Ricorre nell'anno che sta per finire il duecentesimo anniversario della morte di Pál Kitaibel, fondatore della botanica ungherese e precursore di un metodo di indagine interdisciplinare, che collegava le piante al loro ambiente e alla composizione chimica del suolo. Se poté pubblicare, in una veste magnifica, almeno parte delle sue scoperte si deve alla generosità del conte Franz Adam von Waldstein, discendente del sinistro generale Wallenstein e fratello del mecenate di Beethoven, a sua volta botanico dilettante. A ricordare i due botanici altrettanti generi che furono i primi a segnalare: Kitaibelia e Waldsteinia. Kitaiabel, viaggiatore instancabile Nella seconda metà del Settecento, la spettacolare Flora danica (il primo volume esce nel 1761) inaugura la stagione delle grandi flore nazionali illustrate. Nell'impero asburgico, il primo a riprendere quel modello è Jacquin, che tra il 1773 e il 1778 pubblica i cinque volumi delle Florae austricae: come nel progetto danese, ogni volume comprende un fascicolo di descrizioni in latino e un tomo di illustrazioni a colori di tutte le piante, ritratte a dimensione naturale. Nonostante la vastità dell'impresa (500 piante e altrettante tavole, volutamente tralasciando quelle già pubblicate in Flora danica), Jacquin si limitò alla flora austriaca, lasciando da parte altre regioni del grande e multietnico impero asburgico. A rimanere fuori, in particolare, fu l'Ungheria, un territorio non solo molto vasto, ma anche geograficamente variegato, quindi ricco di piante, molte delle quali all'epoca erano ancora poco conosciute o ignote. A colmare questa lacuna fu un magiaro. Esplorare la flora della sua patria e portarne alla luce i tesori fu il compito che assegnò a se stesso il botanico ungherese Pàl Kitaibel. Figlio di un ricco contadino, Kitaibel aveva studiato medicina e scienze naturali, divenendo uno scienziato completo, i cui studi spaziano dall'idrologia, alla sismologia, alla chimica (come chimico, fu uno degli scopritori di un nuovo elemento, il tellurio). Al centro dei suoi interessi stava però la botanica, che studiò in modo innovativo proprio grazie alle sue poliedriche competenze; in particolare fu attento alla correlazione tra le caratteristiche chimiche e geologiche del territorio e la flora; insomma, un approccio ecologico ante litteram. Il suo maestro, l'austriaco Joseph Jacob Winterl (1739-1809), fu il precursore della botanica ungherese: in mezzo a mille vicissitudini, nel 1770-71 fondò il primo orto botanico del paese, destinato agli studenti di medicina dell'Università di Nagyszombat (oggi Trnava in Slovacchia), che cambiò più volte sede, seguendo gli spostamenti della facoltà di medicina: prima a Nagyszombat, quindi a Buda, infine a Pest, proprio nel 1784, l'anno in cui Winterl nominò assistente di chimica e botanica il ventiquattrenne Kitaibel. Allo scopo di arricchire le collezioni dell'appena trasferito orto botanico, che, grazie a un finanziamento di Giuseppe II, era stato dotato anche di una serra e di una vasca per le piante acquatiche, Kitaibel iniziò i primi viaggi, brevi escursioni nei dintorni di Pest e Buda, che esplorò a fondo negli anni '80. Fu probabilmente l'incontro con il secondo protagonista della nostra storia, il conte Franz da Paula Adam von Waldstein-Wartenberg, a fargli concepire l'idea di spedizioni più ampie e ambiziose. A quanto parte, i due si conobbero intorno al 1789. Il nobiluomo, figlio cadetto di una delle più nobili e ricche famiglie dell'Impero asburgico, cavaliere di Malta e militare di carriera, fin da giovane era appassionato di botanica. Con i mezzi finanziari messi a disposizione da Waldstein, fu ora possibile a Kitaibel ampliare il suo raggio d'azione, iniziando un'esplorazione sistematica della natura dell'Ungheria storica (che comprendeva anche la Croazia); tra il 1792 e il 1811, farà 16 spedizioni, percorrendo qualcosa come 20.000 km, muovendosi soprattutto con un carro, ma anche a cavallo o a piedi. A cinque di quei viaggi parteciperà anche Waldstein, accompagnato dal pittore Johann Schutz, che per qualche anno fu ospitato nell'orto botanico di Pest. Tra il 1792 e il 1811, Kitaibel, da solo o insieme a Waldstein, fece un viaggio quasi ogni anno. La mappa di quelle spedizioni assomiglia a una ragnatela che partendo da Pest, si irraggia a coprire tutto il paese; ma toccò anche la Transilvania (ora in Romania), la Croazia (dove fu nel 1792 e più estesamente nel 1802), la Slovenia (1794 e 1808), il Triveneto (1794). Nel 1806, mentre esplorava l'area del lago Ferto, il botanico si ammalò gravemente. Recuperò solo in parte, tanto che dal 1809 fece solo brevi viaggi, anche perché impegnato nel trasferimento dell'orto botanico, che nel 1808 venne spostato in una nuova sede. Da parte sua anche Waldstein, sempre più coinvolto in compiti militari e nella gestione dei beni familiari, dovette via via lasciare da parte la passione per la botanica. Qualche approfondimento sulla vita di Kitaibel e Waldstein nella sezione biografie. Nei suoi puntigliosi diari di viaggio, Kitaibel prese nota non solo della flora e, in misura minore, della fauna, ma anche delle caratteristiche pedologiche del terreno, della geologia (raccolse campioni di minerali, per quanto ne poteva trasportare il suo carro), delle acque (visitò molte fonti idrotermali), degli usi e delle pratiche agricole degli abitanti. Oggi, quando le terre della grande pianura ungherese sono ormai state trasformate in gran parte in terreni agricoli, le sue note di campo sono un documento preziosissimo per ricostruire le caratteristiche ecologiche della regione. Una magnifica collezione di piante rare Coprendo una zona così vasta fin ad allora scarsamente conosciuta, i viaggi di Kitaibel e Waldstein fruttarono la scoperta di molte specie prima di allora mai descritte; grazie ai mezzi finanziari del conte, nacque l'idea di pubblicarle in un'opera allo stesso tempo scientificamente accurata e esteticamente raffinata, sul modello delle Florae austriacae di Jacquin. Ma prima di affrontare quel compito, nel 1798 gli amici si recarono a Berlino, a sottoporre il loro progetto, per una validazione scientifica, al celebre botanico Willdenow. Non solo quest'ultimo approvò, ma volle sigillare la sua stima per i due esploratori della flora ungherese battezzando in loro onore due dei nuovi generi da loro scoperti: Waldsteinia e Kitaibelia. L'opera incominciò a uscire nel 1799, secondo la formula dei fascicoli a sottoscrizione: ogni fascicolo comprendeva 10 tavole, accompagnate da un fascioletto con le descrizioni in latino. I testi erano di Kitaibel (oltre che finanziariamente, Waldstein contribuì presumibilmente anche alle identificazioni), i disegni di Johann Schutz (che probabilmente dipinse anche le tavole a colori), le incisioni di suo padre Karl. Dieci fascicoli andavano poi a formare un volume. Il primo, completato nel 1800, illustra con 100 tavole a colori dipinte a mano altrettante piante native della Grande pianura ungherese, delle catene montuoso ungheresi, del Banato e del Máramaros, precedute da un'introduzione sulla storia naturale dell'Ungheria. Il secondo volume, completato nel 1805, con un'introduzione sulla storia naturale della Croazia, comprende anch'esso cento piante e altrettante illustrazioni. Il terzo volume uscì infine nel 1812 e comprende solo 80 tavole; molto materiale rimase fuori dall'opera, per le sopraggiunte difficoltà dovute alle guerre napoleoniche. Era previsto un quarto volume, che non venne mai predisposto. Il grande merito dell'opera di Waldstein e Kitaibel (così vollero firmarla nel frontespizio, anche se come si è visto a scrivere i testi fu solo il secondo), oltre che nell'aver fatto conoscere un'area fino ad allora poco esplorata, sta sia nelle descrizioni, molto più dettagliate di quanto si usasse all'epoca, sia nelle precisissime illustrazioni. Come si è detto, solo una parte delle piante che essi scoprirono furono incluse nel lavoro a stampa; molte furono conosciute e pubblicate da altri botanici grazie all'abitudine di Kitaibel di includere nelle liste di semi che inviava per gli scambi accurate descrizioni delle nuove specie, talvolta accompagnate da una calcografia. A Kitaibel e Waldstein si deve la scoperta di tre generi (oltre a Kitaibelia e Waldsteinia, Sternbergia) e di circa 300 specie. Alcune li ricordano nel nome specifico: sono almeno una dozzina quelle che si fregiano del nome kitaibelii o kitaibelianus (ricordiamo almeno due splendidi endemismi delle montagne croate, Aquilegia kitaibelii e Primula kitaibeliana); Waldstein non è da meno con piante come Silene waldsteinii e Campanula waldesteiniana. A ricordare Kitaibel è anche un raro rettile, il piccolo scinco Ablepharus kitaibelii. Uno sguardo ai generi Kitaibelia e Waldsteinia Come si è visto, i generi Kitaibelia e Waldsteinia vennero creati nel 1799 da Willdenow (nella Quarta edizione della linneana Species Plantarum, da lui curata). Esemplari della futura Kitaibelia furono raccolti da Kitaibel in varie località della Slavonia croata nel suo viaggio del 1795. Oggi denominata K. vitifolia, è una delle due specie di questo piccolo genere della famiglia Malvaceae; è una grande erbacea perenne, con decorative foglie palmate e fiori a coppa bianchi o rosati, originaria della Croazia sud orientale, della Voivodina e della Macedonia settentrionale. L'altra specie, K. balansae, presente in poche stazioni dalla Cilicia turca a Israele, è una pianta rupicola, sempre alta ma di dimensioni più contenute, con foglie tomentose e fiori rosa intenso. Il genere ha dunque una curiosa distribuzione disgiunta. Qualche notizia in più nella scheda. Fu raccolta invece in Ungheria la pianta che sarebbe stata denominata Waldsteinia geoides. Il genere Waldsteinia, della famiglia Rosaceae, comprende 5 specie di tappezzanti diffuse nei boschi dell'emisfero settentrionale, molto simili tra loro: hanno foglie lobate semipersistenti e fiori gialli, simili a quelli dell'affine genere Geum: W. geoides è originaria delle foreste montane dell'Europa centro-orientale; W. fragarioides è nativa degli Stati Uniti orientali, dal Minnesota alla Pennsylvania; W. idahoensis è un endemismo delle foreste umide dell'Idaho; W. lobata è originaria delle foreste pedemontane umide degli Stati Uniti sud orientali (North e South Carolina, Georgia); W. ternata, la specie più nota e coltivata nei giardini, è presente in due aree disgiunte, e separate tra loro da 5000 km: le popolazioni europee vivono nell'Europa centrale, orientale e in Russia; le popolazione asiatiche sono presenti nella Siberia orientale, a Sakhalin, in Giappone e nella regione cinese di Changbai Shan. Tutte sono piante attraenti, poco esigenti, e adatte come tappezzanti per situazioni semi ombrose. Qualche approfondimento nella scheda.
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Il giurista amburghese Johann Heinrich von Speckelsen, proprietario di un giardino molto ammirato, in questa storia deve condividere la scena non solo con Linneo, ma con un'idra a sette teste. E il modo con cui è riuscito a dare il suo nome alla sfolgorante Sprekelia è quanto meno tortuoso. Le vacanze intelligenti del giovane Linneo Nella primavera del 1735, il ventottenne Linneo parte per l'Olanda (dove, condizione imposta dal futuro suocero per concedergli la mano della figlia, dovrà conseguire un dottorato in medicina). Nei bagagli, una collezione di quasi mille insetti raccolti in Lapponia e Dalecarlia, e il famoso costume lappone con tanto di tamburo, con i quali conta di far colpo su eventuali protettori. Lungo la strada, si ferma due settimane ad Amburgo, dove viene accolto a braccia aperte da molti esponenti del vivace ambiente intellettuale della grande città anseatica. Il suo punto di riferimento è Johann Peter Kohl, slavista e redattore di un noto periodico di divulgazione scientifica, Hamburgischen Berichte von neuen Gelehrten Sachen, in cui aveva dato conto del viaggio di Linneo in Lapponia. Grazie alla raccomandazione di Kohl, al giovane svedese si aprono tutte le porte: si esibisce persino in un'imitazione di cerimonia sciamanica lappone, suscita interesse e ammirazione per il suo acume, la sua profonda cultura scientifica, l'atteggiamento modesto. Il celebre bibliografo J. A. Fabricius lo accoglie nelle sue stanze tappezzate di libri; il mercante di spezie Natorp gli mostra la sua collezione di lucertole, serpenti e altre rarità; il medico G. J. Jaenisch diventa un amico e un futuro corrispondente. Ma sicuramente l'incontro più fruttuoso per Linneo è quello con il collezionista e botanico dilettante Johann Heinrich von Spreckelsen; laureato in diritto, avvocato, membro di una famiglia di ricchi mercanti ben inserita nell'establishment amburghese, di lì a qualche anno diverrà segretario del Consiglio della città. Ma soprattutto è il proprietario di una fornitissima biblioteca ricca di testi di botanica (che presta liberalmente al nuovo amico) e di un ammirevole orto botanico privato, dove coltiva aranci e molte piante esotiche (a sentire Linneo, ci sono almeno 45 tipi di Aloe e 56 di Mesembryanthemum), soprattutto americane (grazie ai legami commerciali dei mercanti di Amburgo con le Americhe); possiede anche una collezione di cose naturali, tra cui una raccolta di fossili che lo svedese giudica la più grande che abbia mai visto. Oggi è difficile trovare informazioni su di lui, ma al tempo dovette essere ben inserito negli ambienti botanici europei: nel 1729 pubblicò un foglio con la figura della Yucca draconis (oggi Yucca aloifolia var. draconis), che nel 1732 fu ripreso da Dillenius in Hortus Elthamensis; più tardi sarà tra i corrispondenti di Collinson. Linneo stesso lo definirà botanicus doctissimus. L'idra smascherata Sicuramente lo svedese avrebbe prolungato il piacevole soggiorno, se non fosse stato per uno sgradevole incidente. Tra le curiosità della città, c'era anche una celebre idra a sette teste, che proprio l'anno prima l'olandese Albertus Seba, collezionista e cultore di cose naturali, aveva descritto e fatto ritrarre nella sua Locupletissimi rerum naturalium thesauri accurata descriptio, assicurandone l'autenticità. Linneo non poteva farsi scappare l'occasione di darle un'occhiata; vi riuscì grazie ai buoni uffici di Kohl. Ma gli bastò ben poco per capire che quella vantata meraviglia era una frode: si trattava di un grossolano artefatto, creato rivestendo ossa di donnola con pelli di serpente. Piuttosto sicuro del fatto suo, non tenne per sé la scoperta, anzi la annunciò sulle Hamburgischen Berichte. Gli sarebbe piaciuto anzi smascherare quel falso in un pubblico dibattito, ma un amico gli fece capire che era meglio tagliasse la corda: rischiava addirittura di essere messo ai ferri. E Linneo lasciò la città in fretta e furia. Ma da dove arrivava l'idra, e soprattutto di chi era? L'orgoglio della città d'Amburgo aveva già tutta una storia alle sue spalle: nel 1648, in seguito alla battaglia di Praga, l'ultima della guerra dei Trent'anni, sottratta a quanto si dice da una chiesa della città, era finita come bottino di guerra nella mani del comandante svedese, il conte di Königsmarck; poi, attraverso eredità e vendite, era passata di mano in mano fino ad approdare ad Amburgo. E qui le nostre fonti si dividono: secondo Seba, apparteneva ai mercanti Dreyern e Handel; secondo la maggior parte degli autori, faceva parte della collezione di curiosità del borgomastro Johann Anderson; secondo il biografo di Linneo D. C. Carr, che scriveva nella prima metà dell'Ottocento, apparteneva invece proprio al nostro von Spreckelsen. L'oggetto in ogni caso era considerato di grande valore: un tempo il re di Danimarca aveva cercato di aggiudicarselo per 30.000 ducati; ora il suo valore di mercato era molto inferiore, ma certamente l'incursione di Linneo si risolse in un danno non solo d'immagine per il proprietario. D'un tratto quel mirabile oggetto senza uguali non valeva più nulla; e capiamo perché secondo le fonti che identificano in Anderson il proprietario, questi fosse furioso e volesse far arrestare Linneo. Secondo Carr, invece, von Spreckelsen aveva contratto un prestito di 10.000 talleri dando come garanzia l'idra, e si trovò del tutto rovinato. Sono convinta che questa versione sia infondata: a smentirla sono gli ottimi rapporti che rimasero tra Linneo e von Spreckelsen dopo la partenza precipitosa dello svedese da Amburgo. Non solo egli elogia più volte il collezionista amburghese in diverse opere e non manca di ringraziarlo per avergli messo a disposizione i suoi libri, ma soprattutto ci sono rimaste due lettere di von Spreckelsen a Linneo (una del 1737, l'altra del 1755), in cui egli si esprime in termini di amicizia e di ammirazione nei suoi confronti. Un breve sunto della sua vita nella sezione biografie. E finalmente... chiamiamola Sprekelia! Ma è ora che faccia il suo ingresso la protagonista verde di questa storia. Tra le rarità che von Spreckelsen coltivava nel suo giardino di Amburgo c'era anche quello che al tempo era noto come Lilio-narcissus o Narcissus jacobeus. Egli ne cedette qualche esemplare al medico e botanico Lorenz Heister, che a Helmstedt dirigeva uno degli orti botanici più celebrati della Germania. Come ringraziamento, questi ribattezzò la pianta Sprekelia (1753). Una denominazione che, come vedremo, dovette aspettare quasi settant'anni per entrare nell'uso. Se era una pianta rara, non era certo una novità nei giardini europei. Coltivata già dagli aztechi con il nome di atzcalxóchitl o “fiore di splendore rosso”, è citata da Hernández in Historia natural de Nueva España, scritta durante il suo viaggio in Messico tra il 1571 e il 1576. Secondo Linneo, arrivò in Europa nel 1593. Non sappiamo da dove egli derivasse questa notizia; sappiamo invece dalla corrispondenza del medico Simon de Tovar che quest'ultimo la coltivava nel suo giardino di Siviglia; nel 1595 ne inviò tre bulbi nelle Fiandre al conte di Arenberg; l'anno dopo ne inviò una dettagliata descrizione a Clusius, in cui per la prima volta ne associò il fiore alla spada dei cavalieri di San Giacomo, in base alla forma (ancora oggi, in inglese è detto Jacobean lily e in spagnolo è flor de Santiago). Si devono proprio a Clusius (in Rariorum plantarum Historia, 1601) la prima descrizione scientifica e la prima immagine. Nel corso del Seicento, viene riprodotta molte volte, ad esempio nelle opere di Vallet, Parkinson, Ferrari, de Bry, Morison, e così nel Settecento, per lo più come Narcissus indicus, Narcissus jacobaeus o Lilio-narcissus. Qualcuna di queste immagini in questa pagina. Linneo lo descrisse in Species plantarum, assegnandolo al genere Amaryllis come A. formosissima. Il nome Sprekelia rimase dunque inutilizzato, finché nel 1821 William Herbert in An Appendix. Preliminary Treatise, un lavoro propedeutico alla sua fondamentale opere sulle Amaryllidaceae, separò A. formosissima da Amaryllis e lo assegnò a un genere proprio; inizialmente aveva pensato di battezzarlo Jacobaea, rifacendosi al nome volgare, ma poi ragionò così: "Era stato chiamato Sprekelia da Heister, sebbene io creda che il nome non sia mai stato adottato, e io ho sempre pensato che è giusto aderire a un nome che è già stato dato". Noto anche con il nome di giglio azteco, Sprekelia è considerato uno dei fiori più belli; come si è anticipato, appartiene alla famiglia Amaryllidaceae, è originario del Messico e del Guatemala. Fino a pochi anni fa, era considerato un genere monotipico, con l'unica specie S. formosissima, caratterizzata da singolari fiori rosso brillante con tepali posti a croce a simmetria assiale. Oggi si riconosce una seconda specie, S. howardii, scoperta nel Messico meridionale e descritta nel 2000 da D. Lehmiller, più piccola della precedente e con tepali strettissimi. Qualche informazione in più nella scheda. Si devono alla penna di Giovanni Battista Ferrari, gesuita poligrafo e poliglotta, due delle più raffinate opere editoriali del Seicento, cui contribuirono, tra gli altri, artisti del calibro di Piero da Cortona e Guido Reni: Flora seu de florum cultura, uno dei primi trattati di giardinaggio, del 1633, seguito nel 1646 da Hesperides sive de Malorum aureorum cultura et usu, una monografia altrettanto pionieristica sugli agrumi, probabilmente la prima dedicata a un genere. Sfogliarle è una festa per gli occhi, leggerle uno squisito divertimento barocco. Con tante sorprese, come quel "fiore indiano violato scuro" che molti anni dopo verrà ribattezzato Ferraria crispa. Uno sponsor d'eccezione per un'opera straordinaria Nello stagnante panorama dell'Italia secentesca, la Roma dei papi faceva eccezione; non per particolare acume politico o politiche illuminate, ma per la febbre edificatoria che, alimentata da papi e cardinali, trasformò la Città eterna del XVII secolo in un immenso cantiere. E tra chiese e palazzi, si costruivano anche giardini. Anzi una villa fuori porta con giardini scenografici e un angolo segreto riservato alle piante "peregrine", le specie esotiche che arrivavano dalle "Indie", era uno status symbol, la misura del potere e del prestigio. Tra i più preziosi gli Horti Barberini, voluti dal Cardinale Francesco, nipote del papa Urbano VIII. Durante il pontificato dello zio egli fu senza dubbio il personaggio più influente della corte pontificia: come "cardinal nepote" era il segretario di Stato, e accumulò una incredibile quantità di titoli e cariche. Uomo colto, collezionista, cultore della letteratura, della musica e delle arti (tra i suoi protetti anche Bernini), fece del suo palazzo alle Quattro Fontane - allora un'area suburbana - un punto nevralgico della cultura romana. Tra i suoi interessi non mancavano le scienze: creò un museo di scienze naturali e soprattutto trasformò i giardini del suo palazzo in una specie di orto botanico, ricchissimo di piante rare, che gli giungevano soprattutto grazie ai contatti allacciati in Francia durante varie missioni diplomatiche. Quali piante fiorissero in quel giardino ce lo racconta Giovanni Battista Ferrari, un gesuita di origini senesi che fece parte dell'entourage di Francesco Barberini. Orientalista di una certa fama, grazie alla protezione dei Barberini (Francesco, ma anche suo fratello Antonio), Ferrari ebbe libero accesso ai giardini della nobiltà romana e incominciò ad appassionarsi di floricoltura. Si costruì così una cultura enciclopedica sull'argomento, che trasfuse in una vasta opera, Flora seu de florum cultura, pubblicata in latino nel 1633, poi, visto il successo anche europeo, tradotta in italiano e ripubblicata nel 1646 con il titolo Flora overo cultura dei fiori. Alla sua progettazione, contribuì senza dubbio Cassiano dal Pozzo, che, al servizio del cardinal Barberini, lo accompagnò in molte missioni all'estero e esercitò una specie di ruolo informale di Ministro della Cultura di Urbano VIII. Cassiano era a sua volta un grande collezionista d'arte, incluse le tavole botaniche; fu lui, probabilmente, a concepire la parte iconografica di Flora e a mettere in contatto Ferrari (di cui divenne intimo amico) con i più importanti artisti del tempo. Fece anche da tramite con l'ambiente dei Lincei, di cui era membro. Il risultato è davanti ai nostri occhi: una delle opere editoriali più prestigiose del tempo, un sontuoso in quarto in quattro volumi, con 101 calcografie, che ritraggono piante di giardini, attrezzi, grandi vasi con composizioni floreali e soprattutto molte specie di piante. E' allo stesso tempo un manuale che fornisce informazioni pratiche sull'allestimento di un giardino e sulla coltivazione delle piante, un catalogo delle specie più apprezzate, un ricettario con curiose indicazioni, una guida sui più bei giardini romani, un'opera letteraria. Volendo unire l'utile al dilettevole, Ferrari ha infatti arricchito il suo testo con sette favole allegoriche che mettono in scena gli dei dell'Olimpio e raccontano metamorfosi alla maniera di Ovidio. Ciascuna favola è illustrata da una tavola disegnata da tre tra i maggiori artisti attivi a Roma in quel momento: Guido Reni, Piero da Cortona e Andrea Sacchi (nell'edizione italiana, si aggiungerà Giovanni Lanfranco). La maggior parte delle incisioni si deve a J.F. Greuter. A finanziare la prestigiosa e costosissima opera furono ovviamente i Barberini (cui Ferrari rende ripetutamente omaggio). Le meraviglie barocche di Flora Sfogliamo dunque Flora. Ad aprire il volume è una spettacolare tavola di Piero da Cortona che fa da frontespizio e celebra la gloria della dea Flora. Dopo un'erudita introduzione, seguono indicazioni sull'ubicazione ideale del giardino, sulle siepi che dovranno difenderlo, sulla disposizione delle aiuole e dei sentieri. A illustrare questo capitolo, 7 piante di giardini, incluso un labirinto. Scopriamo come dobbiamo scegliere il cane da guardia (meglio nero: di notte fa più paura ai ladri, e più facilmente li coglierà alla sprovvista), come innaffiare, come disporre i fiori e quando raccoglierli, e così via. Se vi siete mai chiesti perché nei giardini abbondano limacce e bruchi, Ferrari ce lo spiega attraverso la prima e più divertente delle sue favole, dedicata all'improbabile coppia formata dal pigro giardiniere Limace e da suo fratello Bruco, impenitente scalatore di muri e ladro di piante, che un'irata Flora trasforma in Lumaca e Ruca. A completare il primo libro, una rassegna degli arnesi da giardino, indicazioni sui concimi e le terre - qui Ferrari include un excursus sui principali giardini privati romani - e la seconda favola, in cui Flora imbandisce un banchetto floreale agli dei. Per chi, come me, è affascinato dalla storia delle piante, le maggiori sorprese giungono però dal secondo libro. Ferrari vi passa in rassegna i fiori ornamentali indigeni e esotici più ricercati nei giardini del tempo. Scopriamo che i più alla moda erano le bulbose, in una stupefacente quantità di specie e varietà: narcisi (non meno di 36 tipi), crochi, colchici, corone imperiali, tulipani (solo due: a Roma, evidentemente non si erano ambientati), fritillarie, iris, gigli, Orchis, ornitogali, giacinti (altra super star, non meno di 25), ciclamini, anemoni (anch'essi in numerose varietà), ranuncoli, asfodeli, mughetti. A confronto, poche le erbacee perenni (peonie, Lychnis chalcedonica, l'esotica Lobelia cardinalis, sotto il nome di Trachelio americano, numerosi garofani). Piacevano invece le rampicanti: la curiosa Passiflora (Granadiglia), in cui si riconoscevano gli strumenti della passione di Cristo e soprattutto i gelsomini. Gli arbusti si riducono praticamente alle rose. Pochi gli alberi da fiore, soprattutto esotici: peschi e ciliegi doppi, la mimosa, il sommacco, Schinus molle. Se in questi casi le esotiche sono riconoscibili con i loro nomi, più spesso sono celate sotto l'etichetta ingannevole di generi già noti. Sotto il nome di Narciussus indicus riconosciamo così, anche grazie alle dettagliate illustrazioni, Sprekelia, Amaryllis belladonna, Crinum, Haemanthus; e capiamo che, in fondo, indicus vuole dire esotico: se Sprekelia arriva davvero dalle Indie - ovvero dal Centro America - le altre sono sudafricane, giunte a Roma con un tortuoso viaggio attraverso l'Olanda e la Francia. Ugualmente, sotto l'etichetta Hyacinthus si celano non solo Hyacinthoides non-scripta, ma anche Scilla peruviana e varie specie di Muscari. Gelseminum indicum flore Phoeniceo è chiaramente Campsis radicans. Non si sbilanciò invece Ferrari nel nominare il fiore destinato a immortalarlo nella denominazione botanica: è semplicemente Flos indicus e violaceo fuscus, "Fiore indiano violato iscuro". Ne giunse a Roma da Parigi un bulbo mezzo rinsecchito; l'abilissimo appassionato Tranquillo Romauli riusci, in due anni, a portarlo a fioritura. E, come scopriremo tra poco, anche questo fiore indiano non è indiano per niente. Il terzo libro è dedicato alla coltivazione delle piante da fiore: prima una parte generale (molto dettagliato il capitolo sulla lotta agli animali "maggiori" e "minori" che infestano i giardini, soprattutto i topi, da combattere in ogni modo, incluso cacciandoli con una speciale balestra; utile anche un gatto, ma sarà bene sceglierlo tigrato); poi indicazioni specifiche sulla coltivazione delle specie elencate nel libro precedente. A conclusione, un catalogo delle piante esotiche coltivate negli Horti Barberini: molte le abbiamo già incontrate, si aggiungono alcune piante officinali, come la Moringa o il tamarindo, un "fagiolo del Brasile", l'albero del corallo americano (Erythrina corallodendron). Completano il libro una pianta del giardino di Palazzo Caetani di Cisterna e due favole, una dedicata a Flora e alla Luna, l'altra che scomodo addirittura Nettuno per ornare gli Horti Barberini. Il quarto libro è una miscellanea di meraviglie di gusto barocco: le meraviglie dell'arte (che insegna a disporre i fiori, a conservarli, a imitarli, a forzarne la fioritura, a alterarne la forma, il colore, il profumo), ma ancora più le meraviglie della natura stessa, che a sua volta supera l'arte che si è illusa di superarla. Espressione di questa meraviglia è la Rosa della China, che (oh stupore!) nell'arco di una giornata muta il colore dei propri fiori dal bianco al carnicino al rosso. Avrete già capito che si tratta di Hibiscus mutabilis; Ferrari ci informa che i semi erano arrivati a Roma dall'India circa dieci anni prima, avevano prosperato e se ne coltivavano tre tipi: una forma semplice, una doppia e una stradoppia. E tra le tante tavole dedicata alla "Regina delle rose", ce n'è anche una che ne rappresenta i semi visti al microscopio (probabilmente la prima nella storia dell'illustrazione botanica). Nel giardino delle Esperidi Visto il notevole successo dell'opera, probabilmente ancora su suggerimento di dal Pozzo, Ferrari decise di scriverne un'altra, dedicata questo volta agli agrumi, immancabili inquilini dei giardini barocchi e delle loro arancere. Fu un'altra opera enciclopedica, con la stessa formula della precedente: un testo che unisse notizie erudite, favole mitologiche, puntigliose descrizioni delle piante e indicazioni per distinguerne i tipi, dettagliate istruzioni di coltivazione, informazioni di ogni genere sugli usi e gustose curiosità; un apparato iconografico affidato agli artisti più in voga. Il gesuita si mise alacremente al lavoro, ma a venirgli meno fu proprio il finanziatore. Nel 1644 Urbano VIII morì. Seguì la disgrazia di Francesco Barberini, che, messo sotto inchiesta per i modi in cui aveva ingrandito il patrimonio familiare, dovette andarsene in esilio in Francia. Non fu facile per Ferrari trovare un altro finanziatore. Attraverso il pittore Poussin, cercò anche inutilmente di ottenere il sostegno del re di Francia. Alla fine, riuscì a pubblicare Hesperides, sive De malorum aureorum cultura et usu libri IV nel 1646, a spese dell'editore Hermann Scheus. Frutto di un lavoro durato almeno dieci anni, l'opera è forse il primo trattato dedicato a un singolo genere (ovvero a Citrus, cui appartengono gli agrumi). L'apparato iconografico è ancora più sontuoso di quello di Flora: i disegni dai cui furono tratte le incisioni che illustrano le favole mitologiche o raffigurano sculture, bassorilievi, arancere si devono a François Perrier, Nicolas Poussin, Pietro Paolo Ubaldini, Francesco Albani, Andrea Sacchi, Francesco Romanelli, Filippo Gagliardi, Guido Reni, Domenico Zampieri (Domenichino), Giovanni Lanfranco, Girolamo Rainaldi; il frontespizio è di Pietro da Cortona. Non sono firmate le incisioni che raffigurano i fiori e i frutti dei numerosissimi agrumi e arnesi da innesto. Il primo libro, De aditu ad Hesperides ("Ingresso alle Esperidi"), di grande erudizione, è dedicato al mito di Ercole nel giardino delle Esperidi, di cui si ricostruisce la presenza nella letteratura e nell'arte; a conclusione una favola allegorica sul trasferimento delle ninfe Esperidi in Italia. Nei tre libri seguenti gli agrumi vengono classificati in tre grandi gruppi, a ciascuno dei quali è dedicato un libro, sotto la protezione di una delle ninfe Esperidi: i cedri nel secondo libro, Aegle sive malum citreum; i limoni nel terzo, Artehusa sive malum limonium; le arance nell'ultimo, Hesperthusa sive malum aurantium. La medesima struttura ricorre in ciascun libro: prima una discussione sui vari tipi, e gli svariati nomi, dell'agrume trattato, cui segue un minuzioso catalogo delle specie e varietà, illustrate da tavole di eccezionale fattura artistica e grande valore scientifico. Solitamente in alto è riprodotto un ramo con foglie, talvolta fiori, e un frutto maturo, in basso il frutto in sezione; a legare il tutto, un cartiglio in forma di nastro con il nome latino. Talvolta possono esserci anche frutti immaturi, il frutto visto dal basso, o dall'alto, per mostrarne alcune particolarità. Per gli appassionati di agrumi, è un documento eccezionale delle numerosissime varietà che si coltivavano nel Seicento. Seguono poi indicazioni sulla coltivazione, il trapianto, gli innesti, la lotta alle malattie, gli usi (con tanto di ricette) anche presso altri popoli (con una messe di curiose notizie etnografiche). Secondo il gusto barocco per il bizzarro, larghissimo spazio è dedicato alle forme mostruose, che erano particolarmente ricercate dai collezionisti e venivano anche volutamente create attraversi esperimenti di incroci. Al solito, la loro origine è attribuita a mitologiche metamorfosi. Ritiratosi Ferrrari nella natia Siena, dal Pozzo cercò di coinvolgerlo in un terzo lavoro sui pomi, ma il gesuita, ormai stanco e anziano si sottrasse. Morì nel 1655. Quale notizia sulla sua vita nella sezione biografie. Quel fiore indico che non viene dall'India L'illustrazione del flos indicus e violaceo fuscus (con la descrizione che ne dà Ferrari) è la prima attestazione nella letteratura scientifica europea di questa pianta che, come si è detto, era arrivata a Roma dalla Francia. Si rifanno a Ferrari (e non a una conoscenza diretta) il Gladiolus indicus e violaceo fuscus di Robert Morison (Plantarum historiae universalis, 1680) e il Narcissus indicus flore saturate purpureo di Olof Rudbeck (Reliquiae rudbeckianae, 1701). Il primo botanico a studiare dal vivo la curiosa bulbosa, e riconoscerne l'appartenenza a un nuovo genere fu l'olandese Johannes Burman, grande studioso della flora sudafricana, che nel 1761 le dedicò un articolo, comparso negli Atti dell'Accademia Leopoldino-Carolina, dandole il nome di Ferraria. Ma qualche tempo prima aveva comunicato la sua intenzione di creare la nuova denominazione a Philip Miller, che nel 1759 (sia in Figures of Plants sia nella settima edizione di The Gardeners Dictionary) descrisse la pianta, riconoscendo la paternità del nome a Burman. Ecco perché la denominazione completa del genere è Ferraria Burm. ex Mill. Il genere Ferraria, della famiglia Iridaceae, comprende 10-18 specie di cormofite diffuse in aree aride dell'Africa centrale e meridionale. Il maggior numero di specie si concentra lungo la costa occidentale del Sud Africa, preferibilmente in suolo sabbioso. Con l'eccezione di F. glutinosa, che vive nell'Africa tropicale meridionale con estati calde e umide e inverni freddi e aridi, vivono nella zona con piogge invernali e estate arida: in queste condizioni, fioriscono alla fine dell'inverno, poi perdono le foglie e vanno in riposo. I fiori della Ferraria sono davvero particolari: a forma di stella a sei punte, a volte con petali arricciati, hanno colori insoliti (crema, marrone chiaro, bruno, bruno-porpora) e sono spesso macchiettati. Inoltre molte specie emanano un odore sgradevole, che è stato descritto come simile a quello della melassa o dello zucchero caramellato con sentori di decomposizione. Non vi stupirà scoprire che (come le conterranee Stapeliae) queste specie sono impollinate da insetti sarcofaghi. Va detto, però, che per essere un genere così piccolo, Ferraria ha sviluppato strategie di impollinazione differenziate. F. ferrariola ha tepali dai colori delicati, giallo pallido o verde azzurro, quelli esterni con marcature più scure, vere e proprie "guide del nettare" che insieme al profumo dolce con sentori di violetta e di vaniglia attirano irresistibilmente le api. F. divaricata e F. variabilis, pur avendo colori smorti, dal bruno pallido al bruno scuro, uniforme o maculato, non hanno odore; i loro impollinatori sono varie specie di vespe. F. uncinata sembrerebbe invece essere impollinata da due specie di coleotteri. Qualche informazione in più su questo genere indubbiamente affascinante nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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