Tra le poche testimonianze che ci sono rimaste della scienza antica, la "Storia naturale" (Naturalis historia) di Plinio il Vecchio nell'Occidente medievale fu l'opera più nota, più trascritta, più letta. Non tanto per il suo valore intrinseco (contiene molte contraddizioni e manca palesemente di spirito critico), né tanto meno per sua originalità (è una compilazione erudita che accosta 20.000 citazioni tratte da oltre 400 fonti), ma proprio perché, resi inaccessibili o perduti i testi originali, in particolare quelli greci, era quasi tutto quello che rimaneva. Ancora venerata all'inizio del Rinascimento (fu tra le primissime opere a stampa, pochi anni dopo la Bibbia di Gutenberg), ben presto perse sempre più il suo appeal, mano a mano che gli studiosi ne denunciavano gli errori, il contenuto libresco non suffragato dall'osservazione diretta, l'assenza di metodo scientifico. Gli studiosi di oggi sono divisi tra chi considera la grande enciclopedia di Plinio una specie di Reader's digest dell'antichità, e chi lo legge come un ambizioso e coerente progetto culturale, apprezzandone anche l'eleganza formale. Per Plumier, che gli dedicò uno dei suoi generi americani, Plinia, Plinio il Vecchio era semplicemente uno dei padri fondatori della botanica, degno di essere ricordato e celebrato. ![]() Un martire della scienza Il 24 agosto del 79 d.C. (o il 24 ottobre, se la data tradizionale si deve a un errore), nella sua casa di Capo Miseno l'ammiraglio Gaio Plinio, com'era sua abitudine, stava studiando in un momento di relax, quando la sorella lo avvertì di uno strano fenomeno: in cielo era comparsa una grande nuvola dalla forma simile alla chioma di un pino marittimo. Plinio, oltre che comandante della flotta, era anche uno studioso e pensò che valesse la pena di saperne di più: ordinò immediatamente di approntare una nave per andare a vedere di persona. Ma proprio mentre usciva di casa gli fu consegnata la lettera di un'amica, Rectina, che lo avvisava che la sua villa era minacciata da un'eruzione del Vesuvio e lo scongiurava di accorrere in suo aiuto dal mare, visto che da terra non c'era via di scampo. A questo punto, la passione di studioso cedette al dovere civico; Plinio ordinò di mettere in mare tutte le quadriremi per cercare di mettere in salvo più persone possibile, e si imbarcò egli stesso. Mano a mano che le navi si avvicinavano alla costa Flegrea, erano investite da un pioggia sempre più fitta di ceneri e lapilli, ma, imperturbabile, l'ammiraglio continuava a dettare a uno schiavo le sue osservazioni sull'eruzione. Quando raggiunsero Ercolano, egli dovette constatare che il mare agitato e le pietre incandescenti che si erano riversate sulla costa rendevano impossibile sbarcare. Dopo un attimo d'incertezza, ordinò di fare rotta per Stabia, all'altro capo del golfo, dove si trovava la villa di un altro amico, Pomponiano. Sospinta dal vento, che spirava dal mare verso terra, la flotta raggiunse rapidamente Stabia, dove poté gettare l'ancora. Plinio trovò l'amico al colmo dell'agitazione, con i bagagli già pronti, in attesa che il vento girasse per potersi imbarcare. Egli cercò di tranquillizzarlo anche con l'esempio: prese un bagno, cenò e poi andò tranquillamente a dormire. Era l'unico a riuscirci: la situazione si stava rapidamente deteriorando, la casa traballava per le ripetute scosse di terremoto e il cortile andava riempiendosi di cenere e lapilli. Prima che il vecchio studioso rimanesse imprigionato dallo strato crescente di cenere, fu risvegliato e raggiunse gli altri. Il gruppo era incerto se fosse più sicuro rimanere in casa o uscire, proteggendosi il capo con coperte e cuscini; Plinio consigliò la seconda alternativa e si decise di avvicinarsi alla spiaggia, per verificare se fosse ora possibile mettersi in mare. Era l'alba, ma il cielo era così nero che sembrava ancora notte. Il mare squassato dalla tempesta imponeva di attendere ancora. Sempre imperturbabile, Plinio fece stendere a terra un lenzuolo e si sdraiò. Le fiamme che cadevano e un pronunciato odore di zolfo convinsero tutti che era meglio fuggire; due schiavi aiutarono ad alzarsi Plinio che quasi subito ricadde a terra. Era morto soffocato da vapori tossici. Questa fu, secondo il racconto del nipote e figlio adottivo Plinio il Giovane, la morte di Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio, uomo politico e scrittore romano. Tragica e improvvisa, gli impedì di rivedere il suo capolavoro, Naturalis historia, ovvero la Storia naturale. ![]() Una enciclopedia della natura Non solo le sue ultime ore, ma tutta la vita di Plinio il Vecchio fu divisa tra l'impegno pubblico e lo studio. Come militare servì in Germania, in Gallia, in Spagna. Sotto Vespasiano, di cui era amico, fu procuratore in Gallia e in Spagna e esercitò vari incarichi a Roma; al momento della morte, come abbiamo visto, era prefectus classis Misenensis, ovvero ammiraglio della flotta di Miseno, il cui compito principale era combattere la pirateria. Per un profilo biografico, si rimanda alla sezione biografie. A questi incarichi ufficiali dedicava il giorno; ma ogni momento di riposo e la notte erano occupati dallo studio. Uomo dalle conoscenze enciclopedie, Plinio il vecchio scrisse di argomenti tanto vari come l'arte di lanciare un giavellotto da cavallo, la storia delle guerre romane in Germania, l'oratoria, i dubbi grammaticali, la storia contemporanea. Tutte queste opere sono andate perdute, ci rimane solo l'ultima, appunto Naturalis historia, una vastissima enciclopedia sul mondo della natura che, basandosi sugli appunti che andava prendendo da tempo, l'infaticabile erudito scrisse negli ultimi tre anni di vita. Così come si è giunta, comprende 37 libri, suddivisi in dieci volumi, ed è una delle opere più vaste dell'antichità classica a noi pervenute. L'obiettivo di Plinio era tracciare un quadro onnicomprensivo "della natura, ovvero, in altre parole, della vita". Il suo lavoro non si basò su un'indagine diretta e indipendente del mondo naturale (anche se in qualche raro caso si avvalse di osservazioni personali), ma sulle notizie attinte da una miriade di fonti; nella prefazione egli vanta di avervi inserito 20.000 citazioni, tratte da 2000 libri di 100 autori selezionati. Gli studiosi moderni ne hanno individuati circa 400, 146 romani e 327 greci. Dopo un primo libro occupato dalla prefazione, Plinio inizia la sua trattazione del mondo naturale dal cielo, con l'astronomia e la meteorologia (libro 2); passa alla terra, con la geografia e i suoi popoli (3-6); è quindi la volta della vita animale, a cominciare dall'uomo, vertice della creazione, di cui tratta l'antropologia e la fisiologia (7); poi gli animali: mammiferi, serpenti, animali marini, uccelli e insetti (7-11); a occupare il centro, le piante con la botanica, l'agricoltura, l'orticultura (12-27); a cavallo tra il mondo organico e quello inorganico, la farmacologia, la magia, le acque e la vita acquatica (28-32); infine i minerali, con un ampio excursus sul loro uso nella pittura e la scultura e sulle pietre preziose (33-37). Alieno da ogni speculazione, l'atteggiamento di Plinio è quello di un uomo pratico, che guarda alla natura essenzialmente dal punto di vista dell'utilità per gli esseri umani; egli è però anche un erudito, un curiosus, sempre pronto a farsi affascinare dal multiforme mondo naturale, fino a dare credito a miti e leggende (Cuvier lo accusò di avere una particolare propensione per le storie fantastiche). Ho già detto che la botanica ha grande spazio nella Naturalis historia. Anche se la sua fonte principale è Teofrasto (seguito da Giuba di Mauretania), Plinio non ha nessun interesse per una "botanica generale" come quella delineata dal filosofo greco; guarda alle piante da una parte con spirito pratico, per l'uso che se ne può fare per ricavarne alimenti, fibre tessili, tinture, medicamenti, spezie, ornamenti, dall'altro con ammirato stupore per la loro infinita varietà. La sua esposizione è ricca di indicazioni concrete, ma anche di aneddoti più o meno curiosi, spesso introdotti dalla formula "molti dicono che...". In Naturalis historia sono descritte circa 800 piante. La trattazione inizia con gli alberi esotici e le spezie (libri 12-13), da una parte affascinanti per l'alone di mistero che li circonda e la preziosità, dall'altra prova tangibile della grandezza dell'Impero romano che domina su molte lontanissime terre. E' poi la volta delle principali colture mediterranee: la vite e la produzione del vino (14), l'olivo e gli alberi da frutto (15). Seguono gli alberi selvatici (16) e l'arboricoltura (17). La trattazione delle piante erbacee inizia con i cereali (17), seguiti dal calendario agricolo (18) e dagli ortaggi (19), i cui usi medicinali sono trattati nel libro successivo (20). Si passa poi alle piante ornamentali, in particolare quelle usate per fare ghirlande (21; l'argomento era stato trattato anche da Teofrasto, ed era importante per gli antichi, che usavano ghirlande nelle cerimonie pubbliche, nei templi, ma anche in banchetti e ogni occasione festosa o luttuosa). Il focus dell'ultima sezione è l'uso medicinale delle piante: le medicine tratte da vite, olivo e alberi da frutto (23) e dagli alberi spontanei (24), quindi l'ampia trattazione delle erbe officinali (25-27), esposte in ordine alfabetico. Sappiamo dalle sue lettere che Plinio era anche un appassionato di giardini, e infatti le piante ornamentali ricevono nella sua opera un'attenzione che non trova riscontro in nessun altro autore antico. Nella villa di Laurentum aveva fatto piantare in cerchio dei platani, sui cui tronchi si arrampicava l'edera, che poi formava dei festoni che collegavano un albero all'altro. Dietro c'era una siepe di allori e al centro un prato con bossi e diversi arbusti potati alcuni a formare il nome del proprietario, altri a obelisco; c'erano anche piante da frutto e acanti. Non mancava una pergola di vite. ![]() Storia di un longseller Perdute o inaccessibili quasi tutte le fonti originarie cui Plinio aveva attinto, la Naturalis historia nei secoli del Medioevo assurse a quasi unica testimonianza della scienza naturale degli antichi. Lo dimostra il numero eccezionale di manoscritti (anche se molti sono parziali e spesso corrotti) che ce ne tramandano il testo: circa 200. Il migliore tra i più antichi è il codice di Bamberg, che però contiene solo i libri 32-37 (che, con il loro excursus sull'arte, sono ritenuti da molti studiosi i più significativi). Inoltre, già a partire dal III secolo incominciarono a circolare diversi, più maneggevoli, compendi. Nei secoli dell'età di mezzo Plinio è un autore di riferimento, un'auctoritas, consultato, copiato, venerato. Vi attingono tra tanti altri Isidoro di Siviglia (560 ca-636) per le sue etimologie, il venerabile Beda (673 ca-735) per la meteorologia e le gemme, Vincenzo di Beauvais (1190-1264), che prende a modello il testo pliniano per il suo Speculum maius, Boccaccio le sue opere erudite. Del resto, il Medioevo ritrova in Plinio due tratti del proprio modello culturale: l'enciclopedismo e l'attrazione per il fantastico. Nel Quattrocento gli umanisti sono impegnati nell'immane compito di emendare il testo dagli errori dei copisti. Riscontrano molti errori, ma sono inclini ad attribuirli ai copisti. Nel 1469, appena tredici anni dopo la Bibbia di Gunteberg, viene impressa a Venezia dai fratelli Giovanni e Vindelino da Spira la prima edizione a stampa. Entro il 1500 se ne contano 15 edizioni. Arrivano prestissimo anche le traduzioni in lingua moderna: la prima si deve a Cristoforo Landino ed esce sempre a Venezia nel 1489. Ma i tempi stanno cambiando e gli studiosi iniziano a guardare al testo pliniano in modo sempre più critico. Il primo attacco arriva dal medico Niccolò Leoniceno in una lettera a Poliziano del 1492, poi ampliato nel 1509 in De Erroribus Plinii ("Sugli errori di Plinio"), in cui contrappone Plinio a Teofrasto e Dioscoride e ne denuncia la mancanza di metodo scientifico e di conoscenze mediche; giunge addirittura a raccomandare ai propri colleghi di non fidarsi troppo di quel testo, pena gravissimi danni per i pazienti. Anche se a difendere Plinio si fanno immediatamente sentire molti dotti umanisti, tra cui spicca Pandolfo Collenuccio con la sua Defensa Plini, l'attacco di Leoniceno è significativo di una nuova mentalità che al sapere libresco e al prestigio degli auctores contrappone la costruzione del sapere attraverso l'indagine, l'esperienza e la verifica dei fatti. Ovviamente l'influenza di Plinio non cessa dall'oggi al domani. Così, Gessner si ispira all'impianto di Naturalis historia per le sue altrettanto enciclopediche Historia plantarum e Historia animalium; nei Discorsi Mattioli lo cita quasi ad ogni pagina; Filippo Melantone lo preferisce a Aristotele per le sue lezioni di storia naturale; Francisco Hernandez lo traduce in spagnolo con scrupolo di filologo e sapienza di medico. Ma le critiche di Leoniceno hanno lasciato il segno: il suo allievo Euricius Cordus esorta i suoi studenti a cercare la verità nella natura piuttosto che nei libri; sulla stessa linea si schierano Melchiorre Guilandino e Jacques Dalechamps (1513-88) che nella prefazione al suo importante commento a Naturalis historia, contro la tradizione filologica, difende il suo approccio che mette in primo piano la comprensione dei fatti: "Io penso che la conoscenza del significato interiore delle cose è molto più importante per i sapienti che il vigore dell'espressione e la bellezza eloquente". Nell'età dei lumi la mancanza di spirito critico di Plinio attira gli strali degli studiosi, ma allo stesso tempo l'ambizione enciclopedica non manca di esercitare il suo fascino, tanto che Buffon lo prende a modello fin dal titolo per la sua opera principale, l’Histoire naturelle, générale et particulière, avec la description du Cabinet du Roy; si guadagnerà così il soprannome di "Plinio di Montbard". Nell'Ottocento uno dei giudizi più drastici si deve a Cuvier che lo definisce "un autore senza spirito critico che, dopo aver passato molto tempo a fare estratti, li ha allineati insieme a riflessioni che non hanno nulla a che fare con la scienza propriamente detta, ma alternano le credenze più superstiziose alle lamentazioni di una filosofia pessimistica che non smette di accusare l'uomo, la natura e gli stessi dei". Il Novecento ha cercato di restituire a Plinio soprattutto la sua dimensione storica, valorizzandone l'importanza documentaria e leggendolo come monumento alla grandezza imperiale di Roma. Tra gli estimatori, troviamo Italo Calvino, che ne ammira soprattutto le pagine sull'astronomia nelle quali a suo parere "Plinio dimostra di poter essere qualcosa di più del compilatore dal gusto immaginoso che si dice di solito, e si rivela uno scrittore che possiede quella che sarà la principale dote della grande prosa scientifica: rendere con nitida evidenza il ragionamento più complesso traendone un senso d’armonia e di bellezza". ![]() Una scorpacciata di frutti di Plinia Lontano dall'ammirazione senza riserve quanto dalle critiche demolitrici è il giudizio di padre Plumier, che dedicò a Plinio uno dei suoi nuovi generi americani, con queste equilibrate parole: "Caio Plinio Secondo veronese [in realtà, era comasco] ebbe tanto a cuore la botanica che nella sua Storia del mondo, dedicata all'imperatore Vespasiano o Tito, come altri preferiscono, nei libri da dodici a ventisette (secondo la divisione di Gessner) trattò le piante sotto ogni punto di vista: filosofico, storico, medico, agricolo, ecc. Morì durante l'eruzione del Vesuvio, quando era ammiraglio della flotta di Miseno". Istituito da Plumier nel 1703, il genere Plinia fu confermato da Linneo in Species Plantarum (1753); appartenente alla famiglia Myrtaceae, comprende alberi e arbusti diffusi dalle Antille e dall'America centrale al Brasile. Come altri esponenti neotropicali di questa famiglia, pone notevoli problemi di classificazione. Appartenente alla sottotribù Myrtinae della sottofamiglia Myrtoideae, forma un gruppo con gli affini Siphoneugena e Myrciaria in cui i confini tra generi e specie non sono sempre facili da determinare. Dunque, studiosi diversi gli assegnano un numero variabile di specie, da 40 a 75. Le principali caratteristiche distintive sono l'embrione con i due cotiledoni omogenei e totalmente separati, le foglie intere con nervatura centrale e nervature secondarie a spina di pesce profondamente incise, il calice deciduo che lascia una cicatrice simile a un ombelico sul frutto; in alcune specie, a colpire l'osservatore sono soprattutto i fiori che nascono direttamente sul tronco, seguiti dai frutti, così numerosi che talvolta possono coprirlo quasi interamente. La specie più nota è P. cauliflora, un albero nativo degli stati brasiliani di Minas Gerais, Goiás e São Paulo, dove è nota come jabuticaba (nome che condivide con altre specie, oggi assegnate al genere Myrciaria). In natura, fiorisce e fruttifica una o due volte l'anno, ma in coltivazione, con l'irrigazione adeguata, può produrre frutti freschi in continuazione. Simili nell'aspetto e nel gusto a acini d'uva nera, i frutti di jabuticaba sono estremamente apprezzati in Brasile (dove questo albero è considerato un simbolo nazionale, tanto che scherzosamente si dice "Se esiste solo in Brasile e non è jabuticaba, attento: non è buono"). Dolci ma con bassa acidità, vanno consumati rapidamente; si prestano alla preparazione di gelatine, marmellate e bevande fermentate. Poiché si deteriorano in fretta e non sono facili da coltivare in altri climi, sono poco noti al di fuori del Brasile; tuttavia ne esiste una piccola produzione in Sicilia. Eduli sono anche i frutti di P. edulis, un albero delle foreste costiere del Brasile, anch'essi prodotti , direttamente sul tronco; anziché neri, sono giallo-aranciati, con un gusto dolce-acido a metà tra quello della papaia e quello del mango sono noti come cambucà, mentre l'albero è detto cambucabeiro. Qualche approfondimento nella scheda.
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February 2025
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