Circa due mila anni fa, in una data imprecisata tra il 17 e il 18 d.C., a Tomi, sulle sponde del mar Nero, moriva in esilio il poeta Publio Ovidio Nasone. Come egli stesso aveva auspicato, i suoi versi da due millenni continuano ad essere letti e le storie che aveva intrecciato nel suo capolavoro, Le metamorfosi, si sono impresse profondamente nel nostro immaginario collettivo. Il tema principale del grande poema è appunto la trasformazione, la metamorfosi da una natura all'altra: i suoi giovinetti, le sue ninfe, le sue donne innamorate, le sue madri dolorose si trasformano in pietre, in fiumi, in fontane, nell'aerea eco, in animali, in vegetali. Le metamorfosi vegetali sono appena una dozzina, ma alcune sono tra le più celebri, soggetto ricorrente di centinaia di opere d'arte: basti citare il mito di Apollo e Dafne e quello di Narciso. Anche le denominazioni delle piante devono qualcosa ad Ovidio: raccontando storie affascinanti sull'origine di alberi e fiori, il poeta latino ha tramandato alle generazioni successive anche i loro antichi nomi (anche se spesso non li usiamo per le stesse piante): narciso, cipresso, giacinto, loto... Inoltre, ha offerto ai botanici un deposito di nomi suggestivi, cui attingere per le loro denominazioni classicheggianti. Dunque non stupiamoci se anche lui è celebrato da un genere botanico, Ovidia, molto affine a un altro dei "suoi" generi: Daphne. Dal mito di Dafne a quello di Narciso Nel suo grande poema epico-mitologico Le metamorfosi, il poeta latino Ovidio (43 a.C.-17/18 d.C.) raccoglie e rielabora circa 250 miti greci, molti dei quali raccontano la trasformazione di esseri umani in elementi naturali di varia natura. Egli non fu certo l'inventore del genere: probabilmente esisteva già una tradizione in tal senso nella letteratura ellenistica; sappiamo, ad esempio, che il medico e poeta Nicandro di Colofone scrisse delle Metamorfosi in cinque libri che trattavano di esseri umani trasformati dagli dei in animali e in piante. Le origini di queste storie erano antichissime; molte erano miti eziologici (dal gr. aitia, "causa" e logos, "discorso", "racconto sulle cause") intesi a spiegare l'origine di un nome, di un'usanza, di un rito. Ma mai prima di Ovidio questi racconti ancestrali avevano assunto una veste tanto viva, e allo stesso tempo tanto profondamente umana. Anche se molti di questi miti ci sono giunti anche attraverso altre fonti (e altre varianti, visto che anche i miti sono soggetti a continue metamorfosi) la versione delle Metamorfosi è spesso quella che si maggiormente impressa nella memoria, e ha contribuito a consegnarli alla cultura occidentale, all'immaginario collettivo e alla storia dell'arte. All'interno del grande poema, le storie in cui i protagonisti lasciano l'aspetto umano per trasformarsi in alberi o fiori sono appena una dozzina, ma alcune sono tra le più indimenticabili. Talvolta (ma è l'eccezione, non la regola) il nome con cui Ovidio designa la persona e la pianta corrispondente è entrato direttamente nella nomenclatura botanica, ma più spesso ha seguito vie traverse. E' il caso della prima dendromorfosi (ovvero "trasformazione in albero") che ci viene incontro nel primo libro, forse la storia più famosa di tutte: il mito di Apollo e Dafne (I, 452-567). Colpito dalla freccia d'oro di Cupido, che ha irriso, Apollo si innamora perdutamente della ninfa Dafne, che, al contrario, colpita da una freccia di piombo, lo detesta. Dunque, alle sue profferte, fugge, finché, quando il dio sta per sopraffarla (è un tentato stupro, uno dei tanti di questo libro) prega il padre, il fiume Peneo, di sottrarla all'oltraggio con una metamorfosi. Non ha finito di parlare che "il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva". Dafne (o meglio Daphne) è anche il nome greco dell'alloro, Laurus nobilis, e il mito (lasciando da parte significati simbolici e metaforici) ha la funzione di spiegare il sacro legame tra la pianta ed Apollo. In Ovidio, però, che scrive in latino, questo legame etimologico si perde. A recuperare Daphne penseranno, molti anni dopo, i botanici. Nella Naturalis Historia di Plinio si parla di un arbusto "alessandrino" detto Chamaedaphne, "alloro nano". Nel Cinquecento, incomincia ad essere identificata con un arbusto con foglie persistenti che ricordano in qualche modo l'alloro; Mattioli la chiama alla latina Laureola, ma aggiunge che i greci la chiamano Daphnoide. E' questa la situazione fino a Linneo che, prima in Flora lapponica, poi in Hortus Cliffortianus, quindi definitivamente in Species Plantarum, crea il genere Daphne, separandolo da Thymelaea. In Hortus Cliffortianus (dopo, purtroppo per me, perderà questa abitudine) spiega anche chiaramente perché: "Dato che il nome Thymelaea è ambiguo, la chiamo Daphne, come sinonimo superfluo di Laurus". Insomma, la parola c'era (grazie anche ad Ovidio) e tanto valeva usarla. E così la bella ninfa amata da Apollo in botanica ha subito un'altra inattesa trasformazione, dando il suo nome a questo genere bellissimo, ma super tossico. Più avanti nel I libro (689-712) troviamo un mito molto simile; cambiano solo i nomi dei protagonisti (e l'atmosfera): l'inseguitore è Pan, l'inseguita è la ninfa Siringa (in greco Syrinx). Quando sta per essere raggiunta, invoca le ninfe, che la trasformano in canne palustri. Il dio si consola, traendone uno strumento musicale, il flauto di Pan o siringa. Nessun pianta porterebbe il suo nome, se non fosse per un'alzata d'ingegno di Clusius, che decide di battezzare Syringa due piante portate da Costantinopoli dal suo amico Ogier Ghislain de Busbecq, diversissime tra loro ma accomunate da fusti cavi (l'ho raccontato qui). Il botanici successivi, dai Bauhin a Tournefort, perpetueranno l'equivoco, fino a Linneo che riserverà Syringa al lillà. Altro mito famosissimo nel libro III (339-510), probabilmente l'unico caso in cui Ovidio sta parlando della stessa pianta a cui pensiamo anche noi (o almeno, a una delle sue specie), con un nome conservato per tradizione ininterrotta. E' il narciso (narcissus), metamorfosi di Narciso, che come tutti sappiamo si innamora della propria immagine, e, nella versione di Ovidio, si lascia morire di languore per quell'amore impossibile. Quando le sue sorelle vanno a seppellirne il corpo, non lo trovano: "al posto suo scorsero un fiore, giallo nel mezzo e tutto circondato di petali bianchi". La versione greca del mito è più cruenta: Narciso si trafigge con la stessa spada con la quale si era dato la morte un innamorato respinto. Quanto al narciso (senza cercare di identificare la specie, forse N. poeticus), si tratta di una pianta mediterranea, che orna i nostri giardini fin dall'antichità, quando probabilmente iniziò anche ad essere coltivata per l'industria profumiera. Il nome greco è narkissos, in cui riconosciamo la radice narko-, "che dà sopore", in riferimento al profumo greve e lievemente ipnotico. Il primo a parlarne in tal senso è Teofrasto, nel suo trattato sugli odori. Dioscoride riferisce di alcuni usi medici, mentre Plinio ne descrive tre specie, una dai fiori purpurei, una con corolla bianca e coppa aranciata, l'altra identica ma con coppa verdastra. Grazie a Plinio, ma probabilmente anche alla popolarità di Ovidio, il nome Narcissus entra di gran carriera negli erbari medievali e rinascimentali, dove viene usato con grande liberalità per designare svariate bulbose; ad esempio, nei commentari di Mattioli, oltre a diverse specie di narcisi, sotto il nome Narcissus sfilano Pancratium maritimum, Hyacinthoides italica, un tulipano, un bucaneve e un Leucojum. Il genere come lo conosciamo noi è istituito da Tournefort e validato da Linneo. Per inciso, anche se non è protagonista di alcuna metamorfosi, anche un altro personaggio di questo episodio è entrato nella terminologia botanica: si tratta di Liriope, la madre di Narciso. Ovidio la definisce "l'azzurra Liriope" e tanto bastò al buon padre Loureiro per attribuire il suo nome a un genere che comprende specie con fiori (e talvolta bacche) azzurri. Metamorfosi e piante misteriose Nel libro IV (190-270) il mito di Leucotoe e Clizia ci riserva una doppia metamorfosi. La storia è un po' meno nota, e vale la pena di sintetizzarla. Un tempo il Sole amava Clizia, ma ora nel suo cuore c'è posto solo per Leucotoe. Assunte le sembianze della madre di lei, si introduce nella stanza dell'amata e la violenta. Clizia lo riferisce al padre della fanciulla, che la fa seppellire viva in una profonda buca. Il Sole non può soccorrerla, ma dalla terra che egli irrora con nettare profumato "un virgulto d'incenso, allungando nel suolo le radici, si erse e ruppe il tumulo con la cima". Ovviamente, ora il dio detesta profondamente Clizia, che non può darsi pace: senza prendere cibo, non si alza più da terra, intenta solo a seguire con lo sguardo il percorso del Sole. Finché, dopo nove giorni, anche lei si trasforma: "Si dice che il suo corpo aderisse al suolo e che un livido colore trasformasse parte del suo incarnato in quello esangue dell'erba; un'altra parte è rossa e un fiore simile alla viola le ricopre il volto. Malgrado una radice la trattenga, sempre si volge lei verso il suo Sole, e pur così mutata gli riserba amore". Come abbiamo già visto in questo post, il termine incensum può indicare qualsiasi sostanza che, quando viene bruciata, emette fumo aromatico; dunque è davvero impossibile capire a quale pianta si riferisse Ovidio parlando di "virgulto d'incenso". Di sicuro, non apparteneva al genere Leucothoe, creato a inizio Ottocento da David Don; provenienti dal Nord America e dall'Asia orientali, questi arbusti erano ignoti a greci e romani, e non hanno neppure foglie aromatiche. Quanto a Clizia (in greco Clytie) non ha lasciato traccia nelle denominazioni botaniche. Resta da capire in quale pianta si sia trasformata: certo non nel girasole, come nel quadro di Evelyn De Morgan (e come molti pensano, compreso Montale), ovvero Helianthus annuus, una pianta di origine nordamericana. Un'ipotesi più verosimile potrebbe essere una specie di eliotropio: Heliotropium significa per l'appunto "che si rivolge al sole". Anche se la corrispondenza con la descrizione di Ovidio non è perfetta, gli eliotropi vivono in luoghi aridi, hanno foglie grigiastre e talvolta fiori violacei. La prossima metamorfosi vegetale si trova nel libro VIII (611-724): i buoni vecchi Filemone e Bauci ottengono dagli dei di morire insieme, e dopo la morte sono trasformati in una quercia e un tiglio con i tronchi uniti. Un mito commovente di cui si ricordò il botanico cileno di origine tedesca Rodolfo Armando Philippi che, in onore di sua moglie, nel 1894 battezzò Baucis lavandulifolia una graziosa Asteracea cilena. Purtroppo il nome non è valido, essendo già stata pubblicata proprio da David Don come Brachyclados lycioides. Nel libro IX (324-393) di nuovo una doppia metamorfosi con il mito di Driope: giovane madre, con il bimbo lattante in braccio va ad offrire una corona alle ninfe che vivono nei pressi di uno stagno. Per fare giocare il piccolo, raccoglie un fiore purpureo di "loto d'acqua", ma orrore! dallo stelo spezzato sgorgano gocce di sangue, e la malcapitata incomincia a trasformarsi in albero. Ha capito troppo tardi che il loto altri non è che la ninfa Lotide, che ha assunto quell'aspetto per sfuggire a Priapo. Prima di essere del tutto avvolta nella corteccia, raccomanda di insegnare al bimbo a diffidare dagli stagni e a non raccogliere fiori: bisogna rispettare gli alberi, perché in ogni arbusto può nascondersi una dea. Non è chiaro in quale albero si trasformi Driope (divenuta un'Amadriade, una ninfa degli alberi), e tanto meno che cosa sia il "loto d'acqua". Certo non è quello che noi chiamiamo loto, ovvero Nelumbo nucifera, una pianta acquatica indiana forse non nota agli antichi, tanto più che Lotide si è trasformata in un albero o in un arbusto. Con la parola loton / lotus gli antichi designavano in effetti tante piante diverse. La prima in ordine di apparizione, e anche la più celebre, compare nell'Odissea: è il loto dei lotofagi, certamente un albero o un arbusto con frutti eduli. Teofrasto conosce due gruppi di loti, quelli erbacei e quelli da fiore, ciascuno con diverse specie. Plinio ne distingue tre categorie: arboree (tra cui una specie con fiori purpurei detta anche Celtis), erbacee, acquatiche; Dioscoride si occupa essenzialmente dei loti erbacei. I grandi commentatori del Rinascimento cercano di fare chiarezza e si accapigliano sulle identificazioni. Il risultato è che la terminologia botanica pullula di loti veri o presunti: lo portano come epiteto l'acquatica Nymphaea lotus, forse il loto sacro degli Egizi; l'africano Ziziphus lotus, il giuggiolo comune, un buon candidato per il loto dei Lotofagi; l'improbabile Dyospirus lotus, parente dei kaki da frutto, che arriva dalla Cina, e in Europa non è attestato prima del 1597. Ma c'è anche un genere Lotus, istituito e validato dalla solita coppia Tournefort / Linneo, che corrisponde (forse) ad alcuni dei loti erbacei di Teofrasto e Dioscoride. Gran finale: le metamorfosi del libro X Siamo giunti al gran finale, ovvero al libro X: non l'ultimo delle Metamorfosi, ma l'ultimo in cui compaiono dendromorfosi, ben quattro. Si inizia con il mito di Ciparisso (X,106-141), un altro amato di Apollo; il giovane è affezionatissimo ad un cervo di belle forme e mansueto carattere, che un giorno uccide per errore. E' così disperato che chiede al dio di trasformarlo in modo tale che il suo pianto duri in eterno. Ecco dunque come nacque il cipresso (in greco Kyparissos), l'albero del lutto. Come nel caso di Dafne, la lingua latina in cui scrive Ovidio spezza il legame etimologico tra eroe e pianta e il mito non lascia tracce nella terminologia botanica, dove il cipresso entra con il suo nome latino Cupressus, mentre il termine greco è presente solo nell'eponimo cyparissias "simile al cipresso", per piante con foglie lineari come quelle del cipresso, ad esempio l'euforbia cipressina Euphorbia cyparissias. Pochi versi dopo, un altro mito celeberrimo, quello del giovinetto Giacinto (X, 162-219), in greco Hyakinthos, vittima involontaria di Apollo durante una gara di lancio del disco. Come per il mito di Narciso, la versione di Ovidio è edulcorata: il ragazzo viene colpito accidentalmente da un rimbalzo del disco, mentre nel mito originale il lancio di Apollo viene deviato per gelosia da Zefiro. L'esito è lo stesso: nonostante le sue conoscenze mediche, il dio non riesce ad fermare l'emorragia e Giacinto muore dissanguato. Subito dopo però rinasce come fiore: "il sangue, che sparso al suolo aveva rigato il prato, ecco che sangue più non è, e un fiore splendente della porpora di Tiro spunta, della forma che hanno i gigli, solo che purpureo è il suo colore". Per rendere eterno il suo dolore, il dio scrive di sua mano sui petali il lamento AI AI. Il mito di Giacinto è stato variamente interpretato, per lo più come metafora della morte e della rinascita primaverile della natura; probabilmente è antichissimo, visto che il nome dell'eroe è pregreco. La pianta è citata già da Omero ed è stata variamente identificata (tra l'altro, come Scilla bifolia); è descritta da Dioscoride come una bulbosa con fiori disposti in un racemo inclinato e citata da Plinio, che però probabilmente non l'ha mai vista. Quale pianta fosse il giacinto di Ovidio non lo sapremo mai: il giglio martagone, il gladiolo, o ancora Delphinium ajacis, le identificazioni si sprecano. Di certo i giacinti come li intendiamo noi arrivano dal Mediterraneo orientale, e infatti a recuperare il nome, proprio sulla scorta di Ovidio, sono i botanici rinascimentali; secondo quanto racconta Mattioli, che è anche il primo a descriverlo, Hyacinthus orientalis, importato dall'Asia occidentale, fiorì per la prima volta nell'orto botanico di Padova nel 1590. A istituire e a convalidare il genere Hyacinthus sono nuovamente Tournefort e Linneo. Più avanti nello stesso libro, introdotto da effetti speciali ("Cose orrende canterò. Allontanatevi, figlie, e voi, padri") ecco il mito di Mirra (X, 298-502), ben noto anche per aver fornito il soggetto a uno dei capolavori di Alfieri; ed è anche uno dei vertici poetici delle Metamorfosi per pathos e penetrazione psicologica. Ma sintetizziamo al massimo: la sventurata principessa Mirra, dopo essersi congiunta con l'inganno al padre Cinira, gravida, fugge fino a raggiungere la terra di Saba. Giudicandosi indegna dell'uno e dell'altro, invoca gli dei perché la bandiscano sia dal mondo dei vivi sia da quello dei morti. In lacrime, viene trasformata in un albero che stilla gocce aromatiche: "Benché col corpo abbia perduto la sensibilità di un tempo, continua a piangere e dall'albero trasudano tiepide gocce. Lacrime che le rendono onore: la mirra, che stilla dal tronco, da lei ha nome, un nome che mai il tempo potrà dimenticare". Dunque Mirra, più che all'albero, dà il nome alla sua resina aromatica, proprio la stessa che i re Magi portano in dono a Gesù bambino insieme all'oro e all'incenso. Già conosciuta nell'antico Egitto, dove entrava nei riti dell'imbalsamazione, è citata nella Bibbia ed era molto apprezzata da Greci e Romani, che lo usavano come profumo, aromatizzante, medicinale. Il termine greco myrrha (e il suo equivalente latino) sono un prestito dall'ebraico mor, da una radice che significa "amaro". La resina è ricavata da vari alberi o arbusti del genere Commiphora, il più importante dei quali è C. myrrha. Ed eccoci all'ultimo mito (X, 503-559; 681-739), strettamente collegato a quello precedente: sotto la scorza arborea, la gravidanza di Mirra prosegue, e giunto il momento, l'albero è scosso dai dolori del parto, finché, impietosita, Giunone Lucina crea una fenditura da cui fuoriesce un neonato bellissimo: è Adone, in latino Adonis. Frutto di un incesto, è già segnato dal destino avverso, che durante una partita di caccia si manifesterà sotto le spoglie di un feroce cinghiale. All'innamorata Venere, che aveva tentato inutilmente di tenerlo lontano dai pericoli, non resta che tramutarlo in fiore: "Dal sangue spuntò un fiore del suo stesso colore [...]. Ma è un fiore di vita breve, fissato male al suolo, e fragile per troppa leggerezza; deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali". Di origine orientale, il mito di Adone come quello di Giacinto allude alla morte e alla rinascita della natura. Il fiore in cui si tramuta non porta il suo nome: è l'anemone, dal gr. anemos, "vento". Ma anche in questo caso l'identificazione non è pacifica; potrebbe essere Anemone coronaria, ma non si tratta dell'unico fiore primaverile di breve durata dalla corolla color sangue. Clusius ipotizza che il fiore di Adone (in Rariorum plantarum historia lo chiama proprio così, flos Adonis) sia un bellissimo fiore con otto petali rosso sangue che ha raccolto nei suoi viaggi in Ungheria; Linneo raccoglie il suggerimento, lo battezza Adonis annua e crea il genere Adonis. E' l'ultima metamorfosi vegetale, ma non l'ultimo mito a suggestionare i botanici. Nel libro XV e ultimo, Ovidio racconta dell'etrusco Tagete (XV, 552-558). Dopo tante storie di uomini trasformati in pietre, animali, piante, è una metamorfosi al contrario: un contadino che sta arando, vede emergere dal terreno una "zolla portentosa", che rapidamente assume forma umana e inizia a parlare, insegnando agli Etruschi l'arte della divinazione. Del mito si ricordò Fuchs (in De historia stirpium commentarii insignes, 1542) per battezzare un'Asteracea messicana che si stava ambientando rapidamente nei giardini europei. Probabilmente il nome è una battuta di spirito, un'allusione alla velocità di germinazione dei tageti che sembrano emergere dal nulla dal terreno come il dio etrusco. Un riconoscimento per il divino poeta Con tanti intrecci con il mondo vegetale, non stupisce che anche ad Ovidio (qui una sintesi biografica) sia stato dedicato un genere di piante. Il primo a pensarci fu Rafinesque, che nel 1836 separò da Commelina una specie che assegnò al nuovo genere Ovidia; oggi è considerato un sinonimo di Commelina. E' invece valido il genere Ovidia creato dallo svizzero Carl Meissner nel 1857. Il botanico, allievo di de Candolle, nell'ambito della revisione della famiglia Thymelaeceae per il XV volume del Prodromus, lo istituì staccando da Daphne due specie sudamericane. La dedica è raffinata e la motivazione esplicita: "Questo genere, diverso da Daphne, Wikstroemia e Daphnopsis per lo stilo allungato, e da Edgewortia per i fiori superiormente ricurvi, è dedicato al divino poeta che in versi bellissimi raccontò la metamorfosi di Dafne nell'alloro". Questo piccolo genere comprende due sole specie, assai affini all'europea Daphne, con areale disgiunto. La prima, Ovidia sericea, scoperta solo nel 2004, vive nelle Ande centrali boliviane e si distingue per le foglie persistenti fittamente ricoperte di indumento bianco; la seconda, O. andina, è un endemismo del Cile centrale, una specie piuttosto polimorfa che ad alta quota vive nel sottobosco delle foreste subalpine di Nothofagus. E' un bell'arbusto dalla chioma arrotondata da giovane, ma poi piuttosto sparso, con foglie persistenti, ellittiche, molto simili a quelle delle nostre Daphne, e fiori crema, profumati, raggruppati in cime terminali, seguiti da bacche bianche o rosse. Come le sorelle europee, è tossica e viene evitata dal bestiame. Una breve presentazione nella scheda.
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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