Quando Mociño mostrò a de Candolle i disegni eseguiti durante la Real Expedicion Botanica, che aveva sottratto al saccheggio trasportandoli da Madrd a Montpellier con una carretta a mano, in cui trascorreva le notti facendo loro letteralmente scudo con il suo corpo, il botanico svizzero ne fu stupefatto, tanto da esclamare che superavano per qualità scientifica ed estetica quelli del tanto celebrato Redouté. Eppure erano opera non di illustri pittori accademici, ma di due illustratori botanici messicani, Vicente de la Cerda e Atanasio Echeverría, che per circa quindici anni avevano condiviso tutte le avventure della spedizione, accompagnando i botanici in ogni angolo della Nuova Spagna e disegnando qualcosa come 4000 tavole. Poiché molte delle piante essiccate erano andate perdute per le circostanze della guerra, attraverso le copie eseguite per de Candolle dalle dame ginevrine, quei disegni furono a lungo l'unica testimonianza visibile di molte nuove specie descritte nei manoscritti di Sessé e Mociño e una fonte fondamentale per il Prodromos dello stesso de Candolle. Il quale, riconoscente, volle dedicare due nuovi generi agli artisti messicani: quello che toccò a de la Cerda è piccolo e misconosciuto, mentre Echeverría si è aggiudicato il più noto, amato e coltivato tra quelli che onorano i membri della spedizione. ![]() Due giovanotti vivaci e volenterosi La realizzazione di un corredo di disegni botanici dal vivo della flora messicana fu fin dall'inizio uno degli obiettivi fondamentali della Real Expedición Botánica a Nueva España. Gli artisti cui sarebbe stato affidato questo compito dovevano essere ingaggiati sul posto; Martin de Sessé si rivolse perciò al direttore della Reale Accademia d'Arte di San Carlos, Jéronimo Antonio Gil; sebbene l'illustrazione botanica non fosse prevista nei corsi dell'Accademia, Gil scelse quattro allievi del corso di incisione cui fornire una preparazione specifica, sulla scorta delle puntuali indicazioni di Sessé, che li visitava assiduamente. Alla fine due furono i prescelti: il talentuoso Atanasio Echeverría y Godoy e il volenteroso Juan de Dios Vicente de la Cerda, meno dotato ma capace di significativi progressi. I due, descritti come giovanotti (avevano diciotto o diciannove anni) docili, volenterosi e dediti al lavoro, vennero assunti con una paga di 600 pesos annui per l'attività in bottega, da raddoppiarsi per il lavoro sul campo. Benché questa paga fosse la metà di quella percepita dagli artisti spagnoli che avevano partecipato alla spedizione nel Vicereame del Perù, fu ulteriormente ridotta a 500 pesos dalla Junta Real, l'Organo amministrativo della colonia. Da quel momento, e per circa quindici anni, i due artisti accompagnarono, ora insieme ora separatamente, le "escursioni" della spedizione. Il primo a partire fu de la Cerda, che partecipò alla prima campagna dell'ottobre 1787 nei dintorni della capitale; Echeverría seguì poco dopo. Poiché le loro opere sono rarissimamente firmate e i due pittori, oltre ad essere allievi dello stesso maestro, obbedivano alle identiche convenzioni dell'illustrazione scientifica, è difficile distinguere il lavoro dell'uno da quello dell'altro (tranne per i disegni che si riferiscono a piante di aree visitate da uno solo); nonostante ciò, agli occhi degli esperti almeno in qualche caso la mano di Echeverría è riconoscibile per la sicurezza del tratto, l'abilità nel tratteggio delle ombre, la luminosità dei colori, la precisione dei dettagli. Certa è invece l'enorme mole di lavoro compiuto, in parte sul campo in parte in atelier. Già all'inizio di maggio 1788 i due pittori avevano realizzato 187 tavole. Alla fine ufficiale della spedizione, sedici anni dopo, sarebbero state oltre 4000. I documenti della spedizione ci permettono di ricostruire la loro attività con una certa precisione. I due pittori accompagnarono insieme la prime due escursioni e la prima parte della terza, quando i botanici si divisero in due sottogruppi. I disegni realizzati in questa prima fase obbediscono a criteri formali molto precisi (inclusi in un rettangolo, con la pianta inserita al centro, adattandone per così dire la disposizione a questo rigido spazio), furono probabilmente eseguiti in collaborazione dai due artisti, che ne prepararono almeno due copie (una da inviare a Madrid, l'altra da conservare a Città del Messico a corredo del corso di botanica tenuto da Vicente Cervantes; in alcuni casi, furono eseguite ulteriori copie). Nella seconda fase, ciascuna sotto équipe fu invece formata generalmente da un solo botanico, accompagnato da un naturalista e da un disegnatore. Portando con sé i propri materiali (la carta, necessaria sia per i disegni sia per l'erbario, era il prodotto più ingombrante e indispensabile, poi c'erano i colori, le matite, le penne, i pennelli, le gomme e i raschiatoi), dovevano affrontare lunghi viaggi a piedi, dormire in una tenda, lavorare sul campo spesso in condizioni difficili. Mano a mano che il numero di specie raccolte cresceva, dovevano anche lavorare in fretta, per documentarne il maggior numero nel minor tempo possibile, non trascurando però i particolari anche minuscoli indispensabili per l'identificazione. In questa seconda fase, non vennero più eseguite copie sul campo. Anzi, spesso il pittore realizzava solo un bozzetto, che poi sarebbe stato completato in un secondo tempo. Come si vede dall'immagine che ho scelto, il pittore tracciava il disegno a matita, con una linea molto sottile ma sicura; il disegno veniva quindi ombreggiato con china o inchiostro ferrogallico steso a pennello; soltanto per gli esemplari più interessanti almeno alcuni particolari erano colorati con velature successive ad acquerello. Il bozzetto poteva poi essere completato in atelier, talvolta anche con l'ausilio di altri artisti (come Francisco Lindo, un altro allievo del San Carlos) che erano impegnati anche nella realizzazione di copie. Ma molti disegni sono rimasti allo stadio di bozzetto. ![]() Avventure di uomini e disegni A partire dagli ultimi mesi del 1791, Echeverría e Cerda non lavorarono più insieme sul campo. Quando la spedizione si divise per esplorare le regioni del Messico nordoccidentale, a Echeverría, con Mociño e Castillo, toccò l'area più impervia e settentrionale, fino al deserto di Sonora, mentre Cerda esplorava l'attuale stato di Sinaloa con Sessé e Maldonado. Tra il 1792 e il 1793, ancora Echeverría fu prescelto, insieme a Mociño e Maldonado, per la spedizione di Nootka (ce ne rimane una serie di piante regionali molto riconoscibili, caratteristiche delle regioni costiere umide del Pacifico nordorientale), mentre Cerda, attraversando il Messico centrale, rientrava a Città del Messico con Sessé e l'ormai malatissimo Castillo, avendo qui agio di completare, nei molti mesi che vi trascorse prima del ritorno del collega, molti bozzetti. Tra luglio e dicembre 1793, quando Sessé visitò le aree di Puebla e Veracruz, fu presumibilmente accompagnato prima da Echeverría , poi da Cerda. L'anno successivo, Echeverría accompagnò nuovamente Mociño nelle aree di Veracruz, Oaxaca, Tabasco. Quando poi la spedizione venne allargata ai Caraibi e all'America centrale, nuovo scambio di ruoli: mentre insieme a Mociño Cerda si spingeva in Guatemala, Salvador, Nicaragua e Costa Rica, Echeverría era con Sessé a Cuba e Puerto Rico. Le 140 tavole da lui dipinte nelle Antille sono considerate il suo capolavoro, rimarchevoli per l'attenzione ai dettagli e i colori vividi. Del resto, il dotatissimo Echeverría era ormai un artista riconosciuto, tanto che quando Sessé rientrò a Città del Messico, egli rimase a Cuba, entrando a far parte, come aiuto di José Guío, il pittore ufficiale, della Commissione di Guantanamo, una spedizione a carattere a metà tra scientifico e militare, durante la quale fu raccolta un'eminente collezione di pesci, uccelli e anche piante. Ritornato a Città del Messico intorno al 1802, l'anno successivo seguì Sessé e Mociño in Spagna, che però lasciò quasi immediatamente, per lo stato di guerra del paese, rientrando in Messico, dove fu nominato direttore della Reale accademia di San Carlos, morendo però presumibilmente poco dopo. Altro non sappiamo della sua vita; ancor meno di quella di Vicente de la Cerda. Sappiamo che Sessé avrebbe voluto che anche lui lo accompagnasse in Spagna, ma la Giunta gli impose invece di rimanere in Messico, al servizio dell'Orto botanico. Non conosciamo però né la data della sua morte né altri particolari sulla sua esistenza da questo momento in poi. Ma c'è ancora una storia da raccontare: quella delle meravigliose tavole create dai due artisti messicani. Alcune furono effettivamente consegnate all'Orto botanico di Madrid e lì sono ancora custodite; alcune copie rimasero a Città del Messico, altre furono donate a vario titolo; ma il grosso della collezione rimase nelle mani di Mociño che le portò avventurosamente con sé nel suo esilio in Francia, affidandolo a de Candolle. Ho già raccontato in questo post come il botanico svizzero, dovendo restituire i disegni in tutta fretta all'amico, le avesse fatte copiare da un centinaio di signore di Ginevra (dove queste copie sono tuttora conservate). Gli originali, invece, dopo la morte di Mociño sembrarono perduti per sempre. Stavano invece vivendo una vita sotterranea: passati nelle mani del dottore che aveva assistito Mociño nella sua ultima malattia, fino alla fine dell'Ottocento rimasero, sconosciuti a tutti, tra i beni ereditari dei suoi discendenti. Verso la fine del secolo dovettero essere venduti allo storico e bibliofilo Lorenzo Torner Casas. La biblioteca dell'erudito catalano passò poi al fratello minore e ai due nipoti, Jaime e Luis Torner Pannocchia, che nel 1979 li cedettero all'Hunt Institute di Pittsburg, dove giunsero nel 1981, ritornando ad essere accessibili agli studiosi dopo 160 anni. Se ne volete sapere di più, la storia della Torner Collection of Sessé and Mociño Biological Illustrations è raccontata con maggiori particolari in questa pagina del sito dell'istituzione americana. ![]() La modesta e multiforme Cerdia Grande ammiratore del lavoro di Cerda e Echeverría, che divenne anche il principale punto di riferimento per la stesura della sua Flore du Mexique, de Candolle volle onorare i due artisti dedicando a ciascuno di loro uno dei nuovi generi messicani pubblicati in Prodromus Systematis Naturalis Regni Vegetabilis (1828), sulla scorta degli appunti di Sessé e Mociño. Entrambi sono ancora validi, ma ben diversi per ampiezza e notorietà. Per volontà di Sessé e Mociño, rispettata da de Candolle, al modesto e solerte Vicente del la Cerda è toccato il monotipico Cerdia, della famiglia Cariophyllaceae, rappresentato dalla poco appariscente C. virescens, una minuscola erbacea perenne a cuscino con fiori bianco-verdastro privi di petali che poco si distinguono dal fogliame. Endemica delle aree aride del Messico, dal deserto di Chihuahua alle montagne centrali, è una specie piuttosto variabile - per il colore e la disposizione delle foglie, il numero di fiori per infiorescenza, la morfologia dei tepali e delle brattee, la presenza o l'assenza di stipole - tanto che in passato ne furono distinte quattro specie; oggi, sulla base di studi molecolari, tutte sono ricondotte a C. virescens. Qualche approfondimento nella scheda. ![]() Echeveria, una scelta infinita Se nessuno di noi, a meno di essere un esperto di flora dei deserti messicani, ha mai visto una Cerdia, alzi la mano chi non conosce e coltiva le Echeveriae. Al brillante Atanasio Echeverría è infatti toccato in sorte uno dei generi più noti, amati e coltivati dell'intera famiglia Crassulaceae. A dire il vero, Sessé e Mociño avevano destinato al più dotato dei loro pittori un'altra specie dei deserti messicani, l'ocotillo, un arbusto spinoso simile a un rovo che alla prima pioggia si trasforma in una cascata di fiori rosso fiamma. Ma, prima che de Candolle potesse pubblicarlo, era stato anticipato da Kunth (il collaboratore di Humboldt) che l'aveva battezzato Fouquieria splendens. Dunque l'assegnazione del nostro Echeveria a Atanasio Echeverría fu decisa dal solo de Candolle, sulla base di tre specie che Sessé e Mociño avevano assegnato ai generi Cotyledon e Sedum. Echeveria è un genere vastissimo, con oltre 150 specie di piante succulente sempreverdi, talvolta suffrutici, con foglie per lo più a rosetta, diffuse prevalentemente negli habitat aridi di media e alta quota del Messico (una specie raggiunge il Texas e alcune, attraverso il Centro America, si spingono fino all'America andina). Sono tra le succulente più popolari soprattutto per la bellezza delle foglie, in una vasta gamma di forme e colori (che includono il verde, il grigio, l'azzurro, il porpora, il rosato), generalmente raccolte in una rosetta più o meno globosa o aperta, ma anche per la facilità della coltivazione e della propagazione (è molto facile riprodurle anche da una singola foglia). I fiori campanulati, anch'essi piuttosto carnosi, raccolti in cime o pannocchie su lunghi steli lievemente arcuati, con i loro colori in tecnicolor (aranciati, rossi, rosati, spesso con apice dei petali giallo) aggiungono un'ulteriore attrattiva. Impossibile citare anche solo le specie più abitualmente coltivate; la scelta è ampissima, con centinaia e centinaia di cultivar. Disponibili in un'infinita varietà di forme e colori, attraenti tutto l'anno, a prova di pollice secco, relativamente rustiche, sono apprezzate tanto dai collezionisti a caccia dell'ultima novità quanto dal "coltivatore" più occasionale. Alle numerosissime varietà e agli ibridi interspecifici, si aggiungono anche gli ibridi intergenerici con altri generi di Crassulaceae; i più noti e disponibili sul mercato sono quelli con gli affini Pachyphytum, Graptopetalum, Sedum sezione Pachysedum (x Pachyveria, x Grapteveria, x Sedeveria). Qualche informazione in più nella scheda. Concludiamo con una nota dolente: sembra che, nonostante l'incredibile varietà di forme e di colori resa possibile dal lavoro di selezione e creazione di vivaisti e ibridatori, il mercato sia alla ricerca di qualcosa di diverso, di ancor più strabiliante. Così, da qualche anno, soprattutto nel periodo natalizio, ecco sui bancali di fiorai e garden center fare brutta mostra di sé le grandi rosette di E. agavoides (una specie assai robusta e facile da coltivare, che può raggiungere anche un diametro di 20 cm) verniciate in giallo, blu, rosso, nero, oro. Al di là del giudizio estetico, si tratta di una pratica assassina: la vernice impedisce alle foglie di respirare e di effettuare la fotosintesi; nell'arco di pochi mesi, la pianta è destinata a perire. Per gli olandesi che le producono a migliaia di esemplari, poco importa: gli affari sono affari. Ma per chi ama il verde e rispetta la natura, è un infelice connubio di ignoranza, cattivo gusto e consumismo.
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
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