Nel 1787, Ramond de Carbonnères, che all'epoca è il segretario del cardinale di Rohan, capita un po' per caso nei Pirenei. Da quel momento lo scopo della sua vita sarà scoprire i segreti della formazione geologica della catena, che all'epoca costituiva un enigma; per svelarli, ne esplora per decenni la sezione centrale, con un'ossessione: riuscire a scalare quella che al tempo se ne riteneva la massima cima, il Monte Perdido o Mont Perdu. Vero padre della scoperta scientifica dei Pirenei, Ramond era anche un appassionato botanico e uno specialista della flora di alta montagna. La dedica del bel genere Ramonda, che annovera un endemismo dei Pirenei e due specie balcaniche, è assolutamente perfetta. ![]() Da poeta a scienziato: un percorso di vita Nella primavera del 1787, quando per la prima volta arriva nei Pirenei, Louis Ramond (1755–1827) non sa ancora che quelle montagne diventeranno la sua passione, anzi la sua ossessione. Ha poco più di trent'anni, ma è come se avesse già vissuto almeno due vite. Nato a Strasburgo, una città-frontiera, è diviso tra due culture anche nell'identità personale, figlio com'è di un padre francese della Linguadoca e di una madre alsaziana di origine tedesca. Dunque, nulla di strano che sia tra i primi a scoprire il preromanticismo tedesco dello Sturm und Drang. Ha appena diciannove anni quando esce I dolori del giovane Werther di Goethe; la lettura di quel romanzo generazionale è una tale folgorazione che decide di diventare a sua volta scrittore e nel 1777 (ora ha ventidue anni) pubblica a sua volta Les Dernières aventures du jeune d'Olban, che, come il suo modello goethiano, si conclude con un colpo di pistola. Come Werther, anche Louis (che quell'anno si è anche laureato in legge) ha vissuto un amore impossibile, ma lascia che a suicidarsi per lui sia il suo eroe, e per consolarsi parte per la Svizzera; è alla ricerca di paesaggi che nutrano la sua ispirazione poetica e, come scrive in una lettera al padre, si mette in viaggio per "osservare e non per arrivare"; ci sono incontri con personalità importanti, come il patriarca dei naturalisti Albrecht von Haller, il biologo Charles Bonnet e il fondatore della fisiognomica Lavater, ma c'è soprattutto la scoperta delle alte montagne: scala diverse cime del Bernese, poi si sposta al San Gottardo e va all'esplorazione delle Alpi ticinesi. Poi, per tre anni, è soprattutto uno scrittore. Pubblica una raccolta di poesie, poi si trasferisce nella capitale dove dà alle stampe un dramma romantico e la traduzione di Sketches of Swisserland di William Coxe (Lettres de M. William Coxe à M. W. Melmoth sur l'état politique, civil et naturel de la Suisse), che infarcisce di note e osservazioni tratte dal suo viaggio svizzero al punto da irritare l'autore. Il successo letterario a cui aspira non arriva: ci vorranno anni perché il gusto romantico conquisti Parigi; per i milieu letterari, Ramond è uno scrittore appena mediocre, più tedesco che francese. Ma la contestata traduzione ha un merito: attira l'attenzione del vescovo di Strasburgo, il cardinale di Rohan, che nel 1781 lo assume come segretario; per sette anni ne sarà il più ascoltato consigliere e gli sarà fedelissimo; sbriga i suoi affari, organizza le sue feste, lo accompagna in tutti i viaggi, viaggia per suo conto quando il cardinale preferisce rimanere nella prediletta residenza di campagna di Saverne, ai piedi dei Vosgi. Alla colorita corte del cardinale, conosce Cagliostro, che lo inizia alla massoneria e ne fa il suo discepolo nelle sedute di magia e ipnosi. Per adeguarsi al nuovo ambiente, cambia anche nome: ora si fa chiamare Louis Ramond de Carbonnières, pretendendo che si tratti di un vecchio nome che da tre secoli distingue un ramo della sua famiglia . Quando il cardinale viene arrestato in seguito all'affare della collana, Ramond- uno dei pochi del suo entourage rimasto a piede libero - si incarica di far sparire le lettere compromettenti; poi va in Inghilterra a cercare le prove che la collana è stata venduta dai truffatori e il cardinale è stato ingannato; anche grazie ad esse, Rohan viene assolto, ma il re lo manda in esilio all'abbazia di Chaise-Dieu in Alvernia. Ramond è con lui e approfitta di quella che per il suo padrone è una orribile seccatura per immergersi nella natura e dedicarsi alle passeggiate botaniche. Quando arriva l'inverno, il cardinale e il suo seguito sono autorizzati a trasferirsi a Marmoutier, in Touraine. Poi, gli viene permesso di viaggiare per "passare le acque"; così nella primavera del 1787, sua Eminenza lo manda in avanscoperta nei Pirenei. La scelta cade su Barèges, un villaggio a circa 1200 metri d'altitudine, annidato nelle montagne, lungo la strada che conduce al Col Tourmalet, ai piedi del Pic du Midi; all'epoca reputata per le sue acque solforose, è la stazione termale più elevata dei Pirenei. La comitiva del cardinale vi arriva alla fine di luglio, e già il 2 agosto Ramond scala per la prima volta il Pic de Midi: ai suoi occhi si mostra una gran parte dei Pirenei centrali, fino alla vetta culminante, il Monte Perdido/ Mont Perdu. Diverse escursioni seguiranno nei giorni successivi; la maggiore, dal 16 al 24 agosto, lo porta a percorrere ben 250 km e un dislivello di 13 km, da Barèges al ghiacciaio della Maladeta e ritorno. Non sono solo la passione alpinistica e il gusto romantico a spingerlo a percorrere il massiccio, solo o accompagnato da pastori locali; in gioco c'è anche una disputa scientifica. L'idea dominante all'epoca, confermata dall'ascensione al Monte Bianco di Saussure, era che le montagne più alte ed antiche fossero granitiche, mentre quelle più recenti e basse calcaree; secondo Dolomieu (un uomo che destava i sistemi) la catena centrale dei Pirenei faceva eccezione, essendo calcarea. Per verificare se abbia ragione, Ramond si propone di raggiungere il centro della catena, ovvero quel Mont Perdu che ha visto come un miraggio fin dalla sua prima ascensione. Ma come arrivarci nessuno lo sa. Così, quando, venuto l'autunno, tocca ripartire, egli si rassegna a rimandare il problema alla prossima occasione, Nel dicembre 1788, lascia il servizio del cardinale e si trasferisce a Parigi, deciso a fare della scienza la sua nuova professione. Pubblica Observations faites dans les Pyrénées, pour servir de suite à des observations sur les Alpes e segue le lezioni di Antoine Laurent de Jussieu e René Desfontaines al Jardin des Plantes. Ma a imporre una momentanea battuta d'arresto è la politica: nel settembre 1791 è eletto deputato all'Assemblea legislativa; esponente di spicco dei Foglianti, è strettamente legato a La Fayette e avverso ai giacobini. Nell'estate del 1792, mentre la situazione politica precipita, Ramond si allontana prudentemente dalla capitale e torna a Barèges. L'8 agosto è di nuovo sul Pic du Midi. Durante la Convenzione, rimane nei Pirenei, fissando la sua residenza prima a Barèges poi a Gèdre; continua ad esplorare la catena, anche se le tensioni tra Francia e Spagna ostacolano i suoi movimenti. Finché nel gennaio 1794 viene arrestato come "elemento controrivoluzionario" e condotto nel carcere di Tarbes; rimarrà agli arresti per più di sette mesi, fino a novembre, rischiando anche la condanna capitale. Se ne salva grazie ad alcuni amici, tra cui l'illustre botanico Desfontaines. ![]() La difficile conquista del Mont Perdu Ora per Ramond de Carbonnières inizia una nuova vita, l'ennesima. Lasciatosi alle spalle l'ambizione politica, vuole essere solo scienziato. Così scrive a Philippe Picot de Lapeyrouse, colui che considera il suo maestro e la sua guida per la storia naturale dei Pirenei: "Non sono posseduto da alcuna ambizione [...]. Sono amico della natura e nient'altro. Non posso essere utile ai miei concittadini che sotto questa forma". Si stabilisce a Bagnères-de-Bigorre, ma Barèges, dove ora abita sua sorella che ha sposato il capo chirurgo del locale ospedale, continua ad essere il punto di partenza delle sue escursioni; arricchisce l'erbario, raccoglie campioni di rocce e fossili, disegna schizzi (è infatti anche un ottimo disegnatore), corrisponde con altri studiosi, tra cui Dominique Villars, grande esperto di flora alpina. Nel 1795, alla creazione della scuola centrale degli Alti-Pirenei a Tarbes, viene nominato professore di storia naturale, e si dedica al nuovo compito con grande serietà. Le sue lezioni entusiasmanti lo rendono presto popolare tra gli studenti, ai quali vuole trasmettere “non la scienza, ma il desiderio e il modo di apprendere”. Momento chiave di questo insegnamento sono le erborizzazioni e le escursioni in natura, anche di più giorni e anche in montagna. Non ha rinunciato al progetto di scalare il Mont Perdu; è convinto che l'unica via per raggiungere quella montagna proibita ("mai, da quando si dà un nome alle montagne, ce n'è stata una con un nome così appropriato") sia la valle d'Estaubé. Nell'estate del 1797 è pronto ad affrontare la sfida con due guide fidate e pochi allievi già esperti alpinisti, quando vede arrivare Picot de Lapeyrouse, che è venuto a Barèges a curarsi i reumatismi. Tra lui e Ramond c'è una disputa: entrambi concordano sulla natura calcarea della catena centrale dei Pirenei, ma mentre il primo pensa che non presenti tracce di fossili e dunque sia di orogenesi primitiva, il secondo ne dubita, convinto che l'ipotesi vada per lo meno verificata sul campo, e che la risposta la darà il Mont Perdu. Così l'11 agosto quello che parte da Barèges è un folto gruppo: Picot de Lapeyrouse, suo figlio Isidore, due allievi e il giardiniere della scuola centrale di Tolosa, due pastori che hanno già accompagnato Ramond in molte gite, Ramond stesso e quattro allievi della scuola centrale di Tarbes; uno di loro è Charles-François Brisseau de Mirbel, futuro padre della citologia vegetale. Da Gèdre il gruppo sale a Coumélie lungo un sentiero tortuoso; Ramond nota qui e là un fiore simile al colchico che annuncia già l'autunno. Lo ritiene un genere nuovo e lo battezza Merendera (oggi l'unico genere da lui creato non è accettato, ed è sinonimo di Colchicum); passano la notte in una grangia e Ramond ingaggia altre tre guide, due pastori di Coumélie e un cacciatore, che aveva fama di conoscere il Mont Perdu ("il fatto è che non ne sapeva niente più di noi"). All'alba del giorno successivo, procedendo lungo i pascoli, si dirigono verso la valle di Estaubé. In quel paesaggio imponente e severo, fioriscono in abbondanza i lunghi pennacchi di Saxifraga longifolia, di cui Lapeyrouse è stato il primo scopritore. Mano a mano che avanzano nella valle, il Mont Perdu sembra giocare a rimpiattino, sempre più nascosto da imponenti bastioni di roccia, fino a scomparire del tutto. Non si scoraggiano e continuano a salire, fino a giungere ai piedi del ghiacciaio mediano di Tuquerouye, dove incontrano un contrabbandiere che, finalmente, sembra saperne qualcosa, e consiglia loro di tornare indietro, ridiscendere e risalire da un'altra via; sono ore di marcia perdute, e Ramond propone ai suoi compagni una strada più diretta e audace: salire fino al ghiacciaio e attraversarlo. Il contrabbandiere approva, e presto si dilegua. Eccoli dunque risalire lungo la morena del ghiacciaio, fino a toccare la neve. La traversata è impegnativa, Lapeyrouse è sempre più in difficoltà, finché Ramond lo convince a fermarsi; lo lascia ad attenderli in compagnia della più fidata delle sue guide, mentre gli altri proseguono. Dopo un'ora di difficile marcia, ritrovano il contrabbandiere, caduto in un precipizio. Lo recuperano e lo uniscono a loro, anche se la disavventura nella quale ha perso, insieme alla piccozza, gran parte della sua sicurezza, semina la sconforto. Finché, superato il punto di massima inclinazione del ghiacciaio, la pendenza si addolcisce visibilmente e riprendono fiducia e slancio. Un grido di gioia annuncia il cambiamento di scena: la montagna, cinta da nubi, avvolta di ghiacci, separata da loro da abissi, si è degnata di mostrarsi, come "un Dio la cui presenza è sentita più che vista e che si manifesta in tutto ciò che lo circonda prima di rivelarsi". La cima è davanti a loro, ma è anche chiaramente irraggiungibile. Ramond e i suoi compagni decidono di esplorare il lago ghiacciato che si occupa una valletta ai piedi della montagna. Lo attraversano e sondano le rocce che lo circondano; dappertutto, trovano "vestigia di abitanti del mare. Sostanzialmente ostriche e una moltitudine di madrepore costituiscono la parte più appariscente di questi venerabili resti". Ormai è mezzogiorno, ed è tempo di ritornare. Pensare di trascorrere lì la notte, al freddo e senza viveri, per tentare la scalata il giorno dopo, sarebbe follia. Ramond, preoccupato per i suoi compagni, provati dalla salita, decide di scendere per la strada inizialmente indicata dal contrabbandiere, che nel frattempo si è ecclissato di nuovo. E' poco meno difficile e pericolosa. Ore dopo, più in basso, al Port de Pinède, ritrovano Lapeyrouse, che Ramond ha fatto avvertire del cambio di programma da una delle guide; gli mostra le sue scoperte che provano l'indubbia natura secondaria dell'asse dei Pirenei. Il vecchio scienziato è amareggiato e deluso e, anche se non cesseranno di corrispondere, continuerà a nutrire rancore verso il più giovane collega, cercando di sminuirne le scoperte. L'8 settembre, ancora con i suoi allievi e le due guide più fidate, Ramond ritorna al lago glaciale per tentare la scalata alla cima; devono di nuovo rinunciare, ma raccolgono altri fossili. Negli anni successivi, è impegnato in molte ascensioni lungo il massiccio, talvolta da solo, talvolta con Mirbel e altri allievi, o amici come Jean-Florimond Boudon de Saint-Amans, professore di storia naturale alla scuola centrale di Agen. Nel 1801, racconta le sue ascensioni ed espone la sua teoria generale sulla formazione dei Pirenei in Voyages au Mont-Perdu et dans la partie adjacente des Hautes-Pyrénées, un libro di grande precisione scientifica ma anche di lettura appassionante, in cui dietro lo scienziato si avverte la mano del poeta romantico. Il Mont Perdu è ancora inviolato. Lo rimane fino al 6 agosto 1802, quando le due fidate guide di Barèges, Rondo e Laurens, inviati in avanscoperta da Ramond, riescono a raggiungere la cima. Tre giorni più tardi vi guidano Ramond, che poi racconterà l'impresa in Voyage au sommet du Mont-Perdu in uno stile che Henri Beraldi ha definito "molto veni, vidi, vici". Lo stesso anno la sua fama di scienziato è consacrata dall'ammissione all'Institut de France (la vecchia Accademia delle scienze) nella classe di scienze fisiche e matematiche. ![]() Piante d'alta quota Dopo il colpo di stato di Napoleone, Ramond, molto stimato dal primo console, ha anche ripreso a fare politica. Dal 1800 al 1806 è deputato del corpo legislativo. Nei cinque mesi in cui avvengono le sedute, vive a Parigi; il resto dell'anno è ospite della sorella e del cognato a Barèges. Alle ricerche geologiche e botaniche, si sono aggiunti anche i rilievi barometrici, cui è stato iniziato dall'amico Bon-Joseph Dacier, conservatore della biblioteca imperiale. Nel 1806 Bonaparte lo nomina prefetto del Puy-de-Dome. Come funzionario, è serio ed efficiente come lo è stato come professore. Ma è ancora soprattutto uno scienziato, che fa rilievi barometrici dal balcone della prefettura, esplora i monti Dores, i monts Dômes e il massiccio del Sancy. Frutto di queste ricerche è Nivellement des Monts Dores et des Monts Dômes disposé par ordre de terrains (1815). Nel 1809 l'imperatore premia la sua fedeltà facendolo barone dell'Impero. Nel 1810, torna ancora una volta nei Pirenei e il 28 settembre scala per la 33 e ultima volta il Pic du Mid. La morte della sorella nel 1812, poi del cognato nel 1815, chiude definitivamente il capitolo Pirenei. Nel 1813 lascia la funzione di prefetto, e si stabilisce definitivamente a Parigi, con la giovane moglie, figlia dell'amico Dacier. Anche se durante i Cento giorni è nuovamente deputato, questo volta per il dipartimento di Puy-de-Dome, la Restaurazione lo lascia indenne, tanto che nel 1818 è nominato al Consiglio di Stato. Nell'estate nel 1821, torna in Alvernia e inizia alla geologia e alla botanica del massiccio centrale due giovani naturalisti parigini, Victor Jacquemont e Hippolte Jaubert. Ma è ancora dedicata ai Pirenei l'ultima memoria, Sur l’état de la végétation au sommet du Pic du Midi (1825). Muore a Parigi nel 1827. Anche se i suoi contributi più decisivi sono nel campo della geologia, Ramond è stato un appassionato botanico, fin dai tempi in cui ancora al servizio del cardinale di Rohan erborizzava a Saverne. Le narrazioni delle sue escursioni sono costellate di puntuali riferimenti alla flora; persino nei momenti più difficili, quando ciascuno di noi baderebbe più che altro a dove mette i piedi, non manca di osservare ed elencare le piante che si offrono al suo sguardo attento e innamorato. Il suo contributo principale alla botanica è ovviamente nello studio della flora di alta quota, là dove pochi erano andati ad erborizzare prima di lui. Gli si deve la scoperta di nove specie, sette delle quali endemiche dei Pirenei: Arenaria purpurascens, Asperula hirta (oggi Hexaphylla hirta), Festuca eskia, Leucanthemum maximum, Medicago suffruticosa, Scorzonera aristata, Pinguicola longifolia, scoperta durante una delle sue ascensioni al Mont Perdu. Le altre due sono Potentilla micrantha e Viola pirenaica, presenti rispettivamente nell'Europa centrale e meridionale e nelle montagne europee. Ad eccezione di Asperula hirta, pubblicata dallo stesso Ramond, furono tutte pubblicate da de Candolle, a cui egli aveva affidato le sue osservazioni e i fogli d'erbario. Ramond considerava il suo erbario l'oggetto più prezioso, il custode della memoria della sua vita: "Ora sono vecchio e mi riposo [...]. Diminuisco la mia biblioteca, e conservo solo ciò che è necessario per me e mio figlio, soprattutto il mio erbario, perché è la storia di mezzo secolo della mia vita. Adesso vivo con il mio erbario e i ricordi che lo accompagnano; al di fuori di questo, tutto mi è superfluo". Conservato in 68 sacchi di tela e donato dagli eredi alla Societé Ramond (creata nel 1866 per promuovere la scoperta naturalistica, storica, etnologica e sportiva dei Pirenei), dal 2003 è stato affidato al Conservatoire botanique nationale des Pyrénées et de Midi-Pyrénées, che ne ha curato la pubblicazione on line a questo indirizzo. ![]() Gioielli vegetali dai Pirenei e dai Balcani A celebrare il padre degli studi pirenaici non poteva che essere una pianta di quelle montagne. Nel 1805 Louis Claude Richard, nell'assegnare a un nuovo genere una pianta che Linneo aveva descritto come Verbascum myconi, la rinominò Ramonda pyrenaica, "così chiamata in memoria del celebre Ramond per i suoi meriti nell'osservazione delle piante pirenaiche". Qualche anno dopo Lapeyrouse nel suo Histoire Abrégée des Plantes des Pyrénées, forse memore dello sgarbo di Ramond, la ribattezzò Myconia borraginea. Troppo tardi. Il nome valido è quello di Richard, anche se ovviamente la specie ha recuperato il più antico eponimo linneano e oggi si chiama Ramonda myconi. E' una delle tre (o quattro) specie di questo genere della famiglia Gesneriaceae, diffusa soprattutto ai tropici, di cui, insieme a Haberlea e eventualmente Jancaea, è l'unico rappresentante europeo. Vestigio dell'epoca terziaria, quando il nostro continente godeva di un clima subtropicale, più caldo e umido, queste piante all'arrivo delle glaciazioni si sono rifugiate in enclave montane. R. myconi è stata a lungo l'unica specie conosciuta; è ristretta ai Prepirenei, ai Pirenei e alla catena costiera catalana, dove vive nelle gole calcaree e nelle valli umide di montagna. La sua scoperta risale addirittura al Cinquecento, quando venne raccolta nella montagna di Montserrat dal farmacista e botanico catalano Francisco Micó, che la comunicò a Jacques Dalechamps che a sua volta la pubblicò in Historia generalis plantarum sotto il nome Auricula ursi myconi. E' una piccola è graziosissima semoreverde rupicola, con foglie a rosetta e fiori viola che ricordano da vicino quelli della Saintpaulia. Verso la fine dell'Ottocento si aggiunsero altre due specie, scoperte in Serbia da Joseph Pančić, R. serbica e R. nathaliae. Entrambe vivono in habitat calcarei, ma hanno distribuzione diversa. R. serbica, scoperta da Pančić nel 1874 sul monte Rtanj, appartiene al bacino idrografico adriatico ed ha areale più ampio (Serbia, Albania; Montenegro, Macedonia, Grecia settentrionale, tra 200 e 1950 metri sul livello del mare); R. nathaliae, scoperta nel 1884 nella gola di Jelašnica presso Niš dallo stesso Pančić e dal medico di corte Sava Petrović, che la dedicarono alla regina di Serbia Natalija Obrenović, è ristretta alla Macedonia e ad aree adiacenti di Grecia, Serbia e Kosovo ed appartiene al bacino idrografico egeo. Le due specie sono molto simili, ma R. serbica ha foglie più romboidali con margini vistiosamente dentati o incisi, fiori più piccoli e meno numerosi portati su lunghi scapi, R. nathaliae foglie più arrotondate, fiori più grandi e scapi più brevi. Nel 1928 il botanico russo Pavel Černjavskij stava riordinando il suo erbario quando casualmente vi rovesciò sopra un bicchiere d'acqua; per rimediare al disastro, lasciò asciugare le carte e le piante per tutta la notte; al mattino dopo, scoprì che un esemplare di R. nataliae, che faceva parte della sua collezione da un anno e mezzo ed era totalmente disseccato, si era reidratato ed appariva vivo e vegeto. Pubblicò subito la scoperta sulla rivista della società botanica russa, con una conseguenza politica; da allora R. nataliae è stata scelta come simbolo della "resurrezione" della Serbia e del suo esercito dopo la Prima guerra mondiale. La rara particolarità di potersi disseccare completamente e di riprendersi alla prima pioggia, diffusa tra licheni, epatiche e muschi, ma rarissima tra le Angiosperme, è condivisa da tutte le specie del genere, anzi da tutte le Gesneriaceae europee; hanno sviluppato questa capacità per poter sopravvivere, nonostante la loro origine tropicale, in aree montane con estati secche e temperature invernali che scendono di molto sotto zero. Nel 1851, Theodor von Heldreich, all'epoca direttore dell'orto botanico di Atene, scoprì sulle pendici del monte Olimpo un'altra gesneriacea, di cui però non vide i fiori. Inizialmente Boissier la classificò come Haberlea heldreichii, poi, dopo la raccolta di esemplari fioriti, la trasferì a un genere proprio, Jancaea, in onore di Viktor Janka, curatore dell'erbario di Budapest ed esploratore della flora dei Balcani. Non tutti erano d'accordo: Alphonse e Casimir de Candolle la collocarono nel genere Ramonda, come R. heldreichii. Recentemente, l'appartenenza a Ramonda è stata supportata da dati molecolari; Plant of the World on line ne prende atto, riducendo Jancaea a sinonimo. Ma poiché la maggioranza dei repertori, inclusi il sito della Gesneriad Society e Flora of Greece on line, lo trattano ancora come genere a sé, così farò anch'io, soprattutto per poter dedicare un post a Janka.
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Le testimonianze d’epoca descrivono il protagonista della nostra storia, il barone austro-tedesco Ludwig von Welden, come un militare tutto d’un pezzo, integerrimo e poco incline ai compromessi. Era un uomo d'ordine, fedele cane da guardia della Restaurazione, che nella sua carriera sembra essersi specializzato nella repressione dei moti liberali, da quello piemontese del ’21 alle rivoluzioni del ’48, fino agli anni in cui governò Vienna con il pugno di ferro. Eppure era anche un uomo di profonda cultura, un conversatore affabile, uno scrittore prolifico dalla penna facile e dallo sguardo indagatore, un alpinista appassionato, innamorato delle montagne e dei loro fiori. Tra gli episodi più sorprendenti della sua vita di repressore duro e puro, una romantica storia d'amore con una patriota italiana. Come botanico, fu qualcosa di più di un dilettante, in corrispondenza con importanti studiosi europei; a questo amante della flora alpina è giustamente dedicata una specie montana, non figlia delle Alpi ma dei vulcani del Centro America: Weldenia candida. ![]() Tra repressione, montagne, fiori e amori improbabili Il 25 agosto 1825, giorno in cui si festeggia san Luigi, un gruppo di alpinisti capeggiato dal colonnello tedesco Ludwig von Welden raggiunge per la prima volta una delle cime minori del gruppo del Rosa, a quota 4342 metri sul livello del mare. In onore del santo del giorno (ma un po’ anche di se stesso) Welden la battezza Ludwigshöhe, “corno (o cima) di Ludovico”. È solo una delle otto vette del massiccio cui dà il nome nella monografia Il Monte Rosa. Schizzo topografico e naturalistico, pubblicata a proprie spese a Vienna nel 1824. Una di esse è Parrot Spitze, la punta di Parrot, che abbiamo già incontrato parlando dello scalatore dell’Ararat. Come Parrot, anche Welden era un appassionato alpinista. Nato nel Ducato del Württemberg, fin da giovanissimo partecipò alle guerre contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica, a partire dal 1802 nell’esercito austriaco, aggregato allo stato maggiore e al servizio topografico, distinguendosi per il coraggio e lo spirito d’iniziativa; nelle fasi finali del conflitto servì proprio nel settore alpino, anche con funzioni di spionaggio. Nel 1815 fu inviato in Svizzera a osservare i movimenti delle truppe francesi in ritirata e gli furono affidate la ricognizione topografica delle ardue montagne del Giura e l’occupazione di alcuni valichi. Nel 1816 fu promosso colonnello e capo dell’ufficio topografico. Nel corso della carriera militare, oltre che dei panorami delle Alpi si era appassionato anche della loro flora. Ad iniziarlo alla botanica, quando era capitano di stato maggiore a Salisburgo, fu Franz Anton Braune; a Vienna, completò poi la sua formazione alla scuola di Jacquin. Nel marzo 1821, allo scoppio dei moti in Piemonte, fu nominato capo di stato maggiore dei reparti inviati a reprimere l’insurrezione. Fu così che in un salotto torinese incontrò un’affascinante nobildonna lombarda, Teresa Sopransa. Vedova da un ufficiale napoleonico, il conte Ignazio Agazzini, essa faceva la spola tra Milano e Torino per seguire i tre figli, che studiavano in un collegio militare della capitale sabauda. O per lo meno, questa era la copertura. In realtà, all’insaputa del colonnello austriaco, Teresa era una “giardiniera”, ovvero un membro della Carboneria, intima di Federico Confalonieri, e il suo ruolo era proprio assicurare i collegamenti tra i carbonari lombardi e quelli piemontesi. Nonostante dal punto di vista politico militassero in campo opposto, tra i due si accese una scintilla e la contessa invitò Welden a farle visita nella sua villa di Ameno, sul lago d’Orta. Il colonnello raccolse l’invito qualche mese dopo, nel giugno 1821; e nella bella villa di Ameno, oltre che della affascinante contessa, si innamorò del Monte Rosa, di cui poteva godere la splendida vista panoramica. Intanto la rete della polizia si stringeva attorno ai carbonari milanesi; nel dicembre 1821 Federico Confalonieri fu arrestato; nella sua corrispondenza si trovarono diverse lettere di Teresa, compromessa anche dalla confessione dello stesso Confaloneri. La contessa fu arrestata e interrogata; fu molto più ferma dell’amico nel respingere ogni accusa, giustificando quelle lettere con una relazione intima. Dopo poche domande, venne rilasciata, probabilmente proprio grazie all’intervento di Welden. La storia d’amore tra il colonnello austriaco e la “giardiniera lombarda” continuò e i due improbabili innamorati nel 1829 si sposarono a Trieste. Purtroppo, fu un legame di breve durata, perché Teresa morì appena due anni dopo. La passione di Welden per la montagna e i suoi fiori lo accompagnò invece per tutta la vita. Incaricato di dirigere una ricognizione topografica del tratto alpino compreso tra il Monte Bianco e il Monte Rosa, nel 1822 si stabilì a Macugnaga, raccogliendo anche informazioni etnografiche, zoologiche e botaniche, che pubblicò nella già citata monografia sul Monte Rosa, che include una rassegna della flora del massiccio. Nel 1824 visitò Napoli e la Sicilia, entrando in contatto con Tenore, con il quale scambiò esemplari botanici; lo stesso anno, finanziò la pubblicazione sulle piante dalmate raccolte da Portenschlag, Enumeratio plantarum in Dalmatia lectarum. L’anno successivo intraprese una spedizione botanica nelle Alpi attraverso Stiria, Tirolo e Svizzera. Nel 1828 venne trasferito in Dalmazia come aiutante generale; con una flora ricca di endemismi ancora relativamente poco conosciuta, la regione suscitò l’entusiasmo di Welden, che la percorse in molte escursioni, riferite in diversi contributi sulla rivista Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. Come governatore militare di Zara, intorno alla cittadella fece costruire un parco aperto non solo ai militari, ma anche ai civili, il primo parco pubblico del paese (ancora esistente, oggi si chiama Parco Regina Elena Madijevka). Nei tre anni in cui sostenne questo incaricò, estese l'esplorazione anche ad altre zone della penisola balcanica, comprese l’Albania e il Montenegro. Tra il 1832 e il 1838 fu delegato alla commissione militare centrale della Confederazione germanica a Francoforte; continuò a collaborare con la società botanica di Regensburg e con Reichenbach, cui inviò diversi contributi per la sua Flora germanica. Nel 1838, promosso maresciallo di campo, venne nominato comandante della divisione di Graz, e ne approfittò per creare un giardino di gusto romantico con sentieri serpeggianti e piante esotiche lungo le pendici del Monte del Castello (Grazer Schloßberg). Nel 1843, con il grado di generale, divenne governatore del Tirolo; come tale, nel 1848 assicurò i collegamenti tra il generale Radetzky e l’Austria, quindi partecipò a diverse azioni militari in Italia, tra cui il blocco di Venezia e la repressione delle città emiliane insorte. La sua azione decisa e spietata gli guadagnò la stima dell'Imperatore, che in quell’anno difficile lo inviò a controllare l'ordine pubblico prima in Dalmazia, poi a Vienna, quindi in Ungheria, dove si dimostrò tanto inflessibile e più realista del re da essere rimosso dopo pochi mesi. Tornato a Vienna come governatore della città, ripristinò l’ordine con il pugno di ferro, facendo internare migliaia di cittadini e imponendo un pervasivo regime poliziesco, basato sullo spionaggio e la delazione. In cambio, fu promosso Feldzeugmeister, il secondo più alto grado dell’esercito austriaco. Al contrario dei cittadini di Zara e Graz, che gli erano grati per i giardini che aveva fatto costruire per loro, quelli di Vienna, ovviamente, lo odiarono profondamente, a quanto pare ricambiati. Così nel 1851, quando, per ragioni di salute, Welden diede le dimissioni, decise di tornare a Graz, dove morì due anni dopo. Qui, per se stesso, aveva creato un giardino alpino in cui ogni pianta era coltivata nelle condizioni ottimali, che egli aveva studiato dal vivo nei suoi viaggi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Weldenia candida, figlia dei vulcani Come esploratore della flora delle Alpi e della penisola balcanica, Welden segnalò alcune entità ancora sconosciute; tra i nomi di cui ha la paternità, l’unico oggi ancora valido è Anthyllis aurea Welden ex Holst, una bella Fabacea a cuscinetto diffusa in ampia parte della penisola balcanica. Lo ricordano nell’epiteto Plantago weldenii Rchb., la piantaggine di Welden, un’erbacea di diffusione euro-mediterranea; il bellissimo Crocus weldenii Hoppe & Fürnr., lo zafferano di Welden, una specie illirica distribuita dai confini albanesi del Montenegro al Carso triestino e goriziano; Primula x weldeniana (A.Kern.) Dalla Torre & Sarnth., un ibrido naturale tra P. hirsuta e P. spectabilis, raro endemismo delle Alpi meridionali; Centaurea jacea subsp. weldeniana (Rchb.) Greuter, il fiordaliso di Welden, anch’esso un’entità illirica, presente in alcune stazioni delle nostre Alpi orientali. Ma a Welden è stato dedicato anche un genere, che ci porta molto lontano dalle Alpi o dalla penisola balcanica. Il primo esemplare fu raccolto nel cono vulcanico del messicano Nevado de Toluca verso la fine degli anni ’20 dell’Ottocento da Karwinsy e nel 1829 Julius Schultes - figlio di uno dei botanici viennesi amici di Welden - lo denominò Weldenia candida, pubblicandone la descrizione proprio in Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. È l’unica rappresentante di questo genere monotipico della famiglia Commelinaceae, che vive sulle pareti e i crateri dei vulcani di Messico e Guatemala, tra 2400 e 4000 metri. Nel 1893 alcuni esemplari raccolti nel Vulcano de Agua in Guatemala furono introdotti a Kew, dove questa deliziosa piccola specie è ancora coltivata nel giardino roccioso e nel giardino boschivo, dove fiorisce a fine primavera. Ha radici carnose, foglie lineari lanceolate, e cime compatte di fiori candidi con una lunga corolla tubolare trilobata, che ricordano singolarmente un croco. Ciascun fiore dura solo un giorno, ma nelle piante accestite molti fiori vengono prodotti in successione nell’arco di varie settimane. Qualche approfondimento nella scheda. La loro è davvero una strana coppia. Lei è una star internazionale, nata in Africa ma oggi di casa in tutto il mondo, una bellezza statuaria richiestissima in matrimoni e altre cerimonie, soggetto seducente e sensuale di grandi artisti, al centro di un giro d'affari miliardario; lui è un medico condotto di provincia, appagato dal suo piccolo mondo, che divide le giornate tra la cura dei pazienti, lo studio e le passeggiate in montagna. A unirli, è stata la tassonomia botanica. Sono il genere Zantedeschia (che i profani chiamano sbrigativamente calla) e il suo patrono, il dottor Giovanni Zantedeschi, botanico italiano del primo Ottocento. ![]() Una schiva vita in provincia La vera calla, Calla palustris L., è una rusticissima pianta palustre presente in tutta la fascia temperata boreale, dall'Europa al Giappone all'America settentrionale. Linneo vi accostò una specie sudafricana descritta da Caspar Commelin nel catalogo del Giardino botanico di Amsterdam, che egli forse aveva vista nel giardino del suo protettore Clifford. La chiamò dunque Calla aethiopica (l'epiteto significa genericamente "africana"). Commelin l'aveva ricevuta da un suo corrispondente nel 1687, ma era già stata ritratta nel 1664 per il Jardin du Roi di Parigi. A separarla da Calla e ad attribuirla a un nuovo genere fu il botanico tedesco Curd Sprengel, sulla base di varie differenze, in particolare la forma della spata, piatta nella specie europea, avvolta su sé stessa ("cucullata") in quella africana. Nell'assegnarle un nome, decise di onorare un medico e botanico italiano, Giovanni Zantedeschi. Era nato il genere Zantedeschia, anche se il danno ormai era fatto: tutti (o quasi) continuano imperterriti a chiamarle calle. L'accoppiata Zantedeschi / Zantedeschia, del resto, è davvero singolare. Da una parte, lo vedremo meglio tra poco, c'è un medico di provincia, innamorato dei piccoli tesori botanici dei suoi monti; dall'altra un fiore statuario dalla bellezza sontuosa e innegabilmente sensuale, fonte di ispirazione per gli artisti, senza dimenticare l'importanza economica della sua coltivazione, con un giro d'affari miliardario. Giovanni Zantedeschi era nato nel 1773 a Molina, una frazione di Fumane nel Veronese, ai piedi dei Monti Lessini ; questo luogo di grande bellezza, nei cui pressi oggi sorge un parco con numerose cascate, nutrì il suo amore per la natura, per la montagna e i suo fiori. Laureatosi in medicina a Padova, dove strinse amicizia con il giovane botanico Ciro Pollini (1782-1833), divenne medico condotto prima a Tremosine sul lago di Garda, poi a Bovegno nella alta Val Trompia; questo villaggio già alpestre, circondato da monti dolomitici e posto alla convergenza di una serie di valli minori, all'epoca ancora semi isolato (vi arrivò nel 1804, quattro anni prima che fosse costruita la carrozzabile per Brescia) sembrava fatto su misura per lui. Non lo avrebbe più lasciato fino alla morte, quarant'anni dopo. Si sposò con una ragazza del posto e, oltre che come medico condotto, esercitò la professione come anatomo-patologo presso l'ospedale locale. I suoi variegati interessi scientifici (che spaziavano dall'anatomia alla micologia, dalla meteorologia all'analisi delle proprietà fisico-chimiche e terapeutiche delle acque locali) gli crearono tra i valligiani la fama di "duturù" (dottorone, gran dottore). Ma la passione dominante era la botanica, cui dedicò una decina di saggi, per lo più presentati ai soci dell'Ateneo bresciano e spesso rimasti manoscritti; si occupò di botanica applicata, studiando le piante tossiche e progettando una Flora medico-economica, ma fu soprattutto un attivo esploratore della flora delle montagne della sua piccola provincia. Cedo la tastiera all'alata prosa del suo primo biografo, Antonio Schivardi: "a tutto ardore portavasi sugli erti monti, nelle selve, in orridi dirupi e burroni ad osservare, dal rovere gigante che con l'annoso capo saluta le nubi al muschio pigmeo che tutto al suolo aderisce, per sorprendere al loro nascere, alla loro germinazione e per isvellere dal tuo regno, o natura, i misteri". Percorrendo e ripercorrendo quelle montagne (ci rimangono i racconti di due ardue escursioni nelle Alpi bresciane e bergamasche, rispettivamente nel 1825 e nel 1836) incontrò molte piante rare e non pochi endemismi, che poi inviava perché fossero conosciuti e descritti ai suoi corrispondenti: all'amico Ciro Pollini, a Giuseppe Moretti prefetto dell'Orto di Pavia, a Antonio Bertoloni, autore della celebre Flora italica. A una sola ebbe in sorte di dare il nome, Laserpitium nitidum Zant., il laserpizio insubrico; ma fu anche il primo - o tra i primi - a segnalare Ranunculus bilobus Bertol., Campanula elatinoides Moretti, Moehringia glaucovirens Bertol., Silene elisabethae Jan, Saxifraga arachnoidea Sternb., Arabis pumila Jacq, (primo rinvenimento in Italia), Campanula raineri Perpenti, Physoplexis comosa (L.) Schur (primo rinvenimento in questo settore delle Alpi). Tutte specie rare, per lo più rupicole, molte delle quali bellissime, che potete ammirare nella gallery. Rimase manoscritta la progettata Flora bresciana. Dopo una lunga vita trascorsa attivamente nel borgo montano che era divenuto la sua patria d'elezione, Zantedeschi si spense dopo breve malattia nel 1846. Lascio nuovamente la parola a Schivardi, che lo ritrae come un ottocentesco filosofo stoico: "Beato nella solitudine di Bovegno, superiore alle lusinghe e all'ira dell'instabile diva [ovvero la fortuna], straniero ad ogni pubblico e privato avvenimento, lontano dal rammaricarsi per le male opere degl'invidi, degli scioperati e dei detrattori dell'altrui fama; d'indole franca, confidente, pacifica; d'umor gioviale, di tratto cortese, dignitoso, libero, percorse la sua lunga carriera nel costante uso delle sociali virtù, nelle utili discipline, tutto raccolto nella scienza, che per dieci lustri professò ed onorò". Molina di Fumane, il suo paese natale, ho voluto onorarlo con il Museo Botanico della Lessinia, che espone circa 300 specie della Lessinia e della Valpolicella. ![]() Una star internazionale Più del suo contributo alla conoscenza della flora di un lembo della catena alpina, a immortalare il dottor Zantedeschi è il notissimo genere che gli è stato dedicato. Non sappiamo perché Sprengel (che non ha lasciato alcuna nota in proposito) abbia scelto proprio lui; diverse fonti sostengono che fosse tra i suoi corrispondenti, ma non sono riuscita a verificare questa informazione. In ogni caso le sue scoperte dovettero dargli una modesta fama tra i botanici del tempo. Fu così che lo schivo dottore diede il nome a piante lontanissime, sotto ogni aspetto, dalle sue adorate specie rupicole. Il genere Zantedeschia Spreng, appartenente alla famiglia Araceae, comprende otto specie di erbacee con radici rizomatose provenienti soprattutto dal Sud Africa, con una sola specie che si spinge più a nord fino alla Tanzania e all'Angola; sono caratterizzate da una vistosa spata, ovvero una brattea che simula un petalo, che avvolge lo spadice, la vera infiorescenza. Molto a lungo in Europa si è conosciuta una sola specie, Z. aethiopica, che come ho anticipato arrivò negli ultimi decenni del Seicento. Piuttosto rustica, adattabile e di non difficile coltivazione, divenne presto popolare, tanto che il Dizionario di Miller (1768) la definisce "un vecchio abitante dei giardini inglesi". Dall'Europa giungerà poi nelle Americhe, in Asia e in Australia, tanto che oggi risulta naturalizzata in molti paesi a clima mite o subtropicale, divenendo in alcuni casi anche un'attiva infestante. Coltivata soprattutto per la produzione di fiori recisi, nella seconda metà dell'Ottocento diventa anche uno dei soggetti preferiti della pittura: la dipingono Henri Matisse, Emil Nolde, Diego Rivera (che la ritrae molte volte), Tamara de Lempicka e tanti altri. Il liberty ne fa un motivo ricorrente e si ispira alle sue forme avvolgenti per gioielli, vasi, lampadari. Il successo delle altre specie, che hanno rivoluzionato anche il mercato floricolo, è molto più recente. Al contrario di Z. aethiopica, che se trova le condizioni giuste è sempreverde, esse si comportano come bulbose stagionali e vanno in riposo dopo la fioritura. Molto meno rustiche, di dimensioni più contenute, portano però in regalo agli ibridatori i loro colori: non solo il bianco candido della sorella più nota, ma anche il giallo, il rosa, il rosso, il viola profondo. Grazie al lavoro assiduo degli ibridatori di Stati Uniti (che coprono circa il 50% del mercato), Paesi Bassi e Nuova Zelanda (che si contendono il 45%, lasciando a tutti gli altri le briciole), negli ultimi trent'anni sono state create centinaia di nuove varietà, vendute sempre più, oltre che come fiori recisi, come piante da interno e da aiuole. Qualche approfondimento nella scheda. |
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E' in uscita La ragione delle piante, che costituisce l'ideale continuazione di Orti della meraviglie. L'avventura delle piante continua! CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
January 2023
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