Arrivano dalle foreste pluviali dell'Asia e dalle praterie del Mediterraneo Molineria e Molineriella, i due generi dedicati a Ignazio Molineri, giardiniere dell'orto botanico di Torino, appassionato ricercatore di piante che contribuì forse più di ogni altro alla conoscenza della flora piemontese. Gli resero omaggio botanici del calibro di Allioni - che assistette per decenni, prestandogli i suoi occhi acuti -, Balbis e Parlatore. ![]() Una dinasty dell'orto botanico di Torino Tra i dedicatari dei nomi botanici, sono relativamente rari gli esponenti di una categoria senza la quale nessun giardino, tanto meno un orto botanico, potrebbe prosperare e addirittura sopravvivere: quella dei giardinieri. Tra le fortunate eccezioni, Ignazio Molineri che a cavallo tra Settecento e Ottocento lavorò all'orto botanico di Torino per un quarantennio, percorrendo tutte le tappe della carriera da apprendista a capo giardiniere. Approfittiamone per conoscere più da vicino lui e i suoi compagni di lavoro in un giardino di fama europea, ma di dimensioni modeste e soprattutto di scarsi mezzi finanziari (ancora nell'Ottocento, i curatori lamentavano che i finanziamenti non erano neppure sufficienti per un adeguato riscaldamento delle serre, per non parlare dell'acquisto di piante esotiche). Intorno al 1730 (l'orto era stato istituito nel 1729) il personale era costituito da Sante Andreoli o Andreola, "giardiniere di botanica o erbolaio", Pietro Cornaglia, aiuto giardiniere e erbolaio in seconda, e due garzoni, Francesco Peyroleri e un altro di cui non conosciamo il nome, cui potevano aggiungersi all'occasione avventizi e lavoratori a giornata. Accanto alle competenze orticole necessarie per dirigere il lavoro di assistenti e garzoni, all'erbolaio era richiesta una perfetta conoscenza pratica e teorica delle piante, soprattutto officinali; tra i suoi compiti infatti rientrava la raccolta in natura di piante, sia per accrescere le collezioni, sia per fornire i semplici destinati allo studio e alla coltivazione; inoltre doveva assistere il professore di botanica e direttore dell'orto supportandolo durante le lezioni di materia medica. Non a caso, Bartolomeo Caccia (1695-1746, il primo direttore dell'orto di Torino), in assenza di personale già formato nella capitale sabauda, fece venire Andreoli dall'orto botanico di Padova; appartenente a una famiglia di giardinieri dell'istituzione patavina, egli era già in età avanzata e quindi Caccia ritenne opportuno affiancargli Pietro Cornaglia, che poi alla morte di Andreoli, di cui non conosciamo con precisione la data, gli succedette come primo erbolaio. Cornaglia accompagnò Donati in diversi viaggi; in particolare nel 1751 fu con lui ad erborizzare in val di Susa, sul Moncenisio, in Moriana, in Tarantasia, sul Gran San Bernardo e in Val d'Aosta. Quanto a Francesco Peyroleri, che intorno al 1750 fu nominato secondo erbolaio, avendo dimostrato un notevole talento per il disegno, la sua attività principale divenne quella di "disegnatore delle piante botaniche". Autore di centinaia di tavole dell'Iconographia taurinensis, d'altra parte Peyroleri partecipò attivamente all'esplorazione botanica del territorio sabaudo, anche per procurarsi le piante vive da ritrarre; ancora nel 1764 (all'epoca si avvicinava ai sessant'anni) lo troviamo come compagno di viaggio di Bellardi tra Val d'Aosta e Savoia (ne ho parlato in questo post). Ma sulla figura del disegnatore, che andava ormai differenziandosi da quella di giardiniere, avremo occasione di tornare in un'altra occasione. E' ora infatti che entri in scena il nostro protagonista. Cornaglia era originario di Montaldo di Mondovì, un paesino di montagna descritto dai contemporaneo come "selvaggio e alpestre"; com'era uso all'epoca, scelse come collaboratori alcuni parenti. Il primo fu un nipote, Paolo Cornaglia, che nel 1759 fu aggregato come giardiniere alla spedizione di Donati in Oriente; purtroppo, come ho raccontato in questo post, non andò più lontano di Venezia, dove giunse già malato e morì. Ben più fortunate furono le vicende dei fratelli Molineri, che di Cornaglia erano cugini. Il primo ad arrivare a Torino dalla nativa Montaldo fu Pietro (nato nel 1736), che percorse una dopo l'altra le tappe ormai istituzionalizzate della carriera di giardiniere dell'orto torinese: nel 1758 fu assunto come garzone straordinario; nel 1761 divenne allievo; nel 1777 aiutante erbolaio; nel 1781 (e fino alla morte, 1800) giardiniere capo o custode. Qualche anno dopo lo raggiunse il fratello minore Ignazio, che nel 1767 risulta in forza come allievo giardiniere. Le opere di Allioni (direttore dal 1763 al 1781) sono prodighe di elogi per i due fratelli, definiti "giovani assai pazienti alle fatiche, dotati di ingegno e di corpo robusto, abili orticultori". Allioni stesso li istruì nel sistema di Linneo e i due divennero naturalisti compiuti. Il contributo di entrambi all'esplorazione del territorio piemontese fu inestimabile, tanto che in Flora pedemontana e in Auctarium ad floram pedemontanam sono citati come raccoglitori quasi ad ogni pagina. La predilezione di Pietro andava all'entomologia e numerosissimi sono gli insetti che fornì ad Allioni (la cui collezione pare si aggirasse sui 4000 esemplari); egli scoprì anche alcune nuove specie che poi furono pubblicate da Fabricius. La passione di Ignazio era invece la botanica; raccoglitore entusiasta, percorse molte contrade del Piemonte, raccogliendo ben 127 specie diverse. Tra le sue scoperte più notevoli, Saxifraga florulenta, la rara sassifraga dell'Argentera. Tra i suoi compiti, anche l'allestimento e la cura degli esemplari essiccati che andarono a costituire il primo nucleo dell'Erbario dell'orto torinese. Quando l'avanzare dell'età e l'affaticamento causato dal continuo uso del microscopio danneggiarono la vista di Allioni, fu Ignazio - di cui ancora una volta il professore loda la perizia e la diligenza nella raccolta e nello studio delle piante - a prestargli i suoi occhi, consentendogli di completare le sue opere. Non ultimo merito di Ignazio fu aver preservato le raccolte stesse dell'orto negli anni di trascuratezza dovuti alla malattia di Dana e alla guerra. Nel 1801, morto il fratello, gli succedette come giardiniere capo iniziando una fervida collaborazione con il nuovo direttore, Giovanni Battista Balbis. Fu anzi proprio lui, con il suo entusiasmo, il suo aiuto e il suo sostegno a incoraggiare Balbis - desolato di fronte allo spettacolo di tanta rovina - a intraprendere l'impresa di fare rivivere e restituire ai passati fasti l'orto torinese, Benché fosse ormai sulla sessantina, lo accompagnò anche in diverse escursioni tutt'altro che agevoli sulle montagne piemontesi; Balbis volle preservarne la memoria dedicandogli Poa molinerii e Iberis molinerii. Nel suo catalogo dell'orto (1810) ne scrisse una lode che è anche il più ampio ritratto del valente giardiniere. Oltre a riconoscere apertamente che, senza di lui e il suo paziente lavoro di raccoglitore, non ci sarebbero state né le opere di Allioni né le sue, ricorda come questo autodidatta, nato in un villaggio di montagna, oltre ad essere un botanico di eccezionale valore, dominasse il francese e il latino; avesse imparato del greco almeno quanto era necessario per comprendere l'etimologia dei termini botanici; padroneggiasse la geografia, tanto importante per la raccolta delle piante legate a determinati habitat; avesse voluto compektare le sue conoscenze con lo studio di geometria e astronomia. In tanta stima lo aveva Balbis che lo propose come membro della Commissione di scienze ed arti incaricata di stendere un progetto generale di istruzione pubblica. Nel 1802, quando venne creata la scuola di veterinaria presso il Valentino, la commissione esecutiva lo nominò dimostratore delle piante, ovvero insegnante di botanica. Morì in tarda età circondato dalla stima generale nel 1818. Una sintesi di questa vita contemporaneamente semplice ed eccezionale nella sezione biografie. ![]() Molineria, foglie dal fascino tropicale Qualche anno dopo la sua morte, nel 1826, un nuovo omaggio giunse da Colla. Nel suo giardino di Rivoli egli coltivava Curculigo sumatrana, un'erbacea orientale procuratagli da un corrispondente. Poiché non gli risultava che nessuno l'avesse pubblicata fino a quello momento e le sue caratteristiche differivano a suo parere da quelle delle Curculigo, egli ritenne appartenesse a un nuovo genere, che dedicò a Molineri "già custode dell'Orto botanico, i cui grandi meriti per la botanica patria sono attestati dalla celeberrima Flora pedemontana di Allioni e dalle aggiunte dell'insigne Balbis". Anche se Colla si sbagliava (Curculigo sumatrana Roxb. continua a chiamarsi così), il genere fu adottato da botanici successivi ed è tuttora valido. Appartenente alla famiglia Hypoxidaceae, comprende sette specie di monocotiledoni erbacee native del subcontinente indiano, della Cina, del Sud est asiatico e dell'Oceania, con centro di diversità in India dove sono presenti tutte le specie. Sono piante rizomatose con grandi foglie che ricordano quelle dell'Aspidistra e fiori a stella assai decorativi, ma poco visibili perché crescono raso terra e sono nascosti dal fogliame. La specie più diffusa e nota è M. capitulata, detta in inglese palm grass per le grandi foglie lanceolate (lunghe anche un metro), fibrose e con marcate venature parallele, che possono ricordare quelle di una giovane palma; originaria del sottobosco delle foreste umide di gran parte dell'Asia orientale e della Nuova Guinea, è stata introdotta in altri paesi tropicali, dove si è dimostrata fin troppo volenterosa. Nei giardini a clima mite può essere utilizzata come notevole tappezzante per la capacità di colonizzare rapidamente il terreno. Nei paesi d'origine, le foglie vengono utilizzate per creare cesti e altri manufatti. Qualche informazione in più nella scheda. ![]() La minuscola Molineriella Nel 1850, anche Parlatore si ricordò di Molineri, creando un secondo genere Molineria per M. minuta, una minuscola Poacaea. La motivazione è davvero interessante: "Ho voluto con questo ricordar nella scienza il nome d'Ignazio Molineri, già custode del R. Giardino botanico di Torino, il quale arricchì di numerose scoperte la flora italiana con i suoi frequenti viaggi nelle Alpi e nella Liguria. Ho prescelto una pianta piccola con l'epiteto minuta per indicare l'acutezza del suo occhio osservatore, a cui nulla sfuggiva per quanto piccolo e minuto". Poiché nel frattempo la denominazione di Colla, benché applicata ad altre specie, si era affermata, quella proposta da Parlatore risultava illegittima. Ma a risolvere la questione a favore del nostro bravissimo giardiniere-botanico dalla vista acuta fu il francese Georges Rouy che nel 1913 ne mutò la denominazione in Molineriella. Questo genere della famiglia Poaceae comprende tre specie di erbe annuali dell'area mediterranea, con centro di diversità in Spagna dove sono presenti tutte. Nel nostro paese cresce la sola M. minuta, nota con il nome volgare di "nebbia di Molineri" per le aeree infiorescenze, un'erba che raramente supera i 20 cm, presente in tutte le regioni del centro e del sud, dove cresce negli incolti e nei prati di annuali. Qualche approfondimento nella scheda.
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Una trentina di militari, guidati da due capitani, uno schiavo nero, guide e trappers franco-canadesi, un'intrepida ragazza indiana e il suo neonato, un cane labrador sono i protagonisti della più mitica spedizione della storia statunitense: quella di Lewis e Clark e del Discovery Corps, che tra il 1804 e il 1806 per la prima volta attraversò il nord America da est a ovest, aprendo la via per il Pacifico. Imponenti i risultati scientifici: i primi contatti con una sessantina di tribù indiane, grandi progressi nelle conoscenze geografiche, nuove carte e centinaia di animali e piante raccolti e descritti per la prima volta, tra cui diversi nuovi generi; ai due capitani Lewis e Clark toccarono i notevoli Lewisia e Clarkia. ![]() Preparazione Nel 1803, dopo una breve trattativa, Napoleone cedette la Louisiana francese agli Stati Uniti in cambio di 23 milioni di dollari; quel territorio di oltre due milioni di km² raddoppiava d'un solo colpo la superficie del paese. Oltre a parte dell'attuale Louisiana, con la capitale New Orleans, comprendeva infatti Arkansas, Missouri, Iowa, Oklahoma, Kansas, parte del Minnesota, gran parte del Dakota del Nord, Dakota del Sud, l'area nordorientale del Nuovo Messico, l'estremità settentrionale del Texas, parte del Montana, Wyoming, il Colorado orientale e anche alcune parti delle attuali province canadesi di Alberta e Saskatchewan. Un territorio immenso, ma anche ben poco conosciuto, che la stessa Francia non aveva mai controllato davvero e neppure esplorato, se non per le piste battute dai cacciatori di pellicce e le poche vie commerciali lungo i bacini del Mississippi e del Missouri. Per il presidente Jefferson, che si era battuto per quell'acquisto nonostante la forte opposizione dei suoi avversari politici, era l'occasione per realizzare il sogno a lungo inseguito di esplorare l'occidente americano e di aprire una strada verso il Pacifico. Nel gennaio 1803 egli indirizzò al congresso una lettera segreta per chiedere un finanziamento di 2500 dollari per esplorare il bacino del Mississippi. Ottenuta l'approvazione, scelse come capo della futura spedizione il proprio segretario privato Meriwether Lewis, seguendo con cura la sua preparazione. Non solo gli mise a disposizione la sua biblioteca di Monticello - la maggiore del paese - ma lo inviò a Filadelfia perché potesse essere istruito da alcuni dei più eminenti scienziati americani in cartografia, astronomia, medicina, zoologia e botanica. In paleontologia lo istruì il medico Caspar Wistar, mentre il suo tutor in botanica fu Benjamin Smith Barton, amico e referente botanico di Jefferson. E' significativo che il presidente abbia affidato la missione a un militare (e soldati, a parte le guide e i battellieri, furono tutti i componenti della spedizione) e non a un naturalista di professione. Può aver influito il fatto che Jefferson stesso fosse un genio poliedrico versato in molte scienze che vedeva in Lewis una proiezione di se stesso; ma soprattutto contarono gli scopi politicamente sensibili della missione. Si trattava in primo luogo di mappare un territorio in gran parte ancora non segnato sulle carte; di valutare la presenza di inglesi e franco-canadesi e la loro intenzioni; di rivendicare il possesso effettivo dei territori prima di altre potenze; di stabilire relazioni commerciali con le popolazioni native; di aprire una strada percorribile fino al Pacifico, premessa di ogni futura espansione. Certo, non mancava l'aspetto scientifico; Lewis ricevette precise istruzioni direttamente da Jefferson che, per quanto riguarda la flora, recitano: "dedicare ogni attenzione al suolo e all'aspetto del paese, alle piante che vi crescono e ai prodotti vegetali, in particolare a quelli non presenti negli Stati Uniti". Lewis convinse William Clark, un vecchio compagno d'armi (erano entrambi capitani dell'esercito), ad unirsi all'impresa. Da quel momento, anche se nominalmente Lewis era il capo, avrebbero condiviso alla pari responsabilità e autorità. Incominciò poi a procurarsi l'equipaggiamento (tra cui figuravano il Dizionario di Miller e le opere di Linneo) e a luglio su recò a Pittsburg ad allestire il battello a chiglia necessario per navigare lungo il Missouri e i suoi affluenti. Ad agosto, insieme alle prime 11 reclute, risalì il fiume Ohio fino a Clarksville, dove incontrò Clark. I due si divisero i compiti: mentre Lewis muovendosi a cavallo completava l'equipaggiamento, Clark con il battello raggiunse Saint Louis, dove si occupò di arruolare ed addestrare nel forte di Camp Dubois sulla riva est del fiume i volontari del “Corps of Volunteers for Northwest Discovery.” I prescelti dovevano essere sani, scapoli, bravi a cacciare e usare le armi, dotati di buone capacità di sopravvivenza in un ambiente selvaggio. In tutto, i partecipanti furono 45, inclusi i due capitani, una trentina di volontari, i battellieri, gli interpreti e le guide ingaggiati durante il viaggio, uno schiavo di Clark di nome York. Completava la compagnia Seaman, il terranova di Lewis. ![]() Andata: da Camp Dubois al Pacifico La spedizione esordì ufficialmente il 24 maggio 1804 con la partenza da Camp Dubois del Corpo di scoperta, a bordo del battello a chiglia e di due piroghe; a Saint Charles incontrarono Lewis e Clark e proseguirono la navigazione sul Missouri, superando La Charette, ultimo insediamento bianco. Da quel momento entravano in territorio indiano; in previsione degli incontri con i nativi, era stato predisposto un protocollo che prevedeva il baratto di beni e il dono ai capi tribù di una medaglia con l'effige di Jefferson su un lato e due mani allacciate sotto un tomahawk e un calumet della pace sormontati della scritta “Peace and Friendship” dall'altro. Il primo contatto avvenne il 15 agosto con un gruppo di Odo, nei pressi dell'attuale Council Bluffs, Iowa; qualche giorno più tardi fu la volta di alcuni Sioux Yankton. Questi gruppi avevano già avuto contatti con cacciatori bianchi e, per quanto un po' delusi dai "doni" degli americani, si dimostrarono abbastanza amichevoli. Il 20 agosto si ebbe l'unica vittima della spedizione, il sergente Floyd, morto probabilmente di appendicite. Alla fine di settembre entrarono nel territorio degli Sioux Teton, detti anche Lakota, che accolsero i doni in modo ostile; il capo Bufalo Nero cercò di bloccare la spedizione, esigendo la consegna di uno dei battelli come pedaggio; si sfiorò la battaglia, ma di fronte alla superiorità militare del Corpo di scoperta, i Lakota si allontanarono. Continuando la navigazione verso ovest, all'inizio di novembre la spedizione toccò i villaggi di altre tribù amichevoli, i Mandan e i Minitari; Lewis e Clark decisero di fermarsi qui per l'inverno. Venne costruito un forte, detto Fort Mandan, dove il Corpo trascorse cinque mesi cacciando, preparando canoe, abiti di cuoio, mocassini, mentre Clark si dedicava a tracciare carte. Fu qui che ingaggiarono come interprete il cacciatore franco-canadese Toussaint Charbonneau e permisero alla moglie incinta, un'indiana Shosone di nome Sacagawea, di stabilirsi nel forte; a febbraio proprio qui la ragazza partorì il suo primogenito, Jean Baptiste soprannominato Pompy o Pomp. La giovane donna ebbe un ruolo importante per il successo della spedizione: non solo per la sua abilità di interprete e la profonda conoscenza del territorio, ma grazie alla sua stessa presenza. Poiché gli indiani non usavano portare donne nelle loro spedizioni guerresche, il fatto che i soldati fossero accompagnati da una donna e da un bambino in fasce agiva da salvacondotto, indicandone le intenzioni pacifiche. Il 7 aprile 1805 il battello a chiglia e il suo equipaggio con dodici uomini furono rimandati a Saint Louis, con relazioni, lettere, carte, manufatti indiani e esemplari zoologici e botanici. I "membri permanenti" (Lewis, Clark, 27 soldati, York, con l'aggiunta della famiglia Charbonneau e di almeno un'altra guida franco-indiana, George Drouillard) ripresero il cammino verso ovest per affrontare la parte più difficile del viaggio. Continuando a navigare in canoa lungo il Missouri, a metà giugno ne raggiunsero le grandi cascate, in realtà un sistema di cinque cascate successive, che impiegarono oltre due settimane a superare, spesso in condizioni difficili. Quando raggiunsero il punto in cui tre corsi d'acqua confluiscono per dar vita al Missouri, li battezzarono Galtin, Madison e Jefferson e proseguirono lungo quest'ultimo. Qui divenne importantissimo l'aiuto di Sakagawea; la giovane donna era un'indiana Shoshone, rapita da una tribù nemica quando era bambina e poi passata attraverso diverse mani prima di essere venduta a Charbonneau. Ella riconobbe il punto esatto dove era stata rapita e quindi il Beaverhead Rock, una formazione rocciosa non lontana dalla sede estiva del suo popolo, dove avrebbero potuto procurarsi dei cavalli. Toccava ora lasciare il fiume e proseguire a piedi; il 12 agosto raggiunsero il Lemhi Pass, Montana, che segna lo spartiacque continentale. Qualche giorno dopo, incontrarono guerrieri Shoshone avvertiti della loro presenza; grazie a Sakagawea, che fungeva da interprete, ottennero guide e i desiderati cavalli; la ragazza ritrovò la sua tribù e scoprì che suo fratello Cameahwait ne era divenuto capo. Il gruppo attraversò la Bitterroot Mountain Range percorrendo il Lolo Trail. Fu il tratto più difficile, in cui dovettero affrontare rocce, foreste impenetrabili, fame, deidratazione, cattivo tempo, temperature incrementi, alcuni casi di congelamento. Dopo 11 giorni, il 22 settembre lungo il Clearwater River, Idaho, incontrarono un'amichevole tribù di Nez Percé, che li accolse e li aiutò a recuperare le forze e la salute. Costruite alcune canoe e affidati i cavalli agli amici indiani, affrontarono le rapide del Clearwater River per raggiungere lo Snake River, quindi il Columbia River. Il 7 novembre, Clark annotò nel suo diario: "Oceano in vista! Oh, gioia!". La missione era compiuta. ![]() Ritorno e congedi Prima di affrontare il ritorno, bisognava trovare un ricovero per l'inverno. Accamparsi al di qua o al di là del fiume Oregon, dove si trovavano terreni di caccia più abbondanti? La decisione venne messa ai voti e tutti parteciparono, compresi York e Sakagawea (un episodio celebre perché fu la prima volta, nella storia degli Stati Uniti, in cui venne riconosciuto il diritto di voto a un nero e a una donna, che allo stesso tempo era una nativa). Il mese di dicembre venne impiegato a costruire Fort Clatsop, presso l'odierna Astoria, Oregon, che fu pronto per Natale. Qui il Corps trascorse un inverno difficile, dovendo affrontare il tormento degli insetti, l'umidità, influenza e infezioni intestinali. Il viaggio di ritorno iniziò il 23 marzo. Risalendo contro corrente il Columbia e molte cascate, ritornarono presso gli amici Nez Percé, dove recuperarono i cavalli e attesero lo scioglimento delle nevi prima di affrontare il cammino attraverso le montagne. Lewsi approfittò di questa sosta per raccogliere la maggior parte dei suoi esemplari botanici. Poterono rimettersi in marcia solo a giugno. Dapprima ripercorsero il cammino dell'andata attraverso le Bitterrots e il Lolo Pass; qui Lewis e Clark decisero di dividersi in due gruppi, nella speranza di trovare un collegamento più agevole tra Pacifico e Atlantico. Lewis si diresse a nord lungo il fiume Missouri, mentre Clark a sud lungo il fiume Yellowstone, fissando come punto d'incontro la confluenza dei due corsi d'acqua. Lesis prese con sé i cacciatori migliori e l'interprete e scout franco-indiano George Drouillard. Il gruppo di Clark includeva York, Sacagawea, Pompy e Charbonneau. Lungo il fiume Marias il gruppo di Lewis incontrò alcuni guerrieri Piedi neri che cercarono di rubare loro le armi e i cavalli; ne nacque uno scontro a fuoco (l'unico di tutta la spedizione) in cui morirono due indiani; poco dopo lo stesso Lewis fu ferito da un compagno in un incidente di caccia, con conseguenze spiacevoli ma non fatali. Al gruppo di Clark, toccò invece il furto di alcuni cavalli, sottratti da abilissimi indiani Crow che i nostri non ebbero neppure modo di vedere. I due gruppi riuniti raggiunsero il 12 agosto il villaggio dei Maidan, dove salutarono Sakagawea e la sua famiglia e da qui, con una facile navigazione con corrente a favore lungo il Missouri, il 23 settembre rientrarono a Saint Louis, dove furono accolti come eroi. Avevano percorso più di 8000 miglia, incontrato e stabilito relazioni con almeno una sessantina i popoli indiani. raccolto informazioni geografiche di prima mano e prodotto dozzine di carte. Nel campo delle scienze naturali, il contributo fu notevolissimo. Già mentre risalivano il Missouri, Lewis prese ad annotare sul suo diario di campo la velocità della corrente, la natura delle rocce e, ovviamente, gli animali e le piante via via incontrati. Il primo animale nuovo per la scienza fu Neotoma floridana, un roditore noto come eastern wood rat. Seguirono bufali, grizzly, cani della prateria, castori, coyote, pecore bighorn, per un totale di 120 specie tra mammiferi, uccelli, pesci e rettili. Quanto alle piante, Lewis, che era munto di una piccola pressa manuale, ebbe cura di raccoglierne centinaia di esemplari; furono coinvolti anche altri membri della spedizione, tra cui Clark e Sakagawea. Nelle sue note, Lewis dimostrò notevoli capacità di osservazione sull'habitat e le caratteristiche morfologiche di ciascuna specie, sapendo inoltre fra tesoro delle conoscenze dei nativi sugli usi alimentari, medicinali e pratici delle piante. Ad esempio, descrisse con precisione il modo in cui le donne Nez Percé raccoglievano e preparavano i bulbi di Camassia quamash, una componente molto importante della loro dieta. In tutto, le specie raccolte furono 174, di cui circa 90 nuove per la scienza. Molte sono belle piante da fiore, raccolte lungo il Lolo trail nel viaggio di ritorno, e alcune sono molto comuni nei nostri giardini, come Mimulus guttatus, Euphorbia marginata, Echinacea angustifolia. Se volete conoscerle tutte, non vi resta che visitare il bellissimo sito The Lewis and Clark Herbarium. Dopo la grande avventura, le sorti dei due capitani furono assai differenti. Lewis, nominato da Jefferson governatore della Louisiana, non si dimostrò all'altezza del compito e finì presto i suoi giorni nell'alcoolismo e forse nel suicidio (qui una sintesi della sua vita); invece Clark divenne governatore del Missouri, giocò un ruolo centrale nelle relazioni con i nativi ed ebbe una vita lunga e operosa. Si dimostrò abbastanza umano da educare nella sua casa e far studiare il piccolo Pompey, rimasto presto orfano, ma non abbastanza da affrancare York, che pure della spedizione era stato uno dei membri più validi. ![]() Le amare radici della Lewisia Ma torniamo alle piante. Quelle essiccate furono inviate a Philadelphia all'American Philosophical Society perché fossero studiate dal mentore di Lewis, Benjamin Smith Barton. Le poche piante vive e i numerosi semi furono divisi tra due vivaisti, William Hamilton e Bernard McMahon. A questi tre personaggi era legato il botanico tedesco Frederick Pursh, che fu incaricato dapprima di disegnare le illustrazioni che avrebbero dovuto accompagnare la pubblicazione dei diari di Lewis e Clark (che non si realizzò mai); andò poi con MaMahon a Londra dove nel 1813 in Flora Americae Septentrionalis descrisse 130 piante raccolte durante la spedizione. Tra di esse anche le specie tipo dei due generi destinati ad immortalare i capitani, Lewisia e Clarkia. Due specie del primo risultano nell'erbario di Lewis e Clark: Lewisia rediviva Pursh, raccolta il 2 luglio 1806 lungo il Betterroot River; L. triphylla (S. Watson) B. L. Rob., raccolta qualche giorno prima lungo il Lolo Trail. Solo la prima fu descritta da Pursh e deve il suo nome a una vicenda curiosa. Giunta a Filadelfia come esemplare essiccato, in realtà era viva grazie alla radice carnosa; fu quindi prelevata e piantata nel vivaio di McMahon, dove spuntò e visse qualche anno prima di morire a causa delle annaffiature eccessive. Nota con il nome franco-canadese radiz amère, in inglese fu chiamata bitterrot, e diede il suo nome sia all'omonimo fiume sia all'adiacente catena delle Montagne rocciose. Nel 1895 è stata scelta come pianta ufficiale del Montana. Il genere Lewisia Pursh appartiene alla famiglia Montiaceae (un tempo Portulacacae) e annovera 16-19 specie endemiche degli Stati Uniti nord-occidentali; sono piante perenni rupicole amanti dell'ombra che crescono abbarbicate alle rocce del versante nord, basse e molto decorative grazie ai grandi fiori. Oggi la più popolare nei nostri giardini è Lewisia cotyledon, disponibile in un'ampia gamma di colori che vanno dal rosa chiaro al porpora passando per il salmone e l'arancio, spesso con i petali sfumati in più colori. Altre informazioni nella scheda. Ricordano Lewis anche molti nomi specifici delle specie da lui segnalate, come Phildelphus lewisii, Linum lewisii, Mimulus lewisii. Purtroppo nessun botanico ha pensato invece di dedicare un genere a Sakagawea, che pure l'avrebbe meritato come tramite tra gli esploratori bianchi e le conoscenze etnobotaniche dei nativi, oltre che come raccoglitrice in prima persona. A ricordarla (ma il personaggio è molto popolare negli Stati Uniti, celebrato da dozzine di statue) c'è però proprio una specie di Lewisia, L. sakajaweana, un endemismo dell'Oregon. ![]() La singolare Clarkia Fu sempre Pursh a stabilire il genere Clarkia, sulla base di C. pulchella, raccolta il 1 giugno 1806 sempre lungo il Bitterroot River da Lewis che la definì "una pianta singolare" per i quattro petali finemente divisi in tre lobi. Nella storia della scienza è nota anche perché Robert Brown si servì del polline di questa specie per le osservazioni che lo portarono alla scoperta del moto browniano. Il genere Clarkia appartiene alla famiglia Onagraceae e comprende una quarantina di specie di annuali, tutte native del Nord America, ad eccezione della sudamericana C. tenella. Diverse specie sono popolari annuali da giardino. La più nota è probabilmente C. amoena, spesso utilizzata anche come fiore reciso, di cui esistono molte serie con fiori a imbuto singoli e doppi in una gamma di colori che include il rosa, il lilla, il salmone, il porpora. il bianco; alcune cultivar hanno margini bianchi o centri in colore contrastante. Per ironia della sorte, proprio alcune delle specie più coltivate sono note con il nome comune godezia, o il nome botanico Godetia, poiché un tempo appartenevano al genere Godetia Spach, che fin dal 1955 è confluito in Clarkia di cui è divenuto una sezione. E' uno dei tanti esempi di quella che definisco "viscosità dei nomi botanici", ovvero della fatica di coltivatori ed appassionati ad adottare i nuovi nomi, anche dopo decenni e decenni come in questo caso. Qualche approfondimento nella scheda. Per vent'anni esatti, dal 1781 al 1801, a reggere l'Orto botanico di Torino fu il medico Giovanni Pietro Maria Dana, allievo e successore di Allioni. La sua attività si colloca nel solco di quella del maestro, anche se, paragonato a lui e al suo successore, Giovanni Battista Balbis, appare una figura decisamente minore. A percorrere il catalogo delle sue opere, numerosissime ma sempre contenute negli argomenti e nelle dimensioni, si ha l'impressione che la sua attività scientifica sia stata presieduta dal dio delle piccole cose: da una parte, è un medico e uno scienziato sperimentatore che studia le piante del territorio soprattutto per le loro applicazioni pratiche, terapeutiche o industriali; dall'altra, lo colpisce ciò che è strano, mostruoso (come dimostrano i diversi studi dedicati a feti deformi). Non va imputato a sua colpa se, quando Balbis ne rilevò l'incarico, trovò il giardino in uno stato miserevole: pesò certamente la malattia progressiva che segnò gli ultimi anni di vita di Dana, ma più ancora le guerre napoleoniche, che dal 1796 ebbero per teatro anche il Piemonte. A ricordarci che egli godette anche di un certo prestigio internazionale è il genere Danaea, dedicatogli da James Edward Smith, che comprende bellissime felci neotropicali. ![]() Medicina e botanica applicata Nel 1781, Carlo Allioni chiese di essere dispensato dall'insegnamento e dalle cure gestionali dell'orto botanico torinese - di cui comunque mantenne la responsabilità scientifica - per dedicare tutte le sue forze alla pubblicazione di Flora pedemontana. A sostituirlo fu uno dei suoi migliori allievi, Giovanni Pietro Maria Dana, che dal 1770 era già primo professore associato presso la facoltà di medicina. Come il quasi coetaneo Bellardi, Dana era venuto a Torino dalla provincia - era nato a Barge, nel Cuneese - per studiare medicina e si era innamorato della botanica grazie alle lezioni di Allioni. Anch'egli fece parte del gruppo di entusiasti raccoglitori che sotto la sua guida percorsero ogni angolo del Piemonte per esplorarne la flora. Oltre alle valli del cuneese, egli perlustrò i dintorni di Pinerolo, il Monferrato, la provincia astigiana e i monti liguri. Alla ricerca botanica sul campo, affiancò la professione medica e una copiosa produzione di saggi e memorie che gli valsero appunto la nomina a professore associato poi, come ho anticipato, a titolare della cattedra di botanica e direttore dell'orto botanico. Ai primi lavori medici, dedicati a argomenti come i calcoli renali e la secrezione urinaria, affiancò saggi sulla generazione delle piante e sulla scilla officinale (ovvero la tossica Drimia maritima, all'epoca usata soprattutto per le sue proprietà cardiotoniche). In due memorie pubblicate nel 1766, all'analisi patologica e alle indicazioni terapeutiche si unisce l'osservazione naturalistica; nella prima Dana studia una nuova specie di vermi della classe degli irudinei, che denomina Hirudo alpina (oggi Crenobia alpina Dana), vivente in acque stagnanti, la cui ingestione accidentale, se non trattata opportunamente, poteva risultare fatale; attento alla cultura locale, Dana ne riporta anche il nome dialettale, sioure o soûre; nella seconda si occupa delle dermatiti causate dal contatto con idrozoi urticanti, che chiama armenistari. Anche i suoi studi botanici sembrano orientati alle applicazioni pratiche. Nel 1770 dedica un saggio a un fungo (agaricus seu boletus pelliceus) la cui polvere era usata come emostatico; nel 1774 a una pianta coltivata nell'Orto botanico di Torino, Solanum melanocerasum (oggi S. scabrum), forse di origine africana, che era usata sia in farmacia sia nell'industria tintoria, per ricavare coloranti chiamati con gli affascinanti nomi color d'Isabella chiaro, lilla violante, gris de prince, color di frejdolina chiaro. Altri argomenti dei suoi saggi sono i rimedi contro i danni da grandine, le acque termali e le fumigazioni; non manca un certo interesse per il curioso, il difforme, con alcune memorie dedicati a feti deformi o a un gatto mostruoso. Come si vede, soggetti molto specifici e di portata limitata, che tuttavia, insieme al ruolo di curatore dell'orto botanico tornese, gli procurarono una certa rinomanza internazionale, visto che fu ammesso a varie società scientifiche estere, come la Società fisico-botanica di Firenze, la Società linneana di Londra, la Società fisica e di storia naturale di Losanna e la Società reale di Montpellier. Già membro dell'Accademia delle Scienze e della Società agraria di Torino, dal 1784 fu nominato consigliere e presidente dell'amministrazione del protomedicato di Torino. Negli ultimi anni di attività tornò a interessarsi di piante tintorie, fondando addirittura un laboratorio apposito ("Regio laboratorio di tintura") dove conduceva osservazioni e esperimenti; nel 1790 fu consultato dal ministro Graneri circa l'opportunità di coltivare Carthamus tinctorius come colorante in sostituzione dello zafferano; l'anno successivo, in risposta al concorso bandito dall'Accademia delle scienze di Torino per trovare una sostanza tintoria che sostituisse l'indaco, Dana propose l'autoctona Isatis sylvestris vel angustifolia, probabilmente una forma selvatica di Isatis tinctoria, da lui trovata in val d'Aosta, nella contea di Nizza e nel Monferrato. E' l'ultimo dei suoi "piccoli lavori". Gli ultimi anni di Dana furono segnati infatti dal lento progresso di una "malattia cerebrale" che finì per renderlo del tutto inabile e lo portò alla morte nel 1801. Le conseguenze si fecero sentire anche nell'Orto botanico di Torino, che, quando Balbis gli subentrò, versava in uno stato deplorevole, certamente anche per la mancanza di denaro e gli effetti della guerra, che coinvolse il Piemonte a partire dal 1796. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Danaea, una felce venuta da lontano Diversi furono i generi dedicati a Dana. Nel 1785, in riconoscimento del suo contributo all'esplorazione della flora piemontese, Allioni gli dedica Danaa, oggi sinonimo di Physospermum, famiglia Apiaceae; nel 1835 Colla battezza Danaa yegua (sinonimo di Acrisione denticulata, famiglia Asteraceae) una delle piante cilene raccolte da Bertero. La dedica valida arriva nel 1793 con Danaea, famiglia Marattiaceae, da parte di James Edward Smith, il presidente della Linnean Society di cui, come abbiamo già visto, Dana era membro. Smith era stato a Torino, era a sua volta membro dell'Accademia delle scienze della città piemontese (nelle cui Memorie comparve infatti l'articolo che istituisce il nuovo genere), e intratteneva regolari rapporti epistolari con botanici torinesi, soprattutto Bellardi. Forse la dedica va dunque intesa, più che un omaggio alla persona di Dana, un riconoscimento del suo ruolo di curatore di un'istituzione di peso europeo. E' un omaggio indubbiamente sontuoso: il genere Danaea comprende infatti una cinquantina di specie di felci delle foreste pluviali delle Antille, del centro e del sud America, dall'aspetto insieme esotico e primordiale. Appartengono infatti a una linea evolutiva antichissima, con rappresentati fossili fin dal Paleocene. La loro caratteristica distintiva più evidente è il dimorfismo delle foglie, in genere pennate, ma con foglie fertili contratte e sporangi disposti in file lineari che coprono interamente la pagina inferiore della lamina fogliare. Sono piante elusive per l'habitat e con caratteristiche distintive che rendono difficile il riconoscimento a partire da esemplari essiccati, il che spiega perché negli ultimi anni ne sono state individuate diverse nuove specie. Per il suo nome curioso vorrei almeno ricordare Danaea kalevala, una grande e spettacolare felce delle Piccole Antille, che è stata riconosciuta come specie solo nel 2006 dal botanico olandese M.J.M. Christenhusz, che in ricordo degli anni di dottorato trascorsi presso l'Università di Turku, si è ispirato al celebre ciclo epico finlandese. Qualche approfondimento su questo genere affascinante nella scheda. Di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, è stato detto che potrebbe essere nominato patrono laico dei giardini e dei giardinieri statunitensi. Quella per la natura, le piante e i giardini fu infatti per lui una passione costante in tutte le fasi della vita, fino alla creazione dello splendido giardino di Monticello. Protagonista di una rete di "scambisti" di piante tra le due sponde dell'oceano, botanico dilettante, presidente della American Philosophical Society, ebbe anche il merito di sponsorizzare la grande spedizione di Lewis e Clark. Lo ricorda una pianta del sottobosco delle foreste americane, Jeffersonia diphylla, che coltivava in una delle aiuole del suo giardino, dove spesso gli faceva omaggio della sua candida fioritura come dono di compleanno. ![]() Una dedica all'uomo di scienza, non al politico La sera del 18 maggio 1792 sei uomini si incontrarono presso la Philosophical Hall di Filadelfia, la sede della American Philosophical Society, per la consueta riunione del venerdì; dopo il momento conviviale del pranzo, Benjamin Smith Barton, professore di botanica e storia naturale presso l'Università della Pennsylvania, lesse una lettera che aveva scritto ai colleghi europei circa una pianta nativa della Virginia. Linneo, basandosi solo su esemplari essiccati, l'aveva assegnata al genere Podophyllum, con il nome P, diphyllum. Barton, studiandola dal vivo, era giunto alla conclusione che andasse invece assegnata a un genere nuovo e, aggiunse, "Mi sono preso la libertà di renderlo noto ai botanici sotto il nome di Jeffersonia, in onore di Thomas Jefferson, segretario di Stato degli Stati Uniti". E ciò, aggiunse, non in considerazione dei suoi meriti politici, ma delle sue conoscenze di storia naturale che, soprattutto nei campi della zoologia e della botanica "sono eguagliate da poche persone negli Stati Uniti". In effetti, il multiforme Thomas Jefferson, estensore della Dichiarazione d'Indipendenza, quindi ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, segretario di Stato, presidente per due mandati, oltre che uno dei padri fondatori degli Stati Uniti fu un intellettuale di notevole spessore, con forti interessi scientifici che spaziavano dalla matematica all'archeologia, dalla geografia alla paleontologia: le scienze naturali e la botanica furono una passione che coltivò tutta la vita. Si racconta che quando era presidente conoscesse tutte le piante dei dintorni della Casa Bianca, e non si facesse sfuggire una specie nuova per il suo erbario. Notevole fu il suo lascito in tre settori: la promozione dell'agricoltura del suo paese, con migliorie tecniche e l'introduzione di nuove specie; la creazione dello splendido giardino di Monticello; la promozione dell'esplorazione delle risorse naturali del territorio statunitense. Convinto che l'agricoltura fosse la base della prosperità, dell'indipendenza, ma anche della moralità di una nazione, sognava un paese di piccoli agricoltori liberi, anche se lui, da parte sua, era il proprietario schiavista di vaste piantagioni. Il suo contributo in questo campo fu soprattutto nella sperimentazione e nell'introduzione di nuove varietà: ad esempio, portò con sé dall'Europa una pianta di fico acquistata a Marsiglia, che a suo dire produceva i frutti migliori che mai avesse mangiato, e ne distribuì talee a vicini e amici; creò un vigneto sperimentale; incoraggiò la coltivazione del sesamo per la produzione familiare di olio. Ma il suo capolavoro fu Monticello, la sua residenza nei pressi di Charlottesville, Virginia, il cui nome italiano fa riferimento alla posizione della proprietà, sulla cima di un colle delle Southwest Mountains. Nel 1768 iniziò l'edificazione di una casa in stile palladiano, progettata dallo stesso Jefferson, che era quasi completa nel 1784 quando egli dovette lasciare gli Stati Uniti per la Francia, con l'incarico di ambasciatore presso la corte di Parigi. Contemporaneamente, cominciò a realizzare il giardino, sulle cui vicende siamo ben informati al suo Garden Book, ovvero al quaderno dove annotava piantagioni, semine, esperimenti. La prima annotazione risale al 1769, quando Jefferson fece piantare alberi da frutto sul versante sud della collina. Nel 1774, in collaborazione con l'italiano Filippo Mazzei, che procurò vignaioli e vitigni, impiantò la prima vigna della Virginia. Tra il 1778 e il 1782 fu la volta di un vasto frutteto di meli e peschi e del primo orto, lungo la strada principale della piantagione, dove vennero seminari asparagi, piselli e carciofi. Il soggiorno in Europa, che si protrasse dal 1784 al 1789, permise a Jefferson di allargare i suoi orizzonti culturali e di allacciare proficue relazioni. Oltre alla Francia, visitò la Gran Bretagna, l'Italia, il Belgio e I paesi Bassi, dove visitò case e giardini, rimanendo profondamente impressionato dallo stile libero dei nuovi parchi all'inglese. A Parigi incominciò a frequentare il salotto di Madame de Tessé, zia di Lafayette e grande appassionata di giardini, che gli chiese di procurargli piante americane; e così, tra Parigi e Monticello, iniziò un attivo scambio transoceanico di piante: mentre esemplari di Callicarpa americana, Diospyros virginiana, Calycanthus floridus procurati da amici e corrispondenti di Jefferson raggiungevano il parco di Chaville, a Monticello arrivavano semi di elitropio bianco (Helitropium arborescens), ranuncoli, cavolfiori, broccoli e bulbi di tulipani. Un altro contatto importante fu André Thouin, capo giardiniere del Jardin du Roi. ![]() Un giardino per frutti, verdure, fiori Tornato in patria, Jefferson cercò di conciliare l'attività politica (che egli definiva il suo dovere) con gli interessi scientifici (che egli definiva la sua passione). Così, nel 1791 lo troviamo ad erborizzare nel New England con l'amico James Madison. Nel 1797 fu nominato presidente della American Philosophical Society (incarico che mantenne per un ventennio, anche durante i due mandati presidenziali). Nel 1812, quando durante la guerra anglo-americana un incendio distrusse la biblioteca del Congresso, Jefferson offrì di reintegrarla con la sua collezione (che vantava il doppio dei volumi di quella perduta), dietro un compenso che doveva aiutarlo a ripianare i grandi debiti contratti per la ristrutturazione di Monticello; il congresso accettò, creando così il primo nucleo dell'attuale Library of Congress. Egli inoltre si impegnò attivamente nella creazione dell'Università della Virginia a Charlottesville, che fu infine inaugurata nel 1819. A partire dal 1794, lo stesso anno in cui divenne segretario di Stato, Jefferson intraprese la totale ristrutturazione della casa e del parco di Monticello, ispirandosi a quanto aveva visto in Europa. Come il Mount Vernon di Washington, anche il giardino concepito da Jefferson unisce la funzione di parco paesaggistico, frutteto, orto e giardino di piacere. I frutteti e gli orti si trovavano fuori del parco vero e proprio, lungo il viale principale della piantagione. I frutteti, con pianta formale a grata, erano due, uno posto a nord, l'altro a sud. Includevano anche meli per la produzione di sidro; a più riprese, venne impianta una vigna, ma con poco successo. L'orto venne collocato su una lunga terrazza ricavata dal lavoro degli schiavi sul fianco della collina; comprendeva 24 parcelle quadrate destinate alla produzione di "radici" (come rape e carote), "frutti" (pomodori, fagioli), "foglie" (insalate, cavoli). Al centro un piccolo padiglione da cui si poteva godere il panorama. Alla base del muro di sostegno venivano coltivate le primizie e le piante più delicate, come i piselli, una delle grandi passioni di Jefferson. Anche i fichi portati dalla Francia crescevano qui. L'orto era anche uno spazio sperimentale dove provare novità, come i broccoli e i cavolfiori importati dall'Europa o gli stessi pomodori. Si calcola che nel corso degli anni Jefferson vi abbia fatto coltivare 330 varietà di 70 specie. La sommità della collina era occupata da una spianata con un vasto prato dai contorni irregolari, il West Lawn, a nord ovest del quale si trova il Grove, il boschetto, un'area di 18 acri concepita come una foresta ornamentale in cui agli alberi nativi più alti (potati in modo da lasciare luce e spazio agli alberi minori) si affiancavano piante scelte per il contrasto di colori, forme, tessiture. Il sottobosco naturale doveva essere eliminato per lasciare posto a radure a prato, con erbacee perenni e gruppi di arbusti disposti secondo un disegno labirintico a spirale. Il collegamento tra le varie parti del giardino era garantito da quattro viali circolari concentrici, posti a livelli differenti, bordati di gelsi e Gleditsia triacanthos e collegati tra loro da sentieri diagonali. Se, proprio come Mount Vernon, all'inizio anche Monticello era stato concepito soprattutto con funzioni utilitarie, dopo l'esperienza europea l'interesse di Jefferson per i fiori e le piante ornamentali aumentò. Nel 1807, in previsione del suo ritiro dalla vita politica, egli disegnò venti aiuole ovali, poste ai quattro angoli della casa, ciascuna delle quali destinata a una specie diversa, con bulbose, erbacee perenni e piccoli alberi di fiori. Probabilmente nel 1808 fu creata la grande bordura serpeggiante che contorna il prato centrale. In entrambe le aree la figlie e le nipoti di Jefferson coltivavano una grande varietà di piante e bulbi, forniti soprattutto dal vivaista di Filadelfia Bernard MacMahon, in modo da assicurare fioriture dalla primavera all'autunno. C'erano i fiori coltivati tradizionalmente che i coloni avevano portato con sé dall'Europa; piante più inusuali o novità fornite dai contatti europei (ogni anno, una cassa giungeva dal Jardin des Plantes di Parigi). Almeno un quarto delle piante da fiore coltivate a Monticello erano tuttavia native; oltre a Jeffersonia diphylla, particolarmente gradita perché oltre a portare il suo nome fioriva proprio intorno al suo compleanno (il 2 aprile), c'erano diverse specie raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark, come Fritillaria pudica e Lobelia cardinalis. Siamo così giunti all'ultimo titolo di merito di Jefferson: quella spedizione era stata voluta e sponsorizzata proprio da lui, durante il suo primo mandato presidenziale. Negli anni successivi all'indipendenza, il territorio del nuovo stato era confinato nella stretta striscia tra gli Appalachi e l'Oceano, mentre si avevano scarse conoscenze delle terre poste al di là delle montagne. Jefferson era conscio delle enormi potenzialità di quel territorio inesplorato e sognava di trovare una via di comunicazione con l'Oceano Pacifico. Già quando si trovava a Parigi come ambasciatore sostenne il progetto dell'esploratore anglo-americano John Ledyard che si proponeva di raggiungere lo stretto di Bering attraversando la Russia via terra; da qui pensava di trovare un passaggio per l'Alaska, da dove sarebbe sceso verso sud per poi percorrere il continente americano fino alla Virginia. Ma, dopo essere arrivato in Siberia, nel febbraio del 1788 Ledyard fu arrestato per ordine dell'imperatrice Caterina e deportato in Polonia. Una seconda possibilità si presentò nel 1793, quando l'American Philosophical Society pensò di affidare la missione di "esplorare il paese lungo il Missouri e di lì proseguire verso ovest fino all'Oceano Pacifico" al botanico francese André Michaux, che da qualche anno viveva in Carolina del Sud e aveva una larga esperienza di viaggi di esplorazione e raccolta. Jefferson stesso organizzò la sottoscrizione che doveva finanziare la spedizione e ottenne l'assenso di Washington; tuttavia, quando fu chiaro che Michaux era coinvolto in un piano antispagnolo organizzato dall'ambasciatore francese, per evitare di peggiorare le relazioni diplomatiche con la Spagna il progetto fu annullato. Il sogno di Jefferson poté infine realizzarsi nel 1804 grazie alla spedizione capeggiata da Lewis e Clark, argomento su cui però tornerò in un altro post. Jefferson morì nel 1826, a ottantaquattro anni, ormai sprofondato nei debiti contratti per la sua vita troppo dispendiosa e soprattutto per la creazione di Monticello. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La figlia fu costretta a vendere la tenuta che, dopo essere passata attraverso vari proprietari, nel 1836 fu acquistata da Uriah Levy, grande ammiratore di Jefferson, che nel 1862 la lasciò in eredità al popolo americano perché fosse usata come scuola agraria. Ma si era in piena guerra civile e il congresso rifiutò il lascito. Dopo complesse vicende, a cercare di salvare Monticello, che era ormai in uno stato deprecabile di abbandono, fu il nipote Jefferson Monroe Levy, che ne iniziò il restauro, poi proseguito a cura della Thomas Jefferson Foundation, nata nel 1923. Monticello come lo vediamo oggi è il frutto dei restauri da essa promossi: sono stati ricreati il prato e la sua bordura, le aiuole ovali, il viale circolare inferiore, la terrazza con l'orto, mentre i frutteti non esistono più e il Grove è ben diverso da come doveva presentarsi all'epoca del suo creatore. Dal 1987 la tenuta è inclusa nella lista del patrimonio dell'umanità UNESCO. Moltissime notizie sul giardino e sullo stesso Jefferson nel sito di Monticello. ![]() Una pianta americana Abbiamo già visto che Jeffersonia fu dedicata a Jefferson nel 1792 da Benjamin Smith Barton. Appartenente alla famiglia Berberidaceae, comprende una sola specie, appunto J. diphylla, una rara erbacea perenne a fioritura primaverile del sottobosco delle foreste decidue con suolo calcareo degli Stati Uniti orientali. Alta fino a 25 cm, ha grandi foglie bilobate con lobi da arrotondati ad acuti posti quasi ad ala di farfalla; all'inizio della primavera produce fiori a coppa con otto petali bianchi e stami gialli. Gli si attribuiscono proprietà antireumatiche. Qualche informazione in più nella scheda. Ha anche una bellissima cugina asiatica che oggi, dopo molte incertezze, è stata restituita al genere Plagiorhegma. Dunque dobbiamo rassegnarci a chiamare questa perla dei giardini boschivi con foglie lobate e fiori lilla con l'orrendo nome Plagiorhegma dubium anziché Jeffersonia dubia. Nel 1800 Brickell dedicò a Jefferson un secondo genere Jeffersonia; illegittimo per la regola della priorità, è oggi sinonimo di Gelsemium. Esponente di spicco della scuola botanica di Allioni, di cui fu il principale allievo e collaboratore, Lodovico Bellardi in decine di escursioni botaniche percorse ogni angolo dello stato sabaudo, dalla pianura alle contrade più remote delle Alpi, dando un contributo inestimabile alla conoscenza della flora pedemontana. Celebre tra i botanici del suo tempo - di molti dei quali fu stimato corrispondente - per la profonda conoscenza delle piante, grande raccoglitore di piante locali, scrisse poco e non uscì quasi dai confini dello stato dove era nato. Viaggiatore immobile nello spazio, lo è anche nel tempo: al contrario di quanto accadde ad altri botanici subalpini, attraversò senza esserne toccato le tempeste della storia nel periodo che va dalla Rivoluzione francese alla Restaurazione. Lo ricordano due piccoli generi, presenti anche nel nostro paese: Bellardia (Orobanchaceae) e Bellardiochloa (Poaceae). Per una volta, entrambe le dediche si riferiscono a specie che il dedicatario raccolse e contribuì a fare conoscere. ![]() Tra piane, montagnose e alpestri regioni Nella prefazione alla Flora pedemontana (1785), la sua grande opera dedicata alla flora del Piemonte, Carlo Ludovico Allioni sottolinea l'importanza del contributo dell'allievo Lodovico Bellardi, che, spinto da ardente amore per la scienza, percorse ed esplorò in modo accuratissimo molte contrade dello Stato sabaudo alla ricerca di piante. I luoghi citati da Allioni ci danno la misura dell'ampiezza di questi viaggi: la pianura vercellese; le colline, le montagne, i laghi del Canavese; la Valle d'Aosta e le sue montagne; buona parte della Savoia; la contea di Nizza, senza tralasciare le cime più aspre e le valli più remote. Allioni ricorda poi l'estrema generosità del solerte allievo che, invece di pubblicare le sue scoperte in un'opera propria, come inizialmente aveva progettato, le mise a disposizione del maestro che le pubblicò appunto in Flora pedemontana. Per capire il peso di questo contributo, basti pensare che su 2813 specie qui descritte, per circa 250 Bellardi è citato come raccoglitore; tra di esse almeno una ventina erano inedite. Allievo prima di Donati, poi di Allioni, Bellardi era venuto a Torino a studiare medicina dalla nativa Cigliano, nel Vercellese, e grazie ai suoi maestri si era innamorato della botanica. Benché avesse scelto la professione di medico e non avesse alcun incarico ufficiale né all'Università né all'orto botanico, divenne il principale collaboratore di Allioni grazie ai suoi viaggi e alle sue ricerche. Tra il 1759 (appena diciottenne) e il 1790 percorse in lungo e in largo il Piemonte in tutte le "piane, montagnose e alpestri regioni", per citare il suo primo biografo, G. Carena. Il viaggio che conosciamo meglio, essendocene pervenuto il diario, è quello che nell'estate del 1784 lo portò a percorrere Valle d’Aosta, Vallese, Alta Savoia e Savoia in compagnia di Francesco Peyrolery, giardiniere e disegnatore dell'orto botanico di Torino. Partiti da Torino all'inizio di luglio, i due raggiunsero l'imbocco della Valle d'Aosta, quindi risalirono la Valle di Gressoney, per poi tornare nella Valle centrale a Saint-Vincent e dirigersi ad Aosta. Attraverso il Valico del Gran S. Bernardo raggiunsero Martigny e da qui Roche nel Vaud, dove incontrarono il celebre scienziato Albrecht von Haller; ritornati a Martigny raggiunsero Chamonix attraverso il Col de la Forclaz. Passando per Mégéve e Ugine, toccarono l'attuale Albertville, proseguendo nella Vanoise fino a Termignon (dove il diario si interrompe), da dove forse rientrarono a Torino attraverso il valico del Moncenisio. Questa escursione, della durata di poco più di un mese, fruttò la raccolta di circa 430 piante. Come ho già detto, non si tratta che di uno dei tanti viaggi che nell'arco di 30 anni portarono Bellardi a percorrere ed esplorare gran parte degli stati sabaudi (esclusa la Sardegna). Oltre a offrire un eccezionale contributo alla conoscenza della flora del Piemonte e delle zone limitrofe, le sue ricerche arricchirono anche l'orto botanico di Torino di numerose specie, che egli coltivava pure in suo piccolo orto sperimentale, che aveva potuto creare grazie al sostegno dell'ambasciatore portoghese a Torino, Roderigo Countinho de Souza. Qui Bellardi sperimentava anche la coltivazione di piante officinali adatte al clima subalpino, in sostituzione dei costosi semplici importati: così coltivò due specie di rabarbaro (Rheum compactum L. e R. undulatum L.) e una Cassia diversa dalla senna descritta da Linneo, che però ne aveva le stesse proprietà medicinali, tanto che avrebbe potuto perfettamente sostituirla; la chiamò perciò Cassia succedana (nome ancora oggi valido). Dopo il 1790, i viaggi si diradarono, ma nel frattempo Bellardi era riuscito a creare una rete di allievi, amici e corrispondenti che, da ogni angolo del Piemonte, raccoglievano per lui le piante locali nei diversi momenti della loro vita vegetativa. Tra di essi il frate certosino Cumino, Biroli, de Suffren, Viale. Intratteneva anche una fitta corrispondenza con molti eminenti botanici europei, presso i quali godeva di una fama quasi leggendaria di enciclopedia vivente delle piante subalpine. Così Willdenow, il direttore dell'orto botanico di Berlino, ebbe a definirlo viro de re botanica celeberrimo, cuius laudatum nomen rei herbariae cultoribus est notissimum, "uomo celeberrimo per la botanica, il cui nome lodato è notissimo ai cultori della botanica". Tra i suoi corrispondenti più assidui, James Edward Smith, presidente della Linnean Society, una delle numerose istituzioni scientifiche straniere che lo accolsero tra i loro membri (oltre alle torinesi Reale Società Agraria e Reale Accademia delle Scienze, di cui fu anche Tesoriere dal 1804 al 1825). Rispetto all'imponente attività di raccoglitore, limitati furono invece i contributi scritti: Osservazioni botaniche con un saggio d'appendice alla Flora Pedemontana (1788), in cui polemizzò con il maldestro autore di una flora di Chambery, chiarendo il concetto di pianta autoctona; Appendix ad Floram Pedemontanam, (1792) e Stirpes novae vel minus notae Pedemontii descriptae et iconibus illustratae (1803), che costituiscono un'integrazione della Flora di Allioni con nuove specie o correzioni tassonomiche. In totale, si ritiene siano circa una sessantina le nuove specie da lui raccolte e segnalate. Di notevole importanza anche l'erbario, con oltre 5000 essiccati (che egli chiamava "scheletri"), notevole anche per la precisione delle note che lo corredano, oggi conservato presso l'orto botanico di Torino. Una sintesi della sua lunga, serena e produttiva vita nella sezione biografie. ![]() Poa o Festuca? no, Bellardiochloa Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, è abbastanza raro che un botanico sia celebrato dal nome di una pianta che raccolse, studiò o denominò. Bellardi è l'eccezione che conferma la regola: gli sono stati dedicati ben due generi validi e in entrambi i casi la specie tipo fu raccolta e descritta da lui. L'interesse per le piante di questo grande raccoglitore della flora alpina era a 360 gradi; circa metà delle piante nuove da lui segnalate sono crittogame; si interessò anche ai licheni e ai funghi; tra le angiosperme, studiò piante solitamente trascurate, vere e proprie "erbacce", tra cui numerose Poaceae. Così in Flora Pedemontana, Allioni segnalò una nuova specie di Poa raccolta da Bellardi nel suo paese natale, in onore del quale la denominò Poa cilianensis All.; oggi è passata a un'altro genere, ma mantiene il nome specifico voluto dai due botanici piemontesi: Eragrostis cilianensis (All.) Janch. Un'altra specie di Poa, che Bellardi raccolse presso Limone Piemonte, fu da lui pubblicata nell'appendice alla flora pedemontana (1792) sotto il nome di Poa violacea. Questa denominazione fu trascurata dai botanici successivi, che in genere attribuirono la pianta (variamente denominata) al genere Festuca, finché nel 1874, sulla base di alcune caratteristiche della cariosside, Balansa lo restituì al genere Poa ripristinando la denominazione di Bellardi. Nel 1929 il botanico di origini piemontesi Emilio Chiovenda, in un saggio pubblicato in un volume miscellaneo celebrativo del bicentenario dell'orto botanico torinese, rilevò che questa specie presenta caratteristiche intermedie tra Poa e Festuca, tanto da farla attribuire a un genere proprio, che chiamò Bellardiochloa, cioè "erba di Bellardi", "in omaggio allo scopritore della specie, che fu tanto benemerito della flora piemontese". Nei decenni successivi, a dire il vero, il genere creato da Chiovenda non godette certo del consenso generale, venendo per lo più attribuito a Poa. Solo in anni recenti, ulteriori studi hanno dimostrato che Bellardiochloa è un genere a sé, ben differenziato tanto da Poa quanto da Festuca dal punto di vista sia morfologico sia molecolare. Oggi gli sono assegnate cinque specie di erbe dei pascoli e delle rocce delle aree subalpine, soprattutto su suoli silicei. Una specie, B. variegata (sinonimo B. violacea, ovvero proprio la specie descritta da Bellardi) ha un ampio areale che comprende le montagne dell'Europa meridionale, dai Pirenei ai Balcani passando per le Alpi; in Italia, dove è nota con il nome comune di fienarola violacea, è presente in tutte le regioni eccetto Campania e Puglia. In Sicilia sono presenti due rare sottospecie, B. v. subsp. nebrodensis e B. v. subsp. aetnensis. Il centro di diversità del genere è considerato la Turchia, dove sono presenti quattro delle cinque specie, tre delle quali endemiche. Qualche approfondimento nella scheda. ![]() Un genere quasi parassita Anche l'altro genere che celebra Bellardi, ovvero Bellardia (Orobanchaceae) ha una storia travagliata. Oltre ad avere riconosciuto i meriti dell'allievo prediletto nella prefazione, in Flora Pedemontana Allioni volle anche onorarlo dedicandogli una delle piante da lui raccolte, Bellardia trixago, "in segno di riconoscenza e stima". Non validi sono ovviamente i generi Bellardia creati più tardi, rispettivamente nel 1791 da Schreber e nel 1835 da Colla. Bellardi raccolse questa pianta nei pressi del faro di Nizza. In precedenza, era già stata studiata da altri botanici, che l'aveano assegnata ad altri generi, in particolare Bartsia. Successivamente, il genere stabilito da Allioni ebbe vita controversa, ora riconosciuto come indipendente, ora incluso appunto in Bartsia. E' molto recente (2016) una revisione filogenetica di quest'ultimo genere che ha dimostrato l'indipendenza di Bellardia, cui ora sono attribuite due specie, B. trixago e B. viscosa (prima Parentucellia viscosa). Entrambe le specie sono mediterranee e presenti nel nostro paese, in pascoli e incolti. Nota con il nome di perlina minore, B. trixago è un'erbacea annuale emiparassita, diffusa nell'Italia centro meridionale, con un'infiorescenza eretta e piramidale dai vistosi fiori bianchi o violacei che emergono da file di brattee. Nota come perlina maggiore, B. viscosa ha dimensioni maggiori, ma fiori più piccoli gialli e presenta ghiandole che la rendono vischiosa al tatto. Qualche informazione in più nella scheda. Comandante dell'Esercito continentale, primo presidente degli Stati Uniti, padre fondatore della nazione. Ma oltre a tutto questo, George Washington fu anche un imprenditore agricolo di successo e il creatore di uno splendido giardino in cui si armonizzano utilità e piacere, rigore e libertà, giardino formale e parco paesaggistico. Mount Vernon, con i suoi sentieri sinuosi fiancheggiati da centinaia di alberi nativi fu anche un giardino programmaticamente "americano" che influenzò il gusto delle generazioni successive. A tanto personaggio, non potevano che essere dedicate piante speciali: le altissime palme americane del genere Washingtonia. ![]() Un imprenditore di successo Tra il 1758, quando lasciò l'esercito dopo aver combattuto nella guerra franco-indiana, e il 1775, quando fu nominato comandante in capo dell'Esercito Continentale, George Washington fu un piantatore di successo, impegnato a estendere le sue proprietà e a renderle sempre più produttive. Mentre la maggior parte dei suoi vicini coltivava soprattutto tabacco, egli capì che, da una parte, questo impoveriva il suolo; dall'altra, come prodotto destinato essenzialmente all'esportazione in Europa, lo rendeva economicamente dipendente dal mercato inglese. Decise così di differenziare le colture, puntando su prodotti destinati al mercato interno: grano, mais, altri cereali, fibre tessili come canapa, lino, cotone. Oltre ad almeno una sessantina di colture, sperimentò fertilizzanti, sementi, tecniche di rotazione, attrezzature innovative, affiancando alla produzione agricola altre attività come l'allevamento di pecore, una piccola flotta di pescherecci, un mulino e una distilleria di whisky. Da cadetto di una famiglia di piantatori di modeste fortune, si trasformò così in un facoltoso proprietario terriero. Per un uomo della sua classe sociale, una bella casa, dove ricevere signorilmente, circondata da un parco ameno era anche uno status symbol, e Washington adeguò alla sua nuova posizione sociale la tenuta di Mount Vernon, ereditata dal fratello maggiore. La casa, posta in un punto panoramico con un'eccezionale vista sul fiume Potomac, fu totalmente ricostruita in stile palladiano. Quanto al giardino, probabilmente all'inizio l'interesse del proprietario andava soprattutto alla sua dimensione utilitaria. Fin dagli anni '60 venne creato un vasto orto, circondato da un muro per proteggerlo dai cervi e dagli altri animali selvatici; Washington fece anche piantare centinaia di alberi da frutto, in particolare peri, meli, ciliegi e peschi. La frutta era molto richiesta, oltre che per il consumo immediato, per la preparazione di conserve e la fabbricazione del sidro. L'idea di ridisegnare il parco secondo i canoni del giardino paesaggistico nacque probabilmente più tardi, a ridosso degli eventi della Guerra d'indipendenza che avrebbero tenuto Washington lontano dalla sua casa per otto anni, dal 1775 al 1783. Tuttavia l'amato Mount Vernon continuava ad essere al centro dei suoi pensieri, tanto che in una lettera del 1776 istruisce il cugino Lund Washington sulle specie da piantare nelle bordure di arbusti lungo i sentieri che portano alla casa: rododendri, meli selvatici, Kalmia latifolia. Secondo Andrea Wulf, che ha dedicato a Washington e ai giardini di Mount Vernon uno dei capitoli del suo Founding Gardeners, questa lettera - sorprendente per il momento in cui fu scritta, la vigilia della battaglia di Long Island, in cui i britannici sconfissero le truppe indipendentiste, prendendo il controllo di New York - va intesa come un manifesto della volontà del generale di fare del suo giardino un manifesto patriottico, dove crescessero solo piante native, bandendo le specie europee, ancora tanto ricercate dai ricchi proprietari di giardini. Ritornato a Mount Vernon alla fine del 1783, al termine della guerra, nei sei anni che intercorsero fino alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti, Washington si dedicò a realizzare questo programma e ridisegnò completamente il parco, dove volle che fossero in certo senso rappresentati gli interi Stati Uniti, affiancando alle specie locali ad esempio alberi e arbusti da fiore portati dalla Carolina o conifere giunte dagli Stati del Nord. Il progetto, completato poi durante i due mandati presidenziali (1789-1797) e negli ultimi anni, quando Washington tornò a vivere stabilmente a Mont Vernon (proprio qui morì nel 1799), diede al parco la fisionomia che ancora oggi possiamo apprezzare, grazie alla paziente opera di ricerca, conservazione e restauro promossa dalla benemerita Mount Vernon Ladies' Association, anche se quanto vediamo è solo il nucleo centrale (circa 500 acri degli 8000 su cui si estendeva la tenuta alla morte di Washington). Un sintetico profilo della sua vita nella sezione biografie. ![]() Mount Vernon: un parco paesaggistico e quattro ordinati giardini L'originalità del progetto di Mount Vernon, che non fu creato da un architetto alla moda ma dallo stesso Washington, nasce dalla capacità di integrare in un disegno unitario elementi a prima vista eterogenei: il piacere e la bellezza con l'utile, il rigore con la libertà, il giardino formale con il parco paesaggistico, caratterizzato da vasti prati dalle linee ondulate, viali e quinte di alberi, boschetti di alberi e arbusti , sentieri a serpentina. Il generale seppe inoltre sfruttare al meglio la posizione eccezionale della casa, posta sulla sommità di un dolce pendio che domina il fiume Potomac. La casa stessa, con le sue ali a mezza luna che abbracciano il cortile d'onore, il Mansion Circle, a forma di ellisse, costituisce il punto focale e unificante del disegno. Ma non vi si giunge attraverso il classico viale rettilineo; per raggiungerlo il visitatore deve percorrere uno dei due viali a serpentina immersi tra gli alberi. Washington fece infatti livellare l'area a ovest, di fronte alla casa, creando un vasto prato (detto Bowling green) dalle forme ondulate che ricordano la cassa armonica di una chitarra. Sui bordi fece disegnare due viali che ne seguono tutte le sinuosità, fiancheggiati a loro volta da centinaia di alberi, trapiantati dalle foreste circostanti. Molti di essi, oltre ad essere squisitamente "americani", uniscono alle belle fioriture primaverili spettacolari colori autunnali: meli selvatici, sassofrassi (Sassafras albidum), aceri, tupelo (Nyssa sylvatica). Gli alberi, fin dagli anni giovanili in cui aveva fatto l'agrimensore, erano la vera passione di Washington che ne piantò a profusione anche in altri spazi. A nord della casa venne creato un bosco di Robinia pseudoacacia; la radura verso sud venne riempita con sempreverdi, Cornus florida e alberi di Giuda (Cercis canadensis). A est, a creare una cornice alla veduta sul Potomac, la collina venne piantumata con una grande varietà di piante locali. Ma veniamo ai quattro giardini, partendo dal basso. Sul fianco destro del pendio che culmina con il Bowling Green, troviamo un vasto frutteto (Fruit Garden, lettera d nella mappa); questo terreno originariamente era una vigna sperimentale, piantata con ceppi di origine europea, che vennero distrutti dalla filossera. Nel 1785 Washington vi fece trapiantare gli alberi da frutto rimossi dall'Upper Garden e circa 200 meli ricevuti da un certo Major Jennifer. Protetta da un'alberata (soprattutto robinie), l'area è costituita da sei grandi rettangoli regolari, quattro coltivati a frutteto e due a orto, con verdure, piccoli frutti, erbe aromatiche, e include anche un vivaio. Immediatamente sopra il frutteto, da cui è separato da un viale e da un prato, si trova il giardino inferiore (Lower garden, lettera b), racchiuso da un muro di mattoni; è un vasto orto formale suddiviso in ordinatissime parcelle dove veniva coltivata una grande varietà di verdure e erbe aromatiche. Lungo i muri ci sono peri e meli coltivati a spalliera. Al livello più alto, al di là del prato, troviamo il giardino superiore (Upper Garden, lettera a). Simmetrico al Lower Garden, di cui riprende la forma e le dimensioni, inizialmente era un frutteto; nel 1785 Washington lo fece liberare dagli alberi per trasformarlo in un giardino di piacere. Anch'esso circondato da un muro su cui si appoggiano alberi da frutto a spalliera sui lati al sole e alberi ornamentali sui lati in ombra, ha un disegno formale che ricorda quello della finestra di una cattedrale, con sei aiuole, quattro rettangolari e due curvilinee, circondate da bordure di bosso nano. Le tre aiuole sulla sinistra (due rettangolari e una curvilinea) sono di dimensioni maggiori e combinano la funzione utilitaria dell'orto con quella estetica del giardino; il centro è occupato da file ordinate di verdure e erbe, lungo i bordi fiori e arbusti ornamentali formano una colorata cornice; anche in questo caso si tratta per lo più di specie native. Le due aiuole rettangolari sulla destra, più piccole, e separate tra loro dal piccolo cortile antistante la serra, ospitano un parterre di bosso che riproduce il "fleur de lys", ovvero il simbolo della Francia, preziosa alleata durante la guerra d'Indipendenza. L'ultima aiuola curvilinea sulla destra ospita invece piante da frutto. Bordure fiorite si trovano anche lungo i muri esposti al sole, ai piedi degli alberi a spalliera. Il punto focale di questo giardino è una serra molto innovativa per l'epoca dove venivano riparati aranci, limoni, limette e piante tropicali. Tra di esse una Cycas revoluta giunta dalle Antille, ancora oggi viva e in ottima forma. Infine, l'orto botanico (Botanical garden, lettera c), una piccola area rettangolare incuneata tra il viale superiore e l'Upper garden, seminascosta da diversi edifici utilitari. Washington, che lo amava molto, lo chiamava "my Little garden" o "my Botanick garden". Era lo spazio destinato alla sperimentazione di nuovi semi, bulbi e talee che giungevano sempre più numerosi da amici, ammiratori, ma anche governi stranieri. Tra di essi quello francese, che, tramite André Michaux, fornì un cipresso a piramide e altri sempreverdi. Qui Washington "giardinava" di persona annotando scrupolosamente sui suoi diari successi e fallimenti. Liberalmente aperto ai visitatori già quando il presidente vi viveva (nel 1794 scrisse: "Non obbietto al fatto che ogni persona sobria o in ordine gratifichi la sua curiosità vedendo le strutture, i giardini, ecc. di Mount Vernon.") il giardino "americano" di Washington divenne anche un prestigioso modello che non mancò di influenzare la progettazione dei giardini della nuova nazione. A chi desidera saperne di più, consiglio vivamente un visita all'ottimo sito George Washington's Mount Vernon, una vera miniera di informazioni e curiosità. ![]() Una palma americana per il generale Washington Ovviamente, non fu per i suoi meriti di appassionato e di creatore di giardini che Washington fu onorato con un nome botanico, ma in quanto padre della patria. Anche se la prima denominazione che lo celebra non è valida, ha una storia così curiosa che vale la pena raccontarla. Nel 1853 il botanico inglese John Lindley dedicò uno studio alla sequoia gigante (Sequoiadendron giganteum) che proprio in quegli anni incominciava ad essere conosciuta in Europa; colpito dalla maestosità di questi alberi, i più alti del pianeta, nell'attribuirli a un nuovo genere li battezzò Wellingtonia gigantea, perché secondo lui il generale Wellington (il vincitore di Waterloo) superava ogni uomo proprio come la sequoia supera tutti gli altri alberi. Questa denominazione (illegittima secondo le leggi della botanica, perché il nome Wellingtonia era già stato usato per un'altra pianta) non mancò di suscitare indignazione dall'altra parte dell'oceano: come poteva un generale britannico dare il suo nome alla più maestosa pianta d'America? Infatti, l'anno dopo un certo Andreas Peter Winslow in articolo pubblicato su un settimanale locale, California Farmer, in cui raccontava il suo viaggio a Calaveras Grove, protestò contro questa denominazione poco patriottica, sostenendo che l'unico degno di dare il suo nome al gigante tra le piante americane fosse Washington. Aggiunse che, se la pianta fosse risultata appartenente al genere Taxodium doveva chiamarsi Taxodium washingtonium, se appartenente a un genere nuovo Washingtonia californica. Winslow non era un botanico e la sua denominazione, irregolare per diversi motivi, non è valida, ma rimane comunque molto interessante sul piano storico. La denominazione valida giunse nel 1873 da parte non di un patriota statunitense ma di un botanico tedesco, H. A. Wendland, che separò dal genere Pritchardia P. filifera, rinominandola Washingtonia filifera "in onore di un grande americano". Una terza Washingtpnia era stata creata da Rafinesque, ma, pubblicata da Coulter e Rose solo nel 1900, non può essere presa in considerazione per la regola della priorità. La dedica di Wendland è invece un omaggio indubbiamente adeguato; il genere Washingtonia, della famiglia Arecaceae, comprende due specie di palme native degli Stati Uniti sud-occidentali e del Messico settentrionale, note per la loro altezza, maestosità e bellezza: W. filifera, nota anche come palma della California, e W. robusta, nota come palma del Messico. Sono molto simili tra loro, ma W. robusta ha tronco più sottile, cresce più alta e più rapidamente; a distinguerle poi è il colore della base del picciolo, rosso-porpora in W. robusta e verde in W. filifera. Alte fino a 30 metri, con grandi foglie a ventaglio che formano una densa chioma tondeggiante, sono tra le palme più note e apprezzate, molto coltivate anche da noi in parchi e alberate; la specie californiana è anche relativamente rustica. Qualche informazione in più nella scheda. Giacobino come Balbis, anche l'avvocato Luigi Colla fu uno dei membri del filo francese governo provvisorio della Repubblica piemontese; come l'amico, deluso da Napoleone, lasciò la politica, affiancando all'attività forense la passione sempre più travolgente per la botanica. A Rivoli, nella cintura torinese, trasformò così un podere in un notevole giardino botanico privato, ricco di specie esotiche, grazie soprattutto agli invii dell'avventuroso Bertero. Fu anche autore di contributi di notevole interesse, tra cui spicca la monografia sulle piante cilene raccolte appunto dall'amico scomparso. Di notevole importanza storica sono sia il suo carteggio con eminenti personalità botaniche del tempo (tra cui, primi fra tutti, Balbis e Bertero) sia l'erbario. Tra i suoi corrispondenti non poteva mancare de Candolle che nel 1825 gli dedicò il genere Collaea. Collaboratrice del padre, del quale illustrò le opere con numerose tavole botaniche, fu la figlia maggiore Tecofila, che Bertero volle onorare con il bellissimo e delicato genere cileno Tecophilaea. ![]() Botanico per diletto Nato in una famiglia di giuristi, il torinese Luigi Colla fu avviato alla carriera forense, anche se la sua inclinazione lo avrebbe portato verso le scienze naturali, in particolare la più gentile, la botanica. Laureatosi con una tesi sul diritto naturale ispirata a Beccaria, cominciò a esercitare con successo la professione di avvocato; tuttavia, gli eventi della rivoluzione francese lo spinsero ad entrare nei circoli giacobini, dove probabilmente iniziò la sua amicizia con Giovanni Battista Balbis. Come lui, nel 1798 fu uno dei membri del governo provvisorio filofrancese; nella breve stagione della Repubblica piemontese, fu anzi molto attivo sia nell'azione a favore dell'adesione alla Francia sia nella repressione dei moti legittimisti. Al momento dell'occupazione austro-russa fu arrestato e rimase in carcere fino al ritorno dei francesi, grazie alla vittoria napoleonica di Marengo. Come gli altri repubblicani piemontesi, fu tuttavia deluso dalla politica di Napoleone, allontanandosi progressivamente dalla vita politica. Era tempo di riempire questo vuoto con una passione fino ad allora sopita: quella per le piante. Intorno al 1810, acquistò a Rivoli, a circa quindici chilometri da Torino, uno vasto podere con l'intenzione di trasformarlo in un orto botanico privato. Sembra che gli amici botanici Balbis e Bellardi, cui si rivolse per consigli, all'inizio avessero accolto la conversione di Colla alla "scienza dei vegetabili" con un certo scetticismo; tuttavia, stando a un aneddoto forse apocrifo, quando nel 1813 Balbis visitò il giardino, rimase ammirato dalle ordinate aiuole con le piante disposte secondo le classi di Linneo. Il giardino aveva impostazione paesaggistica, secondo il gusto all'inglese, e conteneva anche alcune serre per la coltivazione delle numerosissime specie esotiche. La realizzazione dell'orto botanico fu accompagnata da uno studio assiduo delle basi teoriche della botanica e delle pratiche agronomiche che Colla volle condividere nella sua prima opera dedicata al mondo vegetale, l'Antolegista botanico (1813-1814, in sei volumi), intesa a divulgare la scienza botanica tra coloro che non leggevano il latino, che contiene anche un'appendice con consigli pratici sulla creazione di orti e giardini. Sempre alla ricerca di novità per il suo giardino, incominciò ad entrare in corrispondenza con orti botanici e studiosi, con i quali scambiava semi, diventando una figura via via sempre più nota e riconosciuta a livello internazionale, tanto da essere ammesso a numerose prestigiose società scientifiche estere (dall'Academy of natural sciences di Filadelfia all'Académie Royale di Lione, dalla Accademia dei Georgofili di Firenze alla Medical and Botanical Society di Londra, ma l'elenco potrebbe continuare). La caduta di Napoleone e il ritorno dei Savoia - al contrario di quanto accade a Balbis, costretto all'esilio - non incisero sulla vita di Colla, che continuò ad affiancare una brillante carriera di avvocato alla cura del giardino e alle sempre più numerose pubblicazioni botaniche. Di notevole interesse, nel 1820, Memoria sul genere Musa e monografia del medesimo in cui descrisse alcune specie di banane che sono all'origine delle moderne varietà coltivate, in particolare Musa acuminata e M. balbisiana Colla. Nel 1824 seguì Hortus ripulensis, il catalogo del suo giardino, che per la rarità delle specie descritte e l'accuratezza delle descrizioni lo consacrò come uno dei più colti e raffinati proprietari di giardini privati d'Europa. Nella maturità e nella vecchiaia l'attività di Colla sembra ancora intensificarsi. Per il vecchio avvocato, l'unico rimasto a Torino degli amici dispersi (dall'esilio, dai viaggi avventurosi, dalla morte), è anche un modo per riscattarne e preservarne la memoria. Ciò vale in particolare per Plantae rariores in regionibus chilensis a clarissimo M. D. Bertero nuper detectae (1834-36) in cui Colla pubblicò le piante ricevute dal Cile dallo scomparso Bertero. Di notevole importanza per le numerose piante inedite o poco note è pure il poderoso Herbarium pedemontanum, in otto volumi (1833-37); quest'opera, in un certo senso, può essere considerato la realizzazione del vecchio progetto concepito con Balbis di aggiornare e completare la Flora Pedemontana di Allioni; Colla vi si dimostra anche attivo esploratore delle campagne e delle montagne piemontesi. D'altro canto è notevole anche per la pubblicazioni di specie inedite inviategli da Bertero dalle Antille e dal Cile, da Colla coltivate nel suo giardino di Rivoli. Nel 1840, in occasione del Secondo Congresso degli Scienziati italiani, che si tenne a Torino, ebbe il piacere di ospitare a Villa Colla l'intera sezione botanica in visita al suo giardino. Un po' tardivi, arrivarono anche i riconoscimenti ufficiali di Casa Savoia: nel 1844 fu nominato Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e nel 1848, poco prima della morte, Senatore del Regno. Qualche approfondimento sulla sua vita nella sezione biografie. Il suo erbario, donato dagli eredi, è ora custodito presso l'Orto botanico di Torino, mentre numerose sue carte sono conservate presso la Biblioteca storica della Provincia di Torino. Di notevole rilevanza il carteggio con insigni botanici dell'epoca, primi fra tutti ovviamente gli amici Balbis e Bertero. ![]() Una raffinata e precisa artista botanica Accanto a Colla, sua collaboratrice preziosa e indispensabile, fu la figlia Tecofila. All'epoca era uso che le signorine di buona famiglia ricevessero lezioni di musica e disegno, ma la nostra Teofila Giacinta Rosalia Anna Maria detta Tecofila in entrambi i campi era ben più di una dilettante. Come il padre, era ottima pianista e cantava con voce di contralto. A soli diciassette anni si sposò con l'avvocato Giuseppe Billotti, che nel 1814 insieme allo stesso Colla aveva fondato l'Accademia filarmonica di Torino, di cui nel 1819 divenne presidente. Gli accademici si riunivano per fare musica insieme, organizzando anche concerti con professionisti. Dal 1838 istituirono anche una scuola gratuita di musica vocale e strumentale, in cui insegnò pure Tecofila, che dell'Accademia era l'unica socia di sesso femminile. Ma veniamo all'altra arte coltivata dalla giovane signora. Reputata artista botanica, tanto da essere ammessa alla Societé Linéenne, si distingueva per la precisione del disegno e per la raffinatezza dell'acquarellatura. A partire dal 1820 (l'anno stesso in cui si sposò) collaborò con il padre disegnando alcune delle tavole delle sue opere: per Memoria sul genere Musa, disegnò dal vero le tre tavole che documentano le fasi della fruttificazione; per Hortus Ripulensis creò 29 su 40 tavole; è poi sua la maggior parte delle 71 tavole di Plantae rariores e delle 97 di Herbarium Pedemontanum. Memoria circa una nuova specie di Calonyction, che Colla lesse durante il citato secondo Congresso degli scienziati italiani facendola stampare come omaggio ai congressisti, contiene una tavola disegnata da Tecofila seguendo in tempo reale la successiva apertura dei fiori. Oltre che con il padre, la valente illustratrice collaborò occasionalmente con G. Gallesio (per il quale disegnò la tavola della Freisa di Pomologia italiana) e G.G. Moris, direttore dell'orto torinese dal 1831. Nella sezione biografie una rassegna delle (scarse) notizie biografiche che ho potuto raccogliere su di lei. ![]() Il genere Collaea La rinomanza internazionale di Colla e del suo giardino è testimoniata dalle numerose dediche di generi con cui fu onorato: Collaea de Candolle (1825), Sprengel (1826), Bertero (1835); Collania Schlutes (1830) e Herbert (1837). L'unico oggi valido è Collea DC, della famiglia Fabaceae, stabilito da De Candolle in Mémoires sur la famille des légumineuses. E' un genere esclusivamente sudamericano, con sei o sette specie, distribuite tra Perù, Bolivia, Paraguay, Argentina centrale e settentrionale e Brasile, che è il centro di diversità con quattro specie. Sono arbusti di notevole impatto estetico, con foglie digitato-trifoliate e fiori molto vistosi raccolti in infiorescenze terminali, in colori brillanti (rosso, viola, azzurro, bianco). La più spettacolare è forse C. cipoensis R. H. Fortunato, un endemismo esclusivo della Serra do Cipó, nello stato brasiliano di Minas Gerais, con corolle rosso fuoco impollinate da due specie di colibrì. Diffusa invece ampiamente in tutto l'areale è C. argentina Griseb., un suffrutice o perenne con corolle papilionacee rosa fucsia. Qualche informazione in più nella scheda. ![]() Il genere Tecophilaea Colla era estremamente legato alla figlia Tecofila che, imitando Cicerone nei confronti della sua Tulliola, definiva "deliciae suae", la sua delizia. In Hortus ripulensis (1824) pensò di ripagare le sue fatiche creando in suo onore il genere Billottia (Myrtaceae). A fare il guastafeste intervenne però de Candolle, che fece notare che il nome non era valido perché si trattava di un sinonimo di Calothamnus, creato da La Billardière nel 1806. Pensò però di cancellare l'affronto creando un nuovo genere Billottia (1830, famiglia Rubiaceae). Anche Robert Brown ebbe la stessa idea, creando Bilotia (con una t sola), pubblicato da Don nel 1832. Nessuno di questi generi è oggi valido. Lo è invece il meraviglioso genere Tecophilaea stabilito da Bertero sulla base di una specie raccolta in Cile; morto precocemente lo sfortunato botanico, a pubblicarle fu proprio Colla, in Herbarium pedemontanum (1836). Questo piccolo genere, di una famiglia propria (Tecophilaeaceae), comprende due specie di bulbose native delle montagne costiere del Cile centrale; la più nota e spettacolare è T. cyanocrocus, le cui corolle blu cobalto hanno quasi rischiato di farla estinguere. Scoperta nel 1862 dal botanico tedesco F. Leybold, proprio questo colore così raro scatenò la cupidigia dei collezionisti che facevano a gara per procurarsene un esemplare. Fu soprattutto il collezionista e ibridatore tedesco Max Leichtlin a lanciarla sul mercato, scatenando una raccolta indiscriminata che in pochi anni, unita ai danni della pastorizia, fece pensare che la pianta fosse ormai estinta in natura. Tuttavia nel 2001 la fondazione cilena Fundaciòn R.A. Philippi ne scoprì una popolazione selvatica la cui ubicazione venne tenuta segreta per permetterne l'adeguata protezione. Altre notizie nella scheda. Sulle orme di Carlo Bertero, che ne visitò l'isola maggiore nel 1830, fornendo la prima ricognizione scientifica della sua flora, raggiungiamo l'arcipelago delle Juan Fernandez, un gruppo di isole oceaniche al largo del Cile, caratterizzate da un eccezionale numero di endemismi, purtroppo a grave rischio di estinzione. E scopriamo che proprio qui visse quattro anni da naufrago Alexander Selkirk, corsaro scozzese le cui vere vicende ispirarono a Defoe le avventure immaginarie di Robinson Crusoe. A ricordare i due personaggi, quello reale e quello fittizio, oltre ai nomi ufficiali delle due due isole principali, oggi rispettivamente Robinson Crusoe e Marinero Alejandro Selkirk, anche due rari generi nativi delle isole: Robinsonia e Selkirkia. ![]() Un paradiso botanico a rischio L’arcipelago delle Juan Fernández, al largo del Cile, a circa 670 km dalla costa, più o meno alla latitudine di Valparaiso, è formato da tre isole, più alcuni isolotti: l’Isla Más a Tierra (quella più vicina alla costa), che dal 1966 si chiama ufficialmente Robinson Crusoe; l’Isla Más Afuera (l'isola più esterna), che è stata ribattezzata Marinero Alejandro Selkirk; l’Isla Santa Clara. Come sanno i cultori del romanzo di Defoe, Alexander Selkirk è il personaggio reale a cui si ispirò lo scrittore inglese per le avventure del suo personaggio fittizio: dall’ottobre 1704 al febbraio 1709, egli visse nell'isola che oggi porta il nome del suo “doppio” romanzesco, dopo asservi stato abbandonato dal capitano della nave corsara su cui prestava servizio. Cosa c’entra tutto questo con la botanica? Intanto, quella nave faceva parte della flotta comandata da William Dampier, che oltre ad essere un corsaro era anche un appassionato naturalista, tanto da meritarsi la dedica del genere Dampiera (un'altra bella storia che prima o poi racconterò); ma soprattutto, queste isole così remote, proprio come le più celebri Galapagos, sono caratterizzate da una fauna e una flora molto particolari, con molte specie che vivono solo qui, tanto è vero che nel 1977 sono state proclamate dall’UNESCO Riserva mondiale della Biosfera. Le isole oceaniche sono ambienti allo stesso tempo unici e fragili. Sono unici perché da una parte l'isolamento crea le condizioni per linee evolutive separate, con la nascita di specie esclusive; dall'altra la distanza dal continente fa sì che non si risentano gli effetti delle grandi estinzioni di massa, preservando piante e animali altrove estinti. Sono fragili perché sono estremamente sensibili ai mutamenti climatici e soprattutto all'invasione di specie continentali, introdotte in modo volontario o accidentale dall'uomo. Di origine vulcanica, le tre isole e i numerosi isolotti che le attorniano sono le cime di una catena sottomarina. Non sono mai state collegate al continente, il che significa che gli antenati di tutte le piante e di tutti gli animali che vi vivono sono arrivati qui trasportati dalle onde del mare o dall'aria. Ecco perché non ci sono né rettili né mammiferi terrestri. Anche i semi delle piante sono stati portati qui dalle onde o dal vento, evolvendosi poi in modo separato, tanto che oggi il 60% delle specie vascolari autoctone sono endemiche. In particolare l'isola Robinson Crusoe (la cui superficie è circa la metà di quella dell'isola d'Elba) presenta più piante endemiche per km quadrato di ogni isola del mondo (93 specie, ovvero 1,9 per km quadrato). In totale nell'arcipelago si annoverano una famiglia (Lactoridaceae), 12 generi e 132 specie vascolari endemiche. Il maggior numero di endemismi si incontrano nei boschi montani alti (tra 350 e 650 m sul livello del mare) e bassi (tra 220 e 410 m) dove raggiungono rispettivamente il 75 % e del 65%. Le due comunità sono dette Mirtiselva, per l'importanza delle piante della famiglia Myrtaceae. Nel bosco endemico montano d'altura le specie dominanti sono gli alberi endemici Nothomyrcia fernandeziana (luma di Más a Tierra) e Drimys confertifolia. Nel sottobosco le specie più comuni sono la felce arborea Dicksonia berteroana, Coprosma oliveri (olivillo de Juan Fernandez), la palma Juania australis, e, tra le erbacee, Gunnera peltata e diverse specie del genere endemico Robinsonia. Nei boschi più bassi si aggiungono Fagara mayu (naranjillo) e, a Más Afuera, Myrceugenia schulzei. Altri alberi endemici meno abbondanti sono Rhaphithamnus venustus, Coprosma pyrifolia e Boehmeria excelsa. Nelle fasce più basse, l'introduzione di specie invasive dal continente ha quasi distrutto la flora nativa, mettendo a rischio endemismi ormai rari come Dendroseris litoralis, una stupefacente Asteracea arborea, o Sophora fernandeziana. Estinto ormai da un secolo è Santalum fernandezianum, un albero dal legname prezioso profumato di canfora; è stata invece dichiarata estinta nel 2004 Robinsonia berteroi. Ben il 75% delle specie endemiche delle Juan Fernandez è inserito nella lista delle specie a rischio. Questi dati ci dicono quanto preziose siano le ricerche di quei botanici che visitarono le isole prima che l'arrivo delle specie aliene ne alterasse così profondamente l'equilibrio e praticamente cancellasse la flora autoctona dei litorali e delle fasce inferiori. Di eccezionale importanza in particolare è il lavoro di Bertero, che nel 1830 visitò Más a Tierra insieme all'amico Alexander Caldcleugh, raccogliendo circa 300 specie (molte di esse oggi perdute per sempre). ![]() Alexander Selkirk, il vero Robinson Crusoe E' ora però di parlare dei protagonisti umani di questa storia, il reale Alexander Selkirk e il fittizio Robinson Crusoe, accomunati dall'aver dato il loro nome a uno dei generi delle isole, ovvero Selkirkia (Boraginaceae) e Robinsonia (Asteraceae). Entrambi furono stabiliti sulla base di esemplari raccolti e inviati in Europa da Bertero; già nel 1833 Robinsonia, creato da De Candolle e solo nel 1884 Selkirkia, stabilito da Hemsley riclassificando una specie che Colla nel 1835 aveva denominato Cynoglossum berteroi. Per completezza, bisogna dire che Selkirk era arrivato persino dopo Venerdì, cui nel 1882 Baillon aveva dedicato il genere Vendredia (ora considerato un doppione di Robinsonia). Non c'è bisogno di raccontare la storia di Robinson: tutti la conoscono, se non dal romanzo almeno da uno dei numerosissimi film che ne sono stati tratti. Nel 1719, Defoe, che era sempre a corto di soldi, pensò di sfruttare commercialmente la passione dei suoi contemporanei per i viaggi avventurosi per mare, ispirandosi alle memorie del marinaio scozzese Alexander Selkirk, raccolte dal capitano Rogers e pubblicate nel 1712. Come tutti sappiamo, fu un successo che continua dopo tre secoli. Proprio come Robinson, Selkirk veniva da una onesta famiglia protestante, ma rissoso, scapestrato e poco incline al lavoro, molto giovane si arruolò come corsaro e nel 1703 (all'epoca aveva 27 anni) partecipò alla spedizione nel Pacifico comandata da William Dampier, che comandava il St. George, mentre Selkirk era imbarcato sulla Cinque Ports, sotto il comando di Thomas Stradling. Ben presto i risultati deludenti e dispute sulla spartizione del bottino spinsero quest'ultimo a separarsi da Dampier. A ottobre 1704 la nave fece scalo a Más a Tierra per rifornirsi di acqua e viveri. Selkirk fece notare che lo scafo era in pessime condizioni e che sarebbe stato meglio ripararlo prima di riprendere il mare, aggiungendo che avrebbe preferito rimanere lì da solo piuttosto che sfidare le onde su quella bagnarola; cercò anche di convincere i compagni a disertare. Il capitano lo prese in parola: lo fece sbarcare con un moschetto, della polvere da sparo, un'accetta, strumenti da falegname, un coltello, un piatto da cucina, una Bibbia, un materasso e alcuni vestiti. Selkirk era convinto che il suo isolamento sarebbe durato ben poco, invece dovette trascorrere da solo in quell'isola disabitata quattro anni e quattro mesi. Va anche detto che ci aveva visto giusto: la Cinque Ports fece effettivamente naufragio; il comandante e alcuni marinai si salvarono ma, catturati dagli spagnoli, trascorsero anni in prigionia. Quanto a Selkirk, imparò a vivere da solo nell'isola e a sfruttarne le risorse naturali, soprattutto dopo aver abbandonato la spiaggia dove aveva trascorso i primi mesi per trasferirsi più in alto, dove era più facile trovare cibo e rifugio. Proprio come Robinson, l'isolamento e la lettura della Bibbia operarono in lui un profondo mutamento interiore. In quel lungo periodo, solo due navi si avvicinarono all'isola, ma trattandosi di spagnoli, Selkirk dovette nascondersi per evitare di essere catturato e magari giustiziato come pirata, Quando nel febbraio 1709 giunse finalmente il sospirato soccorso, grazie alla nave corsara Duke, comandata Woodes Rogers, Selkirk era un giovane uomo di grande agilità e vigore fisico e dall'eccezionale pace interiore. Rogers ne fu così colpito da nominarlo ufficiale in seconda. Selkirk tornò così alla pirateria, a quanto pare anche con un certo successo economico. Ritornò in patria solo nel 1711, dopo un'assenza di otto anni. Rogers, cui aveva raccontato le sue avventure, ne pubblicò un resoconto in un libro sulla sua spedizione corsara, pubblicato l'anno successivo, destando molto interesse. A differenza di quella del suo doppio letterario, però, la conversione di Selkirk non resse; dopo aver nuovamente manifestato comportamenti violenti e asociali, si arruolò nella marina inglese, morendo di febbre gialla nel 1721 al largo della costa occidentale dell'Africa. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Selkirkia e Robinsonia, le piante del vero e del falso Robinson L'unica specie del genere Selkirkia originaria delle Juan Fernandez, S. berteroi, come ho anticipato, inizialmente fu assegnata al genere Cynoglossum, sulla base delle caratteristiche dei frutti. Dal momento in cui Hemsley lo creò nel 1884 fino a pochi anni fa, è stato ritenuto un genere monotipico e endemico dell'arcipelago delle Juan Ferdandez, rappresentato dalla sola S. berteroi. Nel 2016 un'équipe internazionale capeggiata da N. Holstein e H. Hilger, sulla base di evidenze filogenetiche, ha dimostrato che questa specie non è più "naufraga", unendovi tre specie continentali, prima assegnate due a Mapuchea e una a Cynoglossum. Le diversità nel portamento (S. berteroi è un arbusto, le altre sono erbacee) e nella morfologia generale sono dovute ai diversi habitat, spiegano i ricercatori, mentre il tratto comune sono i frutti con quattro nucule con peli (glochidi) barbati. S. trianae vive nel sottobosco della foresta nebulosa densa della Colombia e dell'Ecuador; S. limense e S. pauciflora sono originarie delle regioni del Cile a clima mediterraneo. Tutte sono piante rare (di cui non ho trovato neppure un'immagine), le prime due a rischio per riduzione dell'habitat. Un breve profilo nella scheda. Anche se è dedicata a un personaggio letterario e non a una persona reale, vale la pena di dedicare qualche riga al genere Robinsonia, un'Asteracea esclusiva delle Juan Fernandez, il secondo genere endemico dell'arcipelago, con otto specie, sette a Más a Tierra, una a Más a Fuera; il primo, con dodici specie, è Dendroseris, un'altra Asteracea piuttosto affine. Grazie a questa eccezionale radiazione, le Robinsoniae si sono adattate ad habitat piuttosto vari; ad esempio, R. evenia e R. gracilis crescono in situazioni aperte, su versanti scoscesi, aridi e rocciosi; R. evenia cresce nel sottobosco della foresta nebulosa, talvolta anche come epifita sulle felci del genere Dicksonia. Sono veri e propri alberi con esili fusti legnosi e foglie a rosetta. Alcuni studi recenti ne propongono la confluenza in Senecio, ipotesi respinta da altri ricercatori. Purtroppo due delle otto specie, R. berteroi e R. megacephala, sono considerata estinte. Quando nel 1793 la spedizione Entrecasteaux collassa e gli ufficiali monarchici istigano gli olandesi ad arrestare i loro compagni repubblicani, tra i naturalisti l'unico a sfuggire a questa sorte è Louis-Auguste Deschamps. Durante il lungo periplo non sembra essersi distinto per particolare zelo naturalistico, ma ora accetta con entusiasmo la proposta del governatore van Overstraten di esplorare l'interno dell'isola. Sicuramente fa collezioni importanti, ma quando rientra in Francia la sua nave viene intercettata dagli inglesi, che sequestrano tutti i suoi materiali. Deschamps vivrà ancora a lungo la vita un po' oscura del medico e dell'erudito di provincia, ma il sogno di essere il primo a scrivere una Flora di Giava è ormai tramontato per sempre. Unica traccia del suo lavoro pionieristico un manoscritto, che dopo oltre secolo di oblio è stato studiato solo negli anni '50 del Novecento, rivelando che il botanico francese fu il primo a vedere e disegnare una Rafflesia. A ricordarlo il genere Deschampsia, che comprende aeree graminacee molto interessanti anche in giardino. ![]() Dalla spedizione di soccorso all'esplorazione di Giava Durante la spedizione Entrecasteaux, Louis-Auguste Deschamps sembra l'unico a non integrarsi, a non fare gruppo con i suoi compagni naturalisti. Gli altri a Parigi hanno fatto parte degli stessi ambienti - le societés savantes e i club rivoluzionari -, hanno le stesse idee politiche e stringono forti vincoli d'amicizia. Deschamps invece appartiene a un'illustre famiglia della nobiltà di toga di Saint-Omer, è monarchico, non sembra avere legami né personali né famigliari con l'ambiente scientifico parigino, anche se all'inizio del 1791 è stato ammesso alla Societé d'Histoire naturelle. Non sembra neppure essere acceso dal fuoco sacro della ricerca che spinge gli altri a scontrarsi con il comandante e a prendere anche troppi rischi, come capita a Riche; è quasi defilato, in secondo piano. In Tasmania, quando per sfruttare al massimo il poco tempo disponibile, i naturalisti si dividono in tre squadre, non ne dirige nessuna. La Billardière - ma probabilmente è accecato dalla passione politica e dal rancore - ne mette addirittura in dubbio la competenza sia come chirurgo sia come naturalista. Sicuramente dovette invece fare la sua parte, in particolare in Nuova Caledonia dove sappiamo raccolse una notevole collezione. Quando a Giava gli echi degli eventi francesi scatenano la lotta aperta tra monarchici e repubblicani, Deschamps è il solo naturalista a non essere arrestato come agitatore rivoluzionario, sia che il comandante d'Auribeau ne conosca le idee, sia che egli si sia apertamente schierato dalla parte degli ufficiali controrivoluzionari. Ed è a questo punto, quando l'avventura dei suoi compagni finisce nell'angoscia della prigionia, che comincia la sua vera storia. Si trova anche lui a Semarang quando il governatore olandese van Overstraten gli propone di entrare al suo servizio per esplorare l'interno dell'isola, in vista della stesura di una storia naturale di Giava. Deschamps non si lascia sfuggire l'occasione di essere praticamente il primo naturalista occidentale a visitare la grande isola e tra il 1794 e il 1798 è impegnato in quattro intense campagne di esplorazione. Nel 1794, per prendere confidenza con in territorio, batte i dintorni di Ungaran, nella regione centrale. L'anno successivo, tra maggio e novembre 1795, un lungo giro lo porta prima nella regione centrale quindi lungo la costa sud, quindi di nuova nella piana centrale, infine sulla costa nord, fino a rientrare a Semarang, dove risiede tra un viaggio e l'altro, trascorrendo la stagione delle piogge a riordinare e classificare le raccolte. La campagna del 1796 lo vede raggiungere Surabaya navigando lungo i fiumi Solo e Mas, quindi esplorare la costa orientale, la parte più a est della costa meridionale (dove raccoglie tra l'altro una nuova specie di Passiflora e una Limonia) e l'isola di Madura, prima di ritornare nella regione centrale e rientrare a Semarang. Nel 1797 si dirige invece a occidente lungo la costa nord, per poi attraversare l'isola e raggiungere il settore centrale della costa sud, dove visita tra l'altro l'isola di Nusa Kanbangan; quindi muovendosi in diagonale verso nord ovest, tocca Bandung, Buitenzorg e Batavia. E' di fatto l'ultimo grande viaggio, cui nel 1798 seguirà solo una breve escursione nei dintorni di Buitenzorg. Durante questi lunghi e faticosi viaggi, in cui è accompagnato da disegnatori e portatori messi a disposizione dal governatore, scala montagne, visita boschi di teak e piantagioni di pepe, raccoglie informazioni sul bohun upas (Antiaris toxicaria, considerato l'albero più velenoso del mondo), esplora crateri, grotte e fonti termali, raccogliendo piante ma anche animali (a quanto pare, soprattutto pesci). Di quello che succede in seguito abbiamo due versioni. Secondo alcuni biografi, rientrò in Francia nello stesso 1798; molto più probabilmente, rimase invece a Giava fino al 1802, lavorando come medico a Batavia. In effetti, nel frattempo la situazione era cambiata: in Olanda era stata proclamata la Repubblica Batava e gli olandesi, da nemici della Francia e alleati della Gran Bretagna, si trovavano ora sul fronte opposto. A partire dal 1800, il porto di Batavia fu sottoposto al blocco navale britannico. Nel 1802 a cambiare la situazione intervennero due eventi: in primo luogo, l'amnistia concessa da Napoleone agli immigrati che non avessero impugnato le armi contro la repubblica; in secondo luogo, la pace di Amiens tra Francia e Regno Unito. Non sappiamo se nel frattempo Deschamps si fosse ufficialmente dichiarato immigrato; in ogni caso il nuovo quadro politico gli offriva l'occasione di tornare in patria senza rischi politici; partì dunque portando con sé i diari di campagna, numerosi disegni e presumibilmente le sue ricche collezioni naturalistiche. Tuttavia nello stretto della Manica la nave su cui viaggiava fu fermata dai britannici e tutto gli fu sequestrato, Come già La Billardière, anch'egli si rivolse a Banks per ottenerne la restituzione, ma nonostante le rassicurazioni di quest'ultimo, senza esito. Deschamps visse ancora a lungo. Tornato a Saint Omer, servì come chirurgo nell'ospedale cittadino; privo dei diari e delle collezioni, dovette rinunciare a scrivere la progettata Flora javanica, accontentandosi di una memoria sull'upas bohun e di alcuni articoli sui costumi di Giava. Gli rimase la passione per la botanica: raccolse un notevole erbario delle piante della regione (che i suoi eredi lasceranno alla biblioteca della città natale) e collezionò piante esotiche (come dimostrano alcuni acquisti di piante grasse messicane e fucsie sudamericane). Una sintesi della sua lunga vita (mori nel 1842) nella sezione biografie. Di manoscritti e erbari a lungo si perse ogni traccia, ma a Giava come a Londra girava la voce che durante il soggiorno nell'isola Deschamps si fosse imbattuto in una pianta straordinaria. Solo molti anni dopo John Reeves acquistò all'Indian House un pacco di documenti e piante essiccate che nel 1861 donò al Natural History Museum. E lì le carte giacquero a lungo; l'erbario andò perduto, mentre il manoscritto - consistente nei diari di campo, in un elenco delle specie raccolte e in un abbozzo di Flora Javanica, con diversi disegni - fu esaminato solo nel 1954 da C.A. Backer. Tra quei disegni, inequivocabile, l'immagine di un bocciolo di Rafflesia, che Deschamps vide nel 1797 nell'isola di Nusa Kanbangan. Anche se i botanici discutono di quale specie si trattasse (R. keithii secondo alcuni, R. horsfieldii secondo altri), è in ogni caso la prova che il primo occidentale a vedere e studiare un esemplare di questo stupefacente genere non fu né Horsfield né Arnold, ma proprio il nostro sfortunato Deschamps. ![]() Deschampsia, dai ghiacci dell'Artide ai giardini naturali Nel 1812, quando presumibilmente Deschamps si era ormai rassegnato alla sua vita di oscuro medico di provincia, il botanico Palisot de Beauvois gli dedicò il genere Deschampsia, separandolo dal linneano Aria, con le seguenti parole: "Dal nome di M. Deschamps, medico a Saint Omer, uno dei sapienti naturalisti nominati per la spedizione alla ricerca dello sfortunato La Pérouse". Tra il percorso esistenziale di Deschamps e quello di Palisot de Beauvois osserviamo coincidenze che non possono essere casuali: entrambi nobili e monarchici, si trovavano all'estero negli anni rivoluzionari e subirono qualche anno di esilio prima di poter ritornare in patria (Palisot nel 1798, Deschamps, come abbiamo visto, nel 1802). Inoltre, erano entrambi originari dell'Artois. Il genere Deschampsia, della famiglia Poaceae, comprende una trentina di specie di graminacee per lo più perenni ampiamente distribuite dalle zone artiche a quelle temperate fresche nonché nelle montagne tropicali, in pascoli umidi e radure boschive, in genere in terreno acido. Sono piante cespugliose che formano densi ciuffi di foglie lineari o oblunghe, da cui spuntano aeree infiorescenze a nuvola. Molte specie hanno un importante ruolo ecologico, come ospiti e cibo delle larve di diversi lepidotteri. La specie più nota è l'ubiqua D. caespitosa, il cui areale comprende entrambe le coste degli Stati Uniti, alcune zone del Sud America, l'intera Eurasia, l'Africa tropicale e l'Australia. Già ammirata da Karl Foerster che ne selezionò alcune varietà, questa specie molto variabile è di grande interesse in giardino, grazie al contrasto tra il fogliame verde scuro e le vaporose e aeree infiorescenze, soprattutto per le cultivar con spighette giallo-argenteo, come 'Goldschleier', o giallo-dorato come 'Goldtau' o 'Schottland', che crescono bene anche all'ombra. D. anctartica, una delle due sole piante superiori che vivono nel continente antartico, vanta invece il record di essere la monocotiledone più meridionale del mondo, capace di sopravvivere fino a -30°, nei lunghi inverni artici con luce minima o assente, grazie a un gene che inibisce la ricristallizzazione del ghiaccio. Qualche approfondimento nella scheda. Alla vigilia della Rivoluzione francese, un piccolo gruppo di amici fonda una nuova società scientifica, caratterizzata dall'interdisciplinarietà, dall'indipendenza e dalla fedeltà al metodo sperimentale. E' la Societé Philomatique, destinata a un grande avvenire. Tra i soci fondatori, Claude-Antoine-Gaspard Riche, che dopo esserne stato il primo segretario, nel 1791 lascerà la Francia come naturalista dell'Espérance, una delle due navi della spedizione Entrecasteaux. A ricordarlo il singolare genere Richea, con nove specie endemiche della Tasmania che egli esplorò insieme all'amico La Billardière. ![]() Studio e amicizia Il 10 dicembre 1788, a Parigi, sei amici fondano una nuova associazione scientifica. Tutti giovani o giovanissimi, sono Augustin-François de Silvestre; Charles de Broval, matematico e fisico; il dicottenne Alexandre Brongniart che diventerà un famoso geologo; e tre medici: Claude-Antoine-Gaspard Riche, Joseph Audirac e un certo Petit. I promotori dell'iniziativa sono senza dubbio Silvestre e Riche, entrambi ventiseienni e innamorati delle scienze naturali. Il primo per classificare i libri del suo patrono si è sentito in dovere di studiare matematica, fisica, chimica, scienze naturali; è diventato così uno studioso autodidatta, una figura familiare nei salotti letterari e scientifici del tempo, amico di molti eminenti scienziati. Il secondo si è laureato in medicina a Montpellier nel 1787, per poi spostarsi a Parigi dove, grazie anche al fratello maggiore, l'ingegnere Gaspard Riche de Prony, ha stretto amicizia con scienziati come Vicq d'Azyr e Cuvier. Di carattere ardente e entusiasta, è anche vicino alla Societé Linéenne, di cui condivide la battaglia per la diffusione del sistema di Linneo (che, per diverse ragioni, è invece avversato tanto dal vecchio Buffon quanto dai naturalisti del Jardin des Plantes). All'inizio l'associazione è solo un gruppo di amici che si incontrano settimanalmente, a turno, a casa di uno dei membri, per leggere i loro lavori, discutere delle ultime novità scientifiche, replicare esperimenti. Tre caratteristiche sono evidenti fin dall'inizio: l'indipendenza tanto dall'autorità politica quanto delle istituzioni scientifiche riconosciute; l'interdisciplinarità (gli interessi dei soci toccano matematica, fisica, chimica, scienze naturali, geologia, scienze della salute); la vocazione pedagogica e l'interesse per le applicazioni pratiche della scienza a beneficio della società. Nel nuovo clima di libertà dei primi mesi della Rivoluzione, la società si consolida e si espande: nell'autunno si dota di uno statuto, di un motto (Studio e amicizia), di un nuovo nome: Societé philomatique de Paris, ovvero società degli amanti della ricerca. Il suo programma è nobile e ambizioso: "diventare un luogo di incontro generale dove confluiranno le nuove conoscenze e da cui si espanderanno nel mondo degli studiosi, in una catena luminosa e ininterrotta di verità e insegnamenti". Per elezione e cooptazione entrano nuovi membri: il primo, sempre nell'autunno 1789, è il chimico Vauquelin, scopritore del berillo e del cromo. Tra il 1790 e il 1791 l'associazione continua ad allargarsi, raggiungendo 18 membri effettivi e 18 corrispondenti. Ma a farla decollare sono gli eventi del 1793: l'8 agosto la Convenzione sopprime le Accademie e le società scientifiche legate al vecchio regime; di conseguenza nell'autunno molti ex accademici chiedono di essere ammessi ai Philomathes, che ormai riuniscono il fior fiore della scienza francese: Berthollet, Fourcroy, Lavoisier, Lefebvre d'Hellancourt, Ventenat, Vicq d'Azyr, Lamarck, Monge, Prony, Laplace. Ma questa è ormai un'altra storia. Nel frattempo, ad eccezione di Silvestre (segretario fino al 1802) e Brongniart, i soci fondatori sono ormai usciti di scienza: Audirac è morto nel 1790, Broval è emigrato nel 1792, di Petit si sono perse le tracce. Quanto a Riche, dal settembre 1791 è coinvolto nella grande avventura della spedizione Entrecasteaux alla ricerca di Laperouse, come naturalista dell'Espérance. Fino a quel momento è stato l'anima dell'associazione; come segretario, ne ha redatto i bollettini mensili (che fino al 1792 erano manoscritti, copiati in 18 copie, una per ciascun corrispondente). ![]() Passione naturalistica, disavventure e disastri A convincerlo a partire, oltre all'amore per la scienza, una serie di considerazioni: quella principale è la salute; fin dagli anni di Montpellier il giovane naturalista soffre di tubercolosi, tanto che sono i suoi stessi amici a spingerlo a partire, nella speranza che il viaggio per mare e il mutamento di clima gli giovino; poi il desiderio di gloria, alimentato, secondo Cuvier (che di Riche ci ha lasciato un commosso elogio funebre) da una storia d'amore: temperamento appassionato e romantico, negli anni universitari Claude si innamorò perdutamente di una giovane, tanto appunto da ammalarsi; questo amore contrastato l'avrebbe spinto prima a venire a Parigi a cercare la gloria scientifica, per rendersi degno di lei, poi a partire per i mari del Sud, a trovare o la morte o la fama. Ho già raccontato delle vicende della spedizione in questo post. Riche si legò di amicizia soprattutto con La Billardièere, cui lo univano sia l'amore per la scienza sia la passione politica (sembra che a Parigi avesse fatto parte del club giacobino); inoltre come naturalisti erano per così dire complementari: La Billardillière era soprattutto un botanico, Riche soprattutto uno zoologo. Dunque collaborarono senza rivalità ciascuno alle ricerche dell'altro, scambiandosi esemplari, osservazioni e insegnamenti, in puro spirito di amicizia filomatica. Fedele allo spirito interdisciplinare della società, durante la spedizione Riche si occupò anche di meteorologia, geologia e chimica, nonché di misurare i venti, la salinità, la luminescenza delle acque; il suo interesse principale era tuttavia la fauna acquatica. Anche per lui, dopo gli entusiasmi iniziali, subentrò la frustrazione delle soste troppo brevi rispetto ai lunghi tratti di mare, che divenne rabbia per l'indifferenza quando non l'ostilità degli ufficiali. In una lettera a Entrecasteaux, scritta nell'agosto 1792, mentre veleggiavano verso le Molucche, Riche lamenta che non solo durante gli scali non gli è stato prestato alcun aiuto, ma che gli uomini dell'equipaggio si appropriano delle prede migliori per arricchire le proprie collezioni private. La risosta del comandante, come possiamo immaginare, fu negativa e alquanto minacciosa. L'avventura più pericolosa toccò a Riche durante la sosta a Esperance Bay, nell'Australia occidentale (14-16 dicembre 1792). Attratto da fumi intravisti in lontananza, si allontanò dagli altri, finendo per perdere l'orientamento; vagò poi per due giorni nei pressi di un lago interno, finché riuscì in qualche modo a raggiungere il mare. I compagni lo trovarono esausto su un piccolo capo ribattezzato in suo onore Cape Riche; a un certo punto aveva anche dovuto abbandonare le sue raccolte. In quelle ore disperate non aveva incontrato anima viva, eccetto tre canguri; si era sostentato solo con l'acqua di una fonte e le bacche di un'Ericacea, battezzata Leucopogon richei (oggi L. parviflorus) da La Billardière. Quest'ultimo, sollevato ma anche seccato per la sventatezza dell'amico, ne approfittò comunque per erborizzare, raccogliendo, oltre a questa pianta, Banksia repens e B. nivea, Chorizema ilicifolia, Eucalyptus cornuta e Anigozanthus rufa (la pianta nota come "zampa di canguro"). Quando la spedizione a Giava finì in catastrofe, Riche fu tra i naturalisti imprigionati come agitatori giacobini. Dopo mesi di prigionia, il 13 luglio 1794, insieme a Willaumes, Legrand, Laignel, Ventenat e 19 marinai, gli fu concesso di partire per Mauritus (Ile de France). Dopo aver deposto la sua testimonianza sul tradimento degli ufficiali, egli era tuttavia tormentato dall'angoscia di aver perso il risultato di anni di fatiche (anche le sue raccolte e le sue carte erano finite nella mani degli olandesi); chiese dunque all'assemblea coloniale il permesso di tornare a Batavia per cercare di recuperarle. Nel novembre 1794 poté infine imbarcarsi sulla Natalie, una nave che riportava a Giava dei prigionieri olandesi; a Batavia le autorità olandesi ignorarono le richieste, e, di nuovo a bordo della Natalie, il 29 marzo 1795 Riche ripartì per l'Ile de France senza i materiali, ma con la soddisfazione di aver ottenuto il riscatto di una cinquantina di altri compagni di sventura, tra cui La Billardière. Tornò poi in Francia nel giugno dell'anno seguente, ma in condizioni di tale prostrazione che si spense nel settembre del 1797, senza aver potuto riabbracciare la famiglia (avendo scoperto, anzi, che la donna amata era caduta vittima del Terrore). Una sintesi della sua vita breve ed intensa nella sezione biografie. ![]() Nelle foreste e nelle praterie alpine della Tasmania Oltre a Leucopogon richei, La Billardière nella sua Relation du Voyage à la Recherche de la Pérouse (1800) volle dedicare all'amico perduto Richea glauca (oggi Craspedia glauca, dopo essersi chiamato C. richea). Per quanto la denominazione di La Billardière abbia la priorità, è stata soppiantata a favore (come nomen conservandum) del genere Richea creato da Robert Brown in Prodromus Florae Novae Hollandiae (1810). In tal modo Riche ha tenuto a battesimo un genere strettamente legato ai luoghi che esplorò, oltre che un'indubbia meraviglia della natura che non avrebbe mancato di affascnarlo. Il genere Richea R. Br. della famiglia Ericaceae (un tempo Epacridaceae) comprende 11 specie di alberi e arbusti, nove dei quali endemici della Tasmania. Molto variabili per dimensioni, dalla nana R. alpina all'arborea R. pandanifolia, sono accomunate dai rami segnate dalle cicatrici anulari delle foglie cadute; dalle foglie che avvolgono totalmente il fusto alla base, per poi incurvarsi e assottigliarsi all'apice; i fiori, raccolti in cime o pannocchie terminali, hanno corolla chiusa e petali fusi in un opercolo. Alcune specie sono piuttosto comuni in Tasmania, dove occupano ambienti soprattutto alpini e subalpini alquanto diversificati: aree aperte aride come R. acerosa, zone paludose come R. gunnii, macchie con suolo povero come R. procera, foreste umide come R. dracophylla. La specie più singolare è R. pandanifolia, un vero e proprio albero che può superare i dieci metri: in genere ha un solo fusto non ramificato, rivestito di foglie secche persistenti, coronato da un ciuffo di lunghissime foglie lanceolate, alle cui ascelle spuntano grappoli di fiori crema o bianchi: a prima vista, nessuno penserebbe che si tratta di un'Ericacea, anzi sarebbe facile scambiarla per una palma. Fiori a parte, è ingannevole anche R. dracophylla, un arbusto eretto dal portamento disordinato che sembra evocare una Draceana. Le specie arbustive di medie dimensioni, che formano ampie brughiere, si rivelano invece per quel che sono al primo sguardo: eriche dalle fioriture stupende, soprattutto la magnifica R. scoparia, con le sue pannocchie di un ricco rosa carico. Qualche informazione in più nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
Febbraio 2019
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