, era di recente rientrato in Francia in stato di estrema prostrazione. L'obiettivo principale era la ricerca e l'introduzione di specie alimentari nella Francia mediterranea e in Corsica, nella speranza di far fronte alle ricorrenti carestie. La proposta fu accolta con favore dal re di Spagna Carlo III, ma con due importanti modifiche: si sarebbe trattato di una spedizione congiunta, coordinata e diretta da Madrid, e il botanico francese sarebbe stato affiancato da colleghi spagnoli; alla Spagna inoltre spettavano la metà delle raccolte e la priorità della pubblicazione. In tal modo, la monarchia iberica, pur beneficiando delle conoscenze e della maggiore esperienza di un botanico formato al Jardin des Plantes parigino, avrebbe mantenuto il controllo della spedizione, con obiettivi parzialmente diversi da quelli francesi: la ricerca di piante industriali e medicinali (in particolare quelle da cui si ricavava il chinino), di cui intendeva riservarsi il monopolio. L'impresa fu posta sotto la tutela del Segretariato di Stato e affidata alla direzione scientifica di Casimiro Gomez Ortega, il direttore dell'Orto botanico di Madrid, che come primo farmacista reale era anche direttamente interessato alla scoperta e allo sfruttamento di medicamenti in regime di monopolio. Gli uomini scelti a Parigi e a Madrid era tutti giovani o giovanissimi: da parte francese, il trentacinquenne Joseph Dombey, che si era laureato in medicina a Montpellier, aveva partecipato a spedizioni botaniche in Provenza e sulle Alpi e si era perfezionato al Jardin des Plantes con Bernard de Jussieu e André Thouin; da parte spagnola, due studenti di farmacia allievi di Gomez Ortega, Hipólito Ruiz e José Antonio Pavón, entrambi ventitreenni. Per età, titoli ed esperienza, il più qualificato era certamente Dombey, l'unico laureato e il solo vero botanico; ma, per opportunità politica, a capeggiare la spedizione fu Ruiz, con il titolo di "primo botanico"; Pavón fu nominato "secondo botanico", mentre a Dombey toccò il ruolo collaterale di "botanico naturalista in qualità di accompagnatore dei botanici spagnoli della stessa professione". Non vera collaborazione dunque, ma una specie di convivenza forzata, nutrita di diffidenza reciproca. Dombey, che si era preparato con scrupolo alla missione studiando gli erbari di Joseph de Jussieu e imparando lo spagnolo, arrivò a Madrid all'inizio di novembre 1776, ma tra rinvii, ripensamenti e cambi di programma, la partenza per il Sud America avvenne solo un anno dopo, il 4 novembre 1777, quando i tre botanici si imbarcarono a Cadice alla volta di Callao, accompagnati da due pittori, Joseph Brunete e Isidro Gálvez, allievi della accademia di pittura di San Fernando. Dal Perù al Cile, con disastri Il gruppo giunse in Perù ad aprile e si mise alacremente al lavoro, stabilendo il proprio quartiere generale a Lima. Dapprima esplorarono i dintorni della capitale e le province costiere del nord, Huaura e Laurín. Sostenuti dall'entusiasmo, fecero importanti raccolte: i contadini, vedendo questi uomini ben vestiti, che percorrevano le campagne con una cartella sotto braccio in cui riponevano le piante, impressionati, li soprannominarono brujos yerbarteros, "stregoni erboristi". Già a settembre poterono spedire in Europa diciassette casse di materiali, dieci in Spagna e sette in Francia; l'invio di Dombey comprendeva anche alcuni reperti archeologici, raccolti presumibilmente a Laurin. Tuttavia non arrivò mai a Parigi: la nave su cui viaggiava fu intercettata dagli inglesi, e solo più tardi le sue preziose casse vennero restituite, ma alla Spagna. Nonostante il proficuo lavoro comune, l'atmosfera continuava ad essere improntata alla diffidenza; a Dombey era vietato muoversi da solo, a meno che gli fossero affidati compiti particolari dalle autorità (per la corona spagnola, era pur sempre uno straniero, dunque una potenziale spia) e la sua corrispondenza era sorvegliata; non poteva usufruire della collaborazione dei pittori, che erano al servizio esclusivo dei suoi colleghi spagnoli; inoltre, mentre le spese degli altri membri erano a carico della corona, lui doveva pagare tutto di tasca propria; e in colonia, dove ogni cosa doveva essere importata dall'Europa, la vita era molto cara. Anche i suoi rapporti personali con Ruiz, un giovane dal carattere vivo e amante della polemica, furono sempre piuttosto tesi; meglio andò con il pacato Pavón, che si assunse il ruolo di paciere, e divenne il suo compagno in molte escursioni. Nel maggio del 1779, il gruppo lasciò la costa per spostarsi tra le selve della Cordigliera, la cui vegetazione era all'epoca quasi sconosciuta alla scienza europea. Seguendo il sentiero inca, si spostò a La Oroya e Tarma, dove fissò la prima base. Poi si divisero: Ruiz e Galvez proseguirono fino al monastero francescano di Santa Rosa de Ocopa, mentre Pavón e Brunete andavano a Palca. Quanto a Dombey, fu inviato dal viceré a studiare le acque minerali di Cheuchin, per riunirsi con Ruiz e Galvez a Tarma, da dove i tre tentarono la scalata al monte Churupullana, dovendo desistere per la pioggia mista a grandine, Alla fine dell'anno tutto il gruppo si ricongiunse a Huasahuasi, rientrando a Lima alla fine del gennaio 1780 con la stagione delle piogge. Ad aprile ripartirono per la montagna, fissando la loro sede a Huanuco, al centro di una zona ricchissima di vegetazione, già alle porte dell'Amazzonia: la parte più difficile del loro viaggio, per l'assenza di sentieri segnati, il soffocante clima caldo-umido, le punture degli insetti, Tutti soffrirono di dissenteria e Ruiz si ammalò di febbri perniciose che furono sul punto di costargli la vita. In queste foreste i botanici trovarono molte piante ignote e importanti specie medicinali: alberi di coca (Erythroxylum coca) e soprattutto diverse specie di Cinchona, dalla cui corteccia si ricavava il chinino, il cui studio era uno degli obiettivi principali della spedizione spagnola. Mentre esploravano questa regione, incominciarono a diffondersi voci di una rivolta: erano le prime avvisaglie del sollevamento di Tupac Amaru, che sarebbe iniziato nel novembre 1780. A settembre, temendo un attacco, Dombey e Pavon rientrarono in fuga da Cuchero a Huanuco. L'avventura (poi rivelatasi un falso allarme) pesò molto negativamente sul morale di Dombey e minò il suo prestigio agli occhi dei compagni. Dopo essersi trattenuto a Huanuco fino a settembre egli rientrò a Lima, dove per mantenersi lavorò qualche mese come medico; solo a fine anno si ricongiunse ai suoi compagni, che nel frattempo avevano attivamente esplorato la provincia di Huamalies. Tutto il gruppo rientrò a Lima alla fine di marzo 1781. Nella seconda metà del 1781 gli spagnoli tornarono ad esplorare la provincia di Chancay, mentre Dombey rimase a Lima, come membro di una commissione incaricata di studiare le maree del porto di Callao. E' probabile che le autorità spagnole avessero preferito trattenerlo sulla costa, non desiderando che uno straniero fosse testimone di una ribellione tanto pericolosa. Il programma iniziale prevedeva che il gruppo proseguisse per Quito, da dove poi avrebbe dovuto raggiungere Cartagena per imbarcarsi alla volta dell'Europa. Fu probabilmente il dilagare della rivolta di Tupac Amaru a indurre Madrid a cambiare programma: nel gennaio 1782 la spedizione venne spostata in Cile. Giunti per mare a Talcahuano, i naturalisti stabilirono la loro base a Concepcion, dove si trattennero per circa un anno con escursioni a Arauco, Culenco e altrove; solo Pavón fece una puntata alla Cordigliera, per studiare il "pino del Cile", ovvero Araucaria araucana. Durante il loro soggiorno a Concepcion scoppiò un'epidemia di colera e Dombey prestò gratuitamente le sue cure agli ammalati come medico capo della città. Nel marzo 1783 la spedizione si spostò a Santiago, dove Ruiz si ammalò di febbre tifoidea, Dombey venne inviato a Coquimbo e Jarilla, per valutare le potenzialità economiche di alcune miniere abbandonate di mercurio. A ottobre si ritrovarono tutti a Santiago, per spostarsi insieme a Valparaiso, da dove si imbarcarono per Callao. Qui le sorti di Dombey e dei suoi compagni si separarono; mentre gli spagnoli rimanevano in Perù per continuare le esplorazioni secondo i nuovi ordini di Madrid, il francese, essendo ormai terminato il tempo fissato da Parigi, nell'aprile 1784 si imbarcò sulla nave El Peruano alla volta di Cadice. Lo attendevano sgradevolissime vicissitudini, su cui tornerò in un prossimo post. Su un'altra nave, la San Pedro de Alcantara, viaggiavano invece le 55 casse con le raccolte di Ruiz e Pavon; tuttavia, al largo del Portogallo, il vascello naufragò e tutto il materiale andò perduto. Nel frattempo, i botanici spagnoli avevano ripreso le ricerche, visitando nuovamente Huánuco e le montagne di Puzuzo. Poiché anche per loro si avvicinava il momento del ritorno, si decise di aggregare alla spedizione due apprendisti, che potessero continuare il lavoro dopo la loro partenza; la scelta cadde sul farmacista militare Juan José Tafalla come botanico e su Francisco Pulgar come pittore. Nel 1785 il gruppo così integrato continuò ad esplorare la ricca area di Huánuco, concentrandosi in particolare nello studio delle diverse specie di Cinchona; grazie all'esperienza accumulata, fu sicuramente il periodo più fruttuoso dell'intera spedizione; tuttavia mentre si trovavano a Macora un violento incendio distrusse la fattoria dove soggiornavano, mandando in fumo tre anni di diari di campo e quattro anni di descrizioni botaniche. La campagna dell'anno successivo li vide a Muña e ancora a Huánuco, Pillao e Chacahuasí. Durante uno degli spostamenti, Brunete si ammalò e morì; così furono solo in tre, Ruiz, Pavón e Galvez a imbarcarsi per Cadice, dove arrivarono il 12 ottobre 1788, a quasi 11 anni esatti dalla partenza. In Perù rimasero Tafalla e Pulgar che, con alcuni collaboratori, continuarono a inviare materiali alla Oficina de la Flora Peruviana y Chilense diretta da Ruiz fino al 1814, estendendo le ricerche anche all'Ecuador. Una nuova flora tutta da scoprire e pubblicare Appena giunti in Spagna, Ruiz, Pavón e Galvez si recarono a Madrid per dedicarsi al'immane lavoro della pubblicazione delle raccolte. Li accolse una situazione di grande tensione, causata dalla pubblicazione, prima in Francia poi in Inghilterra, di alcuni dei materiali raccolti da Dombey, nonché dal conflitto più o meno latente tra Ortega e Cavanilles. I due botanici furono aggregati all'orto botanico di Madrid come "dimostratori" e nel 1792 fu creata per loro l'Oficina de la Flora Peruviana y Chilensis, diretta da Ruiz. Iniziò un intenso e metodico lavoro di studio delle raccolte, per classificare, nominare e descrivere correttamente le piante, in stretta collaborazione con Gomez Ortega come consulente e correttore. Intanto Galvez, assistito da un incisore e più tardi da un altro disegnatore, allestiva le illustrazioni. Il primo frutto di questo lavoro editoriale fu Quinología o tratado del árbol de la quina, pubblicato da Ruiz nel 1792, in cui descrisse sette specie di Cinchona raccolte in Perù; sull'argomento sarebbe tornato, insieme a Pavón, in Suplemento a la Quinologia (1801) in cui descrisse altre sette specie raccolte da Tafalla e polemizzò con una certa violenza con Mutis. Nel 1794, a quattro mani, usciva Florae Peruvianae, et Chilensis Prodromus, in cui - a mo' di anticipazione della più ambiziosa Flora - pubblicarono i caratteri distintivi di 149 nuovi generi, accompagnati da 37 tavole in bianco e nero. Nel 1798 iniziò ad uscire la monumentale Flora peruviana, et chilensis, sive descriptiones, et icones, in cui le specie erano disposte secondo il sistema linneano; tra il 1799 e il 1802, ne uscirono altri due volumi, estendendo la pubblicazione fino alla classe linneana Octandria. Contemporaneamente, nel 1798 diedero alle stampe Systema vegetabilium florae peruvianae chilensis, un versione ampliata del Prodromus, priva di illustrazioni, contenente tutti i nuovi generi e le specie relative. Il nuovo contesto delle guerre con la Francia rivoluzionaria e napoleonica rese impossibile la pubblicazione di altri volumi della costosissima Flora peruviana, anche se i due autori riuscirono a preparare i manoscritti di ulteriori due volumi. Nel 1816 morì Ruiz (una sintesi della sua vita nella sezione biografie) e Pavón cercò di continuare da solo il lavoro comune; mentre il suo compagno non aveva problemi finanziari, avendo ereditato una farmacia da uno zio, egli doveva mantenersi solo con lo stipendio di botanico, che negli anni dell'occupazione francese venne a mancare. Per cercare di salvare il salvabile, fu così costretto a vendere a diversi collezionisti buona parte della sua biblioteca e molti esemplari di erbario (raccolti durante la spedizione o inviati da Tafalla o anche altri botanici); il lotto più cospicuo se lo aggiudicò Aylmer Bourke Lambert, cui tra il 1817 e il 1824 vendette oltre 15.000 campioni d'erbario, oggi custoditi al British Museum di Londra. Uno scempio che i botanici più giovani non perdonarono a Pavón; sempre più isolato, morì nel 1840; anche per la sua vita si rimanda alla sezione biografie. Il contributo della Spedizione botanica nel Vicereame del Perù alla conoscenze della flora sudamericana fu immenso: migliaia di essiccata, senza contare i semi e le piante vive inviati all'orto botanico di Madrid per essere moltiplicati e coltivati, 2000 disegni, circa 3000 specie, di cui non meno di 500 inedite e 140 nuovi generi. Va anche sottolineato che, essendo Ruiz e Pavón molto prudenti nella istituzione di questi ultimi, un'alta percentuale dei generi da loro creati è ancora oggi valida. Tra i più noti, vorrei citare almeno Aechmea, Aloysia, Bletia, Galinsoga, Guzmania, Gilia, Jovellana, Juanulloa, Lapageria, Masdevallia, Nierembergia, Peperomia, Salpiglossis. Dediche di piante e scherzi del destino Nell'assegnare un nome ai loro nuovi generi, Ruiz e Pavon predilessero i nomi celebrativi, che utilizzarono talvolta per ingraziarsi il politico di turno (inclusi il re Carlo IV e sua moglie Maria Luisa, dedicatari di Carludovica e Aloysia, il ministro Godoy con Godoya, Napoleone con Bonapartea - oggi sinonimo di Agave - e l'imperatrice Giuseppina, con Lapageria), ma soprattutto per ricordare studiosi ed esploratori, prevalentemente ma non esclusivamente spagnoli. Ovviamente si resero omaggio l'un l'altro: Pavon ricordò il suo capo e amico con Ruizia, e Ruiz il fedele collaboratore con Pavonia; per sottolineare la loro amicizia, scelsero due arbusti della flora cilena piuttosto affini; appartenenti alla famiglia delle Monimiaceae, sono oggi entrambi sinonimi, il primo di Peumus, il secondo di Laurelia. Infatti le due dediche, pubblicate in Florae peruvianae et chilensis prodromus, erano state anticipate di qualche anno da Cavanilles, ancora prima del ritorno di Ruiz e Pavón dall'America. Per un caso singolare, i suoi Ruizia e Pavonia oggi appartengono alla stessa famiglia, le Malvaceae, insieme a Dombeya, il genere che, per non fare torto a nessuno, l'illustre botanico volle dedicare a Joseph Dombey. Visti i rapporti piuttosto elettrici di Ruiz con Dombey e con lo stesso Cavanilles (reo di aver pubblicato alcune piante peruviane senza il suo assenso), a posteriori questa dedica ecumenica appare piuttosto ironica, come lo sono la grandezza e l'importanza rispettiva dei tre generi: a Ruiz, il capo della spedizione e dell'Oficina de la Flora Peruviana y Chilensis è toccato il monotipico Ruizia, endemico di una piccola isola; al suo "secondo" Pavón il lussureggiante Pavonia, un grande genere di oltre duecento specie; al terzo incomodo Dombey l'ancora più spettacolare Dombeya (su questo genere, ovviamente, tornerò nel post a lui dedicato). Iniziamo dunque con Ruizia; proprio come Dombeya, fino a qualche anno era assegnata alla famiglia Sterculiaceae, che è confluita in Malvaceae, sottofamiglia Dombeioideae (uno scherzo del destino?). Comprende una sola specie, Ruizia cordata, un alberello endemico dell'isola della Réunion nell'Oceano indiano, dove è nota come bois de senteur blanc, ovvero "legno profumato bianco". Allo stato selvatico, dove è presente in aree collinari aride, è ridotta a pochi individui, mentre è coltivata nei giardini e negli orti botanici. Ha un'elegante chioma arrotondata e due tipi di foglie: più piccole, molto incise e verde chiaro quelle giovanili, più grandi, argentate e grossolanamente triangolari quelle più mature. E' dioica e presenta fiori maschili o femminili in piante separate; rosa salmone, hanno cinque petali e sono riuniti in infiorescenze lungo i rami. E' considerata una pianta magica e porta fortuna, con cui si fabbricavano feticci e amuleti scaccia-malocchio. Qualche approfondimento nella scheda. Molto più di recente, un secondo piccolo genere si è aggiunto a glorificare Ruiz. Durante una delle sue compagne, egli a Pozuzo in Perù aveva raccolto un esemplare che più tardi aveva classificato e pubblicato come Guettardia ovalis. Nel 1937 il botanico svedese Robert Elias Frias studiando questa pianta concluse che doveva essere assegnata a un genere proprio, che in onore del raccoglitore battezzò Ruizodendron (famiglia Annonaceae); R. ovale ne costituisce l'unica specie. E' un albero di grandi dimensioni originario della foresta pluviale del Sud America settentrionale, dove può superare i 40 metri; ha foglie con lamina cartacea da ellittiche a ovali e fiori crema, con petali di consistenza carnosa, seguiti da frutti verdastri. Qualche informazione in più nella scheda. Pavonia, per prolungare le fioriture Anche Pavonia è una Malvacea, ma appartiene alla sottofamiglia Malvoideae, di cui costituisce uno dei generi più variegati, ricchi di specie e di più ampia diffusione, con circa 200-250 specie delle zone tropicali e temperate calde, 100 delle quali in Sud America, 50 sia in Nord America sia in Africa, cui sia aggiungono poche specie asiatiche e australiane. Sono erbacee annuali o perenni oppure arbusti, spesso con foglie cordate alla base, e grandi fiori a coppa in genere solitari, più raramente raccolti in racemi terminali; i fiori ricordano molto da vicino quelli dell'ibisco. Molto decorative, alcune specie hanno incominciato ad essere coltivate anche da noi per l'insolito periodo di fioritura, autunnale o anche invernale. Probabilmente la più diffusa è Pavonia hastata, di origine sudamericana; è un arbusto sempreverde dal portamento ordinatamente tondeggiante con foglie ovato-cordate e copiosa fioritura; i fiori a coppa, simili a quelli dell'ibisco, sono bianchi o rosati con una vistosa macchia scura al centro e sono prodotti dalla fine dell'estate all'autunno inoltrato. In realtà, un prima fioritura avviene già in primavera, quando il cespuglio si riempie di boccioli, che però non si aprono, sebbene siano seguiti dalla produzione di semi. Si tratta del fenomeno della cleistogamia: la pianta, per superare condizioni avverse, è in grado di autofecondarsi senza subire lo stress dell'apertura dei fiori. Proviene invece dal Texas e dal Messico P. lasiopetala, un'erbacea suffruticosa che forma bassi cespugli con foglie dentate o lobate persistenti e grandi fiori a coppa rosa vivo da giugno fino alla fine dell'autunno. Entrambe le specie sono abbastanza rustiche. E' invece adatta solo ai climi caldi o alla coltivazione in interno la brasiliana P. multiflora, nota come "candela brasiliana", caratterizzata da curiosi fiori con brattee lineari rosse o rosa fucsia che circondano i petali arrotolati su se stessi e gli stami prominenti blu scuro; è un grande arbusto con foglie lanceolate lucide verde scuro, la cui fioritura si prolunga dalla primavera all'autunno; in casa e nelle giuste condizioni, può invece fiorire per tutto l'inverno. Affine è P. x gledhillii, un ibrido di origine orticola tra P. makoyana e P. multiflora, con brattee rosse. Qualche approfondimento nella scheda. La vita di Andrès Laguna, medico umanista celebre per la prima (e mirabile) traduzione in spagnolo di Dioscoride, è caratterizzata da un continuo errare per le contrade d'Europa. A vent'anni, dalla nativa Spagna va a studiare a Parigi (una scelta forse obbligata per un converso nato da padri ebrei); poi lo troviamo a Londra, Gand, Ratisbona, Metz, Colonia, e, per molti anni in Italia, tra Bologna, Roma e Venezia. A quella Europa umanista e cristiana che sentiva come la sua vera madre dedicò anche un'accorata orazione che è allo stesso tempo un compianto e un invito alla pace, in un continente dilaniato dalle guerre e dagli scontri religiosi. Laguna condivideva l'anacronistico sogno di Carlo V di una monarchia universale; e quando capì che non era possibile, lui che per tutta la vita aveva scritto in latino, decise di servirsi della lingua di Castiglia per la sua edizione di Dioscoride, una delle più importanti della prima stagione del Rinascimento. E la dedicò al suo nuovo sovrano, il principe Filippo che di lì a poco sarebbe passato alla storia come Felipe II. Compianto per l'Europa che tormenta se stessa La sera del 22 gennaio 1543, all'Università di Colonia va in scena una commovente e mesta cerimonia. Nell'aula magna rivestita di drappi neri, illuminata da nere candele, avanza un uomo in cappa e cappuccio neri. E' il medico e umanista spagnolo Andrès Laguna. Invitato dall'arcivescovo della città a tenere una lezione magistrale, ha voluto questo apparato funebre per dare più forza alla sua orazione Europa heutentimorumene, "L'Europa che tormenta sé stessa". Di fronte a un attonito pubblico di notabili, presta la sua voce a un'Europa dilaniata da interminabili guerre intestine e invita alla pace e alla concordia in nome della comune identità europea e cristiana. Il discorso di Laguna è uno dei primi in cui viene espressa un'idea di Europa intesa non come spazio geografico ma come entità politica e culturale con radici comuni, che per l'umanista cristiano Laguna sono l'antichità greco-latina e la religione cristiana. Questa visione umanista dell'Europa, che egli riprendeva da Erasmo e dallo spagnolo Juan Luis Vives, per il medico spagnolo era anche una concreta esperienza di vita. Nato a Segovia probabilmente nei primi anni del Cinquecento in una famiglia di ebrei convertiti, dopo aver iniziato gli studi in patria, poiché l'Inquisizione vietava ai conversos di conseguire la laurea nelle Università spagnole, era andato a studiare medicina a Parigi. Nella capitale francese, forse al momento l'ambiente più fecondo d'Europa, Laguna aveva incontrato grandi maestri, come Jacques Dubois (Jacobus Sylvius) e Jean Ruel, ed era diventato un tipico uomo universale del Rinascimento: medico, anatomista, botanico, filosofo, cultore delle lingue classiche, filologo e traduttore. Dopo un breve ritorno in patria e un viaggio in Inghilterra, si era spostato nelle Fiandre dove era entrato al servizio di Carlo V. Carlo era il suo sovrano (oltre che imperatore e duca delle Fiandre era anche re di Spagna), ma soprattutto in lui Laguna vedeva il nuovo Carlo Magno, colui che avrebbe ristabilito la monarchia universale e riunito la cristianità divisa, guidandola alla lotta contro i nemici esterni (in primo luogo l'Impero Ottomano), secondo l'ideologia imperiale formulata dal cancelliere dell'Impero, il cardinale umanista Mercurino Arborio di Gattinaria. La realtà era ben diversa; alle interminabili guerre tra Carlo V e Francesco I, che non aveva esitato ad allearsi con il sultano turco, si aggiungevano la frattura religiosa tra cattolici e protestanti, con il suo seguito di scontri sempre più sanguinosi. Lotte in cui Laguna si trovò coinvolto in prima persona quando l'imperatore lo inviò come ambasciatore a Metz, nel 1540. La città era la capitale del ducato di Lorena, di lingua francese, ma formalmente parte dell'Impero, una zona di confine in cui le idee riformate avevano incontrato largo seguito. Medico e anatomista già celebre, Laguna fu invitato ad assumere l'incarico di medico cittadino e rimase nella città lorenese per cinque anni, allontanandosi solo per venire a Colonia in occasione del celebre discorso. In Lorena, Laguna come medico affrontò la battaglia contro la peste e come agente imperiale cercò di combattere la diffusione del protestantesimo; i suoi rapporti con il duca di Lorena, la cui politica oscillava tra la fedeltà all'imperatore e l'avvicinamento alla Francia, si fecero tesi fino al punto di rottura; nel 1545, quando venne richiesta la sua consulenza in un processo di stregoneria contro due anziani accusati di aver causato una grave infermità al duca, dimostrò con un esperimento empirico l'infondatezza delle accuse; il suo parere non piacque né ai giudici (i malcapitati furono condannati) né al duca stesso, e poco dopo Laguna lasciò la città. La tappa successiva fu l'Italia. Il medico umanista incominciava forse a capire che quella dell'Impero universale era un'ideologia anacronistica, e che era giunta l'ora delle monarchie nazionali. L'Italia era per lui la patria dell'Umanesimo, dove avrebbe trovato manoscritti da studiare, colleghi con cui discutere, tipografie all'avanguardia; ma era anche uno dei più importanti domini della monarchia spagnola. La prima tappa fu Bologna, dove ottenne la laurea magistrale in medicina che ancora gli mancava. Visse poi soprattutto a Roma, dove fece parte dell'entourage dell'influente cardinale Francisco de Mendoza y Bobadilla, che lo introdusse presso i papi Paolo III e Giulio III, di cui divenne medico personale. Frequentò anche Napoli, nelle cui campagne raccolse piante officinali, e fu più volte a Venezia e a Padova. Fu forse il desiderio di seguire da vicino le vicende che portarono all'abdicazione di Carlo V che nel 1554 lo spinsero a lasciare l'Italia per le Fiandre, dove nel 1555, come vedremo meglio tra poco, pubblicò la sua celebre tradizione di Dioscoride, dedicata a quel principe Filippo d'Asburgo che presto sarebbe diventato il re di Spagna Filippo II. Seguendo il suo nuovo sovrano tornò infine in Spagna nel 1557, morendo però poco dopo, alla fine del 1559. Una sintesi della sua vita errabonda nella sezione biografie. Filologia e pratica medica Nella storia della botanica, Laguna (che fu anche prolifico autore di opere mediche, ma soprattutto di edizioni e di traduzioni di testi antichi, tra cui una influente epitome dell'opera omnia di Galeno) conta soprattutto per la mirabile traduzione di Dioscoride, Pedacio Dioscorides Anazabareo. Acerca de la materia medicinal y de los venenos mortiferos (1555). L'interesse di Laguna per l'opera di Dioscoride risale agli anni parigini, quando come abbiamo visto egli fu discepolo di Jean Ruel, autore di una importante traduzione in latino di Materia medica; un interesse che sicuramente lo accompagnò in tutte le sue peregrinazioni, e fu probabilmente anche una delle ragioni che lo spinsero a trasferirsi in Italia, dove erano usciti sia l'editio princeps del testo greco pubblicata da Manuzio (1499) sia i commentari di Mattioli (la prima edizione è del 1544). Anche se è possibile che avesse cominciato a lavorarvi da tempo, la traduzione prese corpo proprio negli anni italiani; e nella nuova atmosfera politica, significativamente Laguna decise che non sarebbe stata in latino, ma in spagnolo (o meglio, in castigliano): era una scelta politica, un contributo al progresso scientifico di quella che, ormai gli era chiaro, era e sarebbe rimasta la sua unica patria. Simbolicamente, la data di pubblicazione (1555) coincide con l'anno di abdicazione di Carlo V, ovvero con la presa d'atto da parte del vecchio imperatore del fallimento del suo progetto politico. Nella sua edizione di Dioscoride Laguna seppe unire allo scrupolo filologico e alla perfetta padronanza delle lingue classica la sua ampia esperienza di medico e di studioso dell'anatomia e delle piante medicinali. Come testo di partenza si basò sulla traduzione latina del suo maestro Ruel, ma la collazionò, oltre che con l'edizione aldina, con tutti i manoscritti che poté consultare, rilevando e correggendo circa 100 errori; la sua traduzione, chiara e precisa, è accompagnata da un ricco apparato di note in cui trasfuse il sapere che aveva accumulato in una vita divisa tra l'interpretazione dei testi antichi, la pratica medica e lo studio dal vivo della natura; sappiamo dal suo stesso racconto che erborizzava, visitava giardini, scambiava esemplari con altri naturalisti, creando anche una piccola collezione di oggetti naturali che portò con sé nei suoi spostamenti; soprattutto interrogava ogni possibile categoria di informatori sulla provenienza e gli effetti dei semplici: medici, mercanti, viaggiatori, addirittura donne di vita. E ciò che apprendeva, lo metteva alla prova sui suoi pazienti, convinto com'era che nulla potesse essere affermato con certezza se non era stato verificato sperimentalmente. Per gli studiosi di oggi, il suo Dioscoride è dunque una miniera di informazioni sulle tecniche mediche, la botanica applicata e la farmacologia del Cinquecento. Entro il XVIII secolo, in Spagna il Dioscoride di Laguna raggiunse 22 edizioni, un testo così popolare da meritare una citazione nel Don Chisciotte di Cervantes; sulle sue pagine si formarono i medici iberici che avrebbero studiato le piante del Nuovo Mondo (una realtà ancora quasi ignorata da Laguna, se non per poche piante viste per lo più come succedaneo più economico delle rare o perdute piante degli antichi). Veramente figlio del Rinascimento per lo scrupolo filologico e l'adozione di una prassi basata sulla verifica sperimentale, Laguna è invece piuttosto tradizionale per l'impostazione generale, ancora fedele alla teoria degli umori di Galeno. Un falso ibisco che arriva da lontano Particolarmente attento all'identificazione delle specie citate da Disocoride (per identificale correttamente aveva persino pensato di recarsi nell'impero ottomano, impresa da cui fu distolto dagli amici veneziani), Laguna descrisse anche per la prima volta alcune piante orientali che aveva potuto conoscere attraverso i suoi informatori. E' il caso di una Malvacea presente anche in Nord Africa, oggi Abelmoscus ficulneus, che nel 1786 Cavanilles chiamò in suo onore Laguna aculeata; il genere Laguna è oggi considerato sinonimo di Hibiscus. Ugualmente non valido è Lagunea, creato nel 1790 da Loureiro e riformulato come Lagunaea da Agardh, oggi sinonimo di Persicaria. Memore della proposta di Cavanilles, nel 1824 de Candolle denominò Lagunaria una sezione del genere Hibiscus; cinque anni dopo Reichenbach la elevava a genere. Lagunaria (DC) Rchb. è piccolo genere della famiglia Malvaceae, che comprende due specie native dell'Australia, Lagunaria patersonia, un albero endemico delle isole di Lord Howe e Norfolk e della costa del Queensland, e L. queenslandica, endemica del medesimo stato dell'Australia orientale. Abbastanza coltivato anche da noi in zone a clima mite, L. patersonia (spesso commercializzata con la grafia errata L. patersonii) è un bellissimo sempreverde con chioma piramidale e foglie verde oliva, che in estate si ammanta di grandi fiori rosa-lilla a stella. La colonna staminale prominente e i cinque petali ricurvi possono ricordare Hibiscus rosa sinensis, ma le foglie, intere, ovate, coriacee sono completamente diverse. Molto simile è l'altra specie, a lungo considerata una sottospecie con il nome L. patersonia susbp. bracteata, che si distingue per gli organi sessuali ancora più prominenti con nettari esterni al fiore e un diverso habitat: vive lungo i corsi d'acqua e nelle insenature costiere, mentre l'altra specie è tipica della foresta pluviale. Quale informazione in più nella scheda. Nel 1803, ultima tappa del lungo viaggio sudamericano, Humboldt e Bonpland si trattengono a lungo a Città del Messico. Il barone tedesco è ammirato dalla bellezza, dall'ordine "rinascimentale" della città, dai suoi giardini colmi di alberi da frutto. Ne visita le istituzione scientifiche, tra cui immancabile il neonato orto botanico (Real Jardín Botánico), rimarchevole per organizzazione e ricchezza delle collezioni nonostante lo spazio angusto, non mancando di elogiarne il curatore, il professor Cervantes, che tanto "si distingue per lo zelo per le scienze della natura". Quel giardino botanico, che al momento aveva appena dodici anni di vita, fu il primo del continente americano (escludendo il giardino di John Bartram a Filadelfia, del 1728, più un giardino-vivaio di acclimatazione che un orto botanico, per gli Stati Uniti bisogna attendere il 1821, con la nascita dell'United States Botanic Garden di Washington). Nato come costola e base operativa della Real Expedición Botánica a Nueva España attorno al 1791, organizzato secondo il sistema linneano, ebbe un ruolo importante per far conoscere la flora del paese e rinnovare lo stesso insegnamento della botanica. La sua anima, più che il direttore nominale Martin de Sessé, fu Vicente Cervantes, che lo resse per un quarantennio, anche dopo il distacco dalla Spagna e l'indipendenza del Messico. Grande didatta, che formò più di una generazione di studiosi, nel suo insegnamento unì la botanica alla chimica, campo in cui fu tra i diffusori del pensiero di Lavoisier. A ricordarlo il poco noto genere Cervantesia, che comprende alberi emiparassiti endemici delle foreste andine. Insegnare Linneo e Lavoisier in Messico La creazione di un orto botanico a Città del Messico, con annessa cattedra universitaria, sul modello del Real Jardin Botanico di Madrid, era stata uno degli obiettivi principali della Real Expedición Botánica a Nueva España che, come ho già raccontato in questo post, si proponeva non solo di esplorare e inventariare la flora del viceregno, ma anche di rifondare l'insegnamento della botanica nella colonia, sul modello "illuminista" ormai impostosi nella madrepatria. Per questo compito, il deus ex machina della spedizione, Casimiro Gomez Ortega, direttore dell'orto madrileno e grande organizzatore delle spedizioni scientifiche che segnarono gli anni a cavallo tra i regni di Carlo III e Carlo IV, scelse il più promettente dei suoi allievi, Vicente Cervantes. Anche se Sessé, come capo della spedizione, era nominalmente sia il titolare della cattedra sia il direttore dell'orto, di fatto, essendo egli principalmente impegnato nelle attività di esplorazione e raccolta, queste funzioni furono esercitate da Cervantes. Quest'ultimo, farmacista di formazione, si era perfezionato come botanico all'Orto di Madrid, dove si era segnalato per la profonda conoscenza sia della sistematica vegetale sia della chimica. Meno coinvolto nelle attività di ricerca (che limitò alle aree prossime alla città, mentre i suoi compagni si muovevano in un vastissimo territorio compreso tra il Canada e la Costa Rica), egli rimase a Città del Messico, dove si occupò dei rapporti (tempestosi) con l'ambiente medico-scientifico locale, delle questioni amministrative, dell'insegnamento universitario, dell'organizzazione delle collezioni, della creazione e della cura dell'orto botanico. Fu lui a scontrarsi con l'Università e il Real Tribunal de Protomedicado, ostili all'introduzione dell'insegnamento della botanica nel curriculum dei futuri medici e preoccupati per la loro indipendenza professionale, minacciata ai loro occhi dagli scienziati illuministi catapultati da Madrid; fu lui a ingaggiare una battaglia aperta con l'erudito messicano José Antonio de Alzate, nemico giurato della nomenclatura e del sistema linneano. Fu soprattutto lui a tenere le lezioni di botanica, divenendo ben presto un insegnante rinomato e carismatico. Installata dapprima nel Collegio dei gesuiti, quindi presso la casa privata di Ignacio Castera, primo architetto di Città del Messico, infine trasferita dal 1790 nei giardini del palazzo del viceré, la cattedra di botanica fu solennemente inaugurata il 6 maggio 1788, con una prolusione di Sessé che esaltava il contributo della scienza botanica al progresso; si trattò anche di un evento mondano, seguito da uno spettacolo pirotecnico durante il quale i fuochi disegnarono tre alberi di papaya con fiori femminili e maschili; da questi ultimi, a imitazione del polline, muovevano raggi di luce che andavano a fecondare i fiori femminili. Secondo alcuni testimoni, comparve anche un ritratto di Linneo e il motto linneano Amor urit plantas, "l'amore infiamma le piante". I corsi, la cui frequenza fu resa obbligatoria per i futuri medici, chirurghi e farmacisti, richiamarono anche un pubblico più ampio di curiosi che includeva militari, religiosi, intellettuali, studenti del Seminario Reale di mineralogia e della scuola d'arte San Carlos. Tra i primissimi allievi Mociño e Maldonado, poi cooptati nella spedizione, seguiti da intellettuali impegnati nei campi più vari, come il medico Luis Josė Montaña, il botanico Juan José de Lexarza, il futuro ministro e naturalista dilettante Lucas Alamán, il compositore José María Bustamante. I corsi, che avevano finalità eminentemente pratiche, univano all'insegnamento del sistema linneano esercitazioni di riconoscimento e nozioni di chimica. L'unione tra botanica e chimica fu anzi la principale peculiarità del magisterio di Cervantes, che adottò come libri di testo il Corso elementare di botanica del suo maestro Casimiro Gomez Ortega e la traduzione spagnola del Corso elementare di chimica di Lavoisier. Centrale per Cervantes fu anche l'indagine sulle proprietà mediche delle piante indigene, che avrebbero dovuto sostituire nella pratica farmaceutica le costose e meno efficaci droghe importate dall'Europa o da altri paesi dell'impero spagnolo. D'altronde, per tutta la vita egli affiancò all'insegnamento (che non gli garantiva entrate sufficienti per mantenere sé e la famiglia) anche l'attività di farmacista, prima presso il principale ospedale della città, poi in una rinomatissima bottega privata (che esportava i suoi preparati, come fornitrice ufficiale della corona, fin nelle Filippine). Pubblicò anche diverse opere sulle piante officinali, destinate a medici e farmacisti, tra cui spiccano Discurso sobre las plantas medicinales que crecen en las cercanías de México (1791) e il postumo Ensayo para la materia médica mexicana (1832). Il primo orto botanico scientifico delle Americhe Ma torniamo all'orto botanico, che fu inaugurato nel 1791. Occorse infatti qualche anno per il progetto e per trovare un luogo adatto; dopo qualche ripensamento, grazie all'offerta del Viceré Revillagigedo, sensibile alle istanze illuministe, fu infine ospitato in un angolo dei giardini del palazzo vicereale. Era uno spazio limitato, ma che offriva il vantaggio di trovarsi nel centro di potere del viceregno ; oltre ad essere la base operativa della spedizione, divenne così il punto di ritrovo dei circoli scientifici della capitale, nonché quasi un'attrazione alla moda. Era organizzato secondo il modello dell'orto botanico di Madrid; c'era in primo luogo un'area didattica, dove si coltivavano le piante utilizzate durante il corso accademico, disposte in 24 parcelle secondo il sistema linneano e separate da canaletti di irrigazione. C'era poi uno spazio riservato alle piante officinali e una serra, destinata all'acclimatazione delle piante. Il viceré mise poi a disposizione alcuni locali: un'aula per le lezioni, una stanza per l'erbario, l'abitazione stessa dei cattedratici. Quando Humboldt lo visitò nel 1803, appariva ammirevole per la buona organizzazione e per la ricchezza delle collezioni, che ammontavano a 1500 specie. Il giardino assolse contemporaneamente a più funzioni. La prima era ovviamente quella didattica: ogni corso (che durava da quattro a sei mesi) prevedeva sei ore di insegnamento teorico alla settimana e esercitazioni pratiche, per le quali Cervantes - oltre ad accompagnare gli studenti a erborizzare nei dintorni della capitale - utilizzava le piante raccolte dai suoi compagni di spedizione nei vari angoli del viceregno. Fu così che descrisse per la prima volta e denominò alcune decine di piante prima poco note o sconosciute alla scienza. Il giardino era poi un centro di acclimatazione dove affluivano le piante raccolte nel corso della spedizione, insieme ai disegni, agli esemplari essiccati, agli animali impagliati, ai minerali. Seguendo le direttive molto precise stilate da Casimiro Gomez Ortega nel 1779, i membri della spedizione erano infatti tenuti a inviare piante vive, scelte per le loro potenzialità economiche o il pregio estetico, che dopo essere state coltivate e acclimatate a Città del Messico, sarebbero state avviate al giardino di Madrid, che a sua volta in diversi casi provvide a distribuirle ai principali orti botanici europei. Fu così che il piccolo giardino di Cervantes giocò un ruolo importante nell'introduzione di specie americane in Europa; tra tutte, vorrei ricordare almeno le Dahliae che nel 1789 Cervantes spedì a Cavanilles, direttore dell'orto madrileno, prima tappa di un viaggio che le ha portate in tutti i nostri giardini. Il giardino del palazzo del viceré era poi una vetrina delle ricchezze naturali del viceregno, uno spazio allo stesso tempo naturale e "costruito", pensato anche per il godimento degli abitanti della capitale e per l'ammirazione dei visitatori stranieri, come Humboldt e l'amico Bonpland, cui doveva dimostrare che, quanto a avanzamento della ricerca scientifica, il regno iberico era ormai all'altezza, se non superiore, delle maggiori nazioni europee. Rimasto in Messico quando Sessé e Mociño passarono in Spagna, dal 1803 Cervantes esercitò anche di nome il ruolo di professore di botanica e direttore dell'orto che aveva fino ad allora sostenuto di fatto. Come riconoscimento dei suoi meriti di pioniere della scienza botanica messicana e studioso della flora nazionale, all'atto della proclamazione dell'indipendenza (1821) non solo non fu espluso, come toccò agli spagnoli, ma, mantenne i suoi incarichi fino alla morte avvenuta nel 1829. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Tuttavia nei decenni successivi, anche come conseguenza della turbolenta situazione politica del Messico, la cattedra rimase vacante e il giardino fu di fatto abbandonato a se stesso, come testimonia una lettera della signora Calderón de la Barca che lo visitò nell'aprile 1840; benché conservasse alcuni resti del passato splendore nel suo stato d'abbandono era "un malinconico esempio dell'arretramento della scienza in Messico". Dopo un episodico tentativo di rilancio voluto dall'imperatore Massimiliano (1864-1867), bisognò attendere i grandi lavori di ristrutturazione degli spazi aperti del Palazzo nazionale (così fu ribattezzato il Palazzo del Viceré all'atto dell'indipendenza) della fine del secolo scorso per un restauro - anche se su un'estensione alquanto ridotta - di questo giardino tanto importante nella storia del paese. Anzi, dell'intero continente americano, visto che precedette di decenni la fondazione del primo orto botanico scientifico degli Stati Uniti, quello sorto a Washington nel 1821 per decreto del Congresso. Cervantesia, alberi emiparassiti Furono i protagonisti di un'altra delle grandi spedizioni botaniche della Spagna di fine Settecento, Hipolito Ruiz e José Anton Pavón, a dedicare all'allora giovane collega "messicano" una delle innumerevoli piante da loro scoperte nel corso dell'esplorazione del Viceregno di Perù. Il genere Cervantesia, da loro stabilito nel 1794, appartenente alla famiglia Santalaceae, comprende due specie di alberi - C. bicolor e C. tomentosa - native di Colombia, Ecuador e Bolivia. Come tutti i membri di questa famiglia, si tratta di piante semiparassite delle radici o delle parti aree dell'ospite; la specie più nota, C. tomentosa, è un arbusto o albero delle foreste andine, coperto in tutte le sue parti da un denso indumento rossastro, con piccoli fiori verdastri a stella privi di petali e frutti a capsula. Mentre di questa specie sono reperibili alcune fotografie e la descrizione, per C. bicolor non ho trovato nulla al di là del nome e della distribuzione. Rimando comunque alla scheda per una sintesi delle scarse informazioni reperite. Per Maya e Aztechi, il gioco del pallone era una cosa seria, molto seria: connesso con il mito, la religione e i riti di fertilità, veniva giocato in cortili lastricati annessi ai templi, e la partita terminava con un sacrificio umano (a perdere letteralmente la testa per il pallone era, si presume, il capo della squadra sconfitta). Nel corso dei secoli e da una cultura all'altra, variarono le tipologie e le regole di gioco, la forma e le dimensioni del campo, ma ovunque si giocava con una palla di gomma naturale, ricavata dal lattice di vari alberi, primo fra tutti Castilla elastica. Gli aztechi lo chiamavano olicuàhuitl, "albero della gomma"; nell'assegnargli un nome botanico, il capo della Real Expedicion Botanica Martin de Sessé e il suo collaboratore Vicente Cervantes vollero invece onorare la prima vittima della spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. Un pallone... elastico Nel 1493, ad Haiti, Cristoforo Colombo notò un gruppo d'indigeni che giocava "con un pallone che rimbalzava estremamente bene"; quanto a Hernàn Cortés, fu così impressionato dai giocatori di pallone aztechi da portarne alcuni con sè in Spagna, dove diedero spettacolo di fronte a Carlo V. A stupire, oltre all'abilità dei giocatori, erano proprio le stesse palle: quelle che si usavano all'epoca in Europa erano un involucro di cuoio, imbottito con capelli (donde la parola spagnola pelota, da pelo "capello") oppure vesciche vuote e rigonfie; quelle mesoamericane erano tanto elastiche, rimbalzavano tanto bene perché erano di gomma naturale, ricavata da lattice di alcuni alberi. A scoprire e a imparare come sfruttare questa risorsa naturale erano stati gli Olmechi (che ne hanno addirittura ricevuto il nome: in nahuatl, la lingua degli Aztechi, la parola per indicare il caucciù è ulli o olli, da cui Olmeca "popolo del caucciù"). In effetti, le foreste dell'area attorno al golfo del Messico erano ricche di alberi che secernono un lattice elastico, atto a fabbricare la gomma; le più importanti per l'abbondanza della secrezione e la qualità del materiale sono due specie del genere Castilla: in primo luogo C. elastica, distribuita dal Messico al Sud America settentrionale, ma anche, nelle aree più meridionali dove vivevano i Maya, C. tunu. I giochi di palla presso i popoli mesoamericani avevano un significato religioso e rituale. Venivano giocati anche per puro passatempo, ma i campi principali sorgevano presso i templi e le partite facevano parte di complesse cerimonie che si concludevano con un sacrificio umano. Gli alberi della gomma (in nauhatl olicuàhuitl) erano considerati un sacro dono degli dei; sacre erano le stesse palle di gomma, che, magari ornate con una preziosissima piuma del quetzal, l'uccello sacro al dio Quetzalcoatl - egli stesso non di rado raffigurato mentre gioca a palla; e quella palla, evidentemente, è il Sole - erano una comune offerta votiva; è così che nei depositi sacri ne sono stati trovati molti esemplari, presumibilmente modellini di dimensioni inferiori al reale. Qualche anno fa hanno fatto scalpore i risultati di una ricerca di alcuni studiosi del MIT di Boston che, esaminando questi reperti e interpretando i resoconti degli scrittori spagnoli del Cinquecento, sono giunti alla conclusione che non solo gli Olmechi avevano cominciato ad usare il lattice di Castilla elastica per ricavarne la gomma naturale (i reperti più antichi risalgono al 1800 a.C.), ma avrebbero anche scoperto un procedimento che in qualche modo avrebbe anticipato di secoli la vulcanizzazione, unendo al lattice di Castilla il succo di Ipomoea alba, una liana che spesso si arrampica proprio sui fusti di questi alberi. Benché manchino prove definitive, si tratta senza dubbio di un'ipotesi suggestiva. E' certo invece che il palo de hule (questo il nome spagnolo di C. elastica, un calco del nome azteco; hule è anche la parole che in spagnolo designa la gomma naturale o caucciù) era albero ben noto e l'estrazione del lattice continuò ad essere praticata anche nel periodo coloniale, quando era usato per scopi diversi, in particolare per produrre tele cerate; gli erano anche attribuite proprietà medicamentose, e come pianta medicinale, la specie non sfuggì ai primi studiosi della flora messicana, a cominciare da Francisco Hernandez. Tuttavia bisogna attendere la Real Expedición Botánica a Nueva España perché l'albero fosse descritto scientificamente e ricevesse un nome botanico. Per decisione comune del capo della spedizione, Martin de Sessé, e di Vicente Cervantes, professore di botanica presso l'orto botanico di Città del Messico, venne dedicato alla prima vittima della grande spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. Una partecipazione intensa pagata con la vita Poche senza dubbio le notizie che ci sono giunte su questo personaggio. E' possibile che quando si aggregò alla spedizione fosse già una vecchia conoscenza di Martin de Sessé, dato che entrambi erano aragonesi del circondario di Jaca. Anche la sua formazione e la sua carriera ricordano quelle del conterraneo (tuttavia più giovane di lui di parecchi anni). Tutte e due, infatti, dopo gli studi in patria, l'uno come medico, l'altro come farmacista, erano entrati al servizio dell'esercito, praticando nell'America coloniale, dove erano divenuti eminenti membri della società scientifica locale. Juan Diego José del Castillo y López, nato presumibilmente a Jaca, aveva studiato prima filosofia, poi farmacia, esercitando la professione dapprima nella città natale e a Almudévar; divenuto farmacista militare, aveva quindi prestato servizio a Cadice, per poi essere trasferito nel 1771 a Porto Rico, dove venne nominato farmacista capo presso dell'Ospedale Reale. Nei quasi vent'anni trascorsi nell'isola, studiò a fondo la flora portoricana e nel 1785 divenne corrispondente estero dell'Orto botanico di Madrid, cui inviò anche numerosi esemplari, conquistando la stima di Casimiro Gomez Ortega. Fu così che nel 1788 quest'ultimo decise di aggregarlo alla Real Expedición Botánica come botanico e farmacista, lodandone le conoscenze botaniche, l'intelligenza e la lunga esperienza di vita ai tropici. Castillo arrivò a Città del Messico nel luglio 1788 e già ad agosto prese parte alla cosiddetta "prima campagna" nella valle del Messico, che si prolungò fino alla fine dell'anno. L'anno successivo, prese parte alla seconda campagna, con meta finale Acapulco; di questo viaggio, Castillo ha lasciato una relazione manoscritta di una ventina di pagine che contiene la descrizione delle piante raccolte, con denominazione linneana, sinonimi, luogo di raccolta, data di fioritura; conservato presso l'Orto botanico di Madrid, fu pubblicato solo nel 1887 in Plantae Novae Hispaniae. Tra il 1790 e il 1792, fu tra i partecipanti della terza lunga e faticosa campagna nel Messico settentrionale; quando il gruppo si divise, insieme a Mociño e Echeverría, percorse le province di Querétaro, Guanajuato, Michoacán, Valladolid e Patzcuaro. Dopo aver attraversato gli attuali stati di Jalisco, San Luis de Potosí e Nayarit, i tre si soffermarono diversi mesi nell'area del Tepic, per poi spostarsi verso Sinaloa, Durango e Sonora. Giunsero fino a Alamos, all'epoca un minuscolo villaggio, sede di una missione quasi abbandonata, al confine tra gli attuali stati di Sinaloa e Sonora. Il viaggio, lungo e faticoso, in mezzo a montagne impervie e deserti, aveva messo a dura prova i tre naturalisti; durante il viaggio di ritorno, mentre attraversavano la Sierra Madre occidentale nella regione di Tarahuamara, Castillo si ammalò. Quando raggiunsero Aguascalientes, il punto di ritrovo con l'altro troncone della spedizione, era ormai prostrato. Fu così che si separò da Mociño e Echeverría, che insieme a Maldonado partirono alla volta di Nootka; egli invece, insieme a Sessé e agli altri, rientrò a Città del Messico, con un viaggio che si faceva sempre più penoso mano a mano che le sue condizioni peggioravano. Neppure in città poté recuperare la salute, morendo il 16 luglio 1793. Nel suo testamento, dimostrò ancora una volta la sua dedizione alla scienza con un lascito testamentario di 4000 pesos per la pubblicazione di Flora mexicana, l'opera collettiva dei botanici e dei disegnatori della spedizione; confermando quell'intelligenza e quella conoscenza del mondo che tanto lo aveva fatto apprezzare da Gomez Ortega, aggiunse però una clausola: se l'opera non fosse stata pubblicata entro sei anni, la somma doveva essere devoluta alla costruzione di un deposito di cereali nella città di Jaca, a vantaggio dei lavoratori poveri. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Castilla, un genere molto elastico La morte dell'amico e compagno colpì profondamente tanto Sessé quanto Cervantes, che avevano inutilmente cercato di curarlo (non giungendo, per altro, neppure alla stessa diagnosi: il primo attribuiva la malattia e la morte allo scorbuto, il secondo a un'ostruzione del piloro); di comune accordo, decisero di dare il suo nome a una pianta importante tra quelle raccolte durante la spedizione; forse proprio per il fascino della sua storia e il suo legame con le civiltà preispaniche, la scelta cadde sul palo de hule. Pochi giorni dopo la morte di Castillo, il 22 giugno 1793 Cervantes inaugurò l'anno accademico con una prolusione dedicata a “El Árbol del Ule”, che ribattezzò Castilla elastica in omaggio all'amico scomparso. Divisa in tre parti, dopo una trattazione delle piante che producono gomma, sulla scorta delle informazioni raccolte da Sessé, esponeva alcuni esperimenti sul lattice e i suoi usi noti, concludendo con un esame delle proprietà medicinali (che, detto per inciso, successivamente non hanno trovato conferma scientifica). L'anno successivo, il discorso venne pubblicato come supplemento della Gazeta de literatura de Mexico, segnando la nascita ufficiale del genere Castilla. Si trattava di una pubblicazione di difficile reperimento, oltretutto scritta in spagnolo; fu così che nel 1805 Charles Koenig del British Museum ne pubblicò una traduzione in inglese; commise però un errore, trascrivendo il nome generico come Castilloa, E come Castilloa fu descritto nell'edizione di Genera Plantarum curata da Endlicher (1837); il nome errato fu in uso per quasi un secolo, finché ne venne riconosciuta l'illegittimità. Il genere Castilla, della famiglia Moraceae, comprende tre specie di alberi di imponenti dimensioni, originari delle foreste pluviali di bassa quota dell'America centrale e meridionale: Sono spesso sorretti da robuste radici a contrafforte; una caratteristica peculiare è poi l'autopotatura dei ramoscelli, che cadono lasciando cicatrici lungo il tronco; secondo alcuni studiosi, si tratterebbe di un meccanismo di autodifesa contro il troppo affettuoso abbraccio dei rampicanti (come appunto Ipomoea alba). C. elastica e C. tunu hanno distribuzione più settentrionale (dal Messico all'Ecuador), mentre C. ulei è più meridionale (dalla Colombia al Brasile). La più importante dal punto di vista economico è C. elastica, che in Messico e in altri paesi dell'area è stata sfruttata a lungo per la produzione della gomma, che oggi permane a livello locale soprattutto per realizzare piccoli oggetti d'artigianato. Introdotta in altri paesi tropicali, in concorrenza con il più noto albero della gomma, Hevea brasiliensis, in alcune zone della Tanzania, come anche nelle isole del Pacifico, è diventata infestante, venendo inclusa nella lista delle specie invasive globali. Qualche approfondimento nella scheda. La Real Expedicion Botanica a Nueva España, l'ultima in ordine di tempo delle grandi spedizioni scientifiche promosse dalla corona spagnola nel Settecento, nasce da un ritrovamento e da una richiesta. Il ritrovamento è quello, parziale, dell'opera del botanico del Cinquecento Francisco Hernandez sulla natura messicana; la richiesta è quella del medico e botanico Martin de Sessé di creare a città del Messico un orto botanico con annessa cattedra universitaria. Ne nascerà una lunga avventura che, proprio negli anni a cavallo tra la rivoluzione francese e la nascita dell'Impero napoleonico, porterà un gruppo di avventurosi studiosi ispanici e messicani alla scoperta della flora e della fauna del Messico, con una sorprendente puntata in Canada e una coda in centro America, su un territorio che abbraccia 4 milioni di chilometri quadrati. Sorprendente per altro è anche il poco noto genere Sessea, dedicato al tenace Sessé, ideatore e capo della spedizione. Sulle tracce di un vecchio libro e di un nuovo orto botanico Fu intorno al 1780 che lo storico e cosmografo Juan Bautista Muñoz scoprì nella Biblioteca della Compagnia di Gesù di Madrid il manoscritto parziale della storia naturale del Messico di Francisco Hernandez; il re affidò la pubblicazione a Casimiro Gomez Ortega, direttore dell'orto botanico di Madrid. Era un compito complesso, vista la parzialità e la lacunosità del manoscritto; per venirne a capo, a parere di Ortega, sarebbero state opportune ulteriori ricerche nelle biblioteche messicane nella speranza di trovare altri manoscritti e disegni. Più o meno negli stessi anni, l'ex medico militare Martin de Sessé y Lacosta, che si era stabilito in Messico, scrisse a Ortega proponendo l'istituzione di un orto botanico a Città del Messico, con annessa cattedra di botanica, anche per rinfrescare la preparazione del personale sanitario del viceregno, spesso alle prese con preoccupanti epidemie. Unendo le due esigenze, nacque così il progetto, approvato dal re Carlo III nell'ottobre 1786, di una spedizione scientifica nel Viceregno di Nuova Spagna, che da una parte avrebbe dovuto gettare le basi delle due nuove istituzioni scientifiche proposte da Sessé, dall'altra avrebbe dovuto integrare il lascito di Hernandez con nuove ricerche e disegni dal vivo. Ortega curò personalmente la progettazione, inclusi gli aspetti finanziari, e scelse i partecipanti: lo stesso Sessé come capo della spedizione e direttore del futuro orto botanico, il naturalista José Longinos Martìnez e il botanico Jaime Senseve. La spedizione iniziò ufficialmente nel marzo 1787. Nel primo anno, le attività del gruppo furono rivolte essenzialmente alla creazione dell'Orto botanico, collocato in un piccolo giardino nel parco di Chapultepec e solennemente inaugurato di fronte alle autorità cittadine il 1 maggio 1788 con un discorso di Sessé. Contestualmente fu creata la cattedra di botanica, affidata allo stesso Sessé e al medico e farmacista Vicente Cervantes. Rimandando a un altro post le informazioni su queste istituzioni, seguiamo qui le vicende della spedizione sul campo. Mentre si dava da fare per creare l'orto e la cattedra, scontrandosi anche con l'ambiente scientifico messicano, che, ancora fedele al sistema di Tournefort, poco apprezzava quello di Linneo, nell'autunno del 1787 Sessé fece le prime escursioni nei dintorni della capitale; per la campagna del 1788, insieme a Longinos e Senseve, si stabilì prima nel villaggio di San Angel poi a San Augustin de las Cuevas, esplorando soprattutto le montagne in prossimità della capitale. Alla fine dell'anno il gruppo fu integrato da un altro botanico, Juan Diego del Castillo, farmacista dell'ospedale reale di Porto Rico, anch'egli scelto da Ortega, e da due pittori, due giovani messicani raccomandati dal direttore della Scuola di belle arti di San Carlos a Città del Messico: Juan de Dios Vicente de la Cerda e Atanasio Echevarría. La seconda campagna ebbe inizio nel marzo 1789 e portò i naturalisti ad esplorare il Messico centrale, con le aree di Cuernavaca, Tixla, Chilpazingo, Acapulco sull'Oceano Pacifico. Al rientro a dicembre, si registrò un cambio della guarda: Longinos, in disaccordo con Sessé, preferì fermarsi nella capitale per organizzare un Gabinetto di storia naturale, mentre Senseve fu distaccato presso l'università per aiutare Cervantes nelle dissezioni anatomiche. Al loro posto subentrarono due giovani messicani, il primo frutto dell'insegnamento dello stesso Cervantes: il botanico José Mariano Mociño e il chirurgo José Luis Maldonado Polo. Il loro ingresso diede al gruppo maggiori capacità di manovra, con la possibilità di dividersi in sottogruppi. I confini della spedizione si dilatano La terza campagna iniziò nel maggio 1790; questa volta i naturalisti si diressero a nord, esplorando ampie aree del paese, soprattutto nelle province di Michoacàn e Jalisco. Giunti a Gaudalajara, sostarono quattro mesi, sistemando e classificando il materiale raccolto: mentre i pittori realizzarono altre 100 tavole, i naturalisti sintetizzarono i risultati di tre anni di campagne nel manoscritto collettivo Plantas de Nueva España, che, nonostante il titolo, contiene anche importanti apporti sulla fauna, in particolare gli uccelli. A questo punto la spedizione si divise: Mociño, Castillo e Echeverría si incamminarono verso nord lungo le pendici della Sierra Madre, in direzione di Los Álamos; poi si addentrarono nella sierra di Los Tarahumaras , dove Castillo si ammalò gravemente, per proseguire nella provincia di Durango, fino a Aguascalientes, luogo fissato per l'incontro con l'altro gruppo. Quest'ultimo, formato da Sessé, de la Cerda e Maldonado, aveva invece percorso le province di Sinaloa e Ostumurí. Nuovamente riuniti a Aguascalientes, furono raggiunti dall'ordine del viceré di recarsi nell'isola di Nootka, di fronte all'odierna Vancouver; su questa parte della spedizione, che portò Maldonado, Echeverría e Mociño a percorrere il Pacifico fino al Canada, tornerò in un altro post. Sessé, Castillo e de la Cerda tornarono invece nella capitale, dove si fermarono più di un anno (dall'inizio del 1792 alla metà del 1793). A giugno morì Castillo, che non aveva mai recuperato la salute. Anche lui e il suo contributo alla spedizione meritano un post a parte, Da parte loro, anche i due "dissidenti" Longinos e Senseve nel 1791 avevano deciso di organizzare una spedizione in proprio; nel gennaio 1792 si imbarcarono alla volta della Bassa California, percorrendo poi l'intera penisola da Cabo San Lucas a Monterey; si reimbarcarono poi per la costa di Sinaloa e Sonora, da cui rientrarono a Città del Messico. In circa tre anni, percorsero così duemila leghe, raccogliendo importanti collezioni di piante, animali e minerali, nonché informazioni sulle popolazioni indigene. Al loro ritorno, i due dovettero in qualche modo rappacificarsi con Sessé, visto che li ritroveremo tra i partecipanti delle ultime fasi della spedizione. D'altra parte, dal gruppo uscì Maldonado che, dopo il rientro da Nootka, si stabilì nel dipartimento di San Blas dove divenne chirurgo. Intanto il gruppo di Sessé e Mociño nel 1793 aveva esplorato le regioni del sudest che si affacciano sul golfo del Messico, procedendo a volte insieme, a volte diviso in due squadre. Nel 1794 e in gran parte dell'anno successivo, Mociño e Echeverría sostarono nelle provincie di Tehuantepec e Tabasco, da cui inviarono a Città del Messico moltissimi esemplari di piante e animali. Nel giugno del 1794, con il rientro di Longinos e Senseve, gli effettivi era tornati al completo. Sessé riuscì ad ottenere dalla corona il permesso di prolungare la spedizione per altri due anni, visitando il Guatemala e le isole Sopravento. I naturalisti si divisero di nuovo in due sottogruppi: Mociño, Longinos e de la Cerda avrebbero esplorato il Guatemala, mentre Sessé, Senseve e Echeverría avrebbero visitato Cuba, Santo Domingo e Porto Rico. Arrivato a Cuba nella primavera del 1795, Sessé stabilì fecondi contatti con le istituzioni scientifiche dell'isola e propiziò la nascita di un giardino botanico all'Havana. Raggiunto poi Porto Rico, vi si trattenne con i suoi compagni fino al maggio 1797, a causa del blocco del porto di san Juan da parte della flotta inglese. Dopo un secondo soggiorno a Cuba, tornò definitamente in Messico nel 1798. Quanto all'altro gruppo, Longinos, di nuovo in dissidio con gli altri, se ne andò da solo in Guatemala dove, proprio come aveva fatto a Città del Messico, si dedicò alla creazione di un gabinetto di storia naturale; solo quando vi si trovava già da cinque mesi fu raggiunto da Mociño e de la Cerda, cui si era unito il dissettore Julian del Villar Pardo; partiti qualche giorno prima di Longinos, lungo la strada avevano esplorato il sudest del Messico. Longinos riuscì ad imporre ai compagni come prioritaria la costituzione del Gabinetto, che fu inaugurato in gran pompa nel dicembre 1796. Subito dopo Mociño e de la Cerda ripartirono esplorando gran parte dell'America centrale; ma anche su questo ritornerò nel post dedicato a Mociño. Ormai la spedizione volgeva al termine; esauriti i due anni concessi dal re, nel 1797 Sessé scrisse a Longinos di far rientrare il gruppo "guatemalteco". Ritornarono in ordine sparso: prima de la Cerda, nel dicembre 1798, portando con sé oltre 2000 disegni; poi nel febbraio 1799 Mociño che in Guatemala e in Chapas, come medico, era anche stato coinvolto in attività umanitarie; invece Longinos, malato di tubercolosi, fu costretto a rimanere in Guatemala fino alla primavera del 1801, quando partì alla volta del Messico, morendo però durante il viaggio. Finita ufficialmente la spedizione, i naturalisti avrebbero dovuto tornare in Spagna, ma la guerra lo rese impossibile fino al 1803; nel frattempo, oltre a riordinare le collezioni e a riorganizzare il manoscritti della futura Flora mexicana, Sessé si era dedicato a un'altra impresa: la costituzione presso i due principali ospedali di Città del Messico di "sale di osservazione" ovvero di laboratori per lo studio e la sperimentazione delle virtù terapeutiche delle piante indigene. Un lascito imponente I risultati della spedizione furono imponenti: le specie raccolte in oltre un decennio di attività ammontarono a circa 3500, con 200 nuovi generi e oltre 1000 specie prima ignote alla scienza. Enorme anche il lavoro dei disegnatori (anche loro meritano un post a parte), con migliaia di disegni e acquarelli, soprattutto di soggetto botanico. La fondazione di nuove istituzioni come l'orto botanico e la cattedra di botanica a Città del Messico e i gabinetti naturali (precursori dei Musei di storia naturale) voluti da Longinos a Città del Messico e Città del Guatemala può quasi essere considerata l'atto di nascita degli studi naturalistici indipendenti nell'America Latina. Non stupisce dunque che molti membri della spedizione siano celebrati dalla nomenclatura botanica; hanno dato il loro nome a almeno un genere non solo i capi riconosciuti, Sessé e Mociño, ma anche Castillo, de la Cerda e Echeverría, nonché Cervantes, che, per quanto non abbia partecipato al lavoro sul campo, con la sua attività all'Orto botanico di Città del Messico e il suo insegnamento può esserne considerato un membro a tutti gli effetti. Su di loro tornerò in altri post. Qui vorrei concludere la vicenda di Sessé (per la cui vita rimando alla sezione biografie): tornato a Madrid nel 1803 portando con sé i disegni e un erbario di circa 7500 esemplari (copie dei disegni e doppioni delle piante rimasero, come oggetto di studio e conservazione, all'Orto botanico messicano), lavorò intensamente alla pubblicazione della Flora mexicana, ma morì nel 1808 prima di poterla completare. Lo studio delle piante raccolte durante la spedizione, proseguito brevemente da Mociño, finché questi non abbandonò la Spagna nel 1812, fu continuato da botanici spagnoli come Casimiro Gomez Ortega e Mariano Lagasca, nonché dallo svizzero de Candolle, ma le turbolente vicende politiche del regno iberico ottocentesco fecero sì che si giungesse a una pubblicazione solo negli anni '80 dell'Ottocento; alcuni manoscritti della spedizione vennero anche pubblicati in Messico tra il 1887 e il 1894, in particolare la silloge Plantae novae hispaniae (1883). Una Solanacea arborea Il primo omaggio a Sessé venne già nel 1794 (quindi quando la spedizione era ancora in pieno svolgimento) da parte di Hipolito Ruiz e José Antonio Pavon, ovvero dai protagonisti di un'altra delle grandi spedizioni iberiche del secondo Settecento, quella in Perù, che gli dedicarono Sessea. In epoca molto posteriore, nel 1917, Emile Hassler ne staccò Sesseopsis (ma oggi entrambe le specie di questo genere sono state assegnate a Cestrum). Sessea è un genere della famiglia delle Solanaceae che comprende una ventina di specie distribuite soprattutto nell'America andina, in particolare in Perù, Ecuador e Colombia. Per le fioriture è molto simile a Cestrum, da cui si distingue per i frutti (bacche con semi angolati per quest'ultimo, capsule con semi alati per Sessea). Sorprendentemente per questa famiglia, comprende veri e propri alberi (in alcune specie raggiungono anche i 25 metri); rare e poco studiate, la maggior parte delle specie sono endemismi di limitatissime aree delle foreste nebulose delle Ande settentrionali; proprio per questo sono poco conosciute, oltre ad essere a rischio di estinzione, come S. sodiroi, un piccolo albero di cui sono note solo quattro stazioni in Ecuador. Altre specie si spingono invece nelle foreste umide della costa atlantica brasiliana. Qualche approfondimento nella scheda. Concludo con una curiosità: una ditta di distillati madrilena ha voluto dedicare a Martin Sessé un gin prodotto artigianalmente; è un voluto omaggio alla grande avventura della Real Expedicion Botanica, come si racconta in questa pagina. Da qualche tempo si è affermata tra i cosiddetti dolcificanti naturali la Stevia (più esattamente Stevia rebaudiana), nota per il potere dolcificante 300 volte superiore rispetto allo zucchero, senza calorie. Ma forse non a tutti è noto che il suo nome celebra un interessante personaggio del Rinascimento spagnolo, il medico e umanista Pedro Jaime Esteve. La battaglia contro i barbari e una flora pionieristica Nel Medioevo, la Spagna aveva contribuito alla conoscenza dei grandi testi medici (e botanici) dell'antichità grazie alla mediazione degli studiosi arabi: fu infatti attraverso le loro traduzioni che si conobbero, tra gli altri, Dioscoride, Galeno e Ippocrate. Se per secoli questo aveva posto la penisola iberica all'avanguardia negli studi medici, con l'Umanesimo anche qui si sentiva il bisogna di tornare alle fonti, leggendo i testi degli antichi direttamente sui manoscritti originali. Ma, vista l'autorevolezza della tradizione araba, il ritorno all'antico avvenne non senza polemiche. Gli innovatori, che spesso avevano studiato all'estero o erano in contatto con la rete di umanisti europei, si contrapponevano ai tradizionalisti, da loro soprannominati "barbari", che ancora controllavano i posti chiave della professione medica e dell'insegnamento universitario. Tra i più notevoli e tenaci sostenitori della nuova scuola, troviamo anche Pedro Jaime Esteve, che alla latina si firmava Petrus Jacobus Stevus. Secondo la tradizione avrebbe studiato a Parigi e a Montpellier, dove avrebbe appreso la materia medica (cioè la botanica farmaceutica) da Guillaume Rondelet; maggiore di età del francese, quando questi cominciò a insegnare, Esteve era già vicino ai quarant'anni; ma non sarebbe l'unico caso, in epoca umanistica, di personaggi di età matura che, attratti dalla fama di un grande maestro, lasciavano la patria e magari una carriera per seguirne l'insegnamento. In ogni caso, negli anni '40 del Cinquecento lo troviamo a Valencia, sia come medico sia come versatile professore universitario (insegnò greco, anatomia, chirurgia, materia medica, matematica). Insieme all'amico e concittadino Miguel Jeronimo Ledesma, fu uno degli esponenti più attivi dell'umanesimo iberico, tanto da essere espulso per un anno (1548) dall'Università per aver pronunciato "parole irrispettose" nei confronti di Juan de Celaya, rettore dell'Università di Valencia e uomo di punta dei "barbari". Come medico-umanista, i suoi maggiori contributi sono la traduzione latina e i commenti del secondo libro del trattato sulle Epidemie di Ippocrate (1551) e la traduzione della Teriaca (1552) di Nicandro (la riscoperta dei veri ingredienti della teriaca, considerato un potentissimo antiveleno, fu uno degli argomenti che più appassionarono - e divisero - i medici rinascimentali). Ancora a metà strada tra tradizione medievale e nuova scienza, fu un seguace della teoria galenica degli umori (il che lo portò a interessarsi anche di astrologia) e nel suo insegnamento dell'anatomia mantenne una posizione ambigua, di solo parziale accettazione, nei confronti di Vesalio. In ogni caso, non era un acritico difensore degli antichi; commentando la descrizione dell'anatomia delle vene e dei nervi periferici nel suo commento a Ippocrate, osserva che è tanto rozza e tanto lontana da ciò che chiunque può osservare nelle dissezioni anatomiche, da fargli pensare che si tratti di un'interpolazione (venerava troppo il nome di Ippocrate per metterlo in discussione direttamente). Tra i suoi molteplici interessi, c'era anche, come abbiamo visto, la botanica; dal suo maestro Rondelet aveva appreso i metodi e la passione della ricerca sul campo; già nei suoi commenti al testo di Nicandro (dedicato essenzialmente ai veleni animali) inserì informazioni su alcune piante, fornendo i nomi volgari e informazioni sulla loro localizzazione nell'area valenciana. Ma la sua opera più importante in questo campo fu un manoscritto, intitolato Diccionario de las yerbas y plantas medicinales que se hallan en el Reino de Valencia, "Dizionario delle erbe e delle piante medicinali che si trovano nel Regno di Valencia". L'opera, scritta presumibilmente tra il 1545 e il 1556, fu una delle prime flore regionali d'Europa; tuttavia, non fu mai stampata e andò perduta. Ne conosciamo parzialmente il contenuto grazie a un riassunto incluso nelle Décadas de la Historia de Valencia (1610) di Gaspar Escolano. Escolano fornisce una lista di 120 specie, di cui dà il nome in valenciano e spagnolo, e, solo per alcune, brevi indicazioni sulla localizzazione, sull'uso medico o alimentare, sulle proprietà. Una sintesi della vita di Esteve nella sezione biografie. La dolce erba dei Guaranì Nonostante ciò che si favoleggia in diversi siti internet, non c'è alcuna relazione diretta tra Esteve e la Stevia. Non la conobbe, né tanto meno fu il primo a studiarla o addirittura a raccoglierla. L'omaggio si deve a Cavanilles che, egli stesso valenciano, volle riconoscere i meriti di un conterraneo di cui erano ancora ben note e apprezzate le traduzioni, autore soprattutto della prima flora della sua regione, che, benché perduta, ne faceva comunque un precursore. Partendo dalla forma latinizzata del nome dell'illustre predecessore, nel 1797 egli creò il genere Stevia (famiglia Asteraceae) sulla base di quattro specie messicane, giunte all'Orto botanico di Madrid grazie alla Real Expedición Botánica a Nueva España. Stevia è un genere piuttosto diffuso, distribuito dal Sud degli Stati Uniti, fino al Sud America meridionale, presumibilmente con massimo centro di diversità in Messico; erbacee annuali e perenni, suffrutici e arbusti, molte specie sono estremamente variabili, causando notevoli problemi di classificazione; lo stesso numero delle specie è dunque incerto (da 350 a 220, di cui almeno una settantina in Messico) e abbondano i sinonimi. Hanno foglie semplici, opposte, raramente alternate, e capolini raccolti in corimbi, con flosculi ligulati assenti e cinque flosculi del raggio tubolari, solitamente bianchi. Si tratta sopratutto di piante di montagna (tra 1000 e 3000 metri), che vivono nel sottobosco di aree fresche e umide. Tra tutte, l'unica a destare sensazione è S. rebaudiana, un arbusto che cresce in un alcune aree del Paraguay. Le proprietà dolcificanti delle sue foglie erano sfruttate dagli indios Guaranì per attenuare il sapore amaro del mate; nel 1887, Moses Bertoni, un eclettico personaggio di origine svizzera che aveva fondato una comunità anarco-socialista e fu un pioniere degli studi etnografici sui Guaranì, identificò per primo la pianta (assegnandola inizialmente al genere Eupatorium), mentre il primo a studiarne le proprietà chimiche fu il chimico paraguayano Olidio Rebaudi, in onore quale nel 1899 Bertoni la battezzò Eupatorium rebaudianum. A riconoscerne l'appartenenza al genere Stevia fu qualche anno più tardi il botanico di Kew W. B. Hemsley. Il suo successo come dolcificante al di fuori del Paraguay (dove vengono usate le foglie fresche) e del Sud America, dove è stato usato dall'industria alimentare almeno dagli anni '40, inizia solo intorno al 1970, grazie ai Giapponesi. E iniziano anche le polemiche. Ma se volete saperne di più, leggete i particolari nella scheda. Partito dalla Spagna ragazzo per inseguire il sogno dell'Eldorado, Bernabé Cobo invece dell'oro scopre in una volta sola due vocazioni: quella di missionario e quella di naturalista. Dei quasi sessant'anni trascorsi in America, ne dedica almeno quaranta alla ricerca e alla stesura della sua grande opera sul Nuovo mondo rimasta inedita per oltre duecento anni. Cavanilles, che la riscoprì, gli dedicò l'opulento genere Cobaea. Da avventuriero a missionario e ricercatore Tra le duemila persone che nel febbraio 1596 si accalcano nel porto di Sanlúcar, pronti a imbarcarsi per le Indie, c'è un ragazzo di poco più di 15 anni, Bernabé Cobo. Penultimo dei sei figli di una famiglia della piccola nobiltà andalusa, privo di istruzione (sa appena leggere e scrivere) e di un qualsiasi mestiere (lavorare sarebbe indegno della sua condizione di hidalgo), come i suoi compagni di viaggio lascia la Spagna alla volta del mitico Eldorado; Antonio de Berrio, governatore di Trinidad, assicura che il successo e la ricchezza non mancheranno, la terra lastricata d'oro li aspetta a braccia aperte. Gli esiti saranno ben altri: sbarcati in parte a Trinidad, in parte a San Tomé, sull'Orinoco, gli avventurieri - tra loro anche numerose donne - vengono decimati della fame, delle malattie, degli indigeni cannibali e dei corsari inglesi. Più fortunato, Bernabé Cobo, forse per la giovane età, viene inviato a Hispaniola, dove rimane un anno. Di qui si trasferisce a Panama e durante il viaggio conosce un gesuita, Esteban Paez che, intuendo le sue buone qualità, gli propone di accompagnarlo a Lima per frequentare il Collegio dei Gesuiti. E' la svolta che deciderà per sempre la sua vita: da avventuriero si trasforma prima in studente, poi in erudito, missionario gesuita, scienziato. Non tornerà mai più in Spagna. Il suo Eldorado sarà la storia, l'etnografia, la natura del Nuovo mondo. Dopo aver completato gli studi presso i gesuiti di Lima, infatti, Cobo prese i voti e servì l'ordine in diverse località del Perù; apprese le lingue locali e si legò di amicizia con Alonso Topa Atau, discendente dei sovrani inca, grazie al quale poté accedere a quanto rimaneva delle tradizioni incaiche. Intorno al 1613, nacque così l'ambizioso progetto di una Storia del Nuovo Mondo, che avrebbe dovuto riunire la geografia, la storia naturale (in particolare la flora e la fauna), l'etnografia, le vicende della colonizzazione. Padre Cobo lesse i documenti conservati negli archivi, visitò buona parte del viceregno del Perù, ovunque raccogliendo con scrupolo e eccezionale spirito di osservazione informazioni etnografiche, storiche, naturalistiche. Nel 1629, ottenuto il permesso dei superiori, passò in Messico, poi in Nicaragua e in Guatemala, in modo da estendere le sue ricerche alla Mesoamerica. Rientrato a Lima nel 1643, dedicò gli ultimi anni al completamento della sua monumentale Historia del Nuevo Mundo. Qualche approfondimento nella biografia. Ma anche quest'opera, preziosissima per la massa di informazioni di prima mano e chiara nel linguaggio, come tante che incontriamo in questo blog, non ebbe fortuna. Degli iniziali tre volumi si è conservato solo il primo e parzialmente il secondo, mentre il terzo è andato totalmente perduto. Per fortuna dei cultori di scienze naturali, è proprio il primo ad essere dedicato alla geografia, alla fauna e alla flora del Nuovo Mondo. Segnalato e parzialmente pubblicato da Cavanilles nel 1804, quanto rimane del grande lavoro di Cobo venne stampato solo a fine Ottocento, a cura di M. Jiménez de la Espada (1890-1895). Alla scoperta dei "piani della vegetazione" del Perù Per quanto siano notevoli anche i capitoli sui minerali e gli animali, a occupare il centro degli interessi di padre Cobo è soprattutto la botanica: tre capitoli sono dedicati alle piante esclusive dell'America (di fatto, la sua sarà la prima flora regionale del Perù), uno all'introduzione delle piante spagnole nel Nuovo Mondo. Quasi due secoli prima di Humboldt, Cobo fu il primo studioso a introdurre il concetto di "piano altitudinale della vegetazione": osservando la natura peruviana, capì infatti che l'altitudine, l'esposizione e il regime delle piogge condizionano il tipo di vegetazione. Partendo dall'alto, distinse sei piani di vegetazione, a partire dalla puna brava (4500-5300 m), la regione degli altopiani freddi, con vegetazione intermittente, dove le specie del piano inferiore mancano o non riescono a fruttificare; quindi il secondo piano, dove si coltivano le patate e l'Oxalis tuberosa; il terzo, dove si coltivano mais e lino; il quarto, dove attecchiscono le piante da frutto portate dalla Spagna; il quinto, con le piante che richiedono più calore; il sesto, dove maturano i datteri, le banane e i meloni. Secondo le consuetudini del tempo anche Cobo ebbe un particolare interesse per le piante medicinali. Fu tra i primi a segnalare le virtù febbrifughe della china (Cinchona sp.), anche se è del tutto infondata la notizia che sia stato lui a introdurne l'uso o addirittura a portarne la scorza in Europa (come si è visto, infatti, non fece più ritorno in patria). Ricordiamo inoltre Datura stramonium e D. inoxia, di cui segnala le proprietà narcotiche e allucinogene; Baccharis lanceolata, usata dagli indigeni come cicatrizzante e contro le malattie da raffreddamento; Nicotiana paniculata, chiamata "coro" e usata per diverse malattie; Argemone mexicana, chiamata "cardo santo" e usato come purgante. Cobo riferisce anche di aver contribuito all'acclimatazione di piante spagnole nel Nuovo Mondo, facendosi inviare semi dalla madre patria; nel 1629, a quanto racconta, mentre si trovava in Guatemala gustò il frutto di Annona cherimola e gli piacque tanto che ne inviò i semi in Perù, dove non era coltivato; tredici anni dopo, al ritorno a Lima, scoprì che era diventata abbastanza comune da essere venduta al mercato. La notizia è curiosa, visto che questa pianta è ritenuta originaria degli altipiani andini, non del centro America, e forse attesta una antica coltivazione. Cobaea, una splendida arrampicatrice Come si è visto, fu Cavanilles a inizio Ottocento a riscoprire e a pubblicare parzialmente l'opera di Cobo; qualche anno prima, nel 1791, aveva provveduto a rendergli omaggio dedicandogli il genere Cobaea: scelta opportuna, visto che, sebbene sia essenzialmente messicano, alcune specie vivono anche in Perù e Guatemala. Cobaea comprende 18 specie di rampicanti erbacee o legnose della famiglia Polemoniaceae; ha caratteristiche così peculiari che alcuni studiosi in passato le hanno addirittura assegnato una famiglia specifica, Cobaeaceae. La più nota e coltivata è senza dubbio la bella C. scadens, introdotta in Europa alla fine del Settecento; nativa del Messico, fu una delle piante scoperte dalla Real Expedición Botánica a Nueva España (1787-1803), classificate appunto da Cavanilles. E' una rampicante di rapida crescita, coltivata come annuale nelle aree soggette a gelate, altrove come perenne, molto apprezzata per la copiosa fioritura di grandi fiori campanulati viola o blu profondo, larghi anche 5 cm. Di sera e di notte è profumata (in Messico è impollinata da farfalle notturne e da pipistrelli). La sua capacità di arrampicarsi aggrappandosi ai sostegni con le foglie terminali trasformate in viticci ha destato la curiosità di Charles Darwin, che ne ha parlato in The Movements and Habits of Climbing Plants (1875). Meno nota e di fascino più discreto, un'altra specie messicana, C. pringelei, ha fiori candidi a tromba. Altre notizie nella scheda. Mentre la grande opera di Hernández sulla natura messicana langue nella biblioteca dell'Escorial e ogni tentativo di pubblicazione si infrange contro l'ottusità e la bancarotta della corte spagnola, decenni prima che gli Accademici dei Lincei riescano a far uscire la loro splendida versione, ad assicurarne la prima edizione a stampa - sebbene in una veste mutilata e arbitraria - sarà un oscuro monaco erborista, Francisco Ximenez. E non senza qualche equivoco Plumier gli dedicherà il genere Ximenia. Il primo divulgatore dell'erboristeria messicana Come si è visto in questo post, il primo avatar del mai pubblicato opus magnum di Francisco Hernández vide la luce nel 1615 in Messico, grazie a Francisco Ximenez. Prima avventuriero, poi frate, questo personaggio di cui non sappiamo quasi nulla - quel poco è sintetizzato nella biografia - lavorava come infermiere e preparatore dei farmaci all'ospedale Oaxtepec quando gli pervenne "par extraordinarios caminos" (ovvero per strade quasi miracolose) una copia del manoscritto dell'estratto dell'opera hernandina allestito da Recchi. Ximenez, sicuramente al corrente dell'attività di Hernández che in quell'ospedale aveva operato, decise di tradurre il manoscritto latino in spagnolo in modo da creare un manuale "da usare nei luoghi dove non ci sono medici e farmacisti affinché la gente possa preparare da sé le medicine, utilizzando risorse di origine naturale". Nasce così Quatro libros de la naturaleza y virtudes de las plantas que están recevidas en el uso de medizina en la Nueva España y el Methodo y preparación que para administrarlas se requiere con lo que el Doctor Francisco Hernández escrivió en lengua latina ("Quattro libri sulla natura e le virtù delle piante che hanno impiego medico nella provincia della Nuova Spagna e Metodo e preparazione richiesti per somministrarle, con ciò che il Dottor Francisco Hernández ne scrisse in lingua latina"); non si tratta di una mera traduzione, ma di un'opera molto libera in cui il testo di Hernández-Recchi è integrato da nozioni e indicazioni pratiche ricavate dall'esperienza di paramedico e farmacista dello stesso Ximenez. Fu la prima opera di divulgazione del sapere scientifico pubblicata in Messico; riveste un notevole interesse storico ed etnografico, perché documenta i metodi terapeutici del tempo, in cui si integrano tradizione popolare indigena, conoscenze "scientifiche" rinascimentali e perdurante influenza delle pratiche medievali, basate sulla teoria galenica dei quattro umori. Le parti del tutto originali sono per altro limitate (12 capitoli su un totale di oltre 450); per circa l'80%, l'opera è una traduzione della silloge di Recchi - con molte libertà, omissioni e interpretazioni personali; il resto è costituito da annotazioni e glosse. Ximenez espunse alcuni capitoli e eliminò (o forse neppure conobbe) le tavole delle illustrazioni. Probabilmente l'opera fu stampata in poche copie - oggi è considerata una rarità ricercata dai bibliofili - ma ottenne un discreto successo. Nel 1625 è citata nella Storia del nuovo mondo e descrizione delle Indie Occidentali di Johannes de Laet, naturalista e direttore della Compagnia olandese delle Indie occidentali. Benché mai ristampata, nei due secoli successivi è ripetutamente citata da naturalisti spagnoli e messicani. Tra di essi, ricordiamo Nicolás Antonio, che nella sua Bibliotheca Hispana Nova (1672) commise un curioso errore, confondendo il nostro Francisco Ximenez, domenicano dell'inizio del Seicento, con un omonimo Francisco Ximenez francescano che nel 1524 fu tra i primi dodici missionari inviati ad evangelizzare il Messico. Ximenia, una pianta ricca di virtù Sicuramente de Laet e presumibilmente Antonio sono le fonti di Charles Plumier, che conobbe l'opera di Ximenez solo in modo indiretto, senza avere coscienza della sua relazione con il testo di Hernández. Infatti, nella breve biografia che accompagna la descrizione del nuovo genere Ximenia in Nova plantarum americanarum genera scrive: "Il reverendo padre francescano Francisco Ximenz, spagnolo, dell'ordine minore della provincia di San Gabriele, uno dei primi dodici padri minori che portarono la luce del Vangelo nelle Indie Occidentali. Poiché aveva appreso perfettamente la lingua messicana, scrisse quattro libri sulla natura e la virtù degli alberi, delle piante e degli animali della Nuova Spagna, in particolare della regione del Messico, e sui loro usi in medicina, stampati a Città del Messico nel 1615, più volte lodati da Jan de Laett nella sua opera sul nuovo mondo". Come si vede, Plumier non solo riprende da Antonio l'errore di persona, ma è convinto che l'opera di Ximenez si debba a una ricerca originale. A complicare ulteriormente le cose per i ricercatori distratti, si può aggiungere che esiste un terzo Francisco Ximenez, anche lui domenicano, ma vissuto nel Settecento in Guatemala, celebre per aver scoperto e pubblicato il Popol Vuh. Ma è ora di parlare di Ximenia. Creato, come si è detto, da Plumier, il genere ricevette la conferma di Linneo nel 1753; appartenente alla famiglia Olacaceae, comprende una dozzina di specie di arbusti e piccoli alberi tropicali. Si tratta di piante emiparassite radicali, che si procurano sali minerali e acqua assorbendoli per mezzo di austori dalle radici delle piante vicine. Molto curiosi i fiori, fittamente ricoperti da una peluria da bianca a brunastra, seguiti da frutti eduli simili a piccole prugne (donde i nomi inglesi wild plum, monkey plum, sour plum). Ricchissimi di vitamina C, essi sono consumati sia crudi sotto forma di marmellate, gelatine, sciroppi. Dai semi di X. caffra - la più nota delle specie africane - viene estratto l'olio di Ximenia, utilizzato soprattutto nella cosmesi per le sue proprietà antiossidanti. Anche le foglie, le radici e la corteccia sono usate nella medicina tradizionale sia in Africa sia in Brasile; studi in atto in Nigeria ne confermano le interessanti proprietà antimicrobiche. Insomma, una dedica quanto mai azzeccata all'infermiere erborista che si preoccupava di fornire rimedi naturali alla portata di tutti. D'altra parte, conoscendo il senso dell'umorismo un po' maligno di Linneo, non sarà mancata anche un'allusione all'emiparassitismo di questo genere, che succhia nutrimento dalle piante circostanti, proprio come Ximenez ha tratto un briciolo di fama dall'opera altrui. Qualche notizia in più sulle specie più note nella scheda. |
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November 2024
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