L'Università di Oxford vanta il più antico orto botanico della Gran Bretagna, fondato nel 1621, uno dei primissimi al mondo, nato addirittura prima di quello di Parigi. Ma per essere operativo ci mise vent'anni e per diventare un vero orto botanico universitario quasi mezzo secolo. A coltivarlo e custodirlo, due eccentrici personaggi: Jacob Bobart il vecchio e il giovane. Forse quasi tutto quello che si racconta su di loro appartiene più alla leggenda che alla realtà, ma sarebbe un peccato. In ogni caso, Linneo ne aveva abbastanza stima da onorarli con l'interessante genere Bobartia. Bobart padre e figlio: due eccentrici? Nel 1621 un gentiluomo della corte di Carlo I Stuart, Henry Danvers, primo conte di Danby, fece dono all'Università di Oxford di 250 sterline per affittare un terreno dove allestire un «vivaio dei semplici, dove un professore di botanica passa leggere le piante e mostrare i loro usi e virtù agli uditori». Sicuramente guardava ai modelli italiani; sappiamo che suo fratello minore John era un grande appassionato di giardini e ne aveva creato uno raffinatissimo a Chelsea, appunto sul modello italiano. Tuttavia la benemerita impresa partì con il piede sbagliato: fu scelto un terreno appartenente al Magdalene College situato sulla riva del fiume Cherquell soggetto a periodiche inondazioni; fu necessario bonificarlo con centinaia e centinaia di carrettate di buona terra e proteggerlo con un muro. Prima che fosse pronto, erano passati dodici anni. Di pianta quadrata, era un hortus conclusus al quale si accedeva da una porta monumentale, diviso in quattro quadranti da due viali perpendicolari. Era costato 5000 sterline, e ormai il generoso donatore era a corto di quattrini. Fu così che solo nel 1641 poté ingaggiare un abile giardiniere per prendersi cura del giardino, Aveva pensato addirittura a John Tradescant, che però mori prima di assumere l'incarico. Ripiegò allora sul tedesco Jacob Bobart. Le fonti lo dicono nativo di Brunswick, un ex soldato arrivato in Inghilterra per sfuggire alla guerra dei Trent'anni. Il contratto stipulato con Danby gli concedeva il diritto di usare e vendere i frutti del giardino. Ma già nel 1644 il nobiluomo morì, mentre ormai imperversava la guerra civile. Le sue proprietà furono poste sotto sequestro dai seguaci del Parlamento, e Bobart si trovò senza stipendio. A permettergli di mantenere se stesso e la numerosa famiglia (sposato due volte, ebbe due figli e una nidiata di sei figlie) più ancora dei prodotti dell'hortus medicus, o Physic garden, erano il commercio di piante medicinali e esotiche e la locanda The Greyound Inn, situata proprio di fonte al giardino. Era un giardiniere appassionato e di talento, ma anche alquanto bizzarro: ostentava una lunga barba, che nei giorni di festa ornava con tasselli d'argento, e come animale da compagnia, anziché un cane, teneva un caprone. Per venticinque anni, fu il signore e padrone del giardino, che trasformò in un paradiso terrestre: ai lati della porta monumentale, dispose una coppia di tassi a mo’ di guardiani, creò mirabili sculture verdi in topiaria, piantò tutte le piante esotiche che poté procurarsi nonostante il periodo difficile. Nel 1648 ne pubblicò il primo catalogo, anonimo: le specie e varietà, menzionate con il nome comune e una frase descrittiva in latino, sono 1639. Circa seicento sono native, ma ci sono anche numerose specie nordamericane. Poi la guerra finì, e così l'effimera Repubblica inglese. Nel 1660 Carlo II recuperò il trono e tornò in Inghilterra accompagnato dal medico personale e botanico reale Robert Morison. Proprio lui nel 1669 (48 anni dopo la fondazione) divenne il primo professore di botanica di Oxford e il primo direttore dell'orto botanico (praefectus horti). Bobart il vecchio era già sulla settantina e non sappiamo come prese la convivenza. Forse, a collaborare con il neo professore, più che lui, fu suo figlio Jacob il giovane, che già nel 1658 aveva aiutato il padre a scrivere una seconda edizione del catalogo. Morison era un grande botanico, ma era anche celebre per la sua alterigia: come Ray, era alla ricerca di un metodo naturale per classificare le piante e riteneva che tutti i botanici del presente e del passato che si erano imbarcati nella stessa impresa avessero scritto solo fregnacce (allucinazioni, Hallucinationes, diceva lui). Riuscì a convincere l'Università di Oxford a pubblicare la sua ambiziosissima Historia Plantarum Universalis Oxoniensis, in cui intendeva presentare tutte le piante note, catalogandole in gruppi naturali sulla base dei frutti e dei semi. Il compito dei Bobart era procurargli le piante e allestire l'erbario. Probabilmente Jacob il giovane (non risulta invece che lo avesse fatto il padre) lo assisteva durante le dimostrazioni delle piante (anche a Parigi le lezioni pratiche erano impartite dal capo giardiniere). Nel 1680 succedette al padre come curatore del giardino e nel 1683, alla morte improvvisa di Morison in seguito a un incidente stradale, ne divenne praefectus; fu nominato professore assistente e l'Università gli affidò il completamento di Historia Plantarum Universalis. Morison aveva fatto in tempo a pubblicare solo il secondo volume; Bobart riuscì a completare il terzo, mentre il primo non fu mai scritto. Senza essere un botanico di primo piano, se la cavò con scrupolo e onore, aggiungendo anche molte piante nuove, ma ebbe cura di espungere i feroci attacchi di Morison contro gli "allucinati" botanici del passato e del presente. Tuttavia, la costosissima impresa editoriale portò la casa editrice universitaria sull'orlo del fallimento. Vissuto fino in tarda età, poco prima della morte fu costretto alle dimissioni, con grande rincrescimento di William Sherard che era stato suo allievo e ne aveva grande stima. Il suo maggiore merito è la creazione di un grande erbario, che costituisce il primo nucleo dell'Erbario dell'Università di Oxford. Su di lui si racconta un curioso aneddoto: avendo trovato nel giardino un grosso topo morto, ne alterò la testa e la coda e ne distese la pelle per simulare due ali, in modo che assomigliasse all’immagine tipica di un drago. Esaminato dai professori di Oxford, l’artefatto fu creduto autentico e celebrato in versi nelle società erudite; qualcuno ne spedì persino una descrizione a Antonio Magliabechi, bibliotecario del granduca di Toscana. Solo a questo punto Bobart confessò l’inganno. Un visitatore lamentò che, con la mani e la faccia sporche di terra, più che un grande botanico, sembrava un qualsiasi giardiniere. Leggenda e realtà Fin qui l'immagine tradizionale dei due Bobart: due eccentrici dai modi anticonvenzionali, due figure pittoresche. Ma come capita spesso, quando una storia è troppo bella per essere vera, probabilmente non lo è. La studiosa tedesca Karin Seber, che ha attentamente studiato le poche fonti disponibili su Jacob il vecchio, è giunta alla conclusione che quasi tutto ciò che sappiamo su di lui è falso o va interpretato in modo totalmente diverso. In primo luogo, non era affatto un oscuro soldato tedesco senza né arte né parte giunto in Inghilterra dalla natia Brunswick. Apparteneva a un'eminente famiglia (il nome originale è Bobert) di mercanti di Danzica, e forse era addirittura figlio del borgomastro della città; uno dei suoi parenti - forse un fratello - commerciava con l'Olanda; come dimostrano i libri che lasciò al figlio e furono poi da questi donati all'Univeristà, già in patria aveva studiato botanica medica. Seber ipotizza che si sia trasferito in Inghilterra come mercante, forse già specializzato nel commercio di piante medicinali e altri semplici. Difficile pensare che lord Danby, che avrebbe voluto ingaggiare John Tradescant, giardiniere del re e massimo esperto di giardinaggio del tempo, abbia assunto al suo posto un signor nessuno. Forse già prima di entrare al suo servizio, Bobart aveva affittato (o acquistato) la locanda, utilizzandone i terreni per coltivare piante medicinali e i locali come base del suo commercio, facendosi notare per la sua grande competenza di giardiniere e esperto di piante officinali. Secondo Seber, anche le sue abitudini bizzarre vanno rilette; nel frontespizio di Vertumnus, un poema di Abel Evans in onore di Jacob il giovane, alla sinistra della porta monumentale del giardino è stato rappresentato il suo primo custode con una chioma fluente e una lunga barba; nella mano sinistra impugna il bastone di Asclepio, simbolo della medicina. Accanto a lui, una capra (simbolo della voracità naturale domata dalle arti del giardiniere?); più oltre un cane addormentato. Dunque, quei tratti eccentrici fanno parte di una voluta autorappresentazione come depositario e custode dei segreti delle erbe medicinali. Ovviamente, anche la storia del drago di Oxford è stata rimessa in discussione dagli scettici, che fanno notare che la prima attestazione scritta (nella Biographical history of England di Granger e Walpole) è del 1774, più di mezzo secolo dopo la morte del suo protagonista; inoltre non è mai stato trovato neppure uno degli scritti che gli sarebbero stati dedicati dalle società erudite. Forse dunque l'aneddoto è altrettanto posticcio quanto il topo-dragone. D'altra parte, sta a testimoniare la fama di eccentricità che circondava i Bobart, padre e figlio. I fiori effimeri di Bobartia Linneo in persona li stimava abbastanza da dedicare loro il genere Bobartia, della famiglia Iridaceae. Con una quindicina di specie, tutte sudafricane, anzi ristrette alle Provincia del Capo, questo piccolo genere è caratterizzato da sottili rizomi orizzontali o eretti, ciuffi di foglie sottili che in alcune specie ricordano il giunco, lunghi scapi fiorali con infiorescenze terminali di fiori lievemente asimmetrici con sei tepali solitamente gialli (ad eccezione di B. lilacina, che li ha lilla chiaro). Sono graziosi, ma di breve durata (meno di una giornata). Forse questo spiega perché le specie di questo genere sono raramente coltivate. Vivono per lo più in ambienti montani, con terreni sabbiosi e poveri di nutrienti, e tendono a fiorire più copiosamente dopo gli incendi. Qualche informazione in più nella scheda.
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Che la Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC) non fosse un ente di beneficenza è chiaro: il suo fine era il guadagno, a qualsiasi prezzo, compresi la deportazione e il genocidio degli indigeni, la distruzione delle piante della concorrenza, la difesa del proprio monopolio a cannonate. Chi si arruolava come mercenario nel suo esercito privato sapeva di dover essere pronto a tutto. Se poi, venuto dal nulla, riusciva pure a fare fortuna, certo non doveva mancare di pelo sullo stomaco. Sicuramente non ne difettava il (sedicente?) medico Andreas Cleyer: arrivato a Batavia come soldato da una Germania ancora segnata dalla Guerra dei Trent'anni, riuscì in breve tempo a diventare il direttore e il fornitore ufficiale della farmacia della VOC, a scalare i vertici locali della Compagnia e ad essere l'unico non olandese a dirigere l'emporio di Dejima (dove fece soldi in modo per lo meno disinvolto). Il suo interesse per le piante però non era solo strumentale e, insieme al suo capo giardiniere Georg Meister, ha lasciato uno dei primi contributi sulla flora giapponese, precedendo anche Kaempfer (che probabilmente convinse ad accettare il posto di chirurgo a Dejima). Tutto sommato meritato l'omaggio tributatogli da Thunberg, che gli dedicò una pianta molto importante nella cultura giapponese, la sacra Cleyera japonica. Da faccendiere a naturalista Al contrario dell'eroe di Thomas Mann, il cavaliere d'industria Andreas Cleyer (1634-1698) non ci ha lasciato le sue confessioni; altrimenti forse sapremmo qualcosa di più (o a ben pensarci ancora di meno) sui punti oscuri della sua vita. Due certezze: la nascita a Kassel, in Assia, nel 1634, quando ancora imperversava la Guerra dei Trent'anni, e l'arrivo nelle Indie orientali olandesi nel 1662, come adelborst, ovvero soldato mercenario al servizio della VOC. In mezzo, il vuoto. La sua versione è che si fosse laureato in medicina (forse a Marburg), ma non risulta immatricolato in nessuna università. Certo qualche studio l'aveva fatto: sapeva il latino e si intendeva davvero di anatomia e piante medicinali; almeno abbastanza da essere assunto all'ospedale della VOC di Batavia come assistente. Da quel momento, incominciò a fare carriera. Nel 1665, i registri della Compagnia indicano che era stato assegnato alla farmacia del forte con il compito di preparare e consegnare i medicinali. L'anno successivo fu coinvolto nella fondazione della scuola latina, di cui per qualche tempo fu anche rettore. Ma ad assicurargli la ricchezza e una posizione sociale eminente furono le piante officinali: nel 1667, alla morte del farmacista della fortezza, ne prese il posto e l'anno successivo assunse anche la gestione della farmacia cittadina; più tardi aprì un proprio negozio. I semplici, gli ingredienti dei medicinali, che arrivavano dall'Europa, oltre ad essere molto costosi, a causa del lunghissimo viaggio per mare spesso perdevano tutte le loro virtù. L'idea geniale di Cleyer fu di produrli lui stesso sul posto. Allestì uno o più orti dei semplici (sappiamo che li lavoravano ben cinquanta schiavi) dove fu in grado di far coltivare le erbe medicinali che poi utilizzava per creare medicamenti a basso costo. A basso costo per lui, s'intende: riuscì a strappare un lucrativo contratto alla VOC, che pagava le sue medicine al prezzo corrente sul mercato europeo maggiorato di una commissione del 50% (un prezzo così sospetto che ad Amsterdam fiutarono l'inganno e rescissero il contratto). Il suo interesse per le piante medicinali però era genuino, e non solo come fonte di guadagno, al punto di creare attorno a sé una piccola rete di collaboratori, in genere altri tedeschi giunti come lui a Batavia in cerca di fortuna. Per qualche tempo quello principale fu Georg Meister (1653-1713), anche lui arruolatosi come soldato mercenario; in patria però era stato giardiniere, e a partire dal 1677 Cleyer ne fece il suo capo giardiniere. Ufficialmente, era un dipendente della VOC, e a guardare per il sottile che lavorasse per Cleyer era illegale, dettaglio che certo non impensieriva il nostro disinvolto affarista, che ormai era uno dei membri più ricchi, stava scalando i vertici locali della Compagnia e dal 1680 faceva parte del Consiglio di giustizia. Incominciò anche a farsi conoscere in Europa come naturalista; nel 1678 fu ammesso all’Academia naturae curiosorum (la futura Accademia leopoldina di Berlino) ed entrò in contatto con i direttori dell'Orto botanico di Amsterdam, cui inviò diverse piante e con vari accademici tedeschi, tra cui Christian Mentzel. Nel 1681 capitò a Batavia un altro tedesco, Heinrich Claudius (il nome è più noto nella forma olandese Hendrik, circa 1665-97): era un farmacista e anche un dotato pittore. Clayer lo assunse e decise di approfittare dei suoi talenti per spedirlo a Mauritius e al Capo di Buona Speranza a fare incetta di piante medicinali. Tuttavia in Sud Africa Claudius passò direttamente al servizio della VOC e il suo rapporto con Cleyer si interruppe. L'anno dopo l'intraprendente farmacista fu nominato opperhoofd (mercante-capo o governatore) di Dejima, benché non fosse olandese e in teoria solo questi ultimi vi fossero ammessi. Da una parte era un incarico redditizio, perché (in modo più o meno tollerato) i mercanti olandesi, oltre che per conto della VOC, trafficavano in proprio; dall'altra parte Cleyer contava di approfittarne per studiare la flora giapponese, tanto che si fece accompagnare da Georg Meister (interesse privato in atto d'ufficio, ma violazione più violazione meno...). Cleyer fu governatore di Dejima per due mandati, nel 1682-83 e nuovamente nel 1685-86, quando fu espulso dalle autorità giapponesi con l’accusa di non tenere abbastanza sotto controllo il contrabbando. Visto che i giapponesi coinvolti furono giustiziati e al suo rientro a Giava egli era abbastanza ricco da acquistare la più bella casa di Batavia, è molto probabile che uno di quei contrabbandieri fosse proprio lui. In Giappone acquistò uno splendido manoscritto con centinaia di disegni di piante e uccelli; inviato a Berlino a Mentzel, ora è uno dei gioielli della Biblioteca di stato; inoltre mise a frutto l'anno e mezzo trascorso a Dejima (compresi i due viaggi a Edo per rendere omaggio allo shogun) per raccogliere i materiali e informazioni grazie ai quali, dopo il ritiro a vita privata, si costruì una reputazione di naturalista e esperto di cose giapponesi. Infatti, l'espulsione dal Giappone, che sicuramente creò non pochi problemi alla VOC, lo costrinse a lasciare la Compagnia; da quel momento dedicò il suo tempo alla ricerca e alla scrittura. Già nel 1682 aveva esordito in questa attività pubblicando Specimen medicinae sinicae, il primo testo illustrato di medicina cinese uscito in Europa; anche se il suo nome compare sul frontespizio, ne era solo il curatore; si tratta infatti della traduzione di trattati di medicina cinese a opera di vari padri gesuiti missionari in Cina; uno di loro era il polacco Michael Boym, di cui nel 1686 Cleyer pubblicò un trattato sull'esame del polso, Clavis medica ad Chinarum de pulsibus. A partire dal 1683, incominciò a contribuire alle Miscellanee dell’Academia Naturae Curiosorum di Berlino con una serie di Observationes (in tutto 46, alcune postume) che riguardano argomenti diversi, tra cui la pratica della moxa, ma il nucleo più consistente è costituito dalla descrizione di una cinquantina di piante giapponesi, comprese Camellia japonica e Wisteria japonica. Eccetto alcune specie coltivate di larga diffusione, sono basate, più che sull'osservazione delle piante vive, sulle informazioni raccolte dagli interpreti e su campioni di medicinali; non di rado le descrizioni sono dunque assai parziali e vertono in gran parte sulle proprietà officinali. Bastano però a farne il pioniere dello studio della flora nipponica; inoltre gli va riconosciuto il merito di aver incoraggiato Kaempfer ad accettare l'incarico di chirurgo a Dejima, dove egli poté riprendere la sua indagine con ben altra competenza e profondità. Cleyer non tornò mai in Europa e rimase a Giava, dove morì nel 1698. Invece il giardiniere Meister, che come abbiamo visto lo accompagnò nei due soggiorni giapponesi, nel 1686 tornò in Germania, divenne giardiniere capo dell'elettore di Sassonia a Dresda e nel 1692 pubblicò il curioso Der Orientalische-Indianische Kunst-und Lust-Gärtner, «Il giardiniere d’arte e di piacere delle Indie orientali», il primo libro esplicitamente dedicato ai giardini dell’Estremo oriente. Nel capitolo dieci Japponische Baumschule "Vivaio giapponese" si parla dell'arte del bonsai e si descrive un'ottantina di piante giapponesi. Le descrizioni di Meister sono considerate ancora più approssimative di quelle del suo datore di lavoro. Del resto, a parte qualche breve escursione, non lasciò mai Dejima, e anche per descrivere i giardini giapponesi di Nagasaki dovette affidarsi totalmente a quanto gliene riferirono gli interpreti. Cleyera ovvero il sacro sakaki Carl Peter Thunberg, anche lui medico della VOC quasi un secolo dopo queste vicende, quando le condizioni di semi prigionia in cui operavano gli olandesi si erano fatte ancora più aspre, riconobbe i meriti di precursore del nostro naturalista-faccendiere dedicandogli in genere Cleyera; e scelse opportunamente una pianta estremamente significativa per la cultura giapponese, il sakaki (Cleyera japonica): considerata sacra nella religione shintoista, i suoi rametti intrecciati con strisce di carta, seta e cotone formano il tamagushi, offerto ritualmente in occasione di matrimoni, funerali e altre cerimonie. Inoltre boschetti di sakaki delimitano lo spazio sacro attorno ai templi. Si tratta della più nota delle circa venti specie del genere Cleyera (famiglia Pentaphylacaceae), caratterizzato da una distribuzione disgiunta: due terzi delle specie vivono nell'Estremo oriente temperato (dall'Himalaya al Giappone), il resto in Messico e America centrale. C. japonica è un grande arbusto o un alberello sempreverde con foglie ovali, coriacee, lucide, verde scuro nella pagina superiore, verde giallastro in quella inferiore, profondamente solcate in corrispondenza del picciolo. All'inizio dell'estate produce piccoli fiori profumati bianchi simili a quelli della camelia (un tempo le Pentaphylacaceae facevano parte della famiglia Theaceae). I frutti sono bacche dapprima rosse quindi nere, anch'esse rese attraenti dal contrasto con i sepali persistenti. E' l'unica specie del genere talvolta disponibile nei nostri vivai, anche nella forma 'Variegata' o 'Tricolor', con foglie dai margini crema. Per circa due secoli, l'isolotto artificiale di Dejima fu l'unico punto d'incontro tra il Giappone e l'Occidente; tra mille limitazioni, fu soprattutto grazie ai medici della VOC, la Compagnia olandese delle Indie orientali (e ai loro interpreti giapponesi), se da una parte il Giappone scoprì qualcosa della scienza e della tecnologia europee, dall'altra filtrarono in Europa le prime notizie sulla cultura e la natura giapponesi. Il pioniere di questo incontro difficile fu Engelbert Kaempfer, che alla fine del Seicento lavorò come medico e chirurgo a Dejima per due anni e mezzo, osservando, annotando, disegnando tutto il possibile con occhio di curioso e rigore di scienziato. Del Giappone del suo tempo gli interessava tutto, ma riservò uno spazio particolare alla flora, scrivendo la primissima Flora japonica, con circa 200 specie. Tra tutte, la più famosa è Ginkgo biloba; e si deve proprio a Kaempfer il piccolo errore di trascrizione che ha trasformato il giapponese ginkio in ginkgo, traendo in inganno Linneo, grande ammiratore del pioniere degli studi nipponici, cui dedicò il genere Kaempferia. La strada per il Giappone passa dalla Persia Quando il medico tedesco Engelbert Kaempfer arrivò in Giappone per prendere servizio nella minuscola stazione commerciale di Dejima, situata in un isolotto artificiale nella baia di Nagasaki (ne ho parlato qui) era un già un viaggiatore di lungo corso. Il suo vero cognome era Kemper, ma più tardi lo cambiò in Kaempffer o Kempfer, che significa «guerriero, combattente», quasi un emblema del suo carattere. Nato nella contea di Lippe, un piccolo stato periferico della Germania settentrionale, incominciò i suoi vagabondaggi da studente, passando da un'università all'altra finché su laureò in filosofia a Danzica; continuò poi gli studi in medicina a Cracovia e Köningsberg. Nel 1681 si trasferì a Stoccolma; entrato in contatto con politici influenti, fu assunto come medico e segretario di legazione della seconda ambasciata svedese in Persia, guidata da Ludvig Fabritius, un militare e diplomatico di origine olandese. Il lungo viaggio tra Stoccolma e Isfahan, la capitale della Persia safavide, durò quasi esattamente un anno, da marzo 1683 a marzo 1684. Lungo il cammino, che portò la delegazione ad attraversare la Finlandia, la Livonia, l'impero russo, per poi navigare sul mar Caspio e percorrere l'Iran settentrionale, animato da una forte curiosità intellettuale e probabilmente già intenzionato a trasformare le sue avventure in un libro di viaggi, Kaempfer raccolse ogni possibile informazione, visitò siti storici e curiosità naturali (tra cui i campi petroliferi di Badkubeh, oggi Baku), prese misure e tracciò mappe, disegnò oggetti, intervistò ogni sorta di informatori. Kaempfer rimase a Isfahan circa venti mesi (marzo 1684-novembre 1685), imparò il persiano e il turco, e visitò sistematicamente la città, compresi diversi giardini, facendo molti disegni. Come membro della legazione svedese, ebbe accesso alla corte, dove poté osservare edifici, costumi, rituali, comportamenti. Al termine della missione decise di non rientrare in Svezia, ma di cercare un ingaggio nella VOC, che aveva una base commerciale anche a Gamron (oggi Bandar Abbas) sul golfo Persico. Per raggiungerla si aggregò a una carovana; durante il viaggio visitò Shiraz, il monte Benna e Persepoli. Qui abbandonò i compagni di viaggio per studiare le antiche rovine: misurò meticolosamente gli edifici, trascrisse alcune iscrizioni e fu il primo a notare che i caratteri avevano forma di cuneo. Giunto a Bandar Abbas negli ultimi giorni del 1685, vi rimase bloccato per due anni e mezzo, anche se la detestava con tutto il cuore: «È la città più infertile, arida, calda, pestilenziale del mondo, quella che più assomiglia all’inferno di tutto il globo» . In quel clima infernale Kaempfer si ammalò gravemente; per riprendersi, andò a passare i mesi estivi in montagna; quindi visitò le piantagioni di palma da dattero, raccogliendo informazioni sulle caratteristiche botaniche, la coltivazione, l’importanza commerciale. Solo dopo vari mesi, fu assunto come medico della base della VOC. Per circa un anno, dal giugno 1688, lavorò come medico di bordo sulla Copelle, una nave della VOC che commerciava nei porti indiani; nell’agosto 1689, era a Batavia, dove presentò domanda senza successo per essere assegnato all’ospedale della Compagna. Pensava di rimanere a Giava, di cui conosceva la ricchezza floristica, ma quando gli venne offerto il posto di chirurgo a Dejima, accettò. Sarebbe rimasto in Giappone due anni, dal settembre 1690 all’ottobre 1692. A caccia di piante giapponesi La condizione degli olandesi a Dejima era di semiprigionia: non potevano uscire liberamente dall'isola, ogni loro movimento era sorvegliato (per ogni olandese c'erano almeno dieci sorveglianti, tutti a carico della VOC), non avevano contatti al di fuori della stazione, era loro negato l'accesso a qualsiasi oggetto considerato sensibile dalle autorità (vietatissime le mappe). Nonostante tutti questi limiti, Kaempfer seppe sfruttare ogni occasione per raccogliere una grande messe di informazioni sulla vita quotidiana, i costumi, la religione, la storia naturale. Conquistò l’amicizia (e le confidenze) di varie persone con cure gratuite, medicine, lezioni di medicina e matematica. Di grande aiuto fu l'assistenza del giovane Imamura Iensei, che gli fu affiancato come interprete e allo stesso tempo come apprendista di medicina e chirurgia occidentali; il ragazzo, colto, abile e intelligente, imparò rapidamente l’olandese, e rimase a fianco di Kaempfer, cui era legato da grande venerazione, fino alla fine del suo soggiorno a Dejima, accompagnandolo anche nei due viaggi a Edo. Grazie a lui, altri interpreti, pazienti, medici che praticavano la medicina occidentale, Kaempfer poté procurarsi libri (compresa un’enciclopedia illustrata), mappe, disegni, oggetti di varia natura, sebbene in teoria fosse vietato. Anche il suo amore per le piante, molto ammirato dai giapponesi, funzionò come una sorta di passaporto, che gli permetteva di dedicarsi a indagini su oggetti sensibili in tutta tranquillità: «Sistemavo apertamente erbe, fiori e rami verdi accanto ai miei strumenti, e mentre li misuravo, li esaminavo, li descrivevo e li disegnavo, ne approfittavo per descrivere e disegnare tutto quello che volevo». Nella primavera del 1691 e del 1692, i due viaggi a Edo, durante i quali la delegazione olandese attraversò il Kyushu per imbarcarsi alla volta di Osaka e quindi percorse il Tokaido, la più celebre e affollata strada dell’antico Giappone, gli permisero di conoscere di persona alcune delle regioni più importanti del paese e di raccogliere campioni di animali e piante: attività non proibita, anzi apprezzata dai giapponesi, tanto che i suoi accompagnatori (e sorveglianti), incluso il governatore, spesso gli portavano qualche pianta. Per rendersi indipendente dagli interpreti, con il suo talento per le lingue imparò le frasi necessarie per informarsi su dati come il periodo di fioritura o la fruttificazione. Kaempfer lasciò Dejima il 30 ottobre 1692 e rientrò in Olanda via Giava circa un anno dopo. Non avendo completato gli studi di medicina, per poter esercitare la professione in Europa si iscrisse all’Università di Leida, dove ottenne la laurea magistrale. Forse sperava di inserirsi nell’ambiente accademico olandese o tedesco, ma non gli fu possibile. Nel 1694, dopo un’assenza di ventitré anni, ritornò in patria e dovette rassegnarsi a vivere in una realtà provinciale, prima nella cittadina di Lemgo, poi al servizio del conte di Lippe. Gli impegni professionali gli lasciarono poco tempo per rivedere i suoi scritti, senza contare un matrimonio infelice sfociato in una causa legale; riuscì solo a completare e a veder pubblicata Amoenitates exoticae, una raccolta di saggi in cinque parti, le prime quattro dedicate alla Persia, la quinta al Giappone. Quest’ultima comprende saggi su argomenti come l’agopuntura, l’uso della moxa, il tè, il sakoku (termine introdotto proprio da Kaempfer), e una Flora japonica con la descrizione di circa 200 piante; i limiti delle sue finanze gli permisero però di far stampare solo 28 dei suoi numerosissimi disegni. A ricordarci l’importanza del suo contributo alla conoscenza della flora nipponica, le venti specie giapponesi che portano l'epiteto kaempferi; tra di esse Larix kaempferi, Rhododendron kaempferi, Broussonetia kaempferi. Fu il primo a descrivere e disegnare piante oggi notissime come Ginkgo biloba, Pittosporum tobira, Ophiopogon japonicum. Talvolta gli si attribuisce l’introduzione del primo ginkgo in Europa, ma in realtà i due esemplari più antichi, che si trovano rispettivamente a Utrecht e Geetbets, furono piantati almeno trent’anni dopo . Si deve invece a lui (o al tipografo che compose Amoenitates exoticae) l’errore di trascrizione a causa del quale il giapponese ginkio divenne ginkgo. Rimasero manoscritti i due progetti più ambiziosi di Kaempfer: la relazione completa dei suoi viaggi e il libro sul Giappone Huetiges Japan («Il Giappone di oggi»). Dopo la sua morte, avvenuta nel 1716, gli erbari e i manoscritti furono acquistati dal medico e collezionista inglese Hans Sloane, che finanziò la pubblicazione dell'edizione inglese curata dal naturalista svizzero Johann Caspar Scheuchzer, History of Japan (1727). Quasi trent’anni dopo il viaggio giapponese e undici anni dopo la morte di Kaempfer, l’opera ebbe un successo sensazionale e presto fu tradotta in altre lingue europee, forgiando per almeno un secolo l'immagine del Giappone in Occidente. Non meno profondo e permanente fu l’impatto sulla cultura europea delle pagine dedicate alla corte persiana e alle antichità di Persepoli. Una sintesi della vita di questo grande viaggiatore nella sezione biografie. Kaempferia, profumi tropicali La Flora japonica contenuta in Amoenitates exoticae costituisce la fonte principale di Linneo per le piante giapponesi; morto nel 1778 e già malato da tempo, egli infatti non poté giovarsi delle ricerche dell’allievo Carl Peter Thunberg. Non stupisce dunque la sua dedica del genere Kaempferia a quel pioniere dello studio della flora nipponica, così motivata in Hortus Cliffortianus: «Ho dedicato questo genere al curiosissimo viaggiatore Kaempfer, al quale dobbiamo la conoscenza delle piante giapponesi e la loro accurata descrizione». Il genere Kaempferia L. (famiglia Zingiberaceae) comprende una quarantina di specie di piante erbacee originarie dell’Asia tropicale e subtropicale (India, Indocina, Cina meridionale, Malaysia, arcipelago indonesiano), con centro di diversità nel bacino del Mekong. Di piccole dimensioni, hanno radici rizomatose aromatiche che producono da una o poche foglie ovoidali o tondeggianti raccolte a rosetta, che in alcune specie sono marcate d’argento o porpora; i fiori, che in genere spuntano al livello del terreno, in alcune specie prima delle foglie, sono profumati e relativamente vistosi. Diverse specie fanno parte della farmacopea tradizionale o sono usate come spezie: ad esempio, le foglie di K. galanga (il cui aroma ricorda quello di Alpinia galanga, del resto appartenente alla stessa famiglia) sono un ingrediente comune della cucina di Giava e Bali, mentre le radici hanno proprietà antibatteriche, digestive e diuretiche. Alcune specie sono coltivate come piante d’appartamento; una delle più notevoli è K. elegans, una piccola erbacea non più alta di 20 cm, apprezzata, più che per i piccoli fiori lilla, per le foglie vistosamente marcate d’argento. K. pulchra è simile, ma con marcature scure. Qualche informazione in più nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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