Nel 1768, come medico della missione luterana e direttore dell'ospedale, arriva a Tranquebar, minuscola colonia danese sulla costa del Coromandel, l'allievo di Linneo Johann Gerhard König. Non lascerà l'India fino alla morte. Il suo arrivo agisce come un lievito che segna l'inizio dello studio scientifico della flora indiana; è un grande raccoglitore, ma soprattutto trasmette il suo entusiasmo ad amici e colleghi, creando forse la prima società scientifica del paese e incoraggiando le ricerche di altri naturalisti, tra cui il "padre della botanica indiana" William Roxburgh. Prima di tutto questo, il maestro Linneo lo aveva già premiato con il genere Koenigia, creato sulla base di una pianta che il suo pupillo aveva raccolto in Islanda. Un forte danese in India, là dove cantano le onde Meno noti di quelli di potenze maggiori come il Portogallo, la Francia o la Gran Bretagna, per circa duecento anni (1620-1848) in India ci furono anche alcuni insediamenti o empori danesi. Erano territori minuscoli, e dal punto di vista economico, con l'eccezione di qualche momento felice, non furono un successo. Ma sul piano culturale ebbero un ruolo sorprendente: in una di queste colonie operò la prima missione protestante della storia, nacque la prima tipografia e vennero stampati i primi libri stampati in una lingua indiana, furono create la prima scuola aperta anche alle bambine, e (forse) la prima società scientifica dell'Asia. Il luogo dove fiorirono quelle primizie è Tranquebar (oggi Tharangambadi, un nome poetico che significa "il luogo delle onde che cantano") a circa 300 km a sud di Madras sulla costa del Coromandel, nell'attuale stato indiano di Tamil Nadu, il primo e più importante avamposto danese in India. Nel 1616, l'ambizioso re di Danimarca Cristiano IV, sull'esempio della Compagnia olandese delle Indie orientali, sponsorizzò la nascita della Ostindisk Kompagni (Compagnia danese delle Indie orientali). Nella speranza di allearsi con il sovrano singalese contro i portoghesi, ottenendo in cambio una base a Ceylon, nel 1618 inviò in India una piccola flotta; tuttavia la trattativa diplomatica fallì e i danesi ripiegarono su Tranquebar, dove una delle loro navi aveva casualmente fatto naufragio. In cambio di un tributo annuo, il re di Thanjavur Raghunatha Nayak concesse loro una fascia costiera lunga otto km e profonda quattro; a partire dal 1620, i danesi vi crearono piantagioni e un emporio, protetti da un forte, Fort Daneborg, che divenne anche la sede ufficiale del governatore dell'India danese. Intanto in Europa era scoppiata la guerra dei Trent'anni, il cui esito disastroso cancellò i sogni di gloria di Cristiano IV e travolse anche la Ostindisk Kompagni. I viaggi tra India e Danimarca si interruppero, la compagnia fu sciolta e la piccola colonia rimase abbandonata a se stessa per circa trent'anni. Solo nel 1669 una fregata danese gettò di nuovo l'ancora a Tranquebar. Tornò in patria con un carico di pepe e altre spezie così promettente che venne deciso di rifondare la Compagnia, risorta dalle proprie ceneri nel 1670. Nonostante la concorrenza olandese che le impedì di allargare i suoi traffici più a est, la rinata compagnia riuscì a ritagliarsi uno spazio nel commercio dei tessuti e delle spezie indiane; la neutralità della Danimarca le permise di approfittare delle rivalità tra le potenze maggiori, traendo forti guadagni soprattutto dal nolo delle proprie navi "neutrali" ai mercanti delle potenze belligeranti. A questo effimero momento di prosperità mise fine la Grande guerra del Nord (1700-1721) che portò al fallimento anche la seconda Ostindisk Kompagni, sciolta nel 1729. Dal punto di vista religioso ed etnico, la colonia danese era un mosaico di fedi ed etnie. A inizio Settecento, quando il territorio danese si era allargato ad altri villaggi, vi vivevano circa 15.000 mila persone, musulmani, indù e cattolici indiani, convertiti dalla vigorosa attività missionaria dei gesuiti. Gli europei (soldati, funzionari, mercanti) erano una minoranza, e i danesi, circa 200 persone, una minoranza nella minoranza. La situazione preoccupava il re di Danimarca Federico IV, che decise di inviarvi missionari evangelici; non trovando nessuno disponibile in Danimarca, si rivolse all'università di Halle, uno dei centri propulsori del pietismo. Il pietismo di Halle era caratterizzato da un accentuato riformismo, che per certi aspetti lo avvicinava all'illuminismo e si traduceva in un forte impegno in campo pedagogico, sociale e culturale; l'energico caposcuola August Hermann Francke vi aveva fondato diverse scuole, un orfanatrofio, il più antico istituto biblico, una tipografia, una legatoria, una biblioteca, una farmacia e un piccolo museo di scienze naturali. La missione indiana, la prima in assoluto di una chiesa protestante, offriva ai pietisti di Halle un nuovo, inedito campo d'azione. Francke la affidò a due dei suoi migliori allievi, Bartholomäus Ziegenbalg e Heinrich Plütschau, che portarono in India la fede fervente, l'attivismo sociale, l'impegno pedagogico della scuola di Halle, destando l'ostilità non solo dei gesuiti, ma anche delle autorità locali e della Compagnia inglese delle Indie, che fece addirittura arrestare Ziegenbalg con l'accusa di tubare l'ordine pubblico. Egli approfittò della detenzione per studiare il tamil e incominciare a tradurre la Bibbia. Dopo la liberazione, oltre a due chiese e altre strutture funzionali alla missione, creò una cartiera, una tipografia (la prima dell'intero subcontinente a stampare testi in una lingua locale), una scuola aperta anche alle ragazze (anche questa una assoluta novità), un seminario per il futuro clero indiano. I missionari di Halle erano in costante contatto con la madrepatria, cui inviavano lettere, diari, contributi scientifici su vari aspetti della cultura indiana. A partire dal 1720, la tipografia della Fondazione Francke incominciò a pubblicarli in una rivista nota come Hallesche Berichte, che presto ebbe diffusione europea, influenzando a lungo l'immagine dell'India in Europa. Tra gli argomenti che più interessavano il pubblico colto c'era anche la medicina tradizionale indiana, il cui valore era stato riconosciuto dagli europei fin dai tempi di Garcia de Orta; d'altra parte, si riteneva che quell'antico patrimonio dei conoscenze fosse ormai degenerato e ridotto a un insieme di pratiche superstiziose. Urgeva inviare in India un medico con una buona preparazione in chimica e in botanica farmaceutica per studiare dal vivo le piante medicinali, tanto più che l'assistenza sanitaria a Tranquebar era inadeguata e non riusciva a far fronte alle epidemie che decimavano gli europei. Mentre gli indigeni disponevano di un certo numero di medici ayurvedici, a occuparsi della loro salute c'erano solo il chirurgo e l'aiuto chirurgo della guarnigione militare, che gestivano anche l'ospedale con l'aiuto di assistenti indiani. Nel 1732 la Fondazione Francke inviò dunque a Tranquebar Samuel Benjamin Cnoll (1705–67), un medico laureato ad Halle, che dagli anni '40 diresse anche l'ospedale; sappiamo che creò un piccolo orto botanico e scrisse un articolo sulla preparazione indiana della borace pubblicato sulla rivista danese Acta Medica Hafniensis. Alla sua morte, ne prese il posto il protagonista di questa storia, Johann Gerhard König (1728–85). Ma prima di concentrarci su di lui, due parole sulle ulteriori vicende dell'India danese. Dopo le pesanti perdite subite nella Grande guerra del Nord, la Danimarca tornò alla politica di neutralità che non avrebbe più abbandonato fino alle guerre napoleoniche. Nel 1730 venne fondata una terza compagnia, la Compagnia asiatica (Asiatisk Kompagni) che, ottenuto dal re il monopolio dei traffici asiatici per quarant'anni, aprì una nuova via commerciale con la Cina e rilanciò il commercio indiano. Anche se i maggiori profitti vennero dalla rotta cinese, ci fu una certa espansione anche nell'area indiana, con la fondazione di altri empori, il più importante dei quali fu Serampore in Bengala, fondato nel 1755. Tra il 1754 e il 1756, la compagnia cercò anche di creare un avamposto nelle isole Nicobare, che presto dovette essere abbandonato a causa della malaria e di altre malattie che decimarono i coloni. Per evangelizzare le Nicobare, la corona danese decise l'invio di una seconda missione evangelica, affidata all'Unione dei fratelli boemi, anche noti come Fratelli moravi. Il re di Danimarca assicurò la più ampia libertà religiosa e l'agguerrita congregazione lanciò immediatamente una sottoscrizione tra i propri membri per autofinanziarsi. Un primo gruppo di quattordici missionari, tutti giovani e scapoli, fu inviato Tranquebar nel 1760; ne facevano parte un pastore, due studenti di teologia e undici tra artigiani e mercanti. L'anno successivo furono raggiunti da alcune famiglie, con donne e bambini. Anche se l'evangelizzazione delle Nicobare fallì prima di cominciare, a Tranquebar i Fratelli moravi riuscirono ad affermarsi rapidamente, suscitando non poche gelosie tra i confratelli luterani. In missione per conto di Linneo A gettare un ponte tra i due gruppi missionari rivali fu proprio il nostro Johann Gerhard König. E' ora che si prenda la scena. König era un tedesco del Baltico, nato a Kreutzburg nella Livonia polacca. Incominciò la sua formazione come apprendista farmacista a Riga. Dopo aver lavorato come farmacista in diverse località danesi e svedesi, nel 1757 andò a Uppsala a studiare scienze naturali con Linneo, con il quale poi rimase in contatto. Nel 1759 si trasferì in Danimarca, dove lavorò al Frederikshospital e studiò medicina all'Università di Copenhagen con un altro discepolo di Linneo, Christen Friis Rottbøll. Come abile raccoglitore, fu ingaggiato da Oeder per Flora Danica; nel 1764 fece raccolte nell'isola di Bornholm e tra il 1766 e il 1767 in Islanda. Fu proprio la sua fedeltà a Linneo, al quale aveva inviato un certo numero di esemplari, a metterlo in urto con Oeder. Su consiglio di Rottbøll, accettò il posto di medico della missione luterana di Tranquebar, vacante per la morte di Cnoll. Non era ancora laureato, ma avrebbe potuto continuare gli studi e scrivere la sua tesi anche in India. Fu così che nel 1768 egli arrivò a Tranquebar; anche lui si sentiva un missionario, ma del verbo linneano, che fu il primo a far conoscere in India. Era un avido raccoglitore, un ottimo sistematico, e soprattutto una personalità carismatica che seppe contagiare con il suo entusiasmo amici e colleghi. Insieme ad alcuni pastori della missione luterana e qualche membro della comunità morava creò un gruppo informale il cui scopo principale era promuovere lo studio scientifico della botanica. Alcuni studiosi lo considerano la prima società scientifica indiana e gli attribuiscono anche un nome, United Brethren, "Fratelli uniti" o "Unione dei fratelli"; altri fanno notare che era la denominazione usuale della chiesa morava ed è dubbio che i "fratelli botanici" l'abbiamo mai applicata a se stessi. Ma certo il gruppo esisteva; dapprima limitato a Tranquebar, via via ne superò i confini e si allargò a medici, funzionari, naturalisti che operavano nell'India meridionale, per lo più al servizio della Compagnia inglese delle Indie. I membri del gruppo raccoglievano e scambiavano piante, le identificavano, ne discutevano "fraternamente" la classificazione; quindi cominciarono a inviare gli esemplari, identificati o meno, a botanici europei. Come allievo di Linneo che aveva studiato e lavorato in Danimarca, König era in contatto in Svezia con Retzius e in Danimarca con il maestro Rottbøll, Fabricius e Martin Vahl. Attraverso il condiscepolo Solander, incominciò a corrispondere con Banks, che a sua volta lo mise in contatto con i naturalisti al servizio della Compagnia delle Indie, il più noto dei quali, William Roxburgh, divenne un membro attivo del gruppo e suo amico personale. A loro volta, i missionari luterani coinvolti da König fecero conoscere le loro ricerche a Halle; attraverso Johann Reinhold Forster, che insegnava storia naturale in quella università, le relazioni si allargarono ad altri atenei tedeschi, con il risultato che il lavoro dei "botanici di Tranquebar" divenne ben noto in Europa e numerose piante indiane da loro segnalate per la prima volta furono pubblicate da personaggi come Retzius, Vahl, Willdenow o James Edward Smith. König lavorò a Tranquebar fino al 1773, quando ottenne la laurea in medicina in absentia all'Università di Copenhagen, sottoponendo una tesi in cui discuteva l'efficacia dei rimedi indigeni per curare le malattie endemiche della regione (De remediorum indigenorum ad morbes cuius regioni endemicos expugnandos efficacia). Insoddisfatto del magro salario che limitava di molto le sue possibilità di viaggiare, "più desideroso di fama che di fortuna", come confidò all'amico Patrick Russell, passò al servizio del nababbo di Arcot come medico personale. Poté così esplorare le colline a nord di Madras e anche visitare l'isola di Ceylon. Frequenti divennero anche i soggiorni a Madras, dove condivise le sue conoscenze con i medici inglesi, primo fra tutti William Roxburgh che all'epoca lavorava come assistente chirurgo al Madras Medical Service. Grazie agli amici inglesi nel 1778 fu assunto dalla Compagnia inglese delle Indie, di cui fu il primo naturalista ufficiale. Nel 1779 la compagnia lo inviò in Siam e negli stretti di Malacca alla ricerca di piante di interesse economico da introdurre nell'India meridionale. L'anno successivo rientrò a Madras; erborizzava spesso con Roxburgh, che all'epoca era più noto come disegnatore che come botanico, trasmettendogli i suoi metodi e rafforzando la sua vocazione botanica. Nel 1785, mentre stava recandosi a Vizagaptam per incontrare il fratello di Patrick Russell Claud, si ammalò di gastroenterite e, nonostante le cure dell'amico Roxburgh, ne morì, lasciando i suoi erbari e le sue carte in eredità a Joseph Banks. König pubblicò poco: il primo articolo scientifico sulle termiti, uscito nel 1779 su una rivista tedesca, quindi due contributi sulle piante dell'India sudorientale pubblicati da Retzius in Observationes botanicae rispettivamente nel 1783 e nel 1791. Fu invece un grande raccoglitore; suoi esemplari furono pubblicati da Linneo in Mantissa plantarum altera (1771) e dal figlio di Linneo in Supplementum plantarum (1781), fornirono le basi per la descrizione delle Cyperaceae pubblicate da Rottbøll in Descriptiones plantarum rariorum e Descriptiones et iconum rariores (1772-73) e in parte per Plants of the Coast of Coromandel di Roxburgh. Un genere artico e montano Quando König arrivò in India, aveva già ottenuto da Linneo il "massimo riconoscimento per un botanico", ovvero la dedica di un genere. In Mantissa Plantarum Prima (1767) il suo maestro aveva creato in suo onore Koenigia (famiglia Polygonaceae), sulla base di una delle piante da lui raccolte in Islanda, K. islandica; è una minuscola erbacea, tipica delle tundre artiche e delle praterie alpine. Non solo è una delle piante da fiore più piccole del mondo (non supera i 4 cm d'altezza), ma anche una delle pochissime annuali di quelle flore in cui la bella stagione è troppo breve per garantire la maturazione dei semi. A lungo rimase l'unica specie riconosciuta, finché, rispettivamente nel 1825 e nel 1881 si aggiunsero due specie himalayane, K. nepalensis e K. pilosa. Emendato da Hedberg sulla base delle caratteristiche del polline, verso la fine del '900 il genere giunse a comprendere cinque o sei specie, tutte alpine o artiche. Finché, nel 2015, è arrivata una rivoluzione tassonomica. Sulla base dei dati molecolari, il genere è stato ridefinito, includendovi Aconogonon. Oggi dunque comprende una trentina di specie dell'emisfero boreale, con centro di diversità nell'Himalaya. Sono erbacee perenni o annuali, molto varie per dimensioni ed aspetto, con radici a fittone e piccoli fiori dai colori chiari (bianchi, crema, rosa) raccolti in cime ascellari o terminali che in alcune specie formano vistose pannocchie piramidali. Tra di esse c'è anche una bella specie abbastanza comune nei pascoli montani delle Alpi occidentali e centrali e degli Appennini settentrionali. La conosco da sempre, ma con il nome che le aveva dato Allioni, Polygonum alpinum, cui corrisponde anche il nome comune poligono alpino. Come molte piante di questa famiglia dalle vicende tassonomiche travagliate, ha cambiato nome molte volte, e adesso si chiama ufficialmente Koenigia alpina (All.) T.M.Schust. & Reveal. Anche se varie specie sono aggressive infestanti, alcune sono apprezzate per il loro valore ornamentale. La più coltivata è forse K. x fennica, un ibrido naturale tra K. alpina e K. weyrichii, un'imponente perenne con fioriture spettacolare. Qualche informazione in più su questa e altre specie nella scheda.
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E' molto probabile, anzi certo, che tra l'imperatore Carlo Magno e i cardi del genere Carlina non ci sia nessuna relazione. Ma la fantasia linguistica del popolo ha voluto stabilire un legame, sulla base di quel fenomeno che i linguisti chiamano paretimologia o etimologia popolare: e così cardina, "piccolo cardo", si è trasformato in carlina. La leggenda però è suggestiva e i meriti botanici del grande imperatore sono sufficienti ad accogliere anche lui nella galleria dei patroni delle piante, nonostante una piccola svista di Linneo (o del suo tipografo) Una leggenda tardo medievale Stando ai linguisti, non c'è storia: il nome volgare, e poi scientifico, dei cardi del genere Carlina deriva per dissimilazione da cardina, a sua volta forma diminutiva di carduus. Ma la suggestione del suono ci porta inevitabilmente a un Carlo, anzi al Carlo per eccellenza, il re Carlo o re Carlone dei Reali di Francia. Divenuto ormai opaco, carlina è stato reinterpretato dalla fantasia linguistica popolare come "pianta di Carlo" e ne è nata una leggenda che probabilmente girava di bocca in bocca da tempo quando, tra il 1462 e il 1463, l'umanista Enea Silvio Piccolomini, ovvero papa Pio II, la mise per iscritto. Nei suoi Commentarii egli racconta che nell'estate dell'800 Carlo si trovava sul monte Amiata, da dove avrebbe raggiunto Roma per essere incoronato, quando il suo esercito fu colpito da una terribile pestilenza. Il sovrano si gettò in ginocchio e pregò il Signore di dargli soccorso. L'aiuto giunse in forma di sogno o visione. A Carlo apparve un angelo che gli ordinò di scagliare un dardo in direzione del sole. La dove sarebbe caduto, avrebbe trovato una pianta che avrebbe risanato i suoi uomini. Carlo obbedì; la freccia andò a conficcarsi nella radice di una erba che, ridotta in polvere e fatta bere agli ammalati, li guarì. La scena è perfettamente ritratta nell'erbario figurato di Giovanni Cadamosto (Manoscritto Harley MS 3736), dipinto probabilmente nella Germania meridionale intorno al 1475, a sua volta una copia di un manoscritto eseguito per Borso d'Este (morto nel 1471). La didascalia recita "Carlina che purga de la peste": il testo prosegue descrivendo le virtù della pianta e raccontando la leggenda in modo simile a Piccolomini. La conclusione ricorda che di quel miracolo rimane il segno tangibile: "tute quante nasceno con lo buso de quel dardo". Sempre in ambiente ferrarese, la storia era nota anche al medico personale dei duca d'Este, Niccolò Leoniceno, che nei suoi manoscritti (pubblicati solo nel 1532, molto dopo la sua morte) parla di una "herba Carlina" che "fu scoperta da Carlo Magno". Più interessato a identificarla con una qualche pianta degli antichi, Leoniceno non va oltre; a farlo è il suo allievo Antonio Musa Brasavola che in Examen omnium simplicium (1536), discutendo dell'identificazione delle carline che ha raccolto sui monti del bolognese, attribuisce l'invenzione della leggenda agli erboristi che, vedendo quella lesione al centro della radice, l'hanno attribuita al dardo scagliato da Carlo Magno istruito da un angelo; e conclude haec puerilia sunt, "sono puerilità". Non molto meno drastico è Mattioli, che chiama la pianta Chamaeleon albus (o niger), sulla scorta di Dioscoride, e aggiunge: "I Toscani, ma anche altri nel resto d'Italia, la chiamano volgarmente carlina; perché il volgo crede (e il volgo è facile a credere) che quest'erba un tempo sia stata mostrata a re Carlo da un angelo per guarire il suo esercito dalla peste e sia dunque l'antidoto migliore di tutti". Ormai, la storia è di dominio comune e con espressioni come "si dice", "si crede", la riportano Cesalpino, Tabernemontano, Dodoneo, Caspar Bauhin e altri. A crederci, o ad approfittarne, sono i monaci dell'Abbazia di San Salvatore sul monte Amiata, che arricchiscono la leggenda di particolari; anche se il senese Piccolomini non ne parla, sarebbero stati loro ad aiutare il re carolingio a curare i suoi soldati. Ma le leggende, si sa, si deformano, si attualizzano; e qualcuno, chissà quando, chissà chi, incomincia ad attribuire la vicenda al nuovo Carlo, ovvero l'imperatore Carlo V. Dal monte Amiata lo scenario si sposta ad Algeri, dall'estate dell'800 all'autunno del 1541. Intatte rimangono la peste e la guarigione miracolosa. Stranamente, questa versione spuria si insinua in Critica botanica di Linneo dove a p. 76 leggiamo: Carlina - Carolus V Magnus Imper. Germaniae. Eppure Linneo riprese il genere Carlina dal Pinax di Bauhin, dove è correttamente collegata a Carlo Magno. Questo in prima battuta, perché nell'ultimissima pagina del testo, addirittura dopo l'indice (quindi separato dagli altri errata corrige) troviamo la correzione: p. 76 lin. 18 Carolus V Magnus Imper. Germaniae lege Carolus Magnus Imper. Romanor. (non più "Carlo V il grande imperatore di Germania" ma "Carlo Magno imperatore dei Romani"). Come si dice in questi casi, sarà stata colpa del proto. Nell'orto di Carlomagno Non tenendo conto della correzione, molti testi (per citarne solo uno, Flora of North America) attribuiscono Carlina al Carlo sbagliato. Come pseudo-dedicatario di Carlina, teniamoci invece quello originale, tanto più che in qualche modo di piante si occupò. Lo fece attraverso il più famoso dei suoi provvedimenti amministrativi, il Capitulare de villis, in cui vengono impartite direttive sulle attività delle aziende agricole (villae) del patrimonio imperiale; non ne conosciamo la data, ma gli storici lo collocano generalmente negli ultimi anni del suo regno, anche se non manca chi ha voluto attribuire il documento al figlio Ludovico il Pio. L'importante testo, una delle poche testimonianze sull'agricoltura e l'orticoltura altomedievali, è stato assai studiato - soprattutto per i suoi aspetti giuridici - e diversamente interpretato. Anche se varie piante sono nominate sinteticamente nei capitoli dedicati alla gestione dei boschi, alla coltivazione dei campi, alla viticoltura, all'allevamento del bestiame, a interessarci in particolare è il capitolo 70 e ultimo, che contiene un elenco di 73 ortaggi e 16 alberi che l'imperatore vorrebbe fossero coltivati nei suoi poderi. Anche se la loro identificazione è tutt'altro che sicura e univoca, su questa base in vari paesi europei sono anche stati ricostruiti numerosi "giardini carolingi", a cominciare dai due Karlsgarten di Aquisgrana. Sebbene la lista sia aperta dalla formula imperativa "Vogliamo che nell’orto sia coltivata ogni possibile pianta", è improbabile che in ciascuna delle centinaia di aziende agricole imperiali sparse tra Francia, Germania, Aquitania, Austria, Italia settentrionale ci fossero sempre tutte 89. Basti pensare che nei tre orti dell'abbazia di San Gallo, di cui ci è giunta una pianta risalente all'820 circa, le specie coltivate erano in tutto 47. Si tratterà dunque di una lista ideale, da adattare secondo le esigenze, le risorse del territorio, il clima del luogo. Come negli orti monastici medievali, anche in quelli delle villae carolinge si affiancavano piante alimentari e medicinali. Tra le alimentari troviamo numerose specie che ancora oggi popolano gli orti: alia, l'aglio Allium sativum; ascalonias, lo scalogno Allium cepa var. ascalonicum; betas, le biete o barbabietole Beta vulgaris subsp. vulgaris; apium, il sedano Apium graveolens; carvitas, le carote Daucus carota; caulos, i cavoli Brassica oleracea; cepas, le cipolle Allium cepa; cicerum italicum, i ceci Cicer aretinum; cucumeres, i cetrioli Cucumis sativus; eruca, la rucola Eruca sativa; fabas maiores, le fave Vicia faba; fenicolum, il finocchio Foeniculum vulgare; intubas, la cicoria Cichorium intybus; lactucas, le lattughe Lactuca sativa e/o L. virosa; pepones, il melone Cucumis melo; pisos, i piselli Pisum sativum; porros, i porri Allium porrum; uniones, la cipolla d'inverno Allium fistulosum. Più inconsuete per noi adripias, la chenopodiacea Atriplex hortensis, oggi sostituita dagli spinaci; blidas, l'amaranto livido Amaranthus blitum; cucurbitas, la zucca da vino Lagenaria siceraria; nasturtium, il crescione d'acqua Nasturtium officinale; pastenacas, la pastinaca Pastinaca sativa; radices, il ramolaccio nero Raphanus sativus var. niger. Nutrita è la schiere delle aromatiche: ameum, l'ammi Meum athamanticum; anesum, l'anice Pimpinella anisum; anetum, l'aneto Anethum graveolens; britlas, l'erba cipollina Allium shoenaprasum; careum, il carvi Carum carvi; cerfolium, il cerfoglio Anthriscus cerefolium; ciminum, il cumino Cuminum cyminum; coriandrum, il coriandolo Coriandrum sativum; costum, l'erba di san Pietro Tanacetum balsamita; fenigrecum, il fieno greco Trigonella foenum-graecum; git, il cumino nero Nigella sativa; levisticum, il levistico Levisticum officinale; menta, la menta Mentha spp.; mentastrum, Mentha longifolia; nepeta, Nepeta cataria; Petresilinum, il prezzemolo Petroselinum crispum; puledium, il pulegio Mentha pulegium; ros marinum, il rosmarino Rosmarinus officinalis; ruta, la ruta Ruta graveolens; salvia, la salvia Salvia officinalis; satureia, la santoreggia Satureja hortensis; sinape, la senape bianca Sinapis alba. Utili per insaporire il cibo e aiutarne la conservazione, moltissime aromatiche erano anche piante medicinali, come del resto anche qualcuno degli ortaggi citati in precedenza, ad esempio l'aglio o la lattuga. Dovevano essere invece coltivate prevalentemente o solo per le loro virtù officinali abrotanum, l'abrotano Artemisia abrotanum; altaea, l'altea Althaea officinalis; diptamnum, il dittamo Dictamnus albus; lacteridas, la catapuzia Euphorbia lathyris; malvas, la malva Malva sylvestris; papaver, il papavero Papaver somniferum; parduna, la bardana Arctium lappa; savina, il ginepro sabina Juniperus sabina; sclareia, Salvia sclarea; silum, Laserpitium siler; sisimbrium, Sisymbrium officinale; solsequia, la calendula Calendula officinalis; squilla, la velenosissima Drimia (o Urginea) maritima; tanazita, il tanaceto Tanacetum vulgare; vulgigina, Asarum europaeum. Di alcuni ortaggi e erbe rimane discussa l'identificazione: cardones, che potrebbero essere cardi Cynara cardunculus, ma anche qualche altra pianta spinosa, come Dipsacus sativus, che tornava utile anche per cardare la lana; coloquentidas, il coloquintide Citrullus colocynthis ma forse Bryonia alba, dunque non una pianta alimentare, ma medicinale; dragantea, per alcuni il dragoncello Artemisia dracunculus, per altri Polygonum bistorta, per altri ancora Dracunculus vulgaris; fasiolum, forse il fagiolo dell'occhio Vigna unguiculata, forse Lablab purpureus; febrefugia, un'officinale cacciafebbre che potrebbe essere Centaurium erythraea o Tanacetum parthenium; olisatum, Smyrnium olusatrum o Angelica archangelica; ravacaulos, cavolo rapa Brassica oleracea var. gongylodes oppure rapa Brassica rapa subsp. rapa. Prima di lasciare l'orto, incontriamo ancora una pianta tintoria, warentia, la garanza Rubia tinctorum, e un gruppetto di piante fiorifere, coltivate come ornamentali ma forse anche come mellifere, come del resto non poche delle specie già elencate: gladiolum, il gladiolo Gladiolus italicus; lilium, il giglio di sant'Antonio Lilium candidum; lilium gladiola, che non è né un giglio né un gladiolo, ma Iris germanica; rosas, che saranno rose canine, galliche o altro. Passiamo agli alberi. L'imperatore raccomanda "frutteti di vario genere: meli cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi, noci, ciliegi di vari tipi". La maggiore attenzione va ai meli, di cui si elencano quattro varietà per noi ormai misteriose e si prescrive che dovranno produrre mele sia dolci, sia aspre, sia precoci, sia tardive, di consumo immediato o a lunga conservazione, da consumare crude o cotte. Anche le pere saranno di tre o quattro tipi, qualcuna dolce, qualcuna da cuocere, e non mancheranno le tardive e quelle di lunga durata. Un'ultima raccomandazione conclude capitolo e capitolare: l'ortolano non dimentichi di mettere sul tetto della sua casa la barba di Giove, ovvero Sempervivum tectorum. Era infatti diffusa la credenza che preservasse i tetti dalla caduta dei fulmini. Spine e fiori solari Tra le piante medicinali del Capitulare de villis non compare nessuna Carlina, anche se probabilmente qualcuna delle specie di questo genere europeo sarà stata ben conosciuta dai contadini, magari come erbaccia da estirpare dai campi più aridi e sassosi o, chissà, come pianta magica e terapeutica. Del resto, almeno Carlina acaulis era già nota agli antichi; Teofrasto, Dioscoride e Plinio la descrivono come Chamaeleon niger e Chamaeleon albus; come spiega Plinio, il nome "camaleonte" deriva dal vario colore delle foglie, che sembra adattarsi a quello del substrato dove cresce la pianta. La radice era raccomandata per il trattamento delle affezioni della pelle, ma anche per malattie gravi, dalla lebbra alla tubercolosi. Dobbiamo però fare un lungo salto nel tempo per trovare la prima rappresentazione in assoluto di Carlina acaulis: ce la propone lo splendido Codex bellunensis, composto nei primissimi anni del Quattrocento tra Feltre e Belluno, designata con il nome comune Carlina e il nome latino Oculus bovis, "occhio di bue", per la forma che evoca un occhio. E' la specie più nota del genere Carlina L. (famiglia Asteraceae, tribù Cynareae, la stessa dei carciofi), che ne comprende una trentina, diffuse dalla Macaronesia al Vicino Oriente, con centro di diversità nel bacino del Mediterraneo; una sola specie, C. bibersteinii, raggiunge la Siberia e la Cina. Il genere è ben rappresentato nella flora italiana con una decina di specie, una delle quali endemica della Sicilia. Del resto, ad eccezione di poche specie di ampia diffusione, come C. acaulis, C. bibersteinii, C. corymbosa, C. vulgaris, il genere comprende molti endemismi di aree circoscritte e parecchie "isolane"; oltre alla nostra C. sicula, potremmo citare la cipriota C. pygmaea, le cretesi C. barnebiana, C. curetum, C. diae, le canarie C. canariensis, C. falcata, C. texedae, C. xeranthemoides. Anche se molte specie sono annuali o biennali, non mancano perenni, arbusti e persino alberi nani (fino a un metro d'altezza); vari anche gli ambienti, tipicamente aridi e sassosi, ma per alcune specie erbosi e boschivi. Lo scapo può essere assente (come in C. acaulis), ma anche alto più un metro, diritto o ramificato, solitamente spinoso. Le foglie hanno margini profondamente incisi in genere muniti di spine più o meno robuste e pungenti. I capolini sono solitari o raggruppati in infiorescenze. Come in tutte le Asteraceae, essi sono a loro volta delle infiorescenze, ma presentano solo i fiori del disco, tubolari e ermafroditi. I "petali" che circondano il ricettacolo sono infatti brattee di consistenza membranosa o cartacea, che assolvono la funzione di attirare gli insetti che in altre specie di questa famiglia è svolta dai fiori del raggio. I frutti sono acheni muniti di pappi piumosi; prodotti in grande numero, tendono a spargersi ampiamente. Per questo, e perché il bestiame tende a rifiutarle, le carline sono spesso considerate dannose per i pascoli. Carlina magica e salutifera Carlina acaulis ha un ruolo notevole sia nel folklore sia nella medicina tradizionale. Il capolino circondato da un doppio giro di brattee, simile a un sole o a un occhio circondato dalle ciglia, ma munito di temibili spine, diventa un talismano apotropaico capace di tenere lontano il malocchio. I baschi, che la chiamano eguzkilore, "fiore del sole", usano appendere o inchiodare un fiore di carlina all'uscio; la credenza vuole che in tal modo le lamias, gli spiriti maligni che insidiano le case per rapire i bambini, saranno costrette a fermarsi per contare i "petali", ma, essendo deboli in matematica, perderanno il conto e se ne andranno. La stessa usanza si ritrova anche nelle Alpi. In Germani la si inchiodava alle porte delle stalle per impedire alle streghe di mungere le mucche e rubare il latte, e alla porcilaia per mantenere sani i maiali. Avere una carlina da tenere d'occhio può essere utile per fini meno magici e più concreti. Quando il tempo è umido e minaccia pioggia, le brattee si chiudono attorno al ricettacolo, quando il tempo torna sereno e secco si riaprono. Dato che questa proprietà si mantiene nei fiori secchi, questi ultimi funzionano come un barometro naturale, che permette di predire il tempo a breve scadenza. Ecco perché in alcune aree francesi Carlina acaulis si chiama barométre. Quanto alle virtù medicinali, come abbiamo visto, Mattioli era piuttosto scettico. Il suo contemporaneo Dodonaeus invece si schierava con coloro che lo consideravano il più potente degli antiveleni, il rimedio sovrano contro i vermi e i parassiti, le contusioni e soprattutto contro la peste: "inverte la malattia infettiva o la pestilenza dell'uomo e fa sì che non possa impadronirsi di noi o stabilirsi in noi e anche se qualcuno ne è contagiato, lo guarisce completamente". Diuretica, cicatrizzante, antimicrobica, serve un po' a tutto; e aggiunge che secondo qualcuno portarne una radice appesa al collo accresce la forza. Con il nome di Radix Carlinae, la radice di Carlina acualis compare nelle farmacopee ufficiali di molti paesi europei fino a metà Ottocento, prescritta per uso esterno come rimedio delle affezioni della pelle e per uso interno per una varietà di scopi: come lassativo, depurativo, sudorifero, diuretico, stomatico, antimicrobico. La scienza ha confermato solo quest'ultima proprietà, grazie alla presenza di ossido di carlina, un poliacetilene antibatterico. Dunque, forse, era davvero utile per sconfiggere la peste. Informazioni anche sulle altre specie nella scheda. Nella Londra degli anni '20 e '30 dell'Ottocento, non erano pochi i visitatori stranieri che facevano una capatina a Chelsea, all'epoca ancora un villaggio fuori porta, per visitare il giardino e le collezioni naturalistiche dell'entomologo e botanico Adrian Hardy Haworth. Gentile ed affabile, accoglieva volentieri tutti e non si faceva pregare per dispensare i suoi consigli sulla coltivazione delle succulente. In questo campo era una vera autorità, un grande collezionista ma anche un tassonomista che scrisse pagine importanti per la classificazione di Mesembryanthemum, Aloe, Stapelia e generi affini. Si occupò meno di Cactaceae, ma non mancò di dare un contributo decisivo anche alla loro tassonomia. I suoi studi su Aloe aprirono la strada al francese Duval che ne separò i generi Gasteria e Haworthia. Quest'ultimo da allora è diventato un beniamino dei collezionisti; ma mentre aumentava il numero di specie e varietà, cresceva anche la confusione nomenclatoria. A mettere ordine nel caos ci hanno pensato di recente gli studi molecolari. Siete sicuri che le vostre Haworthia lo siano davvero? Tra farfalle e succulente Negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento, nei giardini e nelle serre europee si moltiplicano gli arrivi di succulente esotiche, dando inizio a quella che uno dei suoi maggiori protagonisti, Adrian Hardy Haworth (1767-1833), ha battezzato "l'età d'oro delle succulente". All'epoca, più che le Cactaceae, di cui si conoscevano ancora relativamente poche specie (la situazione incomincerà a cambiare a partire dagli anni '20 e '30, con le spedizioni botaniche in Messico e in Sud America) si trattava soprattutto di membri delle famiglie Aizoaceae, Crassulariaceae, Euphorbiaceae e Apocynaceae. Per lo più erano di origine sudafricana, e decisive per la loro conoscenza e introduzione in Europa furono le spedizioni di Francis Masson (1772-75, 1785-1795), grazie alle quali i Kew Gardens poterono riunire forse la principale collezione di succulente d'Europa. Fu proprio a Kew che Haworth le conobbe e se ne innamorò. Come molti naturalisti di primo piano del suo tempo, non era un professionista, ma un appassionato. Secondogenito di una facoltosa famiglia di mercanti e proprietari terrieri dello Yorkshire, era stato destinato dal padre alla carriera legale; aveva obbedito disciplinatamente ai suoi voleri, finché, all'età di 21 anni, la morte di lui gli diede l'indipendenza economica e la possibilità di seguire la sua vera vocazione: le scienze naturali. Stabilitosi in una proprietà di famiglia nel villaggio di Cottingham presso Hull, incominciò a raccogliere, collezionare e studiare insetti, uccelli, animali marini. Nel 1792, venticinquenne, si trasferì a Chelsea, all'epoca ancora un villaggio con giardini, vivai e un celebre mercato di fiori, senza dimenticare il Giardino dei farmacisti, che faceva ancora seria concorrenza a Kew per la ricchezza di piante esotiche. Uno dei suoi vicini era il mercante di vini William Jones, un altro appassionato che, dopo aver fatto fortuna, si era ritirato dall'attività per dedicarsi a raccogliere, studiare e dipingere le farfalle: ne nacquero le Jones Icones, una spettacolare raccolta di 1500 acquarelli di farfalle e falene. Jones diventò il mentore di Haworth: lo indirizzò allo studio dei lepidotteri, lo presentò alla Linnean Society, gli fece conoscere altri naturalisti, tra cui Joseph Banks. Quest'ultimo gli mise a disposizione le sue collezioni e la sua biblioteca e gli fece conoscere gli orti botanici di Kew e di Chelsea; Haworth incominciò a frequentarli assiduamente, dividendosi tra due passioni, l'entomologia e la botanica. Grazie all'amicizia con William Townsend Aiton, il sovrintendente di Kew, ottenne i primi esemplari della sua collezione di succulente. Proprio a un genere di succulente sudafricane dedicò anche la sua prima monografia, Observations on the Genus Mesembryanthemum (1794-95). L'entomologia era però il primo amore e occupava ancora il centro dei suoi interessi. In questi anni, da solo o con qualche amico, spesso partiva per una lunga scarpinata alla ricerca di insetti. Percorse così buona parte della Gran Bretagna. Insoddisfatto dello scarso peso dedicato all'entomologia dalla Linnean Society, alla quale era stato ammesso nel 1798, nel 1801 fondò l'Aurelian Society; il severo statuto da lui dettato, che tra l'altro imponeva agli aderenti di mettere in comune le loro collezioni, limitò le adesioni; la società non riuscì mai a superare i venti membri, finché nel 1806 venne sciolta. Di lì a poco dalle sue ceneri sarebbe sorta l'Entomological Society. Nel 1802, proprio all'Aurelian Society, Haworth presentò Prodromus lepidopterum britannicorum, in cui delineava il progetto di un catalogo completo dei lepidotteri britannici. L'anno dopo diede alle stampe il primo dei quattro volumi di Lepidoptera britannica (1803-1828), una pietra miliare in questo campo di studi, che sarebbe rimasto un'opera di riferimento per un cinquantennio. Per qualche anno, dal 1812 al 1817, Haworth tornò a vivere a Cottingham; scrisse un poema in versi in cui celebrava la natura e diede una mano a creare l'orto botanico di Hull. Nel 1817 ritornò definitivamente a Chelsea. Come aveva fatto Banks con lui, aprì volentieri le porte della sua casa agli amici entomologi e naturalisti: ne fece un punto di ritrovo dove, sorseggiando una tazza di tè, si discuteva, si presentavano le proprie ricerche, si esaminavano gli ultimi acquisti delle collezioni. Padrone di casa amabile e affabile, Haworth accoglieva volentieri i visitatori che giungevano anche dall'estero o i vivaisti che ricorrevano a lui per un consiglio su come classificare o coltivare le amate "grassottelle". Il giardino si trasformò in un orto botanico e la collezione di succulente, grazie agli esemplari ottenuti da Kew, vivai privati, corrispondenti e raccoglitori, raggiunse un migliaio di esemplari. La casa era un vero e proprio museo di storia naturale: al momento della morte di Haworth le sue collezioni comprendevano 40.000 esemplari di insetti, con 1100 specie e 300 varietà per i soli lepidotteri; un gabinetto di conchiglie; dodici teche di pesci e crostacei; un erbario di 20.000 esemplari; una biblioteca di 1600 volumi. Il 23 agosto del 1833 Haworth era in giardino ad annaffiare le sue piante quando incominciò a sentirsi male. Ventiquattro ore dopo era morto, una delle oltre 1400 vittime della recrudescenza del colera che nei due anni precedenti aveva già causato oltre 20.000 morti in Gran Bretagna. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Classificare le succulente La collezione di succulente per Haworth era una passione, ma soprattutto uno strumento di lavoro. A causa dei loro tessuti carnosi, queste piante sono notoriamente difficili da essiccare e da conservare in un erbario; egli dunque privilegiava l'osservazione dal vivo, sia a Kew sia nel proprio giardino. Anche se continuava ad occuparsi anche di altri argomenti (oltre a completare la grande opera sui lepidotteri, scrisse moltissimo, pubblicando decine di contributi sugli insetti, sui crostacei, su altri gruppi di piante), per le succulente divenne un'autorità riconosciuta in tutta Europa. Purtroppo non dedicò loro un'opera complessiva, ma una serie di lavori di diversa ampiezza, che vanno dalla breve comunicazione alla corposa monografia; solo nel 1965 furono riuniti e resi più facilmente disponibili in A. H. Haworth, Complete Works on Succulent Plants. Risalgono al 1794 i primi due contributi, dedicati rispettivamente ai generi Mesembryanthemum (Aizoaceae) e Aloe (Asphodelaceae). Da quando Linneo li aveva ufficialmente creati nel 1753 in Species plantarum, il numero di specie note di entrambi i generi era cresciuto in modo esponenziale, rendendo urgente una risistemazione. Linneo aveva descritto 34 specie di Mesembryanthemum; nelle due serie di Observations on the genus Mesembryanthemum Haworth ne descrisse 130. Tornò poi sul genere ancora in Miscellanea naturalia (1803), Supplementum plantarum succulentarum (1819) e Revisiones plantarum succulentarum (1821), descrivendone in totale circa 160. Oltre a stabilire dozzine di nuove specie, fu anche il primo a tentare una classificazione del genere. In Miscellanea Naturalia lo suddivise in tredici sezioni, di cui fornì sinteticamente i caratteri diagnostici; di fronte all'arrivo di nuove specie, in Revisiones plantarum succulentarum rivide il proprio sistema, stabilendo otto sezioni e ben 69 sottosezioni e sottolineò che diversi di questi gruppi "possono essere considerati dei veri e propri generi naturali". Aprì così la strada ai botanici successivi che avrebbero elevato a genere alcuni di questi gruppi. Le specie linneane di Aloe sono nove; in A new arrangement of the genus Aloe Haworth ne descrisse 59 e ne discusse un'altra decina come dubbie o di difficile identificazione. Nel 1804, in una comunicazione pubblicata nelle Transactions della Linnean Society, le suddivise in tre sezioni: Parviflorae, Curviflorae e Grandiflorae. Qualche anno dopo (1809) il francese Duval in Plantae succulentae in Horto Alencionio mantenne in Aloe solo l'ultima e eresse le prime due sezioni a generi autonomi: la sezione Parviflorae divenne Haworthia, in onore del nostro, e la sezione Curviflorae Gasteria. In Synopsis plantarum succulentarum, un'opera che si presenta modestamente come un catalogo delle succulente coltivate nei dintorni di Londra (principalmente a Kew o da lui stesso), ma è in realtà una pietra miliare della storia della classificazione delle succulente, Haworth accettò i due nuovi generi di Duval, mantenne 31 specie di Aloe e ne propose una nuova sottodivisione in cinque gruppi (non tutti dotati di nome), sulla base non più dei fiori ma del caule. Synopsis plantarum succulentarum è importante anche per la trattazione delle Stapelieae. Nel 1810 Robert Brown sulla base delle caratteristiche della corolla aveva staccato dal genere linneano Stapelia i generi Huernia, Piaranthus e Caralluma. Haworth lo seguì sulla stessa strada, fissando altri nove generi. Alcuni più tardi furono ricondotti a sinonimi, ma ben cinque dedi generi di Haworth sono tuttora validi: Tridentea, Tromotriche, Orbea, Duvalia (con la quale Haworth rese il favore a Duval), Pectinaria. Non meno decisiva è la trattazione delle Cactaceae (fino ad allora egli si era occupato poco delle "succulente spinose"): Haworth dichiarò inutilizzabile il genere linneano Cactus e lo smembrò in sette generi (ne ho parlato qui). Supplementum plantarum succulentarum (1819), oltre a aggiunte su varie succulente, contiene un'importante revisione del genere Narcissus. Revisiones plantarum succulentarum (1821), oltre che per la nuova classificazione di Mesembryanthemum, si segnala per la creazione dei generi Cephalophyllum e Hymenogyne (due Aizoaceae della Provincia del Capo) e Monanthes, una Crassulacea endemica della Macaronesia. Quando piccolo è bello La dedica a Haworth del genere Haworthia da parte di Duval è una delle più azzeccate della storia della botanica. Non solo perché il botanico inglese era stato il primo a descriverne molte specie e a studiare in modo sistematico questo gruppo di piante, ma perché con la sua grande varietà di forme e di colori è ricercatissimo dai collezionisti e dagli appassionati come lui stesso era. E' in questo che consiste la loro bellezza, molto più che nei fiori, come sottolineava lo stesso Haworth: "Le strutture curiose e perlacee che si trovano così di frequente in questa divisione compensano abbondantemente i loro fiori insignificanti. La loro bellezza equivale a quelle delle altre che sono sempre in fiore". Haworthia (Asphodelaceae) come è stato inteso per circa duecento anni, è un grande genere endemico del Sud Africa; alcune specie si estendono a Namibia, Lesotho, eSwatini (Swaziland) e Mozambico. Sono succulente nane a rosetta che vivono in una varietà di habitat e di comunità vegetali, dalle praterie aperte alle scogliere e alle montagne, in zone con precipitazioni sia estive sia invernali sia distribuite nell'arco dell'anno. A differenza di altre succulente, non amano il sole diretto: tipicamente, vivono ai piedi di arbusti, all'ombra di massi oppure nelle fessure delle rocce. Talvolta sono esemplari isolati, ma più frequentemente formano densi gruppi con decine o anche centinaia di rosette. A tanta varietà di habitat, corrisponde un'estrema varietà di forme: la rosetta può essere aperta o chiusa, le foglie possono essere più o meno carnose, arrotondate o acuminate, rigide o morbide, sottili o larghe, con spine o senza, pelose o glabre, con bande chiare, venature, verruche, escrescenze perlacee. Alcune specie presentano all'apice delle foglie delle specie di finestre traslucide e trasparenti: in natura vivono semi sommerse nel terreno e questa è l'unica parte che emerge, permettendo alla luce di diffondersi all'interno. Molto variabili anche i colori, dal verde lime al verde scuro, al grigiastro, al glauco, al marrone. A causa della forte varietà individuale anche all'interno della stessa specie, della facilità con cui si ibridano, dei confini labili tra una specie e l'altro, la tassonomia di questo gruppo è piuttosto complessa. Senza contare che se ne sono occupati soprattutto i collezionisti, che hanno moltiplicato i nomi e la confusione, con un accavallarsi di sinonimi. Si è arrivati a riconoscergli fino a 160 specie e più di 200 varietà. Nel 1947 ne fu separato il genere Astroloba. Sulla base di evidenti differenze morfologiche, nel 1971 Bayer divise Haworthia nei tre sottogeneri Haworthia, Hexangulares e Robustipedunculares. Ma la vera rivoluzione è iniziata intorno agli anni '10 del 2000, con le analisi molecolari che hanno dimostrato artificialità del genere. Nel 2013 Rowley e altri lo hanno diviso in tre generi, corrispondenti grosso modo ai tre precedenti sottogeneri: Haworthia (= Haworthia subgenus Haworthia), con 50-60 specie; Haworthiopsis (= Haworthia subgenus Hexangulares), con 18 specie; Tulista (= Haworthia subgenus Robustipedunculares), con 4 specie. Continuano ad essere Haworthia in senso stretto le piccole specie prive di stelo, con foglie carnose spesso dotate di finestre traslucide agli apici o bordate di spine; i fiori hanno sezione triangolare; diffuse in varie parti del Sud Africa, hanno centro di diversità nella Provincia del Capo occidentale. Tra quelle più note ai collezionisti Haworthia aracnoidea, H. cooperi, H. magnifica, H. retusa, H. truncata. Il genere Haworthiopsis ha centro di diversità più a est, nella Provincia orientale del capo. Comprende le specie con fiori con sezione esagonale, rosette a stella o disposte a spirale attorno allo stelo, con foglie più dure, talvolta fibrose, spesso caratterizzate dalla presenza di tubercoli e striature. E' indubbiamente il gruppo più noto ai collezionisti e ne fanno parte le specie di note (per lo più ancora commercializzate come Haworthia): Hawortiopsis attenuata (= Haworthia attenuata), H. fasciata (= Haworthia fasciata), H. limifolia (= Hawortia limifolia), Haworthiopsis reinwardtii (= Haworthia reinwardtii), Haworthiopsis venosa (= Hawortia venosa). Il piccolo genereTulista si distingue soprattutto per i fiori raccolti in infiorescenze ramificate e sorretti da un robusto peduncolo, per le dimensioni relativamente più grandi, per le foglie non fibrose con un essudato giallo. Almeno due delle sue specie sono abbastanza coltivate: Tulista pumila (= Haworthia pumila o anche Hawortia margaritifera), Tulista minima (= Haworthia minima). Tulista pumila è anche la prima specie del gruppo di Haworthia in senso lato ad essere stata raccolta e descritta; raccolta già negli anni sessanta del Seicento, nel 1682 fu pubblicata nel catalogo dell'orto botanico di Amsterdam come Aloe africana humilis spinis inermibus & verrucosis obsita, "Aloe africana di piccole dimensioni con spine inermi e cosparsa di verruche". Linneo la denominò Aloe pumila. Il che spiega anche il nome apparentemente incongruente: è la specie con rosette più grandi di tutto il gruppo, ma come Aloe, in effetti, era piccolina. Qualche informazione in più e una selezione di siti nelle schede di Haworthia e Haworthiopsis. Moglie di un alto funzionario civile e militare, la contessa scozzese Christian Dalhousie seguì il marito prima in Canada poi in India. Forse per lei, come per molte dame del suo ceto, all'inizio la botanica fu solo un piacevole passatempo, ma presto divenne una missione, il suo modo di contribuire al progresso scientifico e alla diffusione della cultura. Corrispondente di William Jackson Hooker, fece parte di un singolare gruppo di signore che collaborarono attivamente alla raccolta di piante canadesi per la sua Flora boreali-americana; al contrario delle sue amiche, per lei però non fu un episodio. Le sue raccolte indiane furono così importanti da guadagnarle l'ingresso nella Società botanica di Edimburgo, unica donna del tempo a farne parte. La ricordano varie piante indiane e malesi e il genere Dalhousiea. Quattro signore a caccia di piante Tra il 1829 e il 1840 William Jackson Hooker, all'epoca direttore dell'orto botanico di Glasgow, pubblicò la monumentale Flora boreali-americana, un'opera capitale per la conoscenza delle piante dell'America settentrionale. Si basò soprattutto sulle piante raccolte durante la seconda spedizione Franklin (1825-26), ma si servì anche degli esemplari e delle informazioni forniti da circa 120 raccoglitori e collaboratori: naturalisti e cacciatori di piante, ma anche militari, funzionari coloniali, persone comuni. Per preparare al compito quelli tra loro che non avevano una formazione come naturalisti (ed erano la maggior parte), predispose addirittura delle istruzioni su come raccogliere ed essiccare correttamente gli esemplari (Directions for Collecting and Preserving Plants in Foreign Countries: On Preserving Plants for a Hortus Siccus, 1828). Tra i più entusiasti raccoglitori canadesi di Hooker spiccano i nomi di quattro signore: Christian Broun Ramsay (più nota come Lady Dalhousie), Anne Mary Perceval, Harriet Sheppard e Mary Brenton. Tre di loro erano amiche intime e vivevano a Quebec City, all'epoca il centro amministrativo delle province orientali del Nord America britannico: Christian Ramsay (1786-1839) era la moglie di lord Dalhousie, prima vice governatore della Nuova Scozia, poi governatore generale del Nord America britannico; Anne Mary Flowers Perceval (1790-1876) era la moglie del direttore delle dogane del porto di Quebec; Harriet Sheppard (1786-1858) era la moglie di un facoltoso mercante di legname appassionato di scienze naturali. La quarta, Mary Brenton (1792-1884), viveva a Terranova, dove il padre era giudice della Corte Suprema; era l'unica a non far parte del gruppo di amiche, ma apparteneva alla stessa classe sociale, l'élite costituita dagli alti funzionari e dai facoltosi mercanti britannici. Come vedremo meglio tra poco, Hooker corrispondeva già con lady Dalhousie, ma la prima ad essere reclutata formalmente fu Anne Mary Flower Perceval. Non solo è citata in Flora boreali-americana non meno di 150 volte, ma fu lei a coinvolgere nell'avventura le due amiche e altri conoscenti. I coniugi Perceval erano bel noti nella vita mondana e culturale della colonia; il marito Michael Henry era figlio dell'ex primo ministro britannico Spencer Perceval, mentre la moglie era nata in una ricca famiglia di mercanti londinesi; molto apprezzati erano i pranzi e le serate danzanti che si tenevano nella loro bella casa, Spencer Wood, al centro di una grande tenuta. Anne Mary era una "castellana elegante", una dama dalle maniere squisite, ma anche una madre di famiglia con dieci figli che cercava di educare secondo i metodi più all'avanguardia. Fu probabilmente pensando alla loro educazione che incominciò ad interessarsi di botanica, approfittando della ricchezza di piante che poteva raccogliere nella sua stessa tenuta. Avviò un erbario, appassionandosi soprattutto di crittogame, e incominciò a corrispondere con vari botanici americani, tra cui John Torrey. Fu proprio quest'ultimo nel 1824 a raccomandarla a Hooker: la signora Perceval - scrisse - era un'eccellente botanica, che avrebbe potuto essergli utile spedendogli piante essiccate; ma era anche una dama dell'alta società con vasti contatti che poteva aiutarlo coinvolgendo altre persone. Tra Hooker e Perceval iniziò un scambio epistolare; la donna accettò con entusiasmo di contribuire al progresso dell'amabile scienza delle piante, coinvolgendo anche i suoi bambini di varie età. Per venire incontro alle sue esigenze pedagogiche Hooker le inviò una copia delle sue Botanical Illustrations (1822), un manuale che aveva scritto per la classe iniziale dei suoi studenti di botanica all'università di Glasgow. Perceval, che già utilizzava come punto di riferimento Flora Americae septentrionalis di Pursh, di cui apprezzava la chiarezza didattica, ne fu deliziata. Già nel giugno 1825 fu in grado di spedire a Hooker un primo invio, assicurandogli che presto ne sarebbe seguito un altro, grazie al coinvolgimento di diversi amici. A ottobre dello stesso anni gli scriveva: "Ho sguinzagliato i miei amici in tutte le direzioni. I signori Sheppard si occuperanno del Quebec, lady Dalhousie di Sorel e Montreal, e io di quello che resta". Tra il 1825 e il 1826 la signora Perceval, insieme ai figli, trascorse l'inverno a Filadelfia, dove incontrò il botanico Lewis von Schweinitz, cui diede vari esemplari tra cui Pterospora andromedea, un'ericacea rara che cresceva nel sottobosco di pini di Spencer Wood, e il medico e botanico William Darlington cui donò un album di piante canadesi. Avrebbe continuato a collaborare attivamente con Hooker fino al 1828, quando rimase improvvisamente vedova e lasciò il Canada. Non risultano sue raccolte dopo questa data. Delle amiche reclutate da Anne Mary Perceval, l'acquisto più produttivo fu indubbiamente Harriet Campbell Sheppard, anche perché, al contrario di Perceval e Ramsay, rimase in Canada fino alla fine dei suoi giorni. Le sue raccolte si estendono per tutti gli anni '20 e '30 e in Flora boreali-americana è citata 144 volte; molte delle piante da lei raccolte appartengono a generi "difficili", ovvero di classificazione problematica. Anche suo marito era interessato alla botanica e la coppia inviò esemplari non solo a Hooker, ma anche a Torrey e Asa Grey. Anche i loro bambini furono coinvolti nelle raccolte, con gli stessi intenti pedagogici di Anne Mary Perceval, che del resto era un'amica intima della coppia e loro vicina di casa. Sappiamo che non di rado erborizzavano insieme. Negli anni '20, William e Harriet Sheppard furono in prima fila nelle istituzioni che promuovevano la diffusione della cultura e della conoscenza scientifica in Canada, come la Literary and Historical Society of Quebec; sorta nel 1824 sotto il patronato di lord Dalhousie, divenne anche una tribuna dove comunicare le loro ricerche. Tuttavia, contrari all'esclusivismo della LHSQ, che accettava solo membri della ricca élite anglofona, nel 1827 furono tra i fondatori della più democratica Society for the Encouragement of Sciences and the Arts, che era aperta a anglofoni e francofoni e incoraggiava la partecipazione femminile. Harriet Sheppard pubblicò anche diversi contributi, tra cui una memoria sulle conchiglie. Già anziana, nel 1864 fu invitata a parlare alla conferenza annuale della Montreal Natural History Society come "una dei pionieri della storia naturale in questo paese". Ne approfittò per fare l'elogio della sua vecchia amica lady Dalhousie. Prima di occuparci di lei (la vera protagonista di questo post), ancora due parole sulla quarta raccoglitrice di Hooker, Mary Brenton. Alla fine del 1829, il botanico scrisse a lady Dalhousie lamentando che rimaneva scoperta la flora dell'estremità orientale dall'America britannica. Lady Dalhousie chiese al marito di coinvolgere ufficialmente i governatori del New Brunswick e di Terranova. Fu così che fu individuata Mary Brenton, le cui raccolte si estendono dal 1830 al 1838 circa. In Flora Boreali-Americana è citata 102 volte per piante sia native sia introdotte. Accompagnando il padre nei suoi doveri d'ufficio, poté viaggiare parecchio. Un'alta percentuale delle sue raccolte è costituita da piante boreali, molte delle quali provengono da stagni e paludi. Alcune sono rare, come Halenia brentoniana (oggi H. deflexa subsp. brentoniana), così denominata da Hooker in suo onore. Alla ricerca di piante "nuove e rare" in Canada e in India Ma è ora di parlare di lady Dalhousie. Nata Christian Broun, discendeva da una nobile famiglia scozzese tradizionalmente impegnata in campo legale. Diciannovenne si sposò con George Ramsay, ottavo conte di Dalhousie, un militare che aveva combattuto sotto Wellington nelle guerre napoleoniche. Tornata la pace, anche per far fronte alle ingenti spese della ristrutturazione dell'amato Dalhousie Castle, egli accettò di entrare nell'amministrazione civile e nel 1816 fu nominato vicegovernatore della Nuova Scozia. La moglie e i tre figli lo accompagnarono in Canada, stabilendosi ad Halifax. Entrambi i coniugi coltivavano interessi culturali e promossero il progresso della cultura scientifica. Lord Dalhousie fondò il Dalhousie College di Halifax, ora Dalhousie University; inoltre acquistò una vasta proprietà dove introdusse miglioramenti agricoli. Lady Dalhousie faceva da padrona di casa, presiedeva alle occasioni mondane e accompagnava il marito nei frequenti viaggi imposti dai suoi doveri. Era una grande lettrice, di vasta cultura, molto spiritosa (come si evince sia dalle sue lettere, piene di humor, sia dalle divertenti caricature della buona società di Halifax che disegnò in quegli anni), ma anche seria e determinata. Una serietà e una metodicità ben riconoscibili nell'erbario che iniziò in questi anni, in cui luogo e data di raccolta sono indicati con precisione, le piante sono accompagnate da indicazioni sull'habitat e spesso da schizzi ad acquarello e le specie sono identificate con notevole precisione sulla scorta di Flora Americae septentrionalis di Pursh. Ben presto le sue preferite divennero le felci. Iniziò anche a spedire in Scozia semi e piante vive per il giardino di Dalhousie Castle. Nel 1820 lord Dalhousie fu promosso Governatore generale dell'America britannica e la famiglia si trasferì a Quebec City. La sede ufficiale era Chateau St. Louis, nella città alta, ma la residenza preferita divenne la tenuta di Sorel, una cittadina situata a sud-est di Montreal. Era una zona ricca di piante che permise a lady Dalhousie di raffinare le sue conoscenze botaniche. L'erbario crebbe rapidamente. Nel 1823, tra Sorel e Montreal, raccolse 328 piante, alcune delle quali rare. Nell'estate del 1826, tra Sorel, Quebec City, l'Ottawa River e il Gaspé, ne raccolse circa 300. Lady Dalhousie entrò in contatto con Hooker ancora prima che questi lanciasse il suo appello per Flora boreali-americana. Nel 1823 gli inviò alcune scatole con varie rarità raccolte nelle vicinanze di Montreal, soprattutto orchidee. Lo stesso anno egli la raccomandò all'esploratore artico John Richardson come "una botanica molto zelante" e nel suo saggio On the Botany of America del 1825 la collocò in prima fila tra coloro che maggiormente stavano contribuendo alla conoscenza della flora canadese. Dunque accolse volentieri l'invito dell'amica Anne Mary Perceval. Tuttavia, rispetto a lei e alle altre due raccoglitrici di Hooker, il suo contributo quantitativo a Flora boreali-americana si riduce a una cinquantina di specie, soprattutto orchidee e felci: infatti era sua ambizione contribuire con piante nuove o rare. Insieme al marito, progettava anche di creare un orto botanico in un'isola del San Lorenzo, ma ostacoli politici ne impedirono la realizzazione. Nel 1824 la famiglia tornò momentaneamente in patria e lady Dalhouisie diede mano alla ristrutturazione del giardino di Dalhousie Castle; lord Dalhousie era intenzionato a dare le dimissioni e ad occuparsi della sua proprietà in Scozia, ma le finanze familiari furono rovinate dal fallimento del suo agente. I Dalhousie dunque tornarono in Canada, rimanendovi fino al 1828. Nel 1827 lady Dalhousie presentò alla Literary and Historical Society of Quebec (di cui era cofondatrice con il marito) circa 400 piante canadesi; il catalogo fu pubblicato nel 1829 nel primo volume delle Transactions della società. Nel frattempo, lord Dalhousie era stato nominato comandante in capo dell'esercito britannico in India. Nel luglio 1829 marito e moglie partirono per la nuova destinazione; durante il viaggio, lady Dalhousie approfittò degli scali a Madeira, Sant'Elena e al capo di Buona Speranza per incrementare le sue raccolte. Lo stesso fece durante il soggiorno indiano, che si protrasse fino al 1834. Anche se si definiva a tyro "una tirocinante, una principiante", e all'inizio fu sconcertata da una flora che appariva tanto diversa da quella scozzese o canadese, era ormai una botanica ben più che dilettante. Le raccolte del periodo indiano ammontano a non meno di 1200 esemplari; quelle più significative le fece a Simla e a Penang. In una spiritosa lettera del febbraio 1833 a Hooker riassume i suoi viaggi, scusandosi della scarsa qualità e quantità delle piante raccolte in Malesia: il loro soggiorno è durato solo sei settimane ed è coinciso con la stagione delle piogge, rendendo impossibile seccare le piante a regola d'arte. Racconta poi del viaggio a Simla: dopo aver risalito il Gange per 700 miglia, hanno percorso le pianure indiane per 800 miglia a dorso d'elefante: viaggiare a tanti piedi d'altezza non è molto pratico per botanizzare! A Simla si sono fermati sette mesi, e lì davvero ha trovato un paradiso botanico, ma - aggiunge modestamente - non c'era nessuno ad aiutarla e potrebbe aver identificato scorrettamente molte piante. In realtà, era un'abile raccoglitrice con occhi esercitati per individuare piante nuove e rare. Grazie a lei molte andarono ad arricchire l'orto botanico di Calcutta. Del suo vasto ed eccellente erbario poté giovarsi ancora il figlio di Hooker Joseph Dalton per la sua Flora Indica. Hooker padre volle manifestare la sua gratitudine dedicandole il volume del 1833 del Curtis Botanical Magazine "per gli essenziali servizi che, nonostante i suoi vari doveri in Canada e in Bengala, ha reso alla botanica con le sue estese collezioni e l'introduzione di molte specie interessanti nei giardini di questo paese". Tornata definitivamente in Scozia nel 1834, donò le sue collezioni all'orto botanico di Edimburgo e divenne membro onorario della Società botanica della città, la sola donna ad esservi ammessa. Fu presto una figura riconosciuta della società cittadina e dedicò i suoi ultimi anni soprattutto al giardino di Dalhousie Castle, dove aveva creato un felceto con le piante raccolte durante i suoi viaggi. Era sua intenzione descriverle in un volume, come annuncia in una lettera a Hooker; la morte improvvisa nel 1839 le impedì di realizzare il progetto. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Omaggi floreali Diverse piante ricordano la nostra raccoglitrice "ai quattro angoli del mondo" (l'espressione è sua). La maggior parte delle piante che portano o hanno portato il suo nome nell'eponimo furono raccolte durante il "piovoso" soggiorno a Penang: le felci Asplenium dalhousiae e Pteris dalhousiae, la licopodiacea Huperzia dalhousieana, la spettacolare orchidea Dendrobium dalhousieanum (oggi D. pulchellum). Fu raccolta invece a Simla la bella Acantacea Strobilanthes dalhousiana. Le è stato dedicato anche il coloratissimo beccolargo codalunga, un passeriforme dell'Himalaya, Psarisomus dalhousiae; ne vediamo un esemplare impagliato nell'unico ritratto ufficiale della contessa: austeramente vestita di nero, ostenta un cipiglio severo che non ci aspetteremmo leggendo le sue lettere piene di ironia. Lo splendido Rhododendron dalhousiae non è invece dedicato a lei, ma a sua nuora Susan, moglie dell'unico figlio sopravvissuto, James Broun-Ramsay, marchese di Dalhousie. Quest'ultimo alla fine del 1847 fu nominato governatore generale dell'India e, insieme alla moglie, raggiunse la sua sede viaggiando sulla stessa nave che portò in India Joseph Dalton Hooker. Il botanico divenne buon amico della coppia e, grato dei molti aiuti ricevuti dal governatore durante la sua spedizione indiana, dedicò la bella pianta a lady Susan. Lady Christien è infine ricordata dal genere Dalhousiea (famiglia Fabaceae). Roxburgh nelle foreste del Bengala aveva raccolto un rampicante che denominò Podalyria bracteata, ma Robert Brown osservò che non poteva appartenere a quel genere. Robert Graham, professore di botanica di Edimburgo e membro eminente della Edinbourgh Botanical Society, la attribuì a un genere proprio che denominò appunto Dalhousiea. Si tratta di un piccolo genere con areale disgiunto, che comprende due sole specie: D. africana, che vive nell'Africa occidentale tropicale, e D. bracteata, diffusa nell'Himalaya orientale, in Bengala, in Assam e in Myanmar. Entrambe vivono nelle foreste tropicali umide. D. africana è una liana, mentre D. bracteata è un arbusto sarmentoso o una rampicante, con infiorescenze terminali di fiori bianco neve. Le foglie fresche sono usate in impiastri, mentre nella comunità Tagin dell'Arunachal Pradesh pezzi di corteccia trovano uso in rituali divinatori. Scoperto nel giardino abbandonato di un monastero buddista birmano, quello che fu presto soprannominato "l'albero più bello del mondo" venne battezzato dal botanico Nathaniel Wallich Amherstia nobilis in onore di Sarah e Sarah Elizabeth Amherst, rispettivamente moglie e figlia del governatore dell'India. Sembrerebbe il solito, banale, omaggio cortigiano se non fosse che le due ladies si erano rese benemerite della botanica come pioniere dell'esplorazione della flora indiana, scoprendo e introducendo in Europa, tra l'altro, una beniamina dei nostri giardini, Clematis montana. Una nobile pianta... Nel marzo del 1826, il trattato di Yandaboo metteva fine alla prima guerra anglo-birmana (1824-1826) con la cessione all'Inghilterra di Assam, Manipur, Arakan e Tenasserim. Lord Amherst, il governatore generale dell'India, inviò immediatamente nella Birmania meridionale una missione esplorativa capeggiata dal medico e esperto diplomatico John Crawfurd; ne faceva parte anche il botanico Nathaniel Wallich, direttore dell'orto botanico di Calcutta, il cui compito principale era valutare le potenzialità forestali della regione. Alla fine del mese, mentre Wallich rimaneva a Rangoon, Crawford con alcuni accompagnatori esplorò la zona tra Rangoon e la foce del fiume Thanlwin. Il 4 aprile, il gruppo visitò la grotta naturale di Kogún, decorata con centinaia di tavolette votive di terracotta; tra le offerte dei fedeli, manciate di splendidi fiori rossi. Erano stati raccolti poco lontano, nel giardino incolto di un monastero buddista semiabbandonato, dove cresceva "un albero alto circa venti piedi, abbondante di lunghi grappoli penduli di fiori di un ricco color geranio, con lunghe eleganti foglie lanceolate" (An Account of Martaban in March and April 1826). Crawfurd capì subito di trovarsi di fronte a una pianta ancora ignota alla scienza, impressione confermata al ritorno a Rangoon da Wallich, cui mostrò i campioni raccolti. Nei mesi successivi, il botanico danese la cercò inutilmente nelle foreste birmane, finché la ritrovò nel sito già segnalato da Crawfurd. Ne prelevò anche diversi germogli che poi trapiantò nell'orto botanico di Calcutta. Al suo ritorno in Inghilterra, pubblicò lo splendido albero in Plantae asiatiacae rariores (1830) come Amheristia nobilis, in onore della moglie e della figlia del governatore. Sembrerebbe il più scontato degli omaggi cortigiani, se non fosse che quel riconoscimento la madre, la contessa Sarah Amherst, e la figlia, Sarah Elizabeth Amerherst, se l'erano guadagnato davvero non solo come protettrici della scienza, ma come instancabili raccoglitrici di piante. Lo ricorda nella dedica lo stesso Wallich: "Dedicato alla nobile contessa Amherst e a sua figlia lady Sarah Amherst, in segno di riconoscimento della somma cura, della debita assiduità e degli indefessi e felici successi con i quali, finché dimorarono in India, coltivarono e promossero la scienza botanica". Tanto più che, quando Wallich scrisse queste parole, la burrascosa carriera pubblica di lord Amherst era ormai giunta al termine. William Pitt Amherst (1773-1857) è passato agli annali della diplomazia come responsabile del fallimento della sfortunata ambasceria in Cina (1816) a causa del suo rifiuto di prostrarsi di fronte all'imperatore. Anche il suo mandato in India, di cui fu governatore generale tra il 1823 e il 1828, fu sfortunato e discusso. Poco dopo il suo arrivo nel subcontinente, egli si lasciò incautamente convincere a dichiarare guerra alla Birmania, convinto che il conflitto si sarebbe risolto in poche settimane. Invece durò due anni, costò 13 milioni di sterline, scatenò un'epidemia di colera, provocò l'ammutinamento dei sepoys, rovinò l'economia indiana e le finanze della Compagnia delle Indie. Se non avesse avuto potenti protettori a Londra, primo fra tutti il duca di Wellington, egli sarebbe stato destituito. La conclusione positiva della guerra, insieme a una sua condotta più prudente, fece cambiare idea ai vertici della compagnia. Tuttavia, nel 1826, con una tipica operazione promoveatur ut amoveratur, il re lo nominò visconte, ma contemporaneamente fu richiamato in patria e per i quasi trent'anni che gli rimasero dal vivere non gli fu più affidato alcun incarico pubblico. Molto più gloriosi dunque gli allori botanici (e ornitologici) di sua moglie e sua figlia. E due nobili raccoglitrici La contessa Amherst (1762-1838), nata Sarah Archer, apparteneva all'alta nobiltà britannica. Sedicenne, si sposò con un cugino, il conte di Plymouth, da cui ebbe diversi figli. Rimasta vedova, nel 1800 si risposò con lord Amerhest, da cui ebbe una figlia, appunto Sarah Elizabeth, e tre figli. Non sappiamo come fosse nata la sua passione per le piante né se precedesse il soggiorno indiano. Come molte dame del suo ceto, coltivava le arti del disegno e della musica, che aveva trasmesso anche alla figlia. Nel 1823, quando partì alla volta dell'India con il marito, la figlia Sarah Elizabeth e il figlio maggiore Jeffrey, la contessa aveva già compiuto sessant'anni. Sui circa cinque anni trascorsi in India siamo ben informati grazie alle lettere di Sarah Elizabeth ai fratelli e soprattutto grazie al diario della stessa lady Amherst, di notevole freschezza e ammirevole semplicità. Il 18 marzo 1823 la famiglia sbarcò a Madras, dove fu ricevuta in pompa magna; proseguì poi via terra per Calcutta, dove giunse il 1 agosto. La residenza del governatore, Gouvernment House, era, anzi è, un lussuoso palazzo posto al centro di un vastissimo complesso, di cui conosciamo l'aspetto all'epoca grazie a uno schizzo di Sarah Elizabeth. Lady Amherst, che considerava assurdi i tentativi delle sue compatriote di ricreare in India cloni dei giardini inglesi, con piante portate dalla madrepatria condannate a morte certa, era decisa a crearvi un giardino popolato di piante locali. Fu forse con questo intento che visitò ripetutamente l'orto botanico della Compagnia delle Indie, a Shibpur, a una decina di km dall'area governativa di Calcutta. Fondato nel 1787, sotto la direzione prima di William Roxburgh e ora di Nathaniel Wallich, era divenuto un centro di studio e di acclimatazione di prim'ordine e un'oasi verde con migliaia di specie provenienti da tutte le regioni del subcontinente, ma anche da altri paesi tropicali. Diligente, lady Sarah ne percorreva i sentieri disegnando schizzi, prendendo note, chiedendo lumi al direttore, che divenne subito un amico. Fu forse su suo incoraggiamento che la nobildonna, con l'aiuto dell'inseparabile figlia, iniziò a creare il suo erbario indiano, con le piante raccolte e preparate "in modo abile e industrioso" (sono parole di Wallich). I numerosi viaggi ufficiali cui partecipò a fianco del marito le diedero occasione di visitare diverse aree del paese e di mettere insieme una collezione di non meno di cinquecento specie. Non è però il caso di immaginare le due ladies nei dimessi panni di cacciatrici di piante in gonnella. Coinvolgendo la prima dama del paese, anche una breve escursione diventava un affare di stato. Ad esempio, come leggiamo nel diario della contessa, nel gennaio 1825 madre e figlia, scortate da aiutanti di campo, risalgono il fiume in battello per visitare le rovine del forte di Gaukachi; fanno un picnic nella foresta, accettano graziosamente gli omaggi di banane, arance, latte offerte dai contadini; poi, mentre i battitori le aprono la strada a colpi di machete, lady Amherst issata su un elefante può penetrare nella giungla, che le si mostra come uno scrigno prezioso e selvaggio di alberi coperti di fiori e frutti. Alla sera, le due dame tornano trionfanti a casa con i loro trofei: piante, schizzi, fiori. Tra battellieri, cuochi, servitori, portatori, battitori la gitarella ha coinvolto qualche centinaio di persone. Lo stesso anno, un viaggio fluviale di una decina di giorni con la famiglia Amherst al completo impegnerà, tra servitori, battellieri e soldati di scorta, circa cinquecento persone. Tra i viaggi ufficiali, il più lungo e impegnativo fu quello che tra il giugno 1826 e il luglio 1827 portò il governatore (accompagnato dalla consorte e dalla figlia) a visitare gran parte dell'India settentrionale. Nella primavera del 1827, dopo una lunga visita di stato al moghul a Dehli, Amherst raggiunse Simla, dove doveva incontrare il maharaja del Punjab e l'ex re di Kabul. Fu così che scoprì quella che qualche anno dopo sarebbe diventata anche ufficialmente la "capitale estiva del Raj Britannico". Situata a un'altitudine di oltre 2000 metri e circondata dalle maestose cime dell'Himalaya, incantò tutti; le più felici erano la contessa e sua figlia che nei due mesi e mezzo trascorsi a Simla poterono sfogare la loro passione per la natura arrampicandosi instancabili sulle pendici di colline e montagne alla ricerca di piante rare o sconosciute alla scienza. In quel paradiso botanico che erano tra le prime ad esplorare scoprirono numerose nuove specie, tra cui Spiraea argentea Benth. (forse da identificarsi con S. media), Astragalus amherstianus, Allium leptophyllum (oggi A. rubellum), Bosea amherstiana, Wulfeniopsis amherstiana, Anemone vitifolia (oggi Eriocapitella vitifolia). Nel sottobosco di una foresta di cedri deodora, la scoperta più bella: Clematis montana, nella forma alba. Al loro ritorno a Calcutta, Sarah Elizabeth si ammalò gravemente. Il governatore e la sua famiglia dovettero così attendere l'inizio del 1828 per lasciare l'India. All'appello mancava Jeffrey che nel 1826 era morto di febbri a soli 24 anni. Nei loro bagagli, molti souvenir indiani, un erbario di cinquecento specie, semi e piante vive da introdurre in Inghilterra e una coppia di splendidi fagiani birmani, dono del re di Birmania alla contessa. Oggi sono noti come "fagiani di lady Amherst", Chrysolophus amherstiae. Ormai escluso dalla vita pubblica, lord Amherst si ritirò a vivere a Montreal, la sua casa di campagna nel Kent. Nel giardino e nelle serre, la contessa coltivava le piante portate dall'India, ma anche altre esotiche, come le brasiliane Justicia amherstiae (oggi J. brasiliana) e Grobya amherstiae. Il magnifico giardino che aveva creato attorno alla Gouvernment House non sopravvisse alla sua partenza: la moglie del nuovo governatore, lady Bentinck, dichiarò che quei fiori erano "veramente malsani" e tempo una settimana fece spiantare tutto. Una sintesi della vita delle due ladies Amherst nella sezione biografie. Una gara tra giardinieri La pubblicazione di Amherstia nobilis da parte di Wallich destò sensazione; la pianta venne immediatamente proclamata "l'albero più bello del mondo" e destò la cupidigia dei collezionisti. Tuttavia, al momento si conosceva solo l'esemplare di Kogún e i virgulti trapiantati da Wallich a Calcuitta che ci misero qualche anno a fiorire. Nel 1836 il duca di Devonshire spedì in India a caccia di piante l'aiuto giardiniere John Gibson: le sue istruzioni recitavano "procurarsi tutte le orchidee possibili e ritrovare Amherstia nobilis". Gibson ebbe la fortuna di arrivare a Calcutta proprio al momento della fioritura delle Amherstiae trapiantate da Wallich; si dice che ne fu così emozionato da mettersi a battere le mani come un bambino piccolo. Poi andò in Martaban a raccogliere semi e talee che però non sopravvissero. Un anno dopo tornò in Inghilterra con 300 nuove specie, tra cui 80 orchidee, e una pianticella di Amherstia nobilis. Per accoglierla degnamente, il duca fece costruire nel suo giardino di Chatsworth una serra apposita, la Amherstia house. Ma nonostante tutte le cure, la pianta morì qualche anno dopo, senza mai essere arrivata a fiorire. Negli anni successivi, la stessa sorte toccò ad altri esemplari coltivati a Syon House e a Kew. Il successo sarebbe arriso a un'altra signora, Louisa Lawrence. Moglie di William Lawrence, presidente del reale ordine dei chirurghi di Londra, a partire dal 1838 creò a Ealing un giardino famoso per la bellezza, la grande varietà di piante rare, la perfezione con cui erano coltivate. Orgogliosa della sua abilità e molto competitiva, Louisa accumulava premi su premi alle principali mostre orticole; il suo più grande rivale era Joseph Paxton, il capo giardiniere del duca di Devonshire. Nel 1849 gli inflisse la suprema umiliazione di riuscire a far fiorire per la prima volta Amherstia nobilis; ottenne quel risultato semplicemente lasciando aperta la porta della serra. Da allora, finché Louisa visse, il miracolo si ripeté ogni anno. Alla sua morte, nel 1855, la pianta venne trasferita a Kew, dove fiorì ancora per tre anni, poi morì. Ma nel frattempo i suoi fiori erano stati offerti alla regina Vittoria e aveva fatto in tempo a vederla e disegnarla anche Marianne North. Come scrive nelle sue memorie, furono anzi quei meravigliosi fiori ad accendere il suo desiderio di viaggiare per dipingere piante esotiche: "Una volta Sir William Hooker mi diede un mazzo di Amherstia nobilis, uno dei più grandi fiori esistenti. Era la prima volta che fioriva in Inghilterra, e quel dono mi fece desiderare ancora di più di vedere i tropici". Amherstia nobilis è l'unica specie del suo genere (famiglia Fabaceae). E' originaria delle foreste umide della Birmania e della Tailandia, ma in natura è molto rara. Considerata sacra, nel sudest asiatico viene spesso piantata nei giardini dei templi, in modo da poterne offrire i fiori freschi alle immagini del Budda. Inoltre è stata introdotta in altri paesi tropicali, anche se, come si è potuto notare, la sua coltivazione non è semplice, quindi a coltivarla sono soprattutto gli orti botanici. E' un albero sempreverde, alto fino a 15 metri, con chioma arrotondata, eleganti rami penduli e lunghe foglie composte. Fiorisce due volte l'anno, in ottobre e in aprile, e ciascuna volta per appena due o tre giorni. Le infiorescenze, lunghe anche 80 cm, portano venti fiori o più; retti da piccioli con la parte terminale cremisi, hanno cinque petali diseguali, quelli superiori più piccoli anch'essi cremisi, quelli medi cremisi con apici gialli, quello centrale di dimensioni maggiori, a forma di ventaglio con un triangolo giallo che si estende dal labbro alla gola; molto decorativi anche gli stami arcuati, rosso chiaro con antere gialle. Anche i frutti, a forma di scimitarra e dapprima rossi, sono di piacevole aspetto. La spettacolare pianta è nota anche con il nome "orgoglio di Birmania". Altre informazioni nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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