Non sempre i botanici spiegano le motivazioni dei loro nomi celebrativi. Non lo ha fatto Heinrich Wilhelm Schott nel dedicare il genere Remusatia al sinologo francese Jean Pierre Abel Rémusat. Certo, il personaggio era celebre in tutta Europa, e la sua recente morte in giovane età doveva aver destato un certo cordoglio. Ma quali potevano essere i suoi legami con la botanica? Titolare della prima cattedra di cinese e manciù in Occidente, curatore del fondo cinese della Biblioteca nazionale, traduttore di testi di varia natura, divulgatore del pensiero di Laozi e del buddismo, fondatore della Societé Asiatique, si interessò ad aspetti molto diversi della cultura cinese e più in generale orientale. Ad eccezione di una lista manoscritta rimasta inedita, non risulta però abbia mai scritto di piante. Eppure, da ragazzo teneva un erbario e come medico e studioso della medicina tradizionale cinese, le piante medicinali gli erano familiari. Anzi fu proprio grazie ad esse che divenne sinologo. Una vocazione nata da un erbario Nel 1832, ad appena 44 anni, moriva il sinologo francese Jean Pierre Abel Rémusat (lui amava firmarsi Abel-Rémusat). Lo stesso anno, senza spiegarne le motivazioni, Heinrich Wilhelm Schott gli dedicò il genere Remusatia. Forse si tratta semplicemente dell'omaggio - non poi così inconsueto - a una personalità illustre, anche se in un campo lontano dalla botanica. Rémusat in effetti era piuttosto noto anche nell'area tedesca, grazie a un carteggio con Humboldt e alle traduzioni di un antico testo buddista e del romanzo breve Yü chiao li che gli assicurarono fama europea. Senza dimenticare che la sua cattedra di cinese e mancese al Collège de France era stata la prima in Europa. Tuttavia, forse Schott pensava a un legame per lo meno indiretto. Remusatia vivipara è infatti una pianta officinale utilizzata tanto nella medicina ayurvedica quanto in quella tradizionale cinese. Prima di diventare il padre fondatore della sinologia francese, Rémusat era stato medico e la botanica non gli era estranea, anzi si può dire che si debba proprio alla piante se egli rimase folgorato sulla via di Pechino. Rémusat era figlio di uno dei chirurghi reali; a causa di una salute fragilissima, era stato educato in casa e, oltre alle lingue classiche, per le quali aveva eccezionale predisposizione, aveva appreso dal padre le scienze naturali, tra cui la botanica; sappiamo che fin da bambino teneva un erbario. Diciassettenne alla morte del padre, si trovò nella necessità di avere una professione per mantenere se stesso e la madre; sebbene con scarso entusiasmo, decise così di iscriversi a medicina. Si impegnò però anche in una società filantropica e prese a frequentare circoli eruditi; grazie a queste frequentazioni, quando era studente del secondo anno, ebbe l'occasione di visitare la collezione dell'abate di Tersan, un celebre archeologo e collezionista. A colpirlo particolarmente fu uno splendido erbario figurato cinese; riconobbe qualche pianta; altre gli erano sconosciute, e si chiedeva se fossero reali o fantastiche, anche se ne dubitava vista l'estrema accuratezza con cui erano dipinti i particolari. I nomi e le didascalie, scritte in cinese, erano indecifrabili. Rémusat decise che, per sciogliere quell'enigma, avrebbe imparato il cinese, anche se era un'impresa quasi disperata. Non solo nessuno poteva insegnarglielo, ma non aveva a disposizione né dizionari né grammatiche; l'unica, quella pubblicata nel 1742 da Etienne Fourmont era conservata, insieme a vari lessici parziali, nel fondo cinese della Biblioteca Reale, a cui il conservatore gli negò l'accesso in quanto studentello adolescente: erano materiali riservati a Chrétien-Louis-Joseph de Guignes, al quale Napoleone aveva affidato ufficialmente la compilazione del primo dizionario ufficiale cinese, francese, latino. Il giovane godeva però dell'amicizia e dell'incoraggiamento dell'orientalista Silvestre de Sacy, dal 1806 titolare della cattedra di persiano al College de France. Da lui e dall'abate di Tersan ottenne qualche libro e incominciò a studiare il cinese da autodidatta, servendosi soprattutto dei manoscritti dei missionari gesuiti che erano vissuti in Cina un secolo prima; fondamentale fu Notitia linguae sinicae scritta del gesuita Joséph de Prémare. Nel 1811 poté pubblicare la sua prima opera, Essai sur la langue et la littérature chinoises, che contiene traduzioni di testi annotati con commenti grammaticali e un glossario alfabetico di parole cinesi. La necessità di rendersi economicamente indipendente non era cessata, e Rémusat fu costretto ad affiancare alla sua vera vocazione lo studio e gli esami di medicina. Trovò una congiunzione tra l'una e gli altri nelle opere del gesuita polacco Michał Boym (1612-1659), autore di un testo medico intitolato Clavis Medica ad Chinarum Doctrinam de Pulsibus e di una Flora Sinensis. Ne trasse ispirazione per la tesi di laurea Dissertatio de glossosemeiotice, sive de signis morborum quae e lingua sumuntur, praesertim apud Sinenses, in cui, basandosi in gran parte sul testo di Boym, espone le tecniche cinesi dell'esame diagnostico della lingua, messe a confronto con le pratiche mediche occidentali. Laureatosi nel 1813, fu quasi immediatamente mobilitato come chirurgo militare; poté però rimanere a Parigi, prima all'ospedale di Montmartre poi in quello di Montaigu. Da tempo, Silvestre de Sacy si batteva per fargli assegnare una cattedra di cinese al College de France; Rémusat la ottenne con la Restaurazione, anche grazie a relazioni personali e a una certa capacità di intrigo. Nel novembre 1814, a ventisei anni, venne nominato professore di cinese e mancese; era l'inizio di una brillante carriera accademica; nel 1815 fu eletto membro dell'Accademia delle iscrizioni e belle lettere; nel 1824 conservatore dei manoscritti orientali delle Biblioteca reale e nel 1832 presidente del Conservatorio della stessa. Nel 1822, insieme a Silvestre de Sacy, fondò la Société asiatique, di cui fu il primo segretario e presidente dal 1829 alla morte. Grazie all'accesso al corpus di testi cinesi custoditi presso la Biblioteca reale, poté dedicarsi a una vasta opera di traduzioni, che include il manuale di morale taoista Le Livre des Récompenses et des peines, testi di Confucio e Laozi, diverse opere buddiste tra cui Foé Koué Ki, ou Relations des royaumes bouddhiques; a un pubblico più ampio è destinata la traduzione del romanzo breve Yü Chiao Li, sotto il titolo Les deux cousines. Furono soprattutto queste ultime due traduzioni ad assicurargli fama internazionale, influenzando persino Goethe. Come linguista, la sua opera maggiore è Élémens de la grammaire chinoise (1822); la sua interpretazione delle strutture frasali del cinese portò anche a un carteggio con Humboldt (Lettres édifiantes et curieuses sur la langue chinoise, 1821-1831). Anche se occasionalmente dedicò ancora qualche articolo alla medicina tradizionale cinese, si trattava ora di un interesse secondario. Quanto all'erboristeria cinese tradizionale, che pure era all'origine della sua vocazione di sinologo, l'unico suo lavoro sull'argomento risulterebbe una lista manoscritta di 7104 schede con i nomi di piante medicinali, presumibilmente ricavata da un lessico cinese-mancese. Una singolare tecnica di propagazione Veniamo ora al genere Remusatia Schott, famiglia Araceae. Le sue quattro specie sono erbacee epifite o litofite che vivono tra le rocce o nel sottobosco delle foreste tropicali o subtropicali, con radici tuberose che emettono foglie cuoriformi o peltate e caratteristici stoloni densamente ricoperti di bulbilli; questi ultimi sono muniti di uncini che si attaccano agli animali di passaggio, favorendo la propagazione. In genere sono dormienti dall'autunno alla primavera. Due specie (R. hookeriana e R. pumila) sono diffuse dall'Himalaya alla Cina, R. yunnaniensis in Cina e a Taiwan, mentre R. vivipara ha un vasto areale che comprende zone tropicali e subtropicali dell'Africa e dell'Asia e si estende attraverso la Malesia all'Australia nord orientale e alle isole del Pacifico. Può crescere come epifita su grandi alberi o come litofita sulle rocce. Si tratta anche della specie più frequentemente coltivata; alta fino a 50 cm, è dotata di un tubero globoso e appiattito da cui emerge una singola foglia, lunga fino a 40 cm e larga 30, retta da un picciolo lungo fino a 40 cm. Fiorisce raramente e si riproduce per lo più per mezzo di bulbilli; muniti di molte punte uncinate, possono essere trasportati dagli uccelli anche a centinaia di km dalla pianta madre. I tuberi sono eduli previa bollitura per eliminare l'eccesso di ossalato di calcio. Nella medicina tradizionale è utilizzata per trattare infiammazioni e artriti.
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Si ritiene generalmente che il primo occidentale a creare una raccolta sistematica di piante cinesi sia stato il chirurgo e mercante James Cuninghame, che negli anni a cavallo tra Seicento e Settecento operò dapprima ad Amoy quindi a Chusan, raccogliendo circa 600 specie, diverse delle quali furono prontamente pubblicate da James Petiver e Leonard Plukenet. La penetrazione del commercio inglese in estremo oriente era ancora agli inizi, e presto gli inglesi abbandonarono questi avamposti dove gli scarsi guadagni non erano tali da compensare la rapacità dei funzionari cinesi. Dopo la relativamente fortunata parentesi cinese, per Cuninghame iniziarono i guai: inviato a Pulo Condore in Cocincina, fu tra i pochi sopravvissuti a un massacro e dovette subire due anni di penosa prigionia; né più solida era la situazione dell'emporio della compagnia a Banjarmasin nel Borneo, diretto per poche settimane da Cuninghame prima che fosse distrutto e gli inglesi espulsi del paese. Allo sfortunato chirurgo-mercante non rimase che ritornare in patria; ma non vi arrivò mai, probabilmente perendo in mare. Robert Brown volle ricordarlo dedicandogli una delle sue scoperte cinesi: lo splendido "abete cinese", ovvero Cunninghamia lanceolata. Che deve però dividere con un quasi omonimo, il "raccoglitore del re" Allan Cunningham. Una sequela di disastri Richard S. Morel l'ha soprannominato "il botanico più sfortunato dell'Asia"; in effetti, anche se sventure di ogni genere erano il corollario abituale delle vite dei cacciatori di piante dei tempi eroici, è difficile trovare una sequela di catastrofi che eguagli quelle che costellarono i viaggi di James Cuninghame (o Cunningham, ca. 1665–1709). Molto poco sappiamo della sua giovinezza. Cuninghame era scozzese e doveva essere nato intorno al 1665, visto che nel 1686, quando si immatricolò alla facoltà di medicina di Leida, risulta ventunenne. Presumibilmente non si laureò: infatti era chirurgo e non medico, ma non sappiamo né dove né come completò gli studi. Nella seconda metà del 1696 era di ritorno da un viaggio nelle Indie orientali, nel corso del quale doveva aver già raccolto qualche curiosità naturale. Fu così che entrò in contatto con Hans Sloane, all'epoca segretario della Royal Society, e strinse amicizia con James Petiver. Avendo saputo che si preparava a ripartire per la Cina, quest'ultimo gli consegnò una lista di piante desiderabili e gli raccomandò di cercare di procurarsi disegni o pitture di piante cinesi, nonché di raccogliere per lui ogni tipo di curiosità. Cuninghame lasciò l'Inghilterra alla fine del 1697, presumibilmente a bordo della Tuscan, che non apparteneva né alla Compagnia delle Indie né alla rivale New Company, ma a qualche mercante indipendente, i cosiddetti interlopers "intrusi" (si è fatto il nome di Henry Gough). Insieme a un'altra nave di cui non conosciamo il nome, nel gennaio 1698 la Tuscan fece scalo nell'isola di La Palma nelle Canarie, dove Cuninghame fece le sue prime raccolte (circa 150 esemplari, un decimo della flora dell'isola) e si produsse un grave incidente. Una parte dei marinai si ammutinò e disertò; per cercare di catturarli, il capitano inglese usò le maniere forti, finendo per scontrarsi con le autorità spagnole, con il risultato che la nave fu posta sotto sequestro e la ciurma messa agli arresti. Solo dopo qualche giorno, vennero rilasciati e la Tuscan poté riprendere il mare. A metà febbraio passarono l'equatore, quindi doppiarono il Capo di Buona Speranza, proseguendo senza fare scali fino a Batavia, dove gettarono l'ancora a giugno. Cuninghame ne approfittò per raccogliere altre 121 piante. A luglio erano ad Amoy (oggi Xiamen), uno dei pochi porti cinesi aperti agli occidentali. Il soggiorno nell'isola di Amoy si protrasse per sei mesi. Cuninghame (che era qui in veste di mercante, non di chirurgo) trovò il tempo per osservare e descrivere nel suo diario le tecniche di fabbricazione della carta, dell'ottone, del colorante rosso estratto dai semi di Gardenia jasminoides, l'estrazione del salnitro, i nidi commestibili di uccelli e l'ambra grigia. Ovviamente continuò le raccolte, mettendo insieme esemplari d'erbario di 176 specie e semi di 84. Inoltre raccolse una quarantina di "Miscellanea", incluso un esemplare del leggendario "agnello di Tartaria" o barometz segnalando che si trattava della radice di una felce (oggi identificata come Cibotium barometz). Infine commissionò a un artista locale circa 800 acquarelli della flora di Amoy. Di ritorno in Inghilterra verso la metà del 1699, egli poté presentare questo bottino ai suoi amici e ne fu premiato con l'ammissione alla Royal Society. Dopo meno di sei mesi, era di nuovo in partenza, questa volta come chirurgo di bordo della Eaton, una nave della Compagnia delle Indie inviata nell'isola di Chusan (oggi Zhoushan) nella speranza di crearvi una stazione commerciale. Durante il viaggio, la nave dovette fare scalo sia all'isola dell'Ascension, sia al Capo, visto che nell'erbario di Cuninghame si trovano esemplari provenienti da entrambe le località. Anche a Chusan egli continuò alacremente la sua attività di raccolta, estesa anche alle vicine Crocodile Islands; inviò inoltre alla Royal Society alcune lettere poi pubblicate sulle Philosophical Transactions, su argomenti come la coltivazione del tè o certi coralli e altre curiosità sottomarine. Nel 1702 la Compagnia delle Indie decise di abbandonare l'emporio di Chusan, che si era mostrato poco redditizio a causa dei forti dazi; Cuninghame, che doveva essersi ben comportato, fu promosso capo in seconda e inviato nell'isola di Pulo Condore (oggi Côn Sơn) nel Vietnam meridionale per aprirvi un insediamento. Venne costruito un forte e per proteggerlo furono ingaggiati mercenari Makassar. Nel marzo 1705 questi ultimi si ammutinarono, incendiarono la stazione e uccisero sedici uomini che cercavano di spegnere le fiamme. Gli inglesi chiesero l'aiuto delle autorità locali, ma queste, dopo aver catturato e giustiziato i Makassar, si rivolsero contro i britannici, completando il massacro. Solo Cuninghame e pochi altri sopravvissero. Allo sfortunato naturalista, ferito, fu imposta la gogna (kang) e fu trascinato di fronte alle autorità per una sorta di processo. Tre i capi d'accusa: aver stabilito l'insediamento di Pulo Condore contro la volontà del re di Cocincina; non aver presentato a quest'ultimo un tributo adeguato; essere in comunicazione segreta con la Cambogia, con cui la Cocincina era in guerra. Ogni difesa fu inutile; per due anni egli venne tenuto prigioniero con appena il necessario per sopravvivere. Rilasciato nell'aprile 1707, poté raggiungere Batavia. Forse per ricompensarlo di tante sofferenze, la Compagnia lo inviò a Banjarmasin in Borneo come capo di quella stazione commerciale. Tre settimane dopo il suo arrivo, anche quest'ultima venne attaccata e distrutta, sebbene con perdite umane minori rispetto a Pulo Condore, e la Compagnia delle Indie venne espulsa dal Borneo. A Cuninghame non restava che rientrare in Inghilterra. Nel gennaio 1709 scrisse l'ultima lettera a Petiver e Sloane, annunciando il suo rientro. Tuttavia non giunse mai a casa: probabilmente morì durante il viaggio di ritorno. Invece i manoscritti e le raccolte arrivarono sani e salvi a Londra. Una collezione di grande importanza storica A parte qualche esemplare occasionale, era la prima volta che un naturalista di valore faceva raccolte sistematiche in Cina. Nel complesso, gli esemplari inviati da Cuninghame ai suoi corrispondenti londinesi (in primo luogo Petiver e Sloane, ma anche il rivale Plukenet) ammontano a circa 600; vista la loro novità, Petiver e Plukenet fecero a gara per pubblicarli quanto prima. Tra le circa 1000 specie descritte da James Petiver nelle centurie dei Musei Petiveriani (1696-1703) figurano una cinquantina di esemplari raccolti da Cunninghame; accanto alle piante troviamo serpenti, conchiglie, farfalle e altri insetti. Nel 1703, nelle Philosophical Transactions lo stesso Petiver pubblicò un resoconto su una settantina di piante raccolte di Cunninghame a Chusan; infine in Gazophylacii naturae (1702–09), ne descrisse un'altra ventina, insieme a conchiglie raccolte all'Ascension e Pulo Condore, falene, coleotteri e un millepiedi delle Indie Orientali. Ancora più ampio è l'utilizzo dei materiali di Cunninghame da parte di Plukenet. In Amaltheum botanicum vengono descritte circa 400 piante risalenti alle sue raccolte di Chusan, circa metà delle quali sono anche raffigurate nel terzo volume di Phytographia. Infine, nel terzo volume di Historia Plantarum, John Ray descrisse 22 specie raccolte da Cunninghame ad Amoy. Tra le specie più notevoli, tra gli alberi troviamo in primo luogo quella destinata ad immortalare il nome di Cunninghame, Cunninghamia lanceolata, e Cryptomeria japonica; tra gli arbusti, Camellia japonica, Loropetalum chinense, Chimomanthus praecox, Hibiscus tiliaceus e Abelmoschus manihot, nonché il nespolo giapponese Eriobotrya japonica (recentemente riclassificata come Rhaphiolepis bibas). Grazie ai semi inviati a Petiver, ma anche a Uvedale, qualche specie dovette essere introdotta in coltivazione; potrebbe essere il caso di due specie di crisantemi osservati a Chusan. Gli erbari e la collezione di acquarelli, che Petiver definiva "herbarium nostrum sinicum pictum", dovettero passare a Petiver, e dopo la morte di questi, essere inglobati nelle collezioni prima di Sloane, poi del British Museum. Sotto il titolo Drawings of Chinese Flowers, Plants, and Fruits, in colours, by a native artist, at Emuy, i dipinti sono oggi custoditi alla British Library; recentemente digitalizzati, sono consultabili a questo indirizzo. Un genere per due Nel 1791 si ricordò di questo sfortunato pioniere dello studio della flora cinese J. C. D. von Schreber, dedicandogli Cunninghamia (Rubiaceae). Trattandosi di un nome illegittimo e superfluo, non viene preso in considerazione, al contrario del secondo genere Cunninghiamia (Cupressaceae) creato nel 1826 da Robert Brown. In una pubblicazione più tarda, quest'ultimo ne spiega chiaramente la motivazione: "Il genere deve essere denominato Cunninghamia, per commemorare i meriti del sig. James Cunningham, un eccellente osservatore ai suoi tempi, da cui questa pianta fu scoperta"; ma aggiunge: "e in onore del sig. Allan Cunningham, l'assai meritevole botanico che accompagnò il sig. Oxley nella sua prima spedizione nell'interno del Nuovo Galles del Sud, e il capitano King in tutti i suoi viaggi di ricognizione della costa della Nuova Olanda". Insomma, Brown prese due piccioni con una fava e dedicò Cunninghamia a due differenti botanici quasi omonimi. Sul secondo, assai importante per la storia dell'esplorazione della flora australiana, sarà necessario tornare in altri post. Per ora, soffermiamoci sull'interessantissimo genere Cunninghamia. Con due specie, C. lanceolata, originaria della Cina meridionale, e C. konishii, forse endemica di Taiwan, ma presente anche in Indocina - ma per molti si tratta di una varietà della precedente, C. lanceolata var. konishii-, è considerato il genere più primitivo tra le Cupressaceae, tanto che alcuni botanici l'hanno assegnato a una famiglia propria (Cunninghamiaceae). Sono alberi di notevoli dimensioni (anche più di 50 metri), di portamento conico e piramidale, con rami tendenzialmente orizzontali ma pendenti alle estremità. Gli aghi, piatti, coriacei, verde scuro o glauco, si dispongono a spirale lungo i rami; la pagina inferiore (e talvolta anche quella superiore) è caratterizzata da due bande di stomi bianche o verde chiaro. Monoiche, hanno fiori maschili cilindrici raccolti in amenti all'estremità dei rami; quelli femminili sono strobili giallo-verdastro lunghi circa un cm. I frutti sono coni verdastri, da ovali a globosi, ricoperti da scaglie disposte a spirale. In Cina C. lanceolata è molto apprezzata per il legname, leggero, durevole, profumato e non attaccato dai parassiti. La sua coltivazione è anzi in costante crescita, andando a costituire circa un terzo delle piantagioni di alberi da legname e un quarto della produzione di legname della Cina. Introdotto in occidente a inizio Ottocento da William Kerr, in Europa rimane una pianta per intenditori, presente in pochi parchi e arboreti. Altre informazioni nella scheda. Nel Giurassico (da 180 a 135 milioni di anni fa) foreste di conifere della sottofamiglia Sequoioideae delle Cupressaceae ricoprivano vaste aree dell'emisfero boreale, come testimoniano i fossili trovati in Nord America, Groenlandia, Europa ed Asia. Oggi ne rimangono solo tre specie viventi, ciascuna delle quali è l'unica rappresentante di un genere monospecifico: le americane (o meglio californiane) Sequoia sempervirens e Sequoiadendron giganteum e la cinese Metasequoia glyptostroboides. Le due californiane sono rispettivamente il più alto e il più grande albero del mondo: la prima può raggiungere un'altezza di 100 metri, la seconda la stessa circonferenza e un volume di quasi 1500 metri cubi. Niente di più appropriato, di più "giusto", che questi maestosi giganti delle foreste americane prendano il nome da un nativo americano, il cherokee Sequoyah. Giusto, appropriato finché volete, ma non necessariamente vero. Il botanico austriaco Stephen Endlicher che creò il nome nel 1847 non ne spiegò l'etimologia; il collegamento con Sequoyah venne proposto per la prima volta nel 1856 in un articolo anonimo; benché presto messo in dubbio, si impose e nel secolo scorso divenne opinione comune. Nel 2018 un rigorosissimo saggio l'ho ridotto a mito, o se volete a fake news. Ma per noi è l'occasione di parlare di un grande linguista nativo e di tre meraviglie della natura. Ognuna con una storia speciale. Da Sequoyah a Sequoia Nel 1831, il grande cacciatore di piante David Douglas scrive a William Jackson Hooker: "Ma la grande bellezza della vegetazione californiana è una specie di Taxodium, che dà alla montagna un aspetto peculiare, stavo per dire terribile, qualcosa che dice chiaramente che non siamo in Europa. Ho ripetutamente misurato esemplari di questo albero alti 270 piedi (= 82 metri circa) e con un diametro di 32 piedi (= 10 metri circa) a tre piedi dal suolo. Più in alto ne ho visti anche alti 300 piedi (= oltre 90 metri)". Gli alberi giganti che fanno provare a Douglas il terrore del sublime erano esemplari di Sequoia sempervirens, detta anche sequoia della California o sequoia costiera, in inglese redwood; appartiene proprio a questa specie Hyperion, l'albero più alto del mondo, un esemplare di 115,66 metri del Parco nazionale di Redwood. Il più alto, ma non il più massiccio. Questo secondo record spetta a Generale Sherman, un esemplare di un'altra specie di sequoie californiane, la sequoia gigante Sequoiadendron giganteum: alta "solo" 82,8 metri, ha un diametro massimo di 11 metri, un volume stimato di 1486,6 metri cubi e un peso stimato di 1910 tonnellate, che ne fanno il maggior essere vivente del pianeta per volume. A queste glorie della foreste americane l'intuizione di uno studioso o forse il caso sembrerebbe aver assegnato il più adatto dei nomi: il genere Sequoia - e di riflesso Sequoiadendron "albero sequoia" - prenderebbe il nome da un illustre nativo, il cherokee Sequoyah. Come scriverà il giornalista John D. Ross in un articolo comparso in The Los Angeles Times nel 1908, "Quale nome potrebbe essere più appropriato per il più grande degli alberi americani che quello di un esponente della prima razza americana?" Incominciamo dunque da lui, dal cherokee Sequoyah (trascritto anche Ssiquoya, Sikwayi, Se-quo-yah, See-quah-ya). Nato forse intorno al 1770 nella città cherokee di Tuckasegee (all'epoca in North Carolina, oggi in Tennessee), era figlio di una donna cherokee chiamata Wut-teh, figlia, nipote o sorella di un capo indiano; discussa è l'identità del padre (un mercante di pellicce meticcio, un venditore ambulante tedesco o un ufficiale dell'Armata continentale di origine scozzese?), che in ogni caso abbandonò moglie e figlio e non ebbe alcun ruolo nella sua vita. Più tardi, quando servì tra i cherokee alleati con l'esercito federale, egli si faceva chiamare George Guess, ma sappiamo che non parlava inglese, fu allevato dalla madre nelle tradizioni del suo popolo e non frequentò alcuna scuola. Le poche cose certe che sappiamo su di lui - molteplici sono le leggende poi fiorite attorno alla sua persona - si devono all'avvocato, scrittore e editore Samuel Lorenzo Knapp che lo intervistò nel 1828 con l'aiuto di due interpreti, mentre Sequoyah si trovava a Washington come membro di una delegazione del suo popolo. Spiccava in mezzo agli altri sia per il carisma, sia perché era l'unico a non indossare abiti europei, ma i tradizionali abiti cherokee. In gioventù dovette spostarsi in molti luoghi, fu cacciatore e guerriero, gestì una stazione commerciale, servì nel Reggimento di cherokee sotto il comando di Gideon Morgan; quando una malattia o una ferita lo privò dell'uso di un ginocchio, impedendogli di cacciare e combattere, divenne argentiere e fabbro di grandissima abilità e dedicò il suo tempo a risolvere un mistero su cui si interrogava da molti anni: come facessero i bianchi a comunicare con i "fogli volanti". Come egli stesso riferì a Knapp, fu forse intorno al 1810 che incominciò ad elaborare un sistema di scrittura per trascrivere la sua lingua. Dapprima pensò a immagini di uccelli e altri animali da associare a ciascuna parola o idea (si trattava dunque di pittogrammi o ideogrammi), ma presto capì che era un'idea poco pratica. Pensò allora di associare a ogni sillaba un simbolo arbitrario, inventando un sistema di 200 segni, poi ridotto a 86 caratteri; molti furono ripresi da un libro di ortografia, quindi riprendono la forma di lettere latine o greche, ma corrispondono a suoni affatto diversi. Il sistema, perfezionato intorno al 1821, è così efficace che sua figlia, una bimba di cinque anni, lo apprese con facilità; gli adulti invece rimanevano scettici. Sequoyah, convinto che la diffusione del suo sillabario fosse indispensabile per la sopravvivenza stessa del suo popolo, prese a viaggiare nelle riserve dell'Alabama dove vivevano i Cherokee per convincere i capi dell'utilità del suo sistema: a ciascuno di loro chiedeva di dire una parola, la trascriveva, poi chiamava la bambina perché la leggesse. Il successo dell'esperimento gli procurò un numero crescente di allievi, anche se molti non mancarono le diffidenze e i sospetti di stregoneria. Superate le ostilità iniziali, il sistema si diffuse rapidamente. Nel 1824 il Consiglio della Nazione Cherokee lo premiò con una medaglia d'argento. Lo stesso anno Sequoyah si trasferì in Arkansas e nel 1828 a Washington fu tra i firmatari del trattato che istituisce il territorio indiano (corrispondente all'attuale Oklahoma). E' in questa occasione che fu intervistato da Knapp. Nel 1829, Sequoyah si stabilì con la moglie e la figlia nell'attuale Sallisaw, in Oklahoma, dove ancora si conserva la sua capanna; cercò di svolgere un ruolo di paciere tra i Cherokee che si erano trasferiti qui all'inizio del secolo (gli Old Settlers) e i Cherokee occidentali, guidati dal capo John Ross; nel 1839 fu tra i firmatari dell'Atto di Unione tra le due frazioni che portò alla creazione di una nuova costituzione. Nel 1842, insieme a un figlio e a un compagno, andò in Messico per cercare di convincere i Cherokee che vi erano migrati a stabilirsi nel Territorio Indiano, ma nel corso di questo viaggio (tra il 1843 e il 1845) morì presso San Fernando de Rosas nello stato di Coahuila (Messico). Intanto il suo sistema era stato adottato ufficialmente dal suo popolo (1825). I Cherokee furono il primo gruppo indigeno ad avere una lingua scritta e a un alto numero di alfabetizzati (in proporzione molto maggiore rispetto agli statunitensi anglofoni). Alla fine dello stesso anno, la Bibbia e molti inni sacri vennero trascritti in cherokee. Nel 1826 per incarico del Consiglio della nazione Cherokee, George Lowrey e David Brown tradussero e stamparono otto copie delle leggi della Nazione. Nel 1828 incominciò ad essere stampato il Cherokee Phoenix, un quotidiano bilingue in inglese e cherokee. La notizia che un nativo aveva inventato dal nulla un alfabeto (o meglio un sillabario, trattandosi di una scrittura sillabica) si sparse presto in tutto gli Stati Uniti e trovò eco anche all'estero, dove fu d'esempio soprattutto ai missionari che dovevano affrontare il compito di creare sistemi di trascrizione di lingue fino ad allora prive di scrittura. Così, il missionario James Ewans si ispirò al sillabario cherokee per creare il Cree syllabics, il sistema usato per trascrivere le lingue degli indiani Cree del Manitoba e dell'Ontario; a sua volta, il Cree syllabics ispirò un sistema per trascrivere una lingua locale in Cina. Si calcola che il sillabario di Sequoyah sia all'origine di non meno di 21 sistemi usati per trascrivere oltre 60 lingue. Puntando in alto: Sequoia Delle tre specie viventi della sottofamiglia Sequoioideae della famiglia Cupressaceae, quella con areale più vasto, e anche la prima ad essere nota agli europei è Sequoia sempervirens, la sequoia costiera o redwood, presente unicamente nelle montagne costiere sotto i 900 metri in una striscia lunga approssimativamente 750 km e larga 8-75 lungo la costa pacifica del Nord America, dall'Oregon meridionale alla Monterey Country in California. La prima "scoperta" sembra si debba alla Spedizione Portolá (14 luglio 1769-24 gennaio 1770) che esplorò l'Alta California; il cappellano e diarista della spedizione, il frate Juan Crespi, l'11 ottobre 1769 annota che il giorno prima, a cinque miglia dalla costa, a tre miglia nord dell'attuale Watsonville, gli spagnoli percorsero "basse colline ammantate di altissimi alberi di colore rosso, che ci erano ignoti". Perciò li chiamarono palo colorado, ovvero alberi rossi. Il primo a raccogliere campioni e semi del maestoso albero fu però Thaddäus Haenke, il botanico della spedizione Malaspina, che esplorò l'area intorno a Monterey nel 1791. Fu sicuramente dai semi da lui raccolti e presumibilmente inviati in Spagna dal suo collega Luis Née che nacquero i più antichi alberi di Sequoia sempervirens sul suolo europeo: un esemplare, oggi morto, identificato nel 1926 dal botanico californiano Jepson a Granada, e un boschetto ancora esistente presso la Casita del Principe all'Escorial. Durante la spedizione Vancouver (1791-1795), anche Archibald Menzies raccolse un campione in un luogo imprecisato della costa dell'America occidentale; fu su di esso che David Don si basò per la prima descrizione, pubblicata in A Description of the Genus Pinus di Aylmer Bourke Lambert (1824) con il nome Taxodium sempervirens. E qui entra in scena il secondo protagonista di questa storia, il botanico austriaco Stephen Endlicher, professore di botanica all'Università di Vienna tra il 1830 e il 1849 e rinomato tassonomista. Nel 1847 in Synopsis Coniferarum incluse la riclassificazione di varie specie trattate da Lambert, tra cui appunto Taxodium sempervirens, che assegnò al nuovo genere Sequoia, insieme a una seconda specie S. gigantea, sulla base delle descrizioni di Douglas e Hooker (che oggi sappiamo non riferirsi all'attuale Sequoiadendron giganteum, ma ugualmente a Sequoia sempervirens). Purtroppo Endlicher (morto nel 1849) non spiegò l'etimologia del nuovo genere. Il primo collegamento tra il genere Sequoia e il cherokee Sequoyah compare nel 1856, in un articolo anonimo pubblicato in The Country Gentleman’s, una rivista di agricoltura fondata nel 1852; l'autore anonimo scrive: "Da dove viene questo nome? E' un fatto intenzionale o una coincidenza che questo albero americano porti il nome di un americano che merita tanto onore? L'onore deve essere intenzionale; ma se non lo fosse, la coincidenza è assai gratificante". La congettura dell'anonimo viene ripresa nel 1868 dal geologo Josiah Dwight Whitney nel capitolo della ricognizione geologica della California dedicato alle sequoie del Yosemite Book , e diventa un fatto accertato: "Il genere è stato nominato in onore di Sequoia o Sequoyah, un indiano cherokee [...] meglio noto con il nome inglese George Guess, noto al mondo per la sua invenzione di un alfabeto e della lingua scritta per la sua tribù". E aggiunge che Endlicher avrebbe conosciuto l'attività di Sequoyah proprio grazie all'articolo pubblicato su The Country Gentleman (il che è impossibile, visto che, come sappiamo, uscì sette anni dopo la sua morte). L'opinione di Whitney, ripresa dall'autorevole botanico Engelmann, nel corso dell'Ottocento era tutt'altro che universalmente condivisa. Dopo averne discusso con Asa Gray, che aveva lungamente studiato questa specie, nel 1879 John Gill Lemmon conclude: "Il nome generico Sequoia è stato dato da Endlicher perché questo genere è un solitario seguace (dal latino sequi, "seguire") di vaste foreste colossali. Altri hanno detto che deriva da Sequoyah, il celebre indiano Cherokee; ma si tratta senza dubbio un'idea tardiva, indegna di essere mantenuta". Nonostante queste obiezioni, l'idea invece rimase in voga nell'intero ventesimo secolo, ormai accreditata come versione ufficiale, ripresa senza discussione in fonti di ogni tipo. Il dibattito si riaccese verso la fine del secolo ed è diventato assai vivace solo di recente, grazie a un articolo di Gary D. Lowe che nel 2012 ha rilanciato su nuove basi il collegamento con il latino sequi; nel 2017 gli ha risposto Nancy E. Muleady-Mecham, con un'articolata argomentazione che riafferma l'etimologia tradizionale e la sostiene con una ricca serie di collegamenti indiretti. La risposta di Lowe è stata un ampio saggio, pubblicato nel 2018 con l'eloquente titolo Debunking the Sequoia honoring Sequoyah myth, "Sfatare il mito che Sequoia onori Sequoyah", in cui letteralmente demolisce l'argomentazione di Muleady-Mecham pezzo per pezzo, dimostrando l'inconsistenza e/o la fallacia logica di tutti i suoi argomenti a sostegno; la conclusione è perentoria: "L'attribuzione del nome del genere Sequoia in onore dell'uomo Sequoyah è una tradizione inventata; un contributo silenzioso alla autorappresentazione dell'America come nazione della natura". Ho letto puntigliosamente entrambi i contributi e, dal mio punto di vista, non c'è dubbio che le argomentazioni di Lowe sono più fondate e convincenti di quelle di Muleady-Mecham; il punto più debole rimane forse proprio il collegamento con il latino sequo-r, spiegato in base a un'ipotetica sequenza (ovvero serie di Fibonacci) del numero di semi, in cui Sequoia segue Taxodium, e precede altre specie (che però nel 1847 erano ipotetiche). Ma che Endlicher sapesse di Sequoyah e gli abbia dedicato il genere è davvero più che improbabile. Una questione di volume: Sequoiadendron Il secondo tipo di sequoia, la sequoia gigante Sequoiadendron giganteum, ha un'areale estremamente ristretto: vive unicamente sulle pendici occidentali della Sierra Nevada in California, in 68 popolazioni in tutto, in un'area totale di 144,16 km2. Le popolazioni variano per dimensioni e numero di alberi: si va dal Redwood Mountain Grove, con 20.000 alberi adulti su un'estensione di 1240 ettari, a piccoli boschi di non più di sei esemplari. E sono proprio questi rari giganti le sequoie per antonomasia, quelle che probabilmente associamo a questo nome. Ovviamente gli indigeni le conoscevano da sempre, ma gli europei e la scienza le scoprirono molto dopo la specie più costiera, proprio per la loro maggiore rarità e per la posizione più interna. La prima menzione, del 1833, si trova nel diario dell'esploratore J. K. Leonard, che non cita alcuna località precisa ma che probabilmente passò attraverso il Calaveras Grove. Più preciso il racconto del cacciatore Augustus T. Dowd che nella primavera del 1852 inseguendo un orso capitò nei boschi ora noti come North Grove nel Calaveras State Park. Vedendo quegli alberi monumentali non credeva ai suoi occhi, e nessuno dei suoi compagni inizialmente volle credergli finché non li portò a vederli di persona; ma ben presto la notizia si diffuse, e purtroppo iniziarono subito anche gli abbattimenti: il primo albero visto da Dowd, ribattezzato Discovery Tree, fu abbattuto già nel 1853. Lo stesso anno la specie entrava nella letteratura scientifica grazie al botanico inglese John Lindley, che la descrisse per primo e la battezzò Wellingtonia gigantea, in onore del duca di Wellington (il vincitore di Waterloo), morto l'anno precedente. Per gli americani, uno scandalo: quel gigante americano doveva celebrare un altrettanto grande eroe d'America, e l'unico nome adatto era Washingtonia. Questo almeno sostenne l'anno dopo un certo Andreas Peter Winslow che proposte di ribattezzarla Washingtonia californica. Ma la botanica segue altre vie e altre regole: Wellingtonia è un nome illegittimo, perché era già stato usato per un'altra specie (W. arnottiana, oggi Meliosoma arnottiana, famiglia Sabiaceae) e pure Washingtonia è inaccettabile perché Winslow, che non era un botanico, nel pubblicarlo non si attenne alle regole appropriate. A superare il problema, per altro, aveva già pensato il francese Joseph Decaisne che assegnò anche questa specie al genere Sequioia, recuperando il nome di Endlicher S. gigantea (che come abbiamo visto in realtà era un sinonimo di S. sempervirens). Le differenze tra le due specie erano però tali da far ritenere andassero assegnate a generi diversi. Nel 1907 Carl Ernst Otto Kuntze la attribuì al genere fossile Steinhauera, per altro dubbio, dato che ne è noto solo il polline; la soluzione definitiva venne nel 1939 da John Theodore Buchholz, che separò le due specie creando per la sequoia gigante il nuovo genere Sequoiadendron, come S. giganteum. Approfittiamone anche noi per sintetizzare le principali differenze tra di due generi (e le due specie, che è la stessa cosa, trattandosi di due generi monospecifici). Oltre alle differenze di altezza e volume di cui abbiamo già parlato, notiamo che Sequoia sempervirens ha tronco dritto e snello, con corteccia marrone cioccolata più opaca, Sequoiadendron giganteum tronco conico e massiccio con corteccia marrone rossastro più luminosa. Molto diverso il fogliame, in entrambi i casi sempreverde: quello di Sequoia sempervirens è costituito da aghi piatti e duri, disposti lungo i rami, in un modo che ricorda quello del tasso, mentre Sequoiadendron gigeanteum ha aghi corti, appuntiti che si dispongono a spirale attorno ai rami, richiamando piuttosto il ginepro. Quanto alle pigne, quelle della gigantessa hanno dimensioni triple rispetto a quelle della sequoia costiera; hanno forma ovale, richiedono due anni per maturare, quindi persistono sui rami almeno sei mesi; quelli della specie costiera sono arrotondati, si formano in primavera e maturano in autunno per poi cadere. Entrambe le specie sono presto diventate ricercatissime piante da giardino. Esemplari notevoli (anche se molto più piccoli delle millenarie piante americane) si trovano anche nel nostro paese. I più antichi sono ovviamente di Sequoia sempervirens e risalgono agli anni '40 dell'Ottocento, quando arrivarono nel Parco della Burcina nel Biellese (Piemonte) e all'Arboreto Siemoni in Casentino (Toscana). Conosciamo con precisione la data d'impianto dei due esemplari della Burcina, che furono piantati nella primavera del 1848 per celebrare la promulgazione dello statuto albertino. Venne piantata presumibilmente intorno al 1853 la più alta d'Italia (54 metri), che si trova nel parco di Sammezzano nel comune di Reggello (Firenze) e ha due tronchi gemelli. I primi esemplari di Sequoiadendron giganteum, commercializzati attraverso l'Inghilterra ovviamente come Wellingtonia gigantea, sembra siano siano arrivati quasi subito dopo la scoperta, o più probabilmente verso la fine degli anni '50 o i primi anni '60 dell'Ottocento. Due dei più imponenti si trovano a Roccavione (Cuneo), superano abbondantemente i cinquanta metri d'altezza e hanno raggiunto un diametro di 11 metri. Presumibilmente furono piantati intorno al 1902, data di costruzione della Villa dei Conti Salazar. E' degno di menzione per la sua storia tragica e commovente anche l'esemplare di Longarone: ha un'età stimata di 170 anni (sarebbe dunque stato introdotto a ridosso della scoperta) e in una ferita longitudinale di 5 metri reca le tracce del disastro del Vajont che il 9 ottobre 1963 devastò la valle e distrusse più di 1900 vite. Un fossile vivente: Metasequoia Non è finita; ci sono ancora un genere e una storia da raccontare. E dall'America ci spostiamo in Cina. Fin dall'Ottocento erano note specie fossili imparentate con le sequoie, che nel Giurassico dovettero formare vaste foreste in Europa e in Asia. Una di queste specie fossili fu scoperta nel 1939 dal botanico e paleontologo giapponese Shigeru Miki dall'Università di Kyoto che due anni dopo la pubblicò con il nome Metasequoia ("simile a Sequoia); risalente ad almeno 150 milioni di anni fa, doveva essersi estinta con i dinosauri, che un tempo scorrazzavano sotto le sue chiome. Per una coincidenza quasi incredibile, nell'inverno dello stesso 1941 il botanico cinese Gan Duo (noto anche come Toh Kan) durante una spedizione nelle province del Sichuan e dell'Hubei nel villaggio di Moudao nella contea di Lichuan (Hubei) osservò un'enorme conifera; faceva parte di un santuario e i locali lo chiamavano Shuǐshān, ovvero "abete d'acqua". Vista la stagione, era senza foglie, e Gan non raccolse alcun esemplare. Nel 1942, un altro botanico, Zhan Wang, visitò il villaggio e raccolse dei campioni; pensò che appartenessero a una specie già nota, Glyptostrobus pensilis (un'altra rara Cupressacea della Cina subtropicale). Orami si era nel pieno della guerra e solo nel 1945 egli poté mostrare le sue raccolte a un terzo botanico, Wan-Chun Cheng, una delle maggiori autorità mondiali della tassonomia delle Gimnosperme. Cheng capi subito che si trattava di una nuova specie, e inviò un campione a H.H. Hu, il direttore dell'istituto Fan di Pechino (il maggiore istituto botanico della Cina). Nonostante il caos della guerra e l'ostilità tra Cina e Giappone, Hu conosceva il lavoro di Miki e capì che la pianta viva apparteneva allo stesso genere che il collega giapponese aveva battezzato Metasequoia. Dopo altri studi e verifiche, nel 1948 Hu e Cheng pubblicarono insieme la nuova specie sul Bollettino dell'istituto Fan, battezzandola Metasequoia glyptostroboides. Chiesero poi l'aiuto dell'Arnold Arboretum dell'Università di Harvard, che lo stesso anno organizzò una spedizione di raccolta di semi, che, raccolti a migliaia, furono poi distribuiti a università, orti botanici e arboreti di tutto il mondo, Forse senza questi eventi provvidenziali, il fossile vivente sarebbe andato perduto. In natura è infatti rarissimo. Nel 2007 ne sono stati recensiti 5,371 esemplari, principalmente nella contea di Lichuan, con popolazioni minori nelle contee di Shizhu nel Chongqing e di Longshan nello Hunan. Molti esemplari erano già andati perduti per la trasformazione della piana alluvionale in risaie, ma dopo la scoperta l'albero ritrovato è diventato oggetto di venerazione e orgoglio nazionale. Sono state varate leggi per proteggerlo ed è stato largamente piantato in giardini e parchi e lungo le strade cinesi; ma i fragili ecosistemi dove viveva ormai quasi non esistono più e in natura è sempre più raro e minacciato. Spogliante e di dimensioni più contenute rispetto alle cugine di California, la metasequoia può comunque raggiungere un'altezza di circa 37 metri. Ha foglie aghiformi piatte, dritte o leggermente incurvate, opposte lungo i rami. Molto decorativa e di crescita rapida (anche un metro all'anno nei primi anni di vita), è anch'essa molto ricercata come pianta ornamentale ed è utilizzata anche come bonsai. Anche in Italia è giunta nel secondo dopoguerra; esemplari storici sono presenti nel Giardino Botanico Borromeo, nell'Isola Madre del Lago Maggiore e a Borghetto di Valeggio sul Mincio, che furono tra i beneficiari dei semi inviati dall'Arnold Arboretum. Approfittando di una breve periodo di pace durante le guerre napoleoniche e della sua amicizia con David Lance, direttore della factory britannica di Canton, Banks decise di inviare nel porto cinese un giardiniere, che soggiornandovi qualche anno, oltre ad inviare in patria le piante più desiderabili, potesse studiare le avanzate tecniche orticole del paese di mezzo. La sua scelta cadde su William Kerr, giovane e abile giardiniere di origine scozzese. Kerr rimase a Canton per otto anni, per poi essere nominato curatore dell'orto botanico di Colombo, nell'isola di Ceylon, dove sarebbe morto poco dopo; se la sua impresa sia stata un successo o meno, è motivo di discussione. Alcune fonti lo dipingono come un instancabile procacciatore di piante, cui si dovrebbe l'introduzione in Europa di 238 nuove specie. La sua morte in giovane età sarebbe dovuta a una di quelle malattie che tanto spesso decimarono gli europei nei paesi tropicali. Secondo John Livingstone, chirurgo della factory, che lo conobbe molto bene, la realtà sarebbe un po' meno rosea. Entusiasta e attivo nei primi tre o quattro anni, poi in seguito ad alcune "cattive abitudini", sarebbe diventato via via sempre più abulico, fino ad essere incapace di assolvere i suoi compiti. Per quanto Livingstone non lo dica in modo esplicito, gli studiosi ne hanno dedotto che Kerr fosse diventato oppiomane (e questa sarebbe anche la causa della sua morte). D'altra parte, i cataloghi di Kew ridimensionano di molto la quantità delle sue introduzioni; tuttavia si tratta quasi sempre di specie molto importanti, di secolare coltivazione in Cina, che egli si era procurato presso i vivai locali. Tra le altre, anche l'arbusto che porta il suo nome, Kerria japonica, di cui introdusse in Europa la forma a fiore doppio. A caccia di piante nei vivai cinesi Nel 1802 venne firmata la pace di Amiens tra Francia e Gran Bretagna; Joseph Banks, che dieci anni prima aveva dovuto registrare il fallimento dell'ambasciata Macartney, pensò che fosse giunto il momento di tentare un'altra strada per arricchire Kew di piante cinesi. Ogni tanto qualcuna arrivava grazie ai capitani e agli equipaggi delle navi della Compagnia Britannica delle Indie Orientali (British East India Company) che ogni anno facevano il lungo viaggio dal porto di Canton - l'unico aperto pur con molti limiti agli occidentali - ma egli sperava in risultati più eclatanti. Tanto più che il capo dell'emporio inglese (british factory) era un amico, David Lance. L'idea era di inviare a Canton uno dei giardinieri di Kew che, risiedendo sul posto per un periodo relativamente lungo, avrebbe potuto non solo procurarsi le piante più desiderabili (e desiderate), ma anche apprendere le tecniche orticole dei Cinesi, universalmente considerati maestri dell'agricoltura intensiva. Per la delicata missione Banks scelse un giovane giardiniere scozzese, William Kerr, che aveva potuto appezzare per la sua competenza, la sua passione e, cosa non secondaria, la robustezza fisica. Nell'aprile 1803, nell'atto di comunicargli la nomina a Giardiniere reale, nelle sue istruzioni gli raccomandò diligenza, sobrietà, frugalità, facendogli balenare la prospettiva di migliorare di molto il suo destino, se avesse ben meritato. Seguiva una lista minuziosa di richieste: avrebbe dovuto osservare il modo in cui i cinesi coltivano i frutti utili; scoprire il loro metodo per trarre concime dagli escrementi umani; studiare le modalità cinesi per fabbricare corde, le migliori del mondo; apprendere le tecniche per mantenere le piante nane (ovvero coltivare bonsai). Suo compito principale, ovviamente, era arricchire i giardini reali di piante "belle, curiose e utili", con particolare riguardo a quelle del nord della Cina che supponeva più adatte al clima inglese. Banks era ben consapevole che il suo giardiniere non avrebbe avuto libertà di movimento, anzi gli consigliava grande prudenza, vista la sospettosità dei cinesi; era tuttavia convinto che egli avrebbe comunque potuto procurarsi piante interessanti nei mercati e nei vivai aperti agli stranieri. Gli raccomandava, se possibile, di farsi assegnare un giardino, dove propagare le piante e prepararle per gli invii annuali, nel maggior numero possibile e pronte per affrontare il lungo e difficile viaggio in vasi e cassette appositamente allestiti. Seguiva poi una lunga e dettagliata lista di piante più o meno desiderabili, tanto per la loro utilità quanto per la loro bellezza, contrassegnate da un numero crescente di asterischi (da uno a cinque). Kerr dovette partire poco dopo, visto che era a Canton (o, se preferite, Guangzhou) all'inizio del 1804. John Livingstone, chirurgo nella factory britannica (uno dei tredici empori concessi agli europei) che fece il viaggio con lui lo descrive come un giovane entusiasta, un giardiniere e un botanico molto preparato, di notevole vigore fisico, tanto da affrontare scalate sotto il sole a picco, come dimostrò a Macao, l'ultima sosta prima entrare nel Fiume delle perle e unico territorio cinese dove fosse possibile studiare e raccogliere piante in natura, visto che gli stranieri non potevano muoversi liberamente al di fuori della piccola enclave costituita dagli empori. Arrivato in Cina, Kerr si mise subito al lavoro con solerzia, procurandosi piante nei mercati e nei bellissimi vivai che sorgevano sull'altra riva del fiume, a due o tre miglia dalla concessione. Aperti agli stranieri, anzi largamente pensati per soddisfare le loro esigenze, questi vivai di Canton, noti come Fa Tee, erano una delle meraviglie della città. Tra le numerose descrizioni che ce ne sono giunte, la più dettagliata si deve al famoso cacciatore di piante Robert Fortune, che li visitò negli anni '40: di piccole dimensioni, vi si vedevano centinaia e centinaia di piante in vaso, allineate su due file lungo sentieri pavimentati, scelte soprattutto tra quelle più vistose e apprezzate da cinesi e stranieri, come camelie, magnolie, peonie arboree; c'erano anche bonsai e fiori recisi, soprattutto per abbellire le chiatte e le case che sorgevano lungo il fiume durante le feste come il Capodanno. Un'altra possibile fonte di approvvigionamento erano i giardini privati dei grandi hong, i mercanti cinesi autorizzati a commerciare con gli europei; quelli più ricchi possedevano mirabili giardini, dove venivano coltivate piante difficilmente reperibili nei viavai. Sicuramente Kerr visitò quello di Pinkaqua II, cui, tramite Lance, Banks aveva fatto pervenire numerosi doni. Il mercante lo ricambiò con diversi oggetti di raffinato artigianato, un bonsai ultracentenario e alcune rare peonie moutan. A poche settimane dal suo arrivo in Cina, Kerr era già in grado di rispondere ad alcuni degli interrogativi di Banks e di predisporre un primo invio che partì già a febbraio a bordo della nave della compagnia delle Indie Henry Addington, dove era stata allestita una specie di serra viaggiante. Non fu un viaggio facile; infatti nel frattempo tra Francia e Inghilterra erano ricominciate le ostilità e le navi britanniche, che avevano fatto il viaggio di andata in tempo di pace ed erano prive di salvacondotti, il 14 febbraio, mentre incrociavano nel mar della Cina presso Pulo Aura, furono attaccate da un'imponente flotta francese e dovettero aprirsi la strada a cannonate. Dopo la lunga traversata, arrivarono ai Docks di Londra ad agosto; marinai e comandanti furono festeggiati come eroi nazionali e premiati con denaro e oggetti simbolici; quel che più conta per noi, molte piante "belle, interessanti e utili", come si sarebbe espresso Banks, andarono ad arricchire le aiuole di Kew. Ecco l'elenco (tra parentesi i nomi attuali): Gardenia spinosa (Catunaregam spinosa), Gardenia radicans (G. jasminoides), Pittosporum tobira, Lilium japonicum, Lililium tigrinum (L. lancifolium), Nandina domestica, Dianthus japonicus, Crataegus glabra (Photinia glabra), Aster hispidus, Sagittaria obtusifolia (Limnophyton obtusifolium), Begonia discolor (B. grandis subsp. grandis), Pinus lanceolata (Cunninghamia lanceolata), Juniperus chinensis, Taxus macrophylla (Podocarpus macrophyllus). Insieme a loro, viaggiarono le lettere di Kerr per Aiton e Banks (ho potuto consultare l'indice, ma non il testo), contenenti una lista delle piante inviate (che saranno state molto più numerose, se corrisponde al vero l'affermazione di Livingstone che solo una pianta su 100.000 aveva la speranza di arrivare viva in Inghilterra) e note sui bonsai, la fabbricazione di corde, il giardinaggio cinese e il giardino di Pinkaqua, il metodo per preparare il terriccio per la coltivazione in vaso, l'uso del letame. Un altro invio raggiunse l'Inghilterra l'anno successivo, a bordo della Winchelsea; per il 1805 gli invii registrati nel catalogo di Kew sono solo tre: Mussaenda pubescens, Nymphea pigmaea (N. tetragona), Corchorus japonicus (Kerria japonica). Un destino e una fine misteriosi Un invio tanto modesto sarà da imputare alle vicissitudini del viaggio per mare, ma altri segni ci dicono che qualcosa doveva cominciare a non funzionare. Sappiamo dal diario di viaggio di Kerr, l'unico conservato, che nel febbraio 1805 egli partì da Macao per l'isola di Luzon nelle Filippine, dove si trovò coinvolto in infinite discussioni con le autorità per avere il permesso di inviare in Inghilterra semi e piante vive; si trattenne nell'isola fino alla fine dell'estate, visitando varie località e raccogliendo diversi esemplari, di cui quasi nulla arrivò vivo in patria. Lo stesso anno dovette visitare anche Giava, ma non abbiamo informazioni precise in merito. Questo viaggio potrebbe essere indizio del crescente disagio della sua situazione a Canton, Secondo il dottor Linvingstone, che è la nostra principale fonte sul soggiorno cinese di Kerr, la sua posizione sociale fece di lui un disadattato. La rigida stratificazione in classi della società britannica del tempo vigeva anche nelle factories di Canton; da una parte c'erano i gentiluomini: gli impiegati di alto livello della Compagnia delle Indie, i mercanti accreditati, i capitani e gli ufficiali delle navi, i visitatori ricchi e altolocati; dall'altra c'era la bassa manovalanza di impiegati, nonché uno stuolo di servitori cinesi. Nonostante l'altisonante titolo di Giardiniere di sua Maestà britannica, Kerr era fuori posto con gli uni e con gli altri; inoltre il suo stipendio di 100 sterline annue, buono per un giardiniere in patria, era poca cosa in Cina, dove tutto era carissimo; non gli bastava neppure per rinnovare il guardaroba, tanto che per la sua estrema povertà cominciò ad essere guardato con disprezzo dai suoi stessi servitori cinesi. Sempre secondo Livingstone, dopo tre o quattro anni in cui si mostrò solerte e attivo, incominciò a cambiare carattere; era svogliato, procrastinava ogni cosa; avendo contratto "cattive abitudini estranee al suo carattere" cominciò a incorrere in frequenti cadute, riportando ferite e contusioni che lo rendevano inabile al lavoro per giorni. Qualche studioso ha pensato all'alcool, ma l'indiziato più accreditato è l'oppio. Questa tesi è stata abbracciata con entusiasmo dal romanziere Amitav Ghosh nel suo Il fiume dell'oppio, dove uno dei personaggi, il giardiniere cinese Ah Fey, si vanta di essere stato il fornitore di Kerr tanto per le piante quanto per l'oppio. Quello che è certo è che gli invii documentati dal catalogo di Kew si fanno sempre più magri: nel 1806, a bordo della Hope arrivano Gardenia macrantha (Euclinia longiflora) e Lonicera japonica e a bordo della Wilmer Caske Paederia foetens. Nel 1807, a bordo della Cuffnells è la volta diRosa banksiae, nella forma bianca a fiori doppi, e di una Camellia sasanqua; in date che non è possibile precisare, si aggiungono Cupressus pendula Thun. e Bletia hyacinthina (Bletilla striata). Oltre che in patria, Kerr dovette inviare qualche pianta anche al giardino botanico di Calcutta; sappiamo inoltre che fece eseguire da alcuni artisti cinesi delle illustrazioni di piante, che per qualche anno furono custodite nel Museo della Compagnia delle Indie. Secondo il Gardener Magazine, gli si devono inoltre l'introduzione di diverse varietà di crisantemi, di alcune peonie arboree e di Enkianthus quinqueflorus. Come si vede, siamo lontanissimi dalle 238 specie attribuitegli da molte fonti. Del resto, non risulta alcun invio dopo il 1807, anche se Kerr rimase a Canton fino al 1812. Nel 1810, per volontà di Banks, nell'Isola degli schiavi presso Colombo (Sri Lanka) era stato fondato un giardino botanico e quell'anno Kerr ne venne nominato primo soprintendente. Una decisione che può stupire, se davvero egli era divenuto oppiomane, abbandonando la vita di dedizione al lavoro e sobrietà tanto raccomandata da sir Joseph. Tuttavia è possibile che Banks, sempre molto corretto verso i suoi dipendenti e sollecito verso i suoi protetti, possa aver visto in questo incarico un modo per salvare Kerr, allontanandolo dalle cattive abitudini. Ma ormai era tardi. Il giardiniere morì a Ceylon già nel 1814, poco più di un anno dopo aver assunto l'incarico. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Per concludere, una piccola curiosità: una distilleria di Hawick, il paesino dei Borders scozzesi dove Kerr era nato in una data imprecisata, gli ha dedicato il William Kerr's Border Gin; inutile dire che l'azienda presenta Kerr come un eroe locale, raccoglitore instancabile che introdusse in Europa 238 piante, di cui si vuole celebrare "il coraggio e il senso di avventura, senza menzionare l'esploratore interiore che è in tutti noi". Kerria, simbolo di primavera e di cadicità Quando ero bambina, nel giardino di mia nonna c'erano grandi cespugli dai fiori gialli che lei chiamava Corchorus. Solo più tardi ho scoperto che si trattava di Kerria japonica (quei cespugli ci sono ancora, e uno lo vedete nella fotografia qui accanto). Nel 1771, sulla base di un esemplare d'erbario, Linneo aveva attribuito questo arbusto di apparente origine giapponese, con fiori bianchi simili a quelle delle fragole, al genere Rubus con il nome R. japonicus. Nel 1784, Thunberg, sulla base di un esemplare d'erbario da lui raccolto in Giappone, presumibilmente mal conservato, lo ribattezzò Corchorus japonicus; una solenne cantonata, se si pensa che i veri Corchorus sono Malvaceae. A rimettere le cose a posto pensò de Candolle che nel 1817 in una comunicazione alla Linnean Society lo assegnò correttamente alla famiglia Rosaceae e lo attribuì a un genere proprio, Kerria, in onore di "William Kerr che, secondo la testimonianza di Robert Brown, ha introdotto in Europa dalla Cina un gran numero di piante, tra cui in particolare proprio quella di cui ci stiamo occupando". Per chissà quale strane ragioni, il vecchio sinonimo di Thunberg si è insinuato nei cataloghi dei vivai, dove a volte è ancora usato. Kerria japonica (L.) DC. è l'unica specie del genere Kerria. E' di origine cinese, ma deve essersi naturalizzata in Corea e in Giappone da tempi immemorabili. Nei giardini è comune soprattutto 'Pleniflora', la varietà a fiori doppi, simili a pon-pon dorati; di origine orticola, era coltivata da secoli in Cina quando Kerr la importò in Europa, avendola presumibilmente acquistata in un Fa-Tee. La forma selvatica ha invece cinque petali e arrivò in Europa qualche decennio più tardi. Meno vigorosa della sorella a fiori doppi, continua ad essere meno comune nei giardini, così come la forma con foglie variegate, 'Variegata' (detta anche 'Picta'). Ne esiste anche una forma con fiori bianchi, 'Alba'; è rara ed è improbabile che l'esemplare su cui lavorò Linneo vi appartenesse; più facilmente, come ipotizzò de Candolle, i fiori originariamente gialli si erano scoloriti seccando (del resto, i fiori di Kerria tendono a sbiadire al sole, motivo che consiglia di scegliere per loro una posizione un poco ombreggiata). In ogni caso, soprattutto nella forma doppia, continua ad essere uno degli arbusti più popolari nei giardini, anche perché è adattabile e capace di prosperare per decenni quasi senza cure. I fiori sono di un colore fin troppo sfacciato, accettabile tuttavia come solare araldo della primavera. Ha un ruolo importante nella cultura giapponese, che con il poetico nome di Yamabuki ("brezza di montagna") la celebra con liriche e dipinti e le ha assegnato connotazioni simboliche contraddittorie. Fiore della primavera dal colore dell'oro, associato dunque al rigoglio e alla ricchezza, è anche simbolo malinconico di caducità, di transitorietà: la sua ricchezza è soltanto un'illusione, poiché i suoi fiori non danno frutto (nella forma doppia è infatti sterile). Nella scheda qualche notizia in più su altre varietà. Doveva essere nata sotto una cattiva stella l'Ambasceria Amherst, che tra il 1816 e il 1817 visitò la Cina. Iniziata tra grandi aspettative, fallì i suoi obiettivi diplomatici per la caparbietà e l'orgoglioso nazionalismo tanto dei cinesi quanto dei britannici; i suoi risultati scientifici andarono letteralmente in fumo tra gli scogli dell'Indonesia. Eppure, per la prima volta un nutrito gruppo di occidentali poté percorre per mesi l'interno del Celeste Impero e le numerose narrazioni che diversi membri della spedizione pubblicarono al loro ritorno contribuirono a cambiare la percezione della Cina in Europa. Una la scrisse il medico e naturalista Clarke Abel, che, se perse tutti i frutti delle sue ricerche, si guadagnò almeno l'onore di dare il proprio nome ai generi Abelia e, indirettamente, Abeliophyllum. Primo disastro: mi spezzo ma non mi piego Nel 1815, la Gran Bretagna era un paese orgoglioso dei propri successi: aveva tenuto testa alla Francia rivoluzionaria e napoleonica; aveva sconfitto e imprigionato l'odiato Boney; era di fatto diventata l'unica grande potenza coloniale ai danni non solo della Francia, ma anche di Spagna e Olanda; le sue navi dominavano gli oceani e le sue merci invadevano i mercati. Ma non quello cinese, ancora e sempre chiuso all'esterno. Le uniche transazioni commerciali passavano dagli empori concessi agli occidentali a Canton (Guanghzou), a condizioni rigorosamente dettate dai cinesi. Una situazione sempre più mal tollerata dalla Compagnia delle Indie che, insofferente delle ingerenze del viceré di Canton, chiese al re d'Inghilterra di inviare in Cina una missione diplomatica ufficiale, per cercare di ottenere condizioni più favorevoli. Nell'entusiasmo delle recenti vittorie e certo di un risultato positivo, il governo britannico accettò la richiesta, tanto più che la Compagnia si sarebbe fatto carico delle spese. Venne organizzata una ambasceria in grande stile (tra diplomatici, marinai, soldati, vi parteciparono diverse centinaia di persone), capeggiata da lord Amherst, affiancato da Henri Ellis e da Thomas Stauton, che da ragazzo aveva preso parte alla prima missione diplomatica britannica in Cina, l'ambasceria Macartney. Fu consultato pure Banks, che vent'anni prima aveva collaborato alla preparazione di quella missione, e grazie a lui la spedizione assunse anche carattere scientifico. Fu così che il dottor Clarke Abel, che inizialmente avrebbe dovuto essere solo il medico della spedizione, ne divenne anche il naturalista ufficiale. Banks lo istruì personalmente sui suoi compiti, gli procurò libri e attrezzature e gli affiancò un abile assistente, il giardiniere Thomas Hooper, che da cinque anni lavorava a Kew ed era considerato un grande esperto nella cura e nella riproduzione delle piante. L'ambasceria lasciò l'Inghilterra l'8 febbraio 1816, a bordo di due navi da guerra: l'Alceste, comandata da Murray Maxwell, e la Lyra, comandata a Basil Hall. Dopo sei mesi di navigazione, con brevi scali a Rio de Janeiro, Giava e Hong Kong, giunse in Cina all'inizio d'agosto; i diplomatici sbarcarono alla foce del Fiume bianco (Pei Ho), da dove avrebbero proseguito per Pechino. Calcolando che la missione avrebbe richiesto parecchi mesi di trattative, Amherst diede appuntamento alle navi per la fine dell'autunno a Canton, dove contava di reimbarcarsi per il viaggio di ritorno. Maxwell e Hull ne approfittarono per esplorare il Mar Giallo, quasi sconosciuto agli europei. Visitarono il mare di Pogai, toccarono le coste occidentali della Corea e le isole Ryukyu; in entrambi i casi (si trattava di stati tributari della Cina) furono i primi europei a prendere contatto con le autorità locali, che ignorarono la proibizione cinese in tal senso. I due capitani poterono correggere molti errori delle carte; durante il viaggio furono anche raccolte collezioni naturalistiche rilevanti. Ma torniamo a Amherst e ai suoi; giunto a Pechino all'alba il 29 agosto, fu immediatamente convocato per essere ricevuto dall'imperatore al Palazzo d'estate. Deciso a non eseguire il kowtow, il tradizionale omaggio rituale, consistente nel piegarsi fino a toccare la terra con la fronte per nove volte, Amherst rifiutò la convocazione, dichiarandosi malato e provato dal viaggio notturno. Il kowtow, che implicava il riconoscimento della sovranità universale del Figlio del Cielo, era infatti ai suoi occhi lesivo dell'onore della Gran Bretagna. A sua volta, l'imperatore considerò il rifiuto dell'ambasciatore britannico un oltraggio irrimediabile e ordinò che gli stranieri partissero immediatamente. Dunque la missione diplomatica fallì ancora prima di cominciare. Non così quella scientifica. Per raggiungere Canton, la missione infatti attraversò buona parte della Cina orientale, muovendosi per lo più lungo il Grande Canale, in un lungo viaggio di oltre quattro mesi. Tranne brevi tratti, la delegazione si mosse via acqua. Era la prima volta che un gruppo consistente di occidentali visitava quelle regioni. Ovunque passassero, il solerte Abel osservava quale vegetazione spontanea e quali coltivazioni crescessero lungo le rive; approfittò di ogni sosta per esplorare la campagna alla ricerca di piante; raccolse piante e semi, altri ne acquistò (ad esempio, in un mercato fece incetta di varie specie di felci, vendute come piante medicinali). Lo affiancava l'abile Hooper, che accudiva le piante vive, seccava e impacchettava semi, spesso di specie e talvolta di generi sconosciuti. Ovunque, Abel è affascinato dalla bellezza e dall'esotismo della flora, tanto spontanea quanto coltivata: i loti che letteralmente ricoprono il lago Kunming presso il Palazzo d'estate o vengono coltivati in grandi vasi dove nuotano pesci rossi e dorati; il sorgo che cresce altissimo; le sofore (Syphnolobium japonicum) che ombreggiano le rive; il Ficus repens così rigoglioso da nascondere le mura della cittadella di Nan-Kuo; i boschi di querce e conifere; le piante nanizzate (noi, con parola giapponese, abbiamo imparato a chiamarle bonsai); le peonie mountan che giudica le piante più belle che abbia mai visto. Non disdegna comunque le verdure che vede negli orti (peperoncini, melanzane, zucche e cetrioli e l'immancabile Pe Tse, ovvero Brassica chinensis, l'ancora oggi popolarissimo pak choi; le arachidi, così comuni che la parte aerea è consumata come verdura), gli alberi da frutto, le piante industriali; lo interessano particolarmente quelle oleifere (ricino, sesamo e Camelia oleifera, di cui è il primo occidentale a segnalare l'uso). L'incontro decisivo, quello che l'avrebbe fatto entrare nella storia della tassonomia botanica, avviene sulle rive del lago Po-Yang, a sud est di Shangai, nei pressi del villaggio di Ta Koo Tang, dove l'ambasceria sosta dal 14 al 19 novembre, in attesa che cessino le piogge. Sono eleganti cespugli dai rami flessuosi; i fiori bianchi sono quasi sfioriti, ma rimane la bellezza dei calici rosati persistenti. Di lì a pochi anni, riceveranno il nome con il quale li conosciamo: Abelia chinensis. Il lungo tragitto si concluse giusto il giorno di capodanno (1 gennaio 1817), quando la delegazione raggiunse Canton, dove la attendevano le navi. In attesa della partenza per l'Inghilterra, Abel visitò Canton, si informò sulle tecniche di preparazione della Moxa (pratica tradizionale basata sulla combustione di polvere di Artemisia vulgaris) e fece incetta di piante, soprattutto nei celebri vivai Fati, sulla riva sud del fiume, a 3 miglia di Canton. C'erano anche pianticelle di Camellia sinensis, su cui Banks contava per avviare piantagioni di tè nelle colonie britanniche. Secondo disastro: mi spezzo e vado in cenere Il 23 gennaio 1817 l'Alceste e la Lyra salparono alla volta dell'Inghilterra, facendo rotta per Giava. Dopo aver toccato Manila (3 febbraio), il 17 nello stretto di Gaspar, l'insidioso braccio di mare che separa le isole indonesiane di Belitung e Banka, l'Alceste urtò uno scoglio sommerso; si produsse una vasta falla che rese inutile il lavoro delle pompe. Il capitano Maxwell fece imbarcare sulla scialuppa più grande Amherst e diresse la costruzione di una zattera che, insieme alle imbarcazioni più piccole, riuscì a portare in salvo marinai e passeggeri, sbarcandoli sulla vicina isola di Pulo Leat, insieme a una certa quantità di bagagli e provviste. Il tutto si svolse con professionalità e disciplina e, come da tradizione, Maxwell fu l'ultimo ad abbandonare la nave, all'alba del 19 febbraio. Un solo neo per il povero Abel: per ordine di "un nobiluomo dell'ambasceria", un marinaio svuotò il mare le casse che contenevano i 300 pacchi di semi tanto coscienziosamente raccolti e conservati da lui e Hooper e se ne servì per portare in salvo gli abiti di quel gentiluomo. Pulo Leat era in gran parte ricoperta da un'impenetrabile foresta di mangrovie e non sembrava in grado di sostentare per un luogo periodo un gruppo di circa 300 persone, soprattutto per la scarsità di acqua potabile. Maxwell ordinò al suo primo comandante, H.P. Hoppner, di dirigersi il più velocemente possibile a Batavia, insieme a lord Amherst e a una cinquantina di uomini, per chiedere soccorso; un viaggio che, comunque, tra andata e ritorno, avrebbe richiesto almeno nove giorni. Una squadra di marinai fu inviata a recuperare ciò che rimaneva sul relitto (comprese le collezioni di Abel), ma, priva di armi, dovette desistere alla vista di un gruppo di pirati malesi intenti al saccheggio. Mentre il problema dell'acqua veniva risolto scavando un pozzo, Maxwell dispose a difesa i superstiti cannoni dell'Alceste e fece costruire una palizzata attorno all'accampamento. Il 22 inviò una squadra armata per cercare di riprendere la nave, ma i pirati risposero appiccandole il fuoco. L'incendio divampò tutta la notte; le fiamme distrussero, tra l'altro, tutte le collezioni tanto pazientemente raccolte da Abel (non solo piante, ma anche animali, conchiglie, rocce, oggetti etnografici). All'alba del 26 febbraio i pirati tornarono in forze, a bordo di due praho e due canoe. Gli inglesi riuscirono a respingere l'attacco e ad affondare un praho. Ma nei due giorni successivi ne arrivarono altri e incominciarono a bombardare l'accampamento. Il 14 marzo nella baia c'erano ormai quattordici praho. Mentre si teneva un disperato consiglio di guerra, una nave apparve all'orizzonte; era la Ternate, una nave della Compagnia delle Indie armata con 16 cannoni, inviata da Batavia in risposta all'appello di Lord Amherst. I pirati batterono in ritirata. Trasportati a Batavia, dove intanto Amherst si era procurato un'altra nave, i membri della sfortunata spedizione poterono intraprendere il viaggio di ritorno, durante il quale si fermarono a Sant'Elena per una visita a Napoleone (che evidentemente stava diventando un'attrazione turistica). Durante l'incontro con Amherst, l'ex imperatore pronunciò una frase che è rimasta celebre: "La Cina è un gigante addormentato. Quando si sveglierà, farà tremare il mondo". Al povero Abel rimaneva solo una speranza: prima di lasciare Canton, aveva donato alcuni doppioni delle piante più rare a Stauton (agente della Compagnia delle Indie, quest'ultimo era rimasto in Cina). Stauton in effetti poco dopo rientrò in Inghilterra e gliele restituì. Così Abel poté documentare almeno in parte le proprie ricerche, raccontando le sue avventure in Narrative of a Journey in the Interior of China, pubblicato nel 1818. Determinante fu l'aiuto di Banks, che gli mise a disposizione la sua biblioteca e, per la determinazione delle piante citate, lo affidò al solito Robert Brown (ormai mi sono convinta che avesse giornate di 36 ore e non dormisse mai). Il volume contiene il racconto dettagliato del viaggio, punteggiato dalla citazione minuziosa delle piante viste e raccolte (non sempre identificabili con certezza); è illustrato da diverse tavole, cinque delle quali botaniche. Per la storia della scienza, è importante l'appendice che contiene tra l'altro la prima segnalazione in Occidente dell'orango di Sumatra (che in onore di Abel sarà poi battezzato Pongo abelii); un breve paragrafo è dedicato alle "querce cinese", Quercus densifolia (non è chiaro a quale specie attuale corrisponda) e Q. chinensis, oggi Castanopsis sclerophylla (quella di Abel è la prima segnalazione); un altro alle piante oleifere, tra cui Camellia oleifera, descritta per la prima volta e così battezzata dallo stesso Abel. Affidata alla penna di Brown, conclude l'appendice la descrizione delle tre specie nuove: Hamamelis chinensis (oggi Loropetalum chinense, la prima segnalazione di una specie di questo genere), Eurya chinensis, e Abelia chinensis, appartenente a un genere nuovo, dedicato con "amichevole parzialità" allo sfortunato scopritore. In quale non fu molto fortunato neppure in seguito: il viaggio e il libro gli procurarono l'ammissione alla Royal Sociery (1819), ma quando lord Amherst venne nominato Governatore Generale dell'India lo volle con sé come chirurgo capo; e propri in India, a Kanpur, morì a soli 37 anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Otre a Abel, altri membri della spedizione diedero alle stampe le loro memorie di viaggio, contribuendo a cambiare l'immagine della Cina: se per gli uomini del Settecento era paese di grande civiltà da cui trarre insegnamento, ora diveniva l'Impero immobile (come lo chiamerà Peyrefitte), tagliato fuori dalla corrente della storia dall'autocentrismo, dalla diffidenza verso gli stranieri e da un potere tirannico, ma in sostanza inefficace e impotente. La prima guerra dell'oppio vi troverà senza difficoltà la sua giustificazione ideologica. Abelia e Diabelia: peggio i pirati o i tassonomisti? Il genere Abelia R. Br., appartenente alla famiglia Caprifoliaceae (Linneaceae secondo altre classificazioni), è molto noto agli appassionati per almeno una specie assai coltivata (oltre a godere il vantaggio di essere il primo in ordine alfabetico in qualsiasi enciclopedia di giardinaggio). La prima ad arrivare in Europa fu A. chinensis, dove fu introdotta nel 1844 da Robert Fortune; l'anno dopo arrivò A. uniflora. Ben presto entrambe furono soppiantate da A. x grandiflora, un ibrido orticolo tra le due specie, ottenuto la prima volta nel 1886 nel vivaio Rovelli a Pallanza. E' un arbusto semi-sempreverde sterile a lunga fioritura, in fiore fino ai primi freddi, un tempo molto popolare nei giardini. Infatti nel corso dei decenni, le possibilità di scelta hanno continuato ad allargarsi e, soprattutto negli ultimi trent'anni, sono state immesse nel mercato decine di nuovi ibridi, sfruttando anche le potenzialità di altre specie, come A. macrotera; particolarmente popolari quelli a foglie variegate, almeno una dozzina, le varietà compatte e quelle con foglie autunnali dai colori vivaci. Qualche approfondimento nella scheda. Eppure la maledizione del dedicatario sembra trasmettersi anche sul suo genere celebrativo. Qualche anno fa, sulla base delle ricerche filogenetiche, è stata evidenziata una stretta parentela tra tutti i generi della sottofamiglia Linnaeoideae (Abelia, Diabelia, Dipelta, Kolkwitzia, Linnaea, Vesalea, Zabelia); su questa base nel 2013 M. Christenhusz ha proposto di far confluire in Linnaea tutti gli altri generi, ad esclusione di Zabelia. Ad esempio, A. chinensis R. Br. diventa Linnaea chinensis (R.Br.) A.Braun & Vatke. La proposta è stata accolta da alcuni grandi repertori, come Plants of the Word. Ma questa volta forse i pirati (mi correggo: i tassonomisti) non avranno il sopravvento. Altri ricercatori la pensano in modo molto diverso; ad esempio, in uno degli studi più recenti (2015) H.F. Wang sostiene l'evidenza di sei generi distinti: quattro dell'Asia orientale (Abelia, Diabelia, Dipelta, Kolkwitzia), uno messicano (Vesalea), uno circumboreale (Linnaea). Questa linea è quella seguita da Plant list e, quello che forse più conta, dai ricercatori e dai repertori cinesi e giapponesi. Ad esempio, l'autorevole Flora of China elenca cinque specie di Abelia, diffuse tra Cina, Corea e Giappone: A. chinensis, A. forrestii, A. x grandiflora, A. macrotera, A. uniflora (un complex che raccoglie un gruppo molto variabile un tempo assegnato a specie diverse). Secondo questa soluzione, meno traumatica e a quanto pare anche meglio supportata dalle evidenze filogenetiche, il genere Abelia viene ridotto (un tempo comprendeva 30-40 specie, oggi come si è visto, cinque), ma confermato; continuano a farne parte le specie più note e coltivate, mentre ad essere escluse e a cambiare nome sono specie meno importanti dal punto di vista orticolo: la messicana A. floribunda, unica specie non asiatica, diventa Vesalea floribunda; il nuovo genere Diabelia va ad accogliere le tre specie cinesi D. serrata, D. spathulata, D. tetrasepala; mantiene la sua autonomia anche Zabelia. Diabelia significa "Abelia diversa, altra Abelia" e quindi è a tutti gli effetti un altro genere dedicato al nostro travagliato eroe. Troverete una breve presentazione nella scheda. Una curiosità: Zabelia è invece un falso amico, essendo dedicata al botanico tedesco H. Zabel. Abeliophyllum ovvero la forsizia bianca In realtà, già da tempo esisteva un altro genere indirettamente legato a Abel. Nel 1919 il botanico giapponese Nakai Takenoshin raccolse un arbusto dai profumati fiori bianchi a Jincheon, nella Corea meridionale. Sulla base della forma della foglie lo denominò Abeliophyllum ("con le foglie simili a Abelia") distichum. Appartenente alla famiglia Oleaceae, ha fiori assai simili alla Forsythia e, come quest'ultima, fiorisce all'inizio della primavera. In natura è sempre più raro e minacciato di estinzione: è presente in sole nove stazioni in tre province della Corea meridionale, con una distribuzione molto frammentata; la minaccia più grave è la deforestazione, che riduce progressivamente la quantità e la qualità del suo ambiente naturale. In coltivazione, poco nota fino a pochi anni fa, si sta invece sempre più affermando: grazie alla precocità della fioritura, con una profusione di candidi fiori stellati dal delicato profumo, è una pregevole acquisizione per i nostri giardini. Per quanto mi riguarda, l'ho messa in cima alla mia lista dei desideri. Qualche informazione in più nella scheda. Arrivato in Cina per insegnare scienze agli studenti cinesi del Collegio fondato dai padri lazzaristi, il sacerdote Armand David si trasforma in un leggendario esploratore naturalista. Percorre per lo più a piedi 11.000 chilometri, affronta la fame, un tentativo di avvelenamento, un naufragio e ogni genere di malattie, salva dall'estinzione il cervo che porta il suo nome, individua il panda e centinaia di animali e piante. Ma anche l'albero che lo ricorda, Davidia involucrata, è protagonista di una storia molto avventurosa. Da missionario a esploratore naturalista Al termine della seconda guerra dell'Oppio, la Cina è costretta a firmare la Convenzione di Pechino (1860) che, tra l'altro, concede ai missionari cristiani di muoversi liberamente nel paese. Ad approfittarne per primi, i missionari francesi, da tempo presenti in Cina: dopo la soppressione dei gesuiti (come padre d'Incarville, primo diffusore della flora cinese in Europa), dal 1783 a Pechino si sono installati i lazzaristi (nome con cui è comunemente conosciuta la Congregazione della missione). Come i loro predecessori, sono riusciti a rimanere in Cina e ad ottenere un sia pur minimo radicamento utilizzando come copertura le competenze tecniche e scientifiche. Nel corso degli anni, soprattutto dopo il trattato di Nanchino, hanno creato piccole missioni in diverse parti del paese. La nuova situazione apre favorevoli prospettive; con l'appoggio del ministero degli esteri francese (che vede nei lazzaristi uno strumento per estendere la sfera d'influenza della Francia in Cina), l'ordine decide di aprire a Pechino un grande Collegio, destinato alla formazione dei proseliti cinesi. E' così che nell'estate del 1862 arriva a Pechino, con il compito di insegnare scienze naturali nel Collegio appena fondato, un giovane sacerdote lazzarista, Armand David. Ha una notevole esperienza in campo educativo (per dieci anni ha insegnato scienze al Collegio di Savona), ed è un naturalista le cui competenze spaziano a 360° dalla zoologia alla botanica alla mineralogia. Fin da subito, inizia ad affiancare all'intenso lavoro didattico e all'attività sacerdotale brevi escursioni naturalistiche nei dintorni della capitale per raccogliere materiali, destinati in parte al museo didattico del Collegio, in parte ad alcuni professori dell'Accademia delle Scienze e del Museo di storia naturale di Parigi, cui li ha promessi prima di partire. Sia nel 1862 sia nel 1863, fa anche due viaggi più lunghi (a Kalgan, a nord ovest di Pechino, a piedi della grande muraglia, e a Jehol, a nord est) che, se hanno lo scopo principale di apprendere meglio la lingua, gli permettono anche di incrementare le sue collezioni. In entrambi i casi, invia a Parigi alcune casse di semi e esemplari di animali e piante, lasciando stupefatti i professori parigini, certamente per la loro quantità e qualità, ma soprattutto dell'eccezionale valore delle note di David. E' un'occasione da non perdere! Su loro richiesta, il ministro della Pubblica Istruzione chiede al superiore generale dei lazzaristi di liberare padre David dal lavoro del collegio, in modo che possa dedicare tutto il suo tempo all'esplorazione naturalistica. Il superiore accetta, e il missionario naturalista si trasforma in un esploratore a tempo pieno, le cui spese saranno da questo momento a carico del Ministero della pubblica istruzione e del Museo di Scienze Naturali di Parigi. La rete missionaria fornirà invece l'appoggio logistico, sia fornendo servitori e aiutanti, sia soprattutto mettendo a disposizione di David i locali delle missioni distaccate, dove il sacerdote naturalista farà tappa o creerà le proprie basi operative. Avrà così inizio una delle più straordinarie epopee della ricerca naturalistica, destinata a gettare le basi della conoscenza scientifica del territorio cinese, e - per quanto ci riguarda - ad arricchire i nostri giardini di decine e decine di nuove piante. Il primo eccezionale risultato venne raggiunto mentre ancora David si preparava alla prima spedizione. Arrampicandosi sul muro che circondava il vietatissimo parco imperiale di Nanhaizi, a una lega a sud di Pechino, egli scorse in lontananza un branco di cervo di curiosissimo aspetto. Corrompendo i guardiani, riuscì a procurarsi dapprima alcune pelli, poi le ossia di quella che risultò una specie del tutto sconosciuta (oggi si chiama Elaphurus davidianus, ovvero cervo di padre David); come, proprio grazie all'intraprendenza del sacerdote, questi rari cervidi siano riusciti di misura a scampare all'estinzione lo potete leggere in questo articolo. Tre spedizioni a nord, a sud e al centro della Cina Tra il 1866 e il 1874, padre David fu impegnato in tre spedizioni. La prima durò sette mesi e mezzo (marzo-ottobre 1866) ed ebbe per meta la Mongolia meridionale (regione dell'Urato); il sacerdote viaggiò insieme a un cinese convertito, Ouang Thomas, e, nella fase centrale dell'esplorazione, della famosa guida di origine mongola Samdadchiemba e del confratello laico Chevrier. Il gruppo dovette affrontare la fatica di una strada spesso impercorribile, il clima rigido, la scarsità d'acqua e di cibo, il pericolo dei lupi (che li costringeva a dormire nelle tende insieme ai loro muli), dei banditi e dei drappelli di soldati tatari. Ogni sera padre David annotava scrupolosamente sul diario di viaggio ciò che aveva osservato durante la giornata: la natura del suolo, la flora e la fauna, i gruppi umani con la loro cultura materiale e le loro credenze. Nonostante si trattasse di una regione aspra e semidesertica, dove la penetrazione cinese stava distruggendo quanto rimaneva sia della cultura mongola sia del fragile manto forestale, alla fine il risultato non fu disprezzabile: 176 uccelli, 59 mammiferi, 150 piante e 680 insetti. Ma David ne fu molto deluso, come scrisse ai corrispondenti parigini: "Forse sapete che l'anno scorso ho passato otto mesi nell'Urato. Vi ho speso molto denaro, perso il mio tempo e le mie fatiche, perché è un paese poverissimo, anche se a Pechino mi aveano fatto credere il contrario". Per il secondo viaggio (che durerà circa due anni, maggio 1868-giugno 1870), David sceglie dunque la Cina sudoccidentale e il Tibet orientale, alla ricerca delle foreste primitive segnalate da altri missionari. E questa volta farà centro: la regione di Ya'an (nell'attuale Sichuan) è ancora oggi una delle più ricche di biodiversità. Raggiunta Shangai, la piccola spedizione (David ha sempre con sè Ouang Thomas, altri compagni di viaggio si aggiungono nei diversi tratti) dapprima risale il Fiume Azzurro in nave, ma a causa delle piene rimane per quattro mesi a Jiujiang (una zona modesta agli occhi di padre David, che tuttavia gli frutta la scoperta di una nuova specie di rana, Rana latrans). Il 13 ottobre riparte; il viaggio è reso difficile dalle rapide, dall'ostilità della popolazione, e padre David si ammala gravemente, forse vittima di un avvelenamento (era un metodo consueto in Cina per liberarsi dei "cani stranieri"). Ultima tappa del viaggio in nave è Chongquing, nella provincia di Sichuan; da qui, in portantina (gli è stato raccomandato di mostrarsi il meno possibile: l'ostilità contro gli stranieri, in una Cina frustrata dagli accordi diseguali imposti dalle potenze occidentali, è generale) raggiunge il principato semi indipendente di Muping (oggi Baoxing), dove i lazzaristi avevano fondato un collegio; è una regione di etnia tibeto-birmana (Mantze), di religione buddista, situata a più di 2000 m di altitudine. Al centro di un'area ricchissima di biodiversità, nel Tibet orientale, questa sarà la base di padre David per i successivi nove mesi. Nelle casse che da Muping spedisce a Parigi (nonostante le enormi difficoltà, in mancanza di tutto, per conservare e imballare il materiale) prenderanno posto 676 piante, 441 uccelli, 145 mammiferi; tra questi ultimi, le acquisizioni più note, il rinopiteco dorato ma soprattutto il panda (che sarà identificato e descritto scientificamente nel 1870 da Milne-Edwards). Le acquisizioni botaniche non sono meno significative: moltissime delle piante che associamo a padre David grazie agli specifici davidii, davidianus, armandii vengono da qui, come pure - lo vedremo meglio tra poco - la Davidia involucrata; altre ricordano la loro provenienza con lo specifico moupinensis. A novembre David lascia Muping (dove ha sofferto ogni tipo di privazioni e varie gravissime malattie); prima di rientrare fa una lunga deviazione sull'altopiano del Quingai (dicembre 1869-marzo 1870) dove scopre molte nuove specie di uccelli e la salamandra cinese, la più grande del mondo (Andrias davidianus). Da qui raggiunge Chengdu, dove si imbarca nuovamente sul Fiume azzurro alla volta di Shangai. Lungo la strada conta di fermarsi alla missione francese di Tientsin; ma al suo arrivo scopre che appena una settimana prima l'intera missione è stata massacrata in una rivolta. La terza e ultima spedizione (ottobre 1872-marzo 1874) ebbe per terreno la Cina centrale, dai monti Quinling allo Jiangxi. Poiché il suo fisico era ormai provato dalle tante malattie, accompagnato da due servitori cristiani ora il sacerdote si muoveva in carretta; ricadute e episodi di prostrazione fisica lo costrinsero più volte a soste prolungate. Dopo aver rinunciato alla meta che si era proposto, il Gansu (inaccessibile per una ribellione musulmana), decise di esplorare i monti Qinling, una barriera montana che fa da spartiacque tra i bacini del Fiume giallo e del Fiume azzurro e segna il confine tra il clima temperato del nord e quello subtropicale del sud (proprio per questo è un'altra area particolarmente ricca di animali e piante). Quando raggiunse la valle dello Han, un affluente del Fiume azzurro, decise di ridiscenderlo in barca fino alla confluenza a Hankou (dove sorgevano alcune concessioni straniere). Fu una decisione catastrofica: durante l'attraversamento di una rapida, l'imbarcazione naufragò e almeno metà delle preziose casse con gli esemplari raccolti andò perduta. Raggiunta fortunosamente Hankou, padre David si riposò presso la missione italiana. Nel marzo 1873, ripartì verso sud (questa volta in portantina), fino a raggiungere Fǔzhōu nello Jiagxi, fissando la sua nuova base nel collegio Tsitou, a sud-est della città. Era un'area particolarmente insalubre; alla lunga lista di malattie già sperimentate, si aggiunse la malaria che colpì tanto padre David quanto i suoi portatori. A settembre, appena si fu ripreso, si trasferì sulle montagne del Fujian, in cerca di un clima più gradevole e di alcune rare scimmie; le sue condizioni di salute precipitarono, tanto che ricevette l'estrema unzione. La sua forte fibra lo salvò ancora una volta; ma ormai era ora di mettere fine alle esplorazioni, e di rientrare in Francia, come gli ingiunse a malincuore il suo stesso superiore. Altre informazioni su questo straordinario naturalista nella biografia. L'epopea della Davidia I viaggi di padre David (si calcola che abbia percorso non meno di 7000 miglia, ovvero più di 1100 km, per lo più a piedi) segnarono una tappa fondamentale per la conoscenza scientifica della natura cinese. Al di là delle celeberrime "scoperte" del cervo e del panda, per rimanere alla botanica, raccolse non meno di 1500 piante, con 250 nuove specie e 11 generi. Tra di essi troviamo 12 specie di rododendri, diverse specie di aceri, gigli, primule, genziane, Astilbe chinensis, Buddleja davidii. Si calcola che siano circa 75 le specie che lo ricordano nel nome specifico (davidii, davidianus, armandii). Tra le tante piante scoperte a Muping, c'era anche un albero molto raro, di cui padre David vide un solo esemplare. Sulla base dei materiali spediti a Parigi, nel 1870 Henri Baillon stabilì che si trattava di un genere e di una specie nuovi e lo battezzò Davidia involucrata. Come oggi sappiamo, è l'unica specie di questo genere (appartenente alla famiglia Cornaceae, un tempo Nyssaceae). E' un albero molto raro, e la sua storia è sorprendente. Dopo la segnalazione di padre David, nel 1888 di nuovo un singolo albero fu visto nelle gole dello Yangtze Ichang nell'Hubei da Augustine Henry, che ne inviò fiori e frutti a Kew, suscitando l'interesse del celebre vivaista Veitch. Quest'ultimo nel 1899 finanziò una spedizione apposita per ritrovare la preziosissima pianta, affidandola a Ernest Wilson, allora un giovane di 22 anni (era destinato a diventare a sua volta un leggendario cacciatore di piante, noto come "Chinese Wilson", Wilson il cinese); questi, giunto sul luogo segnalato da Henry dopo infinite peripezie aiutandosi con una carta disegnata a mano, scoprì che l'albero era stato abbattuto per costruire una casa; per fortuna, più tardi ne trovò un boschetto e raccolse molti semi. Durante il viaggio di ritorno, anche la sua imbarcazione fece naufragio, ma Wilson riuscì a salvare i preziosi semi. Indipendentemente, un altro botanico missionario che esplorò la Cina, Farges, nel 1897 ne inviò 37 semi all'arboretum di Vilmorin, il più agguerrito concorrente francese di Veitch. Solo uno riuscì a germinare e giunse a fioritura nel 1906. Per doppia ironia nella sorte, non solo Farges gli strappò il primato, ma i discendenti dell'unica pianta ottenuta da Vilmorin si rivelarono molto più adatti al clima europeo dei molti discendenti nati dal grosso invio di semi di Wilson. In patria, anche se era considerata una pianta da proteggere, la Davidia non destò particolare attenzione fino al 1954, quando Zhou Enlai, primo ministro della Repubblica popolare cinese, in visita a Ginevra, fu colpito dalla bellezza delle Davidiae in fiore in alcuni parchi ginevrini e scoprì che si trattava di un albero cinese; la stessa scena si ripeté all'inizio degli anni '70, quando i leader cinesi ne videro le alcuni esemplari in fioritura di fronte alla Casa Bianca. In effetti lo spettacolo di una Davidia involucrata in fiore è davvero incantevole; da noi è nota con il nome di "albero dei fazzoletti" per le due grandi brattee bianche che circondano l'infiorescenza e cadono a terra con la delicatezza di un fazzoletto. Ancora più poetico uno dei nomi inglesi, dove-tree, "albero delle colombe". Qualche notizia in più nella scheda. In un parco della mia città, in questi giorni di inizio autunno una Koelreuteria paniculata dà spettacolo, mano a mano che i suoi inconfondibili frutti si trasformano in tante bronzee lanterne cinesi. Un nome un po' ostico, ma che ha il merito di farci conoscere un grande scienziato, Joseph Gottlieb Kölreuter, il suo enorme contributo alla conoscenza dei meccanismi dell'impollinazione e i suoi esperimenti di ibridazione che ne fanno un precursore di Mendel. L'impollinazione delle piante Che le piante (o almeno alcune di esse) si possano riprodurre sessualmente già lo sapevano gli antichi - ne abbiamo parlato in questo post - ma ancora a fine Settecento non era affatto una questione pacifica, nonostante le chiare conclusioni di R. J. Camerarius (De sexu plantarum epistola, 1694), basate sull'osservazione dei meccanismi di fecondazione di alcune specie dioiche. D'altra parte, Linneo aveva basato il suo sistema di classificazione delle piante sui loro organi sessuali, suscitando scandalo tra i benpensanti come Siegesbeck. E' in questo contesto che l'Accademia delle Scienze di Pietroburgo nel 1759 offrì un premio a chi "dimostrasse o confutasse con nuovi argomenti e in via sperimentale la sessualità delle piante". Fu la molla che spinse Joseph Gottlieb Kölreuter, un giovane scienziato tedesco che a Pietroburgo lavorava da qualche anno, a dare inizio a una serie di innovativi esperimenti. Kölreuter, formatosi a Tubinga, dove Camerarius era nato e aveva operato come direttore dell'orto botanico, ben ne conosceva l'opera, che tra l'altro era stata ripubblicata da Gmelin, il suo professore. La sua ricerca fu a 360° e non trascurò alcun aspetto della questione. Da una parte, studiò attentamente la morfologia dei fiori e del polline; individuò nel polline l'agente maschile della fecondazione, nell'ovulo quello femminile. Esaminando la struttura del polline, scoprì, benché si servisse di un microscopio abbastanza primitivo, che il granulo è ricoperto da una duplice membrana, la più esterna delle quali (esina) è caratterizzata da "sculture" di vario tipo (aculei, lamelle, verruche, reticoli), funzionali al trasferimento del polline dalle antere allo stimma e alla sua adesione a quest'ultimo. Esaminò e descrisse la forma, il colore, la consistenza e l'aspetto del polline di circa 1000 specie. Osservando la struttura degli organi sessuali delle piante da fiore, distinse tre casi: specie che portano fiori con pistillo (femminile) e fiori con stami (maschili); specie con i fiori maschili e i fiori femminili portati su piante diverse; specie con fiori ermafroditi (completi di organi femminili e maschili). Notò che, nell'ultimo caso, in molte piante gli stami si trovano sopra lo stimma, in modo tale che il polline vi possa cadere direttamente; tuttavia, osservò che in diverse specie ermafrodite stami e stimma non maturano contemporaneamente. Distinse la fecondazione autogama (che avviene tra gli organi maschili e femminili dello stesso fiore o della stessa pianta) e fecondazione dicogama o incrociata (che avviene tra piante diverse), operata per lo più dagli insetti. Benché il ruolo degli insetti nella fecondazione fosse già stato intuito prima di lui, fu il primo a osservarlo in modo rigoroso e verificarlo in via sperimentale. Scoprì la funzione di richiamo del nettare e i meccanismi della fecondazione entomofila: gli insetti, attratti dal nettare, visitano i fiori, ricoprendosi di polline che poi trasportano da un fiore all'altro. Studiando specie ermafrodite con stami sensibili (come Berberis vulgaris), notò che quando l'insetto si introduce nel fiore per suggere il nettare che si trova alla base degli stami, sfiora gli stami stessi, che scattano in direzione dello stimma e liberano il polline. Raccolse il nettare di molti fiori, e, vaporizzandolo, ne ricavò miele dal sapore gradevole; notò che l'unico nettare da cui non si ricavava un prodotto dal gusto piacevole era quello della corona imperiale (Frittillaria imperialis), e infatti questa pianta non era visitata dagli insetti. Capì in tal modo che le api producono il miele dal nettare. Diversamente da Camerarius, capì che la fecondazione incrociata avviene anche per piante con fiori ermafroditi; studiando Verbascum phoeniceum, scoprì il fenomeno dell'autosterilità (importante perché coinvolge molte comuni piante da frutto). Incroci sorprendenti Ma i più noti esperimenti di Kölreuter riguardano l'ibridazione artificiale. Al suo tempo, si scontravano due ipotesi: le specie sono state create da Dio una volta per tutte e sono immutabili (fissismo) oppure possono mutare grazie all'ibridazione? Linneo, inizialmente fissista come tutti i suoi contemporanei, nelle opere più tarde aveva ipotizzato che Dio avesse creato una specie per ciascun genere, mentre tutte le altre sarebbero nate per ibridazione tra di loro. Lo scopo principale degli esperimenti di Kölreuter, convinto fissista, era appunto confutare questa teoria linneana, verificando se incrociando specie diverse si ottenessero ibridi fertili che potessero trasmettere i nuovi caratteri ai discendenti, originando, alla lunga, una nuova specie. Egli era convinto di no, e i suoi esperimenti sembrarono dargli ragione. Egli dapprima incrociò Nicotiana rustica con N. paniculata, due specie molto diverse per altezza, forma delle foglie, colore dei fiori. Dopo aver asportato le antere da un fiore femminile della prima specie, in modo da impedire l'autofecondazione, depositò sullo stigma granuli di polline della seconda; le piante nate dai semi così prodotte furono i primi ibridi artificiali noti nella storia della scienza (1760). Avevano caratteristiche omogenee tra di loro, intermedie tra quelle dei due genitori - egli le misurò e descrisse con teutonica precisione - e apparivano in genere più vigorosi, con fioritura abbondante, tuttavia erano sterili (privi di semi). Il polline era scarso, e appariva mal formato e irregolare. Ripetendo l'esperimento usando come madre N. paniculata e come padre N. rustica, ottenne esattamente lo stesso risultato. Era un dato nuovo, in contrasto con le conoscenze fino allora ricavati da ibridi animali, come muli e bardotti. Impollinando nuovamente le due specie con il polline imperfetto degli ibridi ottenne semi fertili, sebbene in piccolo numero. Le piante ottenute da questi semi non avevano più caratteristiche intermedie, ma identiche ai genitori. Kölreuter chiamò questo fenomeno "reversione" e ne trasse la conclusione che la natura elimina gli ibridi e preserva intatte le specie, in armonia con le sue convinzioni fissiste. I risultati ottenuti (mescolanza tra caratteri paterni e materni, sterilità degli ibridi, reversione) erano talmente in armonia con le sue attese che le considerò la regola, anche quando, incrociando altre specie, ottenne risultati divergenti; definì dunque ibridi imperfetti tutti quelli che contrastavano con le sue conclusioni: ibridi di seconda generazione nati dall'incrocio tra ibridi di prima generazione e uno dei genitori, ibridi di prima generazione fertili (come quelli che ottenne incrociando Dianthus), ibridi di prima generazione molto simili al genitore materno (riterrà quindi un ibrido imperfetto quello prodotto da Linneo sempre nel 1760 incrociando Tragopogon pratense con T. porrifolium, poiché non aveva caratteristiche intermedie, ma appariva più simile alla madre). Per i posteri, alla luce delle leggi di Mendel, a stupire sono piuttosto i risultati degli esprimenti basati su Nicotiana. In effetti, i semi di Nicotiana (ma anche di Mirabilis, che Kölreuter utilizzò in ulteriori esperimenti) presentano anomalie nella riproduzione. N. rustica in realtà è già sua volta un ibrido tetraploide (cioè con una quadruplice serie di cromosomi), mentre N. paniculata è una specie diploide (con doppia serie di cromosomi). Incrociandoli, si ottiene un ibrido triploide (con una serie di tre cromosomi), sterile. Nonostante i limiti delle conclusioni, tuttavia, gli esperimenti dello studioso tedesco, pubblicati in Vorläufige Nachricht von einigen, das Geschlecht der Pflanzen betreffenden Versuchen , "Informazione preliminare su alcuni esperimenti e osservazioni sul sesso delle piante" (1761-1766) segnarono una tappa importante nella conoscenza della biologia riproduttiva delle piante e aprirono la strada agli studi successivi; sebbene al suo tempo abbiano avuto scarsa eco, le sue ricerche sull'ibridazione furono riprese da Carl Friedrich von Gärtner (1772-1850) che a sua volta influenzò Mendel, mentre gli studi sulla impollinazione entomofila furono continuati e approfonditi da Kurt Sprengel (1750-1816). Approfondimenti sulla vita di Kölreuter nella biografia. Koelreuteria, l'albero della pioggia d'oro Come abbiamo visto, a ricordare Kölreuter è un albero bellissimo, Koelreuteria paniculata. La dedica si deve a Erich Laxmann, un botanico di origine finno-svedese che visse a lungo in Siberia; a quanto pare, egli conobbe la specie nelle sue esplorazioni al confine con la Cina e nel 1772 la dedicò al collega (erano entrambi membri dell'Accademia russa delle scienze). A dire il vero, K. paniculata era già nota da qualche decennio e potrebbe aver raggiunto S. Pietroburgo per un'altra strada: già intorno al 1747 era stata scoperta da padre d'Incarville che ne inviò i semi in patria, attraverso una delle carovane di mercanti russi che una volta all'anno avevano il permesso di commerciare con la Cina. Di facile coltivazione e di fascino esotico, la specie ebbe immediato successo e incominciò ad essere introdotta nei giardini occidentali: il centro di irradiazione è il Jardin du Roi di Parigi, dove fiorisce per la prima volta nel 1763; in Italia è attestata nel 1785; nel 1809 Thomas Jefferson scrive a un'amica parigina per ringraziarla dei semi che gli inviato per la sua villa di Monticello, dove oggi l'albero si è naturalizzato. Kolreuteria (famiglia Sapindaceae) è un piccolo genere che comprende tre specie di alberi dell'Asia orientale: oltre alla più nota K. paniculata, K. elegans e K. bipinnata. Sono alberi decidui delle foreste aride di Cina, Corea e Taiwan, con foglie alternate pinnate, fiori riuniti in grandi racemi piramidali, seguiti da inusuali frutti a capsula triangolare (trigoni). Per la bellissima fioritura, K. paniculata in inglese si è guadagnata i nomi di Golden-rain tree, "albero della pioggia d'oro", e Pride of India, "orgoglio dell'India". D'altra parte, tanta bellezza e facilità di coltivazione ha anche una contropartita: è una pianta invasiva, che in alcune parti degli Stati Uniti (Texas, Alabama, Louisiana, Florida) mette in pericolo le specie native ed è oggetto di progetti di sradicamento. Altre informazioni, in particolare sulle due specie meno note da noi, nella scheda. Nel 1753, in uno dei momenti di massima chiusura della Cina dei Qing, il pittore cinese Lang Shining (che in realtà tanto cinese non è) dipinge un bonsai di una pianta che arriva dal Sud America. La spiegazione del mistero sta nell'astuzia di un gesuita e botanico francese, Pierre d'Incarville, che grazie alle curiose proprietà di quella pianta riesce ad ingraziarsi l'imperatore e a farsi aprire i cancelli dei favolosi giardini imperiali. Spedisce tanti semi in Europa da cambiare per sempre l'aspetto di viali, parchi e aiuole del vecchio continente; nel fatidico 1789, con un gesto non troppo rivoluzionario, il nipote del suo maestro gli dedica il genere Incarvillea. La pianta dell'Occidente che dice il tempo Nel Museo Nazionale di Taipei è conservato un singolare dipinto da Lang Shining, al secolo Giuseppe Castiglione, padre gesuita e pittore alla corte di tre imperatori cinesi, eseguito nel 1753. La curiosità non sta nel soggetto (un bonsai in un vaso azzurro), ma nella pianta protagonista: è una sensitiva, Mimosa pudica. E' una pianta che molti conoscono per una curiosa proprietà: quando se ne sfiorano le foglie, queste si chiudono. Dato che è originaria dell'America latina, è ovvio chiedersi come sia giunta nella Cina del Settecento, all'epoca un paese notoriamente chiuso in se stesso. E' qui che entra in scena un altro gesuita, il francese Pierre d'Incarville; era arrivato in Cina nel 1740, in un periodo in cui il nuovo imperatore Qianlong praticava una politica di ulteriore restrizione dell'accesso agli stranieri e di ostilità aperta al cristianesimo. Da più di un secolo, tuttavia, i gesuiti erano riusciti a crearsi uno spazio a corte, non come missionari ma come tecnici e scienziati il cui sapere era altamente apprezzato. Lo stesso d'Incarville lavorava per la vetreria imperiale. La sua formazione e la sua inclinazione andavano però alla botanica; fin dal suo arrivo nel paese, si era reso conto che la Cina era uno scrigno inesauribile di tesori botanici ma che accedervi era praticamente impossibile. I pochi esemplari e i semi che poteva procurarsi in città, nelle brevi ed occasionali escursioni nei dintorni e dai venditori di sementi erano poca cosa e dopo pochi anni erano sempre gli stessi; molto frustrante, pensando che dentro le mura degli immensi giardini imperiali c'era un inaccessibile tesoro di piante! Avendo scoperto che l'imperatore, uomo di fine cultura, era amante dei fiori - l'arte del giardinaggio, del resto, in Cina era secolare e aveva raggiunto risultati di estrema raffinatezza - elaborò una strategia (come scrisse in una lettera al suo maestro e corrispondente Bernard de Jussieu, dimostratore del Jardin Royal di Parigi) che mirava a farsi riconoscere in primo luogo come "curioso dei fiori", quindi come "botanico". Chiese quindi sia al maestro sia a Cromwell Mortimer, segretario della Royal Society di Londra, di inviargli bulbi e semi di piante "occidentali" interessanti, con le indicazioni di coltivazione. Dopo averli amorosamente coltivati nel giardino della residenza e nella sua stessa stanza, pensava di farne omaggio all'Imperatore destandone la curiosità. Il piano riuscì, proprio grazie alla Mimosa pudica. Quando d'Incarville gliene presentò due pianticelle e lo invitò a sfiorarne le foglie, il figlio del cielo rimase meravigliato e divertito. Gradì talmente il dono (che egli considerava, secondo lo stile cerimoniale in auge alla corte del Celeste impero, un omaggio dell'Occidente alla sua augusta persona) da ordinare a Castiglione di ritrarre la meravigliosa pianta; al dipinto volle unire una poesia da lui composta e scritta di suo pugno in cui la sensitiva viene chiamata "Pianta dell'Occidente che dice il tempo"; l'imperatore aveva infatti constatato che le foglie si riaprivano dopo cinque minuti al mattino e dopo dieci alla sera. Il perseverante gesuita ottenne così quanto si era ripromesso: gli vennero aperte le porte dei giardini imperiali, venne messo in contatto con i direttori di tre giardini e con il "Mandarino delle serre"; inoltre, venne chiamato, come botanico imperiale, a progettare il giardino all'occidentale che circondava i padiglioni in stile europeo creati da Castiglione nei Giardini della perfetta Chiarezza. Rimane ancora da chiedersi come fossero arrivati a d'Incarville dei semi di una pianta sudamericana; l'ipotesi più probabile, secondo Jane Kilpatrick che ha studiato i primi scambi botanici tra Europa e Cina, è che gli fossero stati inviati da Mortimer o da altri corrispondenti inglesi con cui questi lo aveva messo in contatto, in particolare Peter Collinson, il celebre collezionista e mercante di piante che nel 1751 ricevette proprio da d'Incarville i primi semi di Ailanthus altissima. Fonte: Yu-Chi Lai, "Overview the Network of European Botany in the Imperial Palace of Qing Dynasty via Giuseppe Castiglione’s “Time-telling Plant from the West”, Academia Sinica of Modern History, ASDC E Newsletter, 6, 10/06/2015 Pierre d'Incarville mediatore botanico Il ruolo di mediazione di Pierre d'Incarville è stato duplice: non solo ha fatto conoscere alla Cina piante coltivate in Occidente (l'elenco inviato a Jussieu include papaveri dai grandi fiori, tulipani, ranuncoli, anemoni, garofani, narcisi, fiordalisi, nasturzi, gigli), ma, nonostante tutti gli ostacoli, con ripetuti invii di semi è alla base dell'introduzione nei giardini d'Europa e America di piante oggi molto comuni e popolari. Oltre al già citato ailanto, l'elenco comprende tra l'altro sofora del Giappone (Styphnolobium japonicum), seminata nel 1747 da Jussieu al Jardin des Plantes di Parigi dove ancora vive; Koelreuteria paniculata; Gleditsia chinensis; giuggiolo (Ziziphus jujuba); astro della Cina (Callistephus sinensis); cuor di Maria (Lamprocapnos spectabile); goji (Lycium chinense); indaco giapponese (Persicaria tinctoria). Con viaggi lunghi e complessi (una lettera scritta da d'Incarville a Pechino nel novembre 1751 viene letta da Mortimer alla seduta della Royal Society del giugno 1753) i semi da lui inviati raggiungono Parigi, Londra (e attraverso Collinson, Philadelphia e Baltimora), San Pietroburgo (per mezzo delle carovane di mercanti russi che ogni tre anni potevano raggiungere Pechino per scambiare pellicce siberiane con balle di tè). D'Incarville inviò a Jussieu anche i suoi erbari; alcuni sono andati perduti per la distanza, i naufragi, gli eventi bellici; uno ragguardevole (con 144 esemplari raccolti a Macao e 149 nella regione di Pechino) è conservato al Jardin des Plantes, ma è stato studiato e pubblicato solo alla fine dell'Ottocento. Anche le sue lettere ai numerosi corrispondenti (dal 1751 è membro corrispondente estero della Académie royale des Sciences) contribuiscono alla conoscenza della flora cinese: nel 1740, ancora a Macao, vede e descrive una pianta di Kiwi (Actnidia chinensis); qualche mese dopo, a Canton, dove si ferma in attesa del necessario permesso imperiale per raggiungere Pechino, è la volta di una pianta di tè in fioritura; nella citata lettera a Mortimer, descrive tra l'altro l'albero della lacca (Toxicodendron verniciflua), alcune piante usate per fare la carta e il giuggiolo. Inoltre il gesuita inviò all'Académie diverse memorie, tra cui una sui bachi da seta selvatici (bombice dell'ailanto). Compilò vari cataloghi di piante cinesi, il più ampio dei quali nell'Ottocento era conservato nella Biblioteca del Museo asiatico di San Pietroburgo. Per risolvere il problema dell'identificazione delle piante (spesso doveva accontentarsi di inviare semi o esemplari secchi con indicazioni come arbor cinesorum incognita "albero sconosciuto dei cinesi") curò la realizzazione di due copie del Yuzhi bencao pinhui jingyao, un catalogo delle piante medicinali cinesi con circa quattrocento disegni a colori, una con la traduzione dei testi, l'altra con le sole tavole accompagnate dal nome in cinese; tuttavia, a parte poche tavole, l'opera è andata perduta. Altre notizie nella biografia. Incarvillea, una bignonia terrestre Tra le piante contenute nell'Erbario inviato a Bernard de Jussieu una era identificata come "Bignonia". Una quarantina di anni dopo, nel 1789, un altro Jussieu, il celebre tassonomista Antoine-Laurent, nel suo Genera Plantarum riconosce la sua appartenenza a un nuovo genere, che chiama Incarvillea con la seguente motivazione: "Ne ho ricavato le caratteristiche da un esemplare secco dell'erbario inviato nel 1743 a Bernard de Jussieu dal Padre d'Incarville, missionario gesuita a Pechino, esperto di botanica, insieme a moltissimi semi di nuove piante, in particolare degli astri della Cina (= Callistephus chinensis), prima di allora sconosciuti in Europa". Anche se non può certo rivaleggiare in popolarità con la sua compagna di viaggio (conosciuta anche come Regina Margherita) l'Incarvillea è una perenne dalle splendide fioriture, con i grandi fiori a imbuto tipici della famiglia delle Bignogniaceae (nota soprattutto per le magnifiche rampicanti). E' un piccolo genere nativo dell'Asia centrale e orientale, per lo più dell'area himalayana; la specie più nota è Incarvillea delavayi che ricorda un altro gesuita missionario in Cina: Jean-Marie Delavay (1834-95), grande viaggiatore e scopritore di piante nella seconda metà dell'Ottocento. Informazioni sulle specie più coltivate di questa splendida pianta da bordura e giardino roccioso nella scheda. L'aspetto del mondo dipende anche dagli occhi che lo guardano. Due allievi di Linneo, Olof Torén e Pehr Osbeck, si trovano nello stesso momento in Cina e percorrono la stessa rotta nel viaggio di ritorno, ma uno ne ricava (oltre alla malattia mortale di cui sarà vittima) qualche curiosità etnografica e ben poche osservazioni naturalistiche, l'altro riempie la sua cassa da marinaio con decine di esemplari e dà un contributo fondamentale alla conoscenza delle piante cinesi, di cui diventa la principale fonte per Species Plantarum di Linneo. Torna a casa con le tasche vuote, ma si guadagna il diritto di essere ricordato dall'Osbeckia, una pianta bella e misconosciuta quasi come il suo dedicatario. Mentre gli altri giocavano, io esaminavo le erbe Pochi mesi dopo Olof Torén, iniziava il suo viaggio verso la Cina Pehr Osbeck, il quinto apostolo di Linneo. Infatti nel 1750 la SOIC (Compagnia Svedese dell'Indie Orientali) aveva deciso di raddoppiare la posta, inviando due navi alla volta della Cina: oltre alla Götha Leijon, partita in primavera per sperimentare la nuova rotta con scalo a Surat, in inverno salpò la Prins Carl che seguì la consueta rotta diretta. Il suo cappellano era un altro allievo di Linneo, appunto Pehr Osbeck. Nell'estate e nell'autunno del 1751 entrambi i vascelli erano a Canton e fecero insieme il viaggio di ritorno. Al contrario di Torén, che raccolse pochi esemplari e lasciò come testimonianza solo alcune lettere al maestro, Osbeck seppe sfruttare quella che lui stesso probabilmente considerava la grande avventura della sua vita, mettendo insieme una collezione naturalistica stupefacente per grandezza e qualità: oltre 500 piante (tra cui 26 specie e due generi descritti per la prima volta) oltre a centinaia di uccelli, pesci, insetti, minerali. Il documentatissimo Dagbok öfwer en ostindisk Resa åren 1750, 1751, 1752 ("Diario del viaggio nelle Indie Orientali", pubblicato nel 1757), steso sulla base del diario di viaggio poco dopo il ritorno a casa, riesce ad unire la precisione delle descrizioni naturalistiche al fascino dell'avventura, conditi da un pizzico di ironia. Tra l'altro è una delle prime opere in cui vengono utilizzate le denominazioni binomiali, riprese dalla recentissima prima edizione del Systema Naturae (1753). Lo stesso Linneo sarà stupefatto dei risultati del viaggio dell'instancabile Pehr, tanto da chiedersi come avesse fatto a raccogliere così tanti esemplari in così poco tempo. La spiegazione sta nella curiosità e nell'attivismo di Osbeck. In effetti, dice lui stesso nella prefazione, in un viaggio così lungo, terminate le incombenze ordinarie ("leggere le preghiere della mattina e della sera, confessare, somministrare la cena del signore, catechizzare, visitare gli infermi, officiare i funerali, predicare la domenica e i giorni di festa") gli rimane molto tempo per lo studio. Durante i lunghi mesi di navigazione ci sono pesci, uccelli, alghe; un'eclissi di luna all'andata e una di sole al ritorno; i crostacei rimasti attaccati all'ancora, l'acqua di mare fosforescente e persino i parassiti che guastano l'acqua e i viveri di bordo sono ottimi oggetti di studio. Lo dirà in alcuni versi tracciati nel registro della parrocchia dove servirà al ritorno in patria: "Gli altri bevevano, io rimanevo sobrio; gli altri dormivano, io vegliavo; gli altri giocavano, io esaminavo le erbe; quando gli altri sono morti, ho pensato alla morte, ma ora non mi fa paura". Appassionato di ogni ramo delle scienze naturali, ma soprattutto botanico, quando è a terra Osbeck sa approfittare al massimo delle soste, brevi o lunghe che siano. A parte la Cina, nel corso del viaggio il vascello attracca solo quattro volte, due all'andata e due al ritorno. Il primo lungo scalo è a Cadice, dove gli svedesi si fermano per dieci settimane. Appena può, indossati abiti spagnoli per non dare nell'occhio, un paio di forbici in tasca (l'uso dei coltelli era vietato dalle autorità), una scatola per gli insetti e fogli di carta per le piante sotto un braccio, il nostro animoso Pehr parte in esplorazione. E' incantato dai patios dove le passiflore crescono fino al secondo piano, dalle terrazze ornate di vasi di garofanini e violaciocche, dal profumo dei fiori degli agrumi "che farebbero resuscitare un morto", dai boschetti di Chamaerops humilis e dalle siepi di Agave americana, ma anche dalla più umile delle erbacce. Percorre la campagna esplorando i bordi delle strade, i giardini, le vigne, i terreni coltivati o gli incolti; un giorno, mentre sta tornando da Puerto de Santa Maria (una località a una decina di km da Cadice che ama esplorare, perché molto più ricca di acqua e di vegetazione dell'arido capoluogo) viene sorpreso da una pioggia torrenziale; nonostante la strada allagata, continua a osservare e a raccogliere piante. E' così che si imbatte in un'erba che non è mai stato descritto prima di lui: una rara solanacea oggi conosciuta con il nome di Triguera osbeckii. Quando arriva alla locanda, è bagnato fino alle ossa; giusto il tempo di cambiarsi ed è di nuovo in strada, insieme ad alcuni amici che vanno ad acquistare limoni. Il secondo scalo è a Giava, dove la nave, sia all'andata sia al ritorno, fa provviste d'acqua e viveri freschi. La vista delle rive fiorite dell'isola per Pehr è un supplizio di Tantalo: "fui costretto a languire come una persona affamata che vede il cibo solo da lontano". Quando la nave finalmente si ancora al largo, Osbeck si precipita a terra sulla lancia che va a caricare i rifornimenti, assicurando il comandante che ritornerà appena avrà bisogno di lui. La sosta è brevissima, ma Pehr potrà in parte rifarsi nel viaggio di ritorno, quando al seguito del carpentiere di bordo si addentra affascinato e turbato insieme nella foresta pluviale e studia attentamente le piante epifite che vivono sull'albero abbattuto: tra gli altri, un Asplenium nidus (è il primo a descriverlo) e l'orchidea Phalenopsis amabilis. Sulla spiaggia invece raccoglie bulbi di Crinum asiaticum, che trapianta nella sabbia e riesce a far arrivare vivi in Svezia. Persino la breve sosta alla brulla isola di Ascension (secondo scalo del viaggio di ritorno), giudicata da Osbeck il luogo più sgradevole che avesse mai visto, gli frutta la scoperta di un'ignota graminacea, Aristida adscensionis, oltre a una bella descrizione della riproduzione delle testuggini. Il mare dei Sargassi poi gli darà occasione di importanti osservazioni scientifiche. Erborizzando a Wampoa Ma è ora di parlare del soggiorno in Cina. Alla fine di agosto 1751, la Prins Carl attracca all'isola di Wampoa, a una ventina di km da Canton (per i grandi velieri, il Fiume delle perle non era navigabile oltre quel punto). Qui venivano ancorate le navi europee e vivevano i marinai durante le lunghe e complesse operazioni di carico e scarico delle merci; gli ufficiali e gli agenti della SOIC soggiornavano invece a Canton, nella factory svedese situata nell'enclave europea. Qualche giorno dopo, arriva anche la Götha Leijon, proveniente da Surat. Il soggiorno in Cina di Osbeck dura poco più di quattro mesi, alternando periodi nella factory e sulla nave. In base alle regole della compagnia, quando due navi si trovavano insieme in Cina, un pastore rimaneva a officiare a Wampoa, mentre l'altro stava a Canton. Questo spiega perché Osbeck e Torén non abbiamo mai erborizzato insieme. D'altra parte, le personalità dei due non potevano essere più diverse. Se l'uno mette insieme ben pochi esemplari (di cui non documenta neppure la provenienza), l'altro nonostante le difficile condizioni in cui opera un cappellano svedese in Cina riesce a raccogliere ben 244 specie di piante cinesi (nonché animali e altre curiosità naturali), di cui 11 mai descritte prima di lui. Spinto dal suo attivismo, ancora una volta approfitta di ogni occasione. Quando è a Canton, visita mercati, giardini e farmacie - anche se le barriere linguistiche e la diffidenza dei cinesi gli impediscono quasi del tutto di raccogliere informazioni sulla farmacopea cinese. Quanto ai sobborghi della città e alla campagna fuori delle mura, è una missione quasi impossibile: sebbene formalmente non fosse ancora vietato agli europei allontanarsi dalla factory (il divieto verrà introdotto pochi anni dopo, nel 1757), farlo era già praticamente impossibile per i "diavoli stranieri". Osbeck ci prova più di una volta, ma appena fuori dall'area frequentata dagli europei è circondato da torme di bambini che urlano e chiedono soldi; un'altra volta si salva da un invasato che gli mette le mani addosso grazie a due ambigui personaggi, forse agenti di polizia; un'altra ancora, non avendo pagato la mancia pretesa, viene preso a sassate. Per altro non si arrende; approfitta persino del funerale di un alto funzionario olandese (gli unici a non essere seppelliti nei pressi di Wampoa) per osservare la flora del cimitero mentre si attende l'arrivo della salma. Molto più proficui sono i soggiorni sull'isola di Wampoa, dove gli stranieri potevano muoversi senza rischi; organizza anche brevi puntate nelle vicine isole dove attraccano le navi francesi e danesi. E' da qui che arriva la maggior parte degli esemplari raccolti; altri sono stati acquistati, come una Camellia japonica dagli splendidi fiori bianchi e rossi comprata da un venditore ambulante cieco che, a guardarla meglio, si rivela un imbroglio: i fiori sono stati presi da un'altra pianta e accuratamente fissati alle corolle con chiodi di bambù. Osbeck conclude filosoficamente che in Cina bisogna stare molto attenti e comunque è facile prendersi delle fregature... E quando tornerà in Svezia, non gli sarà rimasto un soldo: la già scarsa paga (Pehr ha scoperto che i suoi omologhi danesi sono pagati il triplo!) è stata investita in onore della scienza. La grande cassa acquistata in Cina - oggi è parte di una collezione privata - si riempie sempre più di preziosi esemplari secchi, di scatole di insetti, di animali conservati nel brandy spagnolo. Per la conoscenza in Occidente della flora cinese, il viaggio di Osbeck è una tappa fondamentale. Prima di lui, solo i missionari gesuiti - che per altro godevano di ben altre possibilità di muoversi nel paese, di cui parlavano la lingua e conoscevano profondamente la cultura - avevano fatto conoscere agli europei tante piante del Celeste impero. Gli esemplari forniti dall'industrioso allievo arrivano a Linneo appena in tempo per essere inclusi - sebbene solo in parte - in Systema plantarum: su un centinaio di piante asiatiche, almeno una settantina si devono presumibilmente a lui (anche se Linneo non sempre lo cita esplicitamente). In una sola cosa Osbeck delude il suo maestro: neanche lui riesce a portargli la tanto sospirata pianticella di tè. In realtà, il diligente allievo se ne era procurata una, ma andò perduta in modo tragicomico. Quando la Prins Carl finalmente salpa, il 4 gennaio 1752, tutti sono euforici e saltano sul ponte, mentre vengono sparati i rituali colpi di cannone; com'è come non è, il vaso di Camellia sinensis dal ponte scivola in mare prima che Osbeck se ne accorga e possa salvarlo. Sebbene avesse deciso di non fare altri viaggi, la vita di Osbeck dopo il ritorno in Svezia fu ancora lunga e attiva; altre informazioni nella biografia. L'Osbeckia, questa sconosciuta Proprio in occasione della gita in cui Osbeck e i suoi compagni vengono soccorsi dai due poliziotti, scendendo da una collina dove hanno visitato una pagoda Pehr osserva un cespuglio dai bei fiori rossi che rimangono aperti di notte, che Linneo chiamerà Melastoma octandrum. Lì vicino trova un'altra pianta, simile alla prima per i fiori, ma diversa da ogni altro genere per l'aspetto generale. Linneo "ritenendo che le mie fatiche fossero meritevoli di qualche ricordo ha pensato di chiamare questa pianta Osbeckia chinensis". Entrambe le specie appartengono alla famiglia delle Melastomaceae, anzi oggi Melastoma octandrum L. è considerato sinonimo di Osbeckia octandra DC. Il genere Osbeckia comprende erbacee, suffrutici ed arbusti di una fascia tropicale che va d'India al Sud est asiatico, con qualche presenza in Australia. Alcune specie hanno proprietà medicinali. Sebbene si tratti di piante assai attraenti, sia per le foglie ovali profondamente venate sia i per i vistosi fiori con quattro o cinque petali dai colori vivaci (bianco, rosa carico, rosso) le Osbeckia sono poco note al di fuori dei paesi d'origine e raramente coltivate. Dunque, almeno per la fama postuma, lo sventurato e depresso Torén ha avuto più fortuna dell'attivo e vincente Osbeck. Ma forse è la pianta giusta per lui: intelligente, industrioso, ironico, di bella presenza, dopo il ritorno in patria visse una vita sempre attiva e proficua, ma lontana dalle luci della ribalta. Altre informazioni su Osbeckia nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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