Il medico Willem Piso, che aveva scritto la sezione medica di Historia naturalis Brasiliae, dieci anni dopo pubblicò sotto il proprio nome un'opera sulla storia naturale e medica delle Indie occidentali e orientali, per la quale utilizzò tra l'altro materiali tratti dalla sezione sulla storia naturale scritta da Georg Marcgraf. Il fratello di questi lo accusò di plagio, compromettendo fortemente la sua reputazione scientifica. L'accusa era fondamentalmente infondata ma influenzò anche Linneo che, nel confermare il genere Pisonia creato da Plumier a partire da una pianta spinosissima, scrisse che quella orrida pianta ben si confaceva all'orrida fama di Piso. In realtà, è quasi l'unica specie spinosa del genere, ma, per altre ragioni, su almeno una delle sue consorelle aleggia una fama molto più sinistra. Un medico nel Brasile olandese Nel 1658, dieci anni dopo Historia naturalis Brasiliae, presso l'editore Elzevir di Amsterdam usciva De Indiae utriusque re naturali et medica, che solitamente ne è considerata la seconda edizione. In realtà non è esattamente così, anche se i due volumi hanno in comune diversi materiali e sono strettamente legati, fin dal frontespizio. Quello della seconda è ricavato da quello della prima, sostituendo la figura femminile sulla destra con un uomo che indossa un turbante e la figura allegorica al centro e vari particolari in secondo piano e sullo sfondo con animali dell'Asia e dell'Oceano indiano, per adattarlo al nuovo contenuto: non più la storia naturale del Brasile, ma la storia naturale e medica di entrambe le Indie, quelle occidentali (le Americhe) e quelle orientali (il Sudest asiatico). In entrambi i volumi il titolo è racchiuso in un ricco cartiglio, retto da due scimmie quello sul Brasile, da due uccelli (forse cigni) quello sulle due Indie. Ma la differenza più significativa è un'altra. Nel volume del 1648 leggiamo "Storia naturale del Brasile, per auspicio e beneficio dell'illustrissimo conte Maurizio di Nassau"; dunque non è indicato alcun autore, ma unicamente lo sponsor. Nel volume del 1658 invece leggiamo "Storia naturale e medica di entrambe le Indie, di Willem Piso, medico di Amsterdam". Benché continui a trattarsi di un'opera collettiva, ora c'è un autore che avoca a sè la paternità dell'intero volume. Anche se i concetti di paternità e proprietà letteraria erano all'epoca ancora molto sfumati, il fatti che Piso apparisse come unico autore gli attirò l'accusa di plagio da parte di Christian Marcgraf, che nella sua biografia del fratello Georg denunciò anche il tentativo di Piso di sminuirne la reputazione scientifica, presentandolo come un proprio servitore ("servus meus") e accusandolo di ubriachezza e di irregolarità finanziarie. Linneo sposò questa tesi e rincarò la dose, accusando il medico olandese non solo di essersi impadronito del lavoro scientifico di Marcgraf, ma di averlo rovinato infarcendolo di errori. Se questa è stata a lungo la posizione dominante tra i naturalisti, sono stati piuttosto gli studiosi di storia della medicina a rivalutare Piso, dimostrando che il suo contributo scientifico non è affatto inferiore a quello del collega e rivale. I due erano praticamente coetanei, ma differivano profondamente per background culturale e posizione accademica. Marcgraf aveva avuto una formazione molto ricca e varia, ma a Leida era solamente uno studente straniero, magari molto versato e promettente, ma privo di ogni grado accademico. Al contrario Piso, nativo della città, era un medico laureato e già ben inserito negli ambienti scientifici. Willem o Gulielmus Piso (1611-1678) è lo pseudonimo latinizzato di Willem Pies, nato a Leida da padre tedesco e madre olandese; il padre Härmen Pies, originario del ducato di Cleve, si era trasferito a Leida per studiare medicina, ma, oberato da una famiglia numerosa, aveva abbandonato gli studi per diventare cantore e organista. Willem già a 12 anni risulta iscritto alla facoltà di medicina, un'iscrizione precoce forse finalizzata a ottenere l'esenzione da alcune tasse; fu poi allievo di Otto Heurnius, acquisendo un'eccellente preparazione clinica e anatomica nonché la propensione alla verifica sperimentale. Per evitare le ingenti tasse di dottorato a Leida, concluse gli studi all'università di Caen in Normandia, dove nel 1633, all'età di 22 anni, conseguì il dottorato in medicina. Poco dopo si trasferì ad Amsterdam, dove incominciò a farsi conoscere per la sua competenza clinica. Forse già in questi anni era interessato alla medicina tropicale e potrebbe essere stato in contatto con il medico della VOC Jacobus Bontius. Nel 1638, essendo morto in Brasile poco dopo il suo arrivo il primo medico personale del governatore Johann Maurits di Nassau Siegen, la Compagnia olandese delle Indie occidentali (WIC) lo chiamò a sostituirlo. Come tale, oltre ad accompagnare il conte in pace e in guerra, doveva presiedere allo sviluppo del sistema sanitario della colonia, fungere da chirurgo dell'esercito e della WIC ed esplorare le risorse mediche e alimentari del Brasile olandese. Erano compiti complessi e gravosi per una persona sola, gli furono perciò affiancati due assistenti, prima Heinrich Cralitz, poi, dopo la morte di questi, Georg Marcgraf. È esattamente questo il significato del "servus" tanto deprecato dal fratello del naturalista. Certo tra i due dovettero sorgere rivalità e incomprensioni; non sappiamo in quale momento, Marcgraf cessò di dipendere dalla WIC come assistente di Piso, e passò direttamente al servizio del conte. Fosse paranoia, o fosse giustificato, scrisse le sue note di campo in cifra, per impedire a Piso di accedervi. Al contrario del versatile Marcgraf, l'interesse di Piso era eminentemente pratico e focalizzato sulla medicina e l'alimentazione. Era stato educato alla scuola ippocratica, secondo la quale i costumi e gli stili di vita sono influenzati dall'ambiente; studiò dunque con particolare attenzione in quale modo le condizioni ambientali influissero sulla salute e capì che la cosa più sbagliata era mantenere ai tropici le abitudini, i comportamenti e l'alimentazione di casa. Anche in Brasile, gli olandesi continuavano a costruire case in mattoni, ad indossare abiti scuri e pesanti, a indulgere al cibo e all'alcool, tutti comportamenti che logairavano la salute. Tra i coloninolandesi, la mortalità infantile era altissima, molto maggiore di quella dei neonati nativi; secondo Piso, ciò era dovuto all'abitudine di fasciare i neonati, pratica utile in Olanda, ma dannosissima ai tropici. Allo stesso modo, notò che una serie di disturbi della vista colpivano solo gli olandesi, in particolare quelli più poveri, e li collegò all'alimentazione, confrontando la loro dieta con quella dei nativi: quest'ultima era basata soprattutto su pesce fresco e vegetali, che invece spesso mancavano sulle tavole olandesi. Consigliò poi vivamente il consumo di arance e limoni per evitare lo scorbuto. Per vivere (e sopravvivere) ai tropici la ricetta giusta era adeguarsi alle abitudini della popolazione locale e fare tesoro della loro conoscenza dell'ambiente naturale, con le sue insidie e i suoi doni, in particolare per quanto riguarda le proprietà delle piante medicinali e alimentari. Anche se nella sua opera non manca una certa spocchia eurocentrica, gli era chiaro che i nativi erano depositari di un sapere la cui conoscenza era imprescindibile: "Sebbene in un ambiente tanto barbaro si possano osservare molte usanze false, rozze e indegne dell'arte di Ippocrate, ce ne sono tuttavia alcune che sono molto efficaci e meritano un posto nella medicina classica [...] Se, come si è detto, i fondamenti di molte arti ci sono pervenuti da popoli primitivi, ai quali la benevola Madre Natura diede l’innato istinto di guarigione, chi può dubitare che questi esseri umani – pur non avendo alcun legame con la dotta scienza dell'arte medica - abbiano trasmesso ai loro discendenti molte medicine e antidoti nobili e segreti, sconosciuti ai medici classici?" Fu dunque osservando le pratiche mediche indigene e sperimentandole egli stesso cure e farmaci con i suoi pazienti che Piso poté riconoscere le proprietà di molti dei medicamenti esposti nelle sue opere. Studiò poi attentamente sia le malattie importate dall'Europa e dall'Africa sia quelle endemiche del Brasile, cercando di capirne le cause e suggerendo possibili rimedi. Da questo punto di vista, il suo contributo maggiore è considerato l'introduzione dell'ipecacuana, che aveva appreso dai guaritori indigeni. Piso rimase in Brasile circa sette anni e tornò in Olanda con il conte di Nassau Siegen nel 1644, Restò al suo servizio ancora per qualche tempo e nel 1645, benché fosse già dottore in medicina, si iscrisse nuovamente all'Università di Leida, allo scopo di avere libero accesso alla biblioteca per consultare i libri necessari al completamento della prima parte di Historia naturalis Brasiliae, i quattro libri di "Medicina brasiliensis". Intorno al 1647, si trasferì ad Amsterdam dove divenne un medico di successo e un membro riconosciuto della comunità scientifica; nel 1655 fu nominato ispettore del Collegium medicum di Amsterdam, di cui più tardi divenne il decano. Era abbastanza ricco da permettersi una casa sul centralissimo Keizergracht e si inserì nell'élite cittadina anche attraverso i legami familiari: sposò la figlia di uno dei direttori della WIC e poco prima della sua morte, sua figlia Maria, l'unica dei suoi figli a raggiungere l'età adulta, a sua volta sposò Cornelis Munter, futuro direttore della VOC e sindaco di Amsterdam. Insomma, una riuscita scalata al successo sociale. Morto nel 1678, fu sepolto nella Westerkerk, dove da qualche anno riposava Rembrandt. Plagiario o editor disinvolto? Veniamo dunque all'opera incriminata, De Indiae utriusque re naturali et medica; chiariamo subito che non è propriamente la seconda edizione di Historia naturalis Brasiliae, ma un'opera in gran parte diversa, anche negli scopi. Non è più un libro sul Brasile, ma una sorta di manuale di medicina tropicale, che unisce alle esperienze di Piso in Brasile quelle del medico della VOC Jacobus Bontius in Indonesia. Come Historia naturalis Brasiliae è dunque anch'essa un'opera collettiva e il nome di Piso sul fontespizio va inteso, più che come unico autore o anche autore principale, come editor o curatore di un progetto editoriale complesso. Senza dimenticare che Marcgraf, oltre a comparire come autore di uno dei contributi, è citato nella prefazione come fonte di molte informazioni sulla flora e la fauna del Brasile. Si tratta nuovamente di un corposo in folio riccamente illustrato (oltre 500 pagine e 522 xilografie di piante e animali), diviso in tre sezioni principali più un'appendice. La prima sezione, che occupa due quinti del volume con quasi 330 pagine, è costituita da "Historia naturalis et medica Indiae occidentalis" dello stesso Piso, in cinque libri; la seconda dal "Tractatus topographicus et metereologicus Brasiliae" di Georg Marcgraf (40 pagine); la terza da "Historia naturalis et medica Indiae orientalis" di Jacobus Bontius in sei libri (160 pagine), seguita da "Mantissa aromatica, sive "De aromatum cardinalibus quatuor", nuovamente di Piso (60 pagine circa). Oltre a scrivere la prima parte e l'appendice, Piso è intervenuto come editor anche sui contributi di Marcgraf e Bontius. Nel primo caso, ha aggiunto alle osservazioni meteorologiche informazioni sulle lingue e i popoli del Brasile e del Cile attinte da Historia naturalis Brasiliae; nel secondo, ha aggiunto ai quattro libri dell'opera di Bontius De medicina Indorum due libri sulla flora e la fauna delle Indie orientali, basandosi su manoscritti lasciati dall'autore integrati con le proprie ricerche. Il plagio, se plagio c'è, potrebbe annidarsi nella prima parte, per la quale Piso ha integrato la propria "De medicina brasiliensi" (prima sezione di Historia naturalis Brasiliae) con informazioni sulla fauna e la flora attinte dalla sezione di Marcgraf. Ma da questa accusa il nostro è già stato assolto da Cuvier, che pure era un grande ammiratore di Marcgraf: "Alcuni autori, che non hanno letto entrambe le edizioni di Piso, lo hanno considerato un plagiario di Marcgraf, ma non è così perché nella prefazione e ovunque nel libro lo loda come proprio ex collega e lo cita in modo tale che è impossibile dire che abbia cercato di presentare come propria la sua opera". In effetti, Piso non ha copiato il testo di Marcgraf, ma ne ha attinto informazioni e le ha sintetizzate e riorganizzante in base al proprio disegno, che non è più una storia naturale del Brasile, ma una storia medica delle Indie occidentali. I quattro libri di "De medicina brasiliensi" (circa 120 pagine) si trasformano nei cinque di "Historia naturalis et medica Indiae occidentalis" (circa 330 pagine), in cui Piso, pur basandosi principalmente sulla propria esperienza diretta, cerca di allargare il campo di indagine dal Brasile all'intera America tropicale, facendo riferimento alla letteratura disponibile. Il primo libro continua ad intitolarsi "Sull'aria, sull'acqua, sui luoghi", ma passa da 14 a 22 pagine; il secondo libro non esamina più le malattie sia endemiche sia introdotte del Brasile, ma "La natura e la cura delle malattie comuni nelle Indie occidentali, e in particolare in Brasile" e, con l'eliminazione dei morbi importati, si riduce da 39 a 18 capitoli; il terzo libro sui veleni e gli antidoti viene spostato alla fine (diventa il quinto libro) e sostituito dall'amplissimo libro in tre sezioni "Sugli animali americani acquatici, aerei e terrestri commestibili"; il quarto libro, da analisi dei semplici e delle loro virtù, si trasforma in "Sugli alberi, gli arbusti e le erbe medicinali e alimentari che nascono in Brasile e nelle terre circostanti delle Indie occidentali". L'unico libro totalmente nuovo è dunque il terzo, quello sugli animali, per il quale Piso ha usato come fonte principale i libri 4-6 di Historia rerum naturalium Brasiliae di Marcgraf. Anche qui, nessun plagio: come fa notare Cuvier, Piso "ha organizzato [i materiali] in modo diverso; tutte le informazioni su piante e animali fornite da Marcgraf non vengono organizzate in base a classi come ha fatto Marcgraf, ma sulla base di considerazioni mediche: in una sezione, i prodotti eduli; in una seconda, quelli velenosi; in una terza le sostanze medicinali". Inoltre, ci sono anche un certo numero di animali non presenti nei libri di Marcgraf, segno che, anche se la zoologia non faceva parte dei suoi interessi principali, non gli era totalmente estranea. Veniamo ora all'accusa di Linneo, quello di aver alterato i materiali di Marcgraf con aggiunte arbitrarie commettendo molti errori. E qui c'è del vero: Marcgraf era un naturalista più completo e accurato di Piso che, non dimentichiamolo, era essenzialmente un medico ed ha dato i suoi maggiori contributi nel campo suo proprio, quello della medicina (e dell'igiene) tropicale. Indubbiamente commise errori e confusioni, ma il peggiore non è imputabile a lui e non riguarda la sezione sulle Indie occidentali, ma quella sulle Indie orientali. In quest'ultima, mentre sono eccellenti le figure dei mammiferi, quelle dei pesci e dei rettili sono riprese dal libro sulla fauna brasiliana; la colpa non è di Piso, ma dell'editore, che voleva risparmiarsi la spesa di un secondo set di xilografie, pensando erroneamente che, in fondo, pesci e rettili sono più o meno uguali dappertutto. Ma il libro di Bontius, e Bontius stesso, meritano un post tutto per loro. L'albero che uccide gli uccelli Nel suo libro Matters of Exchange, H. J. Cook ricorda che per la sua disinvolta abitudine di aggiungere materiali presi da autori diversi senza citarli in modo trasparente, molti contemporanei consideravano Piso uno scrittore poco affidabile, quindi aggiunge: "Ancora decenni dopo, Linneo venne coinvolto, chiamando Pisonia, da Piso, un genere di piante molto spinose e sottolineando quando lo fece che le loro spine erano sgradevoli quanto la reputazione di Piso". Cook si riferisce a Critica botanica (1737) in cui Linneo scrive: "Pisonia è un albero orrendo (= horridus) per le sue spine; e orrenda è certamente anche la memoria dell'uomo [da cui prende nome] se è vera l'accusa mossa a Piso da un parente di Marcgraf di essersi appropriato degli scritti di Marcgraf dopo la sua morte". Poi aggiunge, più cautamente, rivolgendosi al lettore: "Vedi e confronta tu stesso le obiezioni, confronta poi gli scritti di Marcgraf con quelli di Piso". È esattamente quello che hanno fatto Cuvier e dopo di lui altri studiosi, assolvendo pienamente Piso dall'accusa di plagio. È bene tuttavia precisare che il significato primario di horridus è "spinoso", e applicandola alla memoria del povero Piso Linneo fa un gioco di parole, usandolo nel significato traslato "sgradevole, odioso, orribile" Certo non aveva in mente niente di simile il primo creatore del genere Pisonia, il buon padre Plumier che anzi si espresse in termini pacatamente oggettivi nei confronti del medico olandese: "Gulielmus Piso di Leida percorse il Brasile con i suoi assistenti, gli studenti di medicina tedeschi Georg Marcgraf e H. Cralitz; quindi scrisse e completò quattro libri sulla medicina del Brasile, il quarto dei quali tratta delle proprietà dei semplici brasiliani [...]. È un'opera veramente utile per gli americani e degna dell'interesse dei curiosi". E subito dopo rese omaggio anche a Marcgraf con il genere Marcgravia. Linneo elenca e descrive solo due specie, la spinosissima Pisonia aculeata, che si credeva originaria delle Indie occidentali, e l'inerme Pisonia mitis originaria delle Indie orientali. Oggi sappiamo che la seconda è solo una forma senza spine della prima, una specie pantropicale diffusa in America, in Africa, in Asia e in Oceania. Via via si sono aggiunte altre specie e il genere (famiglia Nyctaginaceae) è giunto ad annoverarne una quarantina, con distribuzione prevalentemente americana, ma con rappresentanti anche in Africa, nel Sud est asiatico e nel Pacifico. Studi recenti hanno però dimostrato che il genere così inteso è polifiletico; di conseguenza ne sono state staccate una ventina di specie indo-pacifiche (genere Ceodes), una specie endemica delle Hawaii (genere Rockia)ù mentre varie specie brasiliane sono state spostate in Guapira. Pisonia in senso stretto comprende ora 27 specie, quasi tutte americane, con centro di diversità nelle Antille; fanno eccezione la pantropicale P. aculeata, P. grandis, distribuita tra Africa, Oceano indiano e Oceano Pacifico, e P. costata, endemica di Mauritius. La maggior parte delle specie ha limitata diffusione ed è strettamente endemica; ad esempio, troviamo tre specie endemiche a Cuba, tre a Portorico, due in Giamaica, una nelle Galapagos, una in Belize, ecc. Sono per lo più arbusti o piccoli alberi; P. aculeata (oltre ad essere quasi l'unica specie spinosa) può essere sia un piccolo albero sia una liana legnosa; P. grandis è un grande albero che può superare i 30 metri. Hanno foglie opposte, alternate o in verticilli terminali, piccoli fiori privi di petali raccolti in cime composte con fiori maschili e femminili su individui diversi. Ma la caratteristica più particolare è data dai frutti o meglio falsi frutti (antocarpi); da oblunghi a clavati, presentano cinque costole arrotondate o angolate con una o più file di ghiandole; estrememente appicicosi, tendono ad aderire alle penne degli uccelli, favorendo la dispersione dei semi. Talvolta però lo fanno in modo troppo efficace: se troppi frutti rimangono appiccicati, gli uccelli malcapitati, soprattutto quelli delle specie più piccole, ne possono essere appesantiti al punto da non riuscire più a volare; così intrappolati, finiscono per essere preda di ratti o altri predatori o per morire di inedia. Questo fenomeno è stato segnalato per P. grandis e per altre specie ora passate al genere Ceodes (in particolare C. umbellifera e C. brunoniana), conosciute in inglese con il nome volgare birdcatcher "uccellatore", che vivono prevalentemente o esclusivamente in isole della regione indo-pacifica che ospitano grandi colonie di uccelli marini. Gli effetti possono essere devastanti: uno studio condotto nella isola di Cousin nelle Seychelles ha dimostrato che Pisonia grandis ha causato la morte di un quarto delle sterne bianche e quasi un decimo delle berte tropicali. Anche se su scala infinitamente minore, l'intrappolamento occasionale di uccelli è stato segnalato anche per P. zapallo, una specie dell'Argentina settentrionale. Il fenomeno rimane enigmatico: per specie che vivono in piccole isole la dispersione dei semi garantita dagli uccelli è certo vantaggiosa, mentre per l'intrappolamento e la morte degli uccelli non è stato dimostrato alcun vantaggio. Esperimenti condotti alle Seychelles hanno dimostrato che è infondata l'ipotesi che la decomposizione degli uccelli morti alla base degli alberi apporti nutrimento aggiuntivo. D'altra parte, sarebbe scorretto demonizzare P. grandis: studi condotti in Australia, dove nella Grande barriera corallina le foreste dense di Pisonia sono sempre più ridotte, hanno dimostrato che la loro perdita incide negativamente sulla sopravvivenza degli uccelli marini che un tempo vi nidificavano in gran numero, Nel 1911 un secondo genere è venuto a onorare, sebbene indirettamente, Willem Piso. È il monotipico Pisoniella, creato da Standley per Pisoniella arborescens, un arbusto con distribuzione disgiunta in Messico e in Bolivia. Precedentemente faceva parte del genere Boerhavia, tuttavia Standley osservò che il suo frutto è simile a quello di Pisonia, ma la pianta ne differisce per l'aspetto generale e l'infiorescenza, un'umbella semplice anziché una cima composta.
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Per un periodo brevissimo, dal 1630 al 1654, gli olandesi controllarono la costa nord orientale dell'attuale Brasile, ponendo la loro capitale dove oggi si trova Recife. Ad attirarli era la ricchezza promessa dalle piantagioni di canna da zucchero, ma grazie al governatore Johan Maurits di Nassau Siegen, che aveva portato con sè un'équipe di artisti e scienziati, diedero vita a un'avvincente avventura scientifica, con la creazione del primo osservatorio astronomico, del primo orto botanico e del primo zoo del Sudamerica e la prima esplorazione organizzata della fauna e della flora brasiliane. Protagonista ne fu il poliedrico naturalista tedesco Georg Marcgraf, autore insieme al rivale Willem Piso di Historia naturalis Brasiliae, una pietra miliare dell'etnografia, della botanica e della zoologia, rimasta un testo di riferimento per circa duecento anni. Lo ricordano il genere Marcgravia e, indirettamente, Marcgraviastrum. Un po' di storia: il Brasile olandese Fu lo zucchero ad accendere l'interesse olandese per il Brasile. Fin dal Quattrocento, quando i portoghesi avevano introdotto la coltivazione della canna da zucchero a Madera e nelle Azzorre, i fiamminghi aveva giocato un ruolo importante come finanziatori e mediatori con il mercato europeo, che era continuato e si era intensificato quando, a partire dal 1530, la coltivazione era stata estesa al Brasile. Anversa si era sostituita a Venezia come maggiore centro mondiale di raffinazione dello zucchero, primato che avrebbe mantenuto fino all'assedio del 1579. In seguito a quell'evento traumatico, persone e capitali si trasferirono a nord, nella Repubblica delle Province unite, e Amsterdam ereditò da Anversa il ruolo di capitale della raffinazione della zucchero. A fare da sfondo, la "guerra degli Ottant'anni", come nei Paesi Bassi è chiamata la rivolta contro la Spagna. Per piegare la resistenza delle province ribelli, nel 1579 Filippo ll chiuse i porti della Spagna e delle sue colonie ai mercanti dei Paesi Bassi; l'anno successivo il Portogallo passò sotto la corona spagnola e i porti brasiliani furono automaticamente preclusi alle navi olandesi. Una parziale mitigazione si ebbe nel 1594, quando il commercio con il Brasile fu concesso una volta all'anno a una singola flotta olandese di non più di venti navi. La "Tregua dei dodici anni", firmata da Spagna e Repubblica delle Province unite nel 1609, permise nuovamente il libero accesso delle navi olandesi ai porti del Brasile; in cambio, gli olandesi si impegnarono a non commerciare con le altre colonie spsgnole e a sospendere la creazione di una Compagnia delle Indie occidentali, analoga alla Compagnia delle Indie Orientali. Allo scadere della tregua, i traffici olandesi si erano enormemente accresciuti; ora le navi olandesi controllavano oltre metà degli scambi tra Brasile ed Europa, e le raffinereie di zucchero dei Paesi Bassi erano passate da tre a 29. Nell'estate del 1621, appena spirata la tregua, fu creata la Compagnia olandese delle Indie occidentali (WIC), che ottenne dagli Stati generali il monopolio dei traffici nell'Atlantico. Nel 1623 la WIC varò il Groot Dessein (grande disegno), che prevedeva di impadronirsi da una parte della capitale del Brasile portoghese, San Salvador de Bahia, e dall'altra del principale forte portoghese in Angola, Luanda. In tal modo, la WIC avrebbe controllato sia le piantagioni brasiliane, sia il traffico degli schiavi neri, e tagliato fortemente le risorse economiche della monarchia spagnola. Nel maggio 1624 una spedizione olandese riuscì effettivamente ad impadronirsi di Salvador, ma poco meno di un anno dopo una flotta di soccorso riconquistò la città. Anche l'attacco a Luanda fallì. Tuttavia, nel 1628 il vice ammiraglio della WIC Piet Hein riuscì a catturare nella baia di Matanzas la flotta spagnola del tesoro, portando l'intero carico con sè in Olanda. Ciò diede alla WIC i capitali per un secondo tentativo in Brasile. Tra l'estate del 1629 e il febbraio 1630, gli olandesi riuscirono a conquistare Olinda e Recife (la capitale del Pernambuco); entro il 1634 controllavano la costa del nordest brasiliano dal Rio Grande do Norte al Cabo de Santo Agostinho. Era così nato il Brasile olandese, anche conosciuto come Nuova Olanda (Nieuw Holland). Il dominio olandese ebbe vita breve - poco più di vent'anni, fino al 1654 - ma fu ricco di conseguenze anche per la storia della scienza. Inizialmente la nuova colonia fu amministrata da commissari della WIC, finché nel 1634 venne nominato governatore il conte Johan Maurits di Nassau-Siegen (1604-1679); nipote di un fratello di Guglielmo il Taciturno, era cugino dello stadtholder Federico Enrico di Nassau-Orange e fin da giovanissimo aveva militato nell'esercito della Repubblica delle Province unite, dimostrando notevoli qualità militari. Le confermò nel nuovo incarico, sconfiggendo più volte le forze ispano-portoghesi; nel 1637 inviò in Africa una spedizione che riuscì a impadronirsi dell'importante base commerciale di Elmina (gli olandesi l'avrebbero controllata fino al 1872); fallirono invece due tentativi di prendere Salvador. Oltre che un eccellente uomo d'armi, Johan Maurits era un umanista appassionato di scienze ed arti, un politico lungimirante e un ottimo amministratore; fece costruire infrastrutture come strade e ponti, incoraggiò l'immigrazione di coloni olandesi ma allo stesso tempo cercò la collaborazione dei proprietari portoghesi creando consigli municipali cui portoghesi e olandesi partecipavano fianco a fianco. Nel 1638, sull'isola di Antônio Vaz, posta di fronte a Recife, fondò la città di Mauritsstad, che divenne la capitale del Brasile olandese, affidandone la progettazione all'architetto Pieter Post. La residenza del governatore era la sontuosa Vrijburgh (Huis Vrijburgh), nota anche come palazzo delle torri per le due alte torri che ne ornavano la facciata; una era usata come faro, mentre l'altra ospitava un osservatorio astronomico, il primo dell'emisfero sud. Le sale erano ornate di dipinti, tappezzerie, arredi raffinati e collezioni di oggetti artistici e naturali. Il palazzo era circondato da giardini con parterre formali, un'ampia peschiera, un'arboreto dove furono trapiantate 200 piante di palma da cocco e altri alberi da frutto - tanto portati dall'Europa come melograni, limoni, aranci, quanto tropicali. Per la flora e la fauna brasiliane c'era un orto botanico e uno zoo, anch'essi i primi del genere nelle Americhe. Molti degli animali che ne popolavano le gabbie e le voliere era doni di locali che desideravano in tal modo ingraziarsi il governatore, ma erano anche il frutto delle vere e proprie spedizioni scientifiche da lui promosse. Un'opera a quattro mani - anzi sei Egli infatti aveva portato con sè una piccola équipe di pittori e scienziati che mise al lavoro per esplorare e documentare le ricchezze naturali della nuova colonia. Tra i primi, troviamo Frans Post, che si specializzò in paesaggi e scene esotiche e Albert Eckhout, che dipinse scene del Nuovo mondo, ritratti di indigeni e nature morte e presumibilmente gran parte degli oli di animali e piante poi donati al Grande elettore di Brandeburgo e inclusi in Theatrum rerum naturae Brasiliae; tra i secondi il suo medico personale e chirurgo dell'esercito Willem Piso (1611-1668), il geografo e astronomo Georg Marcgraf (1610-1644) e lo studente di medicina e matematica Heinrich Cralitz che sfortunatamente morì di febbri tropicali entro un anno dal suo arrivo. Piso e Marcgraf parteciparono a diverse spedizioni nell'interno, che avevano allo stesso tempo scopi militari, economici e scientifici. Come medico, Piso era soprattutto interessato alle malattie tropicali e alle piante medicinali, la cui conoscenza era essenziale per mantenere in salute il personale della compagnia e i coloni, mentre il compito principale di Marcgraf, come astronomo e cartografo, era disegnare una mappa della colonia il più completa possibile. Oltre ad essere un eccellente disegnatore, era tuttavia uno scienziato a tutto campo, i cui interessi spaziavano dall'astronomia alla meteorologia, dalla zoologia e alla botanica e all'etnografia. Anche se scindere l'opera dei due che, come vedremo, furono coatori di Historia naturalis Brasiliae, è problematico, in questo primo post vorrei concentrarmi su Marcgraf, per poi ritornare su Piso in un secondo post. Georg Marcgraf (ma il cognome viene scritto anche Markgraff, Marggraf, in olandese Marggrafe, in inglese e francese Marcgrave e in latino Marcgravius) era tedesco, essendo nato a Liebstadt nei pressi di Meissen; iniziò gli studi all'università di Wittenberg, ma in seguito alla Guerra dei Trent'anni dovette spostarsi in vari atenei, tra cui Strasburgo e Basilea. Tornato a Wittenberg, nel 1634 ottenne il grado di "candidato in medicina" con una disputa alchemico-medica; si spostò prima a Rostock, dove seguì le lezioni di botanica di Simon Paulli, poi a Stettino, dove collaborò alla compilazione delle tavole astronomiche di Lorenz Eichstaedt. Nel 1636 decise di iscriversi alla facoltà di medicina di Leida, dove avrebbe avuto la possibilità di dedicarsi contemporaneamente alla botanica e all'astronomia (tra il 1633 e il 1634 vi era stato infatti allestito un osservatorio astronomico all'avanguardia). Allievo di Golius per l'astronomia e di Vortius per botanica, vi trascorreva le sere in osservazioni, mentre le giornate erano dedicate principalmente all'orto botanico e alle raccolte sul campo. Nel novembre 1637, dietro raccomandazione di Jan de Laet, uno dei dirigenti della WIC, fu assunto come assistente di Piso, probabilmente in seguito alla morte di Cralitz, e raggiunse Recife all'inizio del 1638. Forse fu lui a convincere Johann Maurits a trasformare in osservatorio una delle torri del Vrijburgh; qui Marcgraf, con il progetto di mappare il cielo australe, fece osservazioni astronomiche e meteorologiche fino al giugno 1643, quando il governatore, che ora lo aveva assunto al proprio servizio, gli affidò il compito di mappare il Brasile olandese. Marcgraf aveva già disegnato una mappa della città e delle sue fortificazioni, e ora mappò la regione dal Rio Saô Francisco al Cearà e al Maranhão. Durante le sue esplorazioni, raccolse esemplari di piante e animali per l'orto botanico e lo zoo del Vrijburgh, creò un erbario e scrisse osservazioni naturalistiche integrate con schizzi ed acquarelli. La precisione e l'accuratezza delle sue descrizioni botaniche e zoologiche saranno lodate da Cuvier, come l'estremo discernimento da lui mostrato nell'assegnare le specie da lui scoperte (in gran parte ignote alla scienza) al genere corretto. All'epoca, i naturalisti non usavano ancora il microscopio, e non si può attendere il successivo livello di accuratezza per particolari minuti come "gli stami e i pistilli dei fiori [...] ma tutto ciò che ha a che fare con le dimensioni, la forma, il colore e, ancor più particolarmente, agli usi domestici e medicinali, è annotato con grande accuratezza e cura". Marcgraf era dunque un eccellente osservatore, inoltre, come ricorda ancora Cuvier, gli era familiare la letteratura zoologica precedente, come dimostrano i riferimenti alle opere di Belon, Aldrovandi, Salviani, Rondolet e Gessner. Nel 1644 il conte lo inviò a Luanda, che nel 1641 era stata conquistata dagli olandesi. Poco dopo l'arrivo in Africa, il naturalista morì di qualche malattia tropicale. Prima di partire, aveva però affidato due ceste con i materiali raccolti in Brasile a Johann Maurits che nel 1644, quando fu richiamato, portò con sè in Olanda. La situazione politica era infatti profondamente mutata. Nel 1640 il Portogallo aveva recuperato l'indipendenza, mettendo fine alle minacce di intervento spagnolo contro il Brasile olandese. Con la cessazione delle ostilità, ai vertici della WIC le spese militari apparivano eccessive, e le iniziative del conte fin troppo indipendenti; pesò anche il fallimento del tentativo di impadronirsi di Valdivia in Cile (1643). Che la scelta di allontanare Nassau-Siegen, di abbandonare la sua politca di conciliazione e di sguarnire le difese fosse frettolosa lo dimostra il fatto che appena un anno dopo la sua partenza scoppiò una rivolta generale dei piantatori portoghesi, innescando il conflitto con il Portogallo che nell'arco di pochi anni avrebbe portato alla perdita della colonia. Il conte di Nassau-Siegen si stabilì all'Aja dove, mentre ancora si trovava in Brasile, aveva fatto costruire una splendida dimora nota come Mauritshuis, oggi uno dei più importanti musei dei Paesi Bassi; all'epoca, però, dato che a finanziarne la costruzione erano stati i proventi del commercio dello zucchero, era chiamata con disprezzo anche "Casa dello zucchero". Johann Maurits vi espose gli oggetti etnografici, gli animali impagliati, i dipinti che aveva fatto eseguire in Brasile. Ma utilizzò anche le sue preziose collezioni come doni diplomatici per garantirsi un futuro politico in Europa. Così, una serie di pezzi scelti finirono nelle "camere delle meraviglie" del re di Danimarca (che ricevette, oltre a oggetti etnografici, 26 splendidi quadri di Eckhout, e si sdebitò decorando Nassau-Siegen con l'Ordine dell'elefante), del re Sole e del Grande elettore, un amico di lunga data che ricompensò il munifico dono di quello che sarebbe diventato il Theatrum rerum naturae Brasiliae (ne ho parlato qui) con il governatorato di Mark e Cleves e probabilmente intercedette presso l'imperatore per fargli ottenere il titolo di principe dell'impero (concesso nel 1653). Johann Maurits non dimenticava però la scienza; donò molti esemplari tassodermici al teatro anatomico dell'Università di Leida e promosse la pubblicazione degli scritti brasiliani di Piso e Marcgraf. Mentre il primo, che era tornato in Olanda insieme al principe, poteva occuparsi di persona dell'edizione della propria opera, non così il secondo che, come abbiamo visto, era morto in Angola. Il suo lascito era complesso e non immediatemente fruibile. I documenti cartografici furono affidati a Joan Bleau, dal 1638 cartografo ufficiale della VOC, che ne trasse quattro splendide mappe pubblicate per la prima volta nel 1647 in Rerum in Brasilia et alibi gestarum del poligrafo Caspar Barlaeus, un libro sul Brasile olandese e sull'amministrazione del conte di Nassau Siegen commissionatogli dallo stesso. Le osservazioni astronomiche furono consegnate al matematico, astronomo e orientalista dell'Università di Leida Jacobus Golius (come abbiamo visto, maestro di Marcgraf) che tuttavia morì senza pubblicarle. Rimanevano i testi e i disegni di zoologia, botanica e meteorologia; era un materiale ricchissimo, ma disorganizzato, un insieme caotico di note, e soprattutto era scritto in codice. Si ritiene che Marcgraf avesse fatto ricorso a un codice segreto per evitare plagi da parte di Piso, con il quale non correva buon sangue. Ad assumersi il compito di decodificare e preparare per la stampa il manoscritto di Marcgraf fu Johannes de Laet (1581-1649) che, oltre ad essere uno dei soci fondatori della WIC, era anche un bibliofilo, un collezionista, un geografo, un cartografo e un esperto di cose americane, avendo pubblicato nel 1625 Nieuwe Wereldt ofte Beschrijvinghe van West-Indien (Storia del Nuovo mondo o descrizione delle Indie occidentali). De Laet, oltre a decifrare il manoscritto, riorganizzò il testo, lo integrò con le proprie note e un'appendice, curò la scelta e l'inserimento delle immagini, allestendo o facendo allestire quelle mancanti; insomma fu il vero e proprio editor di Historia naturalis Brasiliae, che nel 1648 fu pubblicata in edizione congiunta ad Amsterdam e Leida da Hackius e Elzevir. Si tratta di un robusto in folio, alto ben 40 cm, aperto da un sontuoso frontespizio: sullo sfondo di una foresta lussureggiante e ricca di animali, quasi a presidiarne l'accesso a mo' di guardiani, si stagliano un nativo e una nativa; ai loro piedi un vecchio, sdraiato su una conchiglia, offre un vaso da cui fuoriescono pesci e altri animali marini, presumibilmente un'allegoria del fiume Capibaribe. Seguono una dedica allo statolder Guglielmo II, scritta da Piso, e la prefazione Benevolo lectori, scritta da de Laet. Il testo vero e proprio è suddiviso in 14 libri. I primi quattro, intitolati De medicina brasiliensi, si devono a Piso; occupano circa un quarto del volume (132 fogli) e sono illustrati da 104 xilografie; la maggior parte si concentrano nel Libro IV e ritraggono 92 piante; le altre si trovano nel libro III: tre illustrano la preparazione della manioca e dello zucchero, 9 sono di animali velenosi. Dopo aver illustrato nel primo libro le condizioni generali ("l'aria, l'acqua, i luoghi"), nel secondo Piso passa in rassegna le malattie proprie del Brasile (tra di esse la framboesia - per la prima volta distinta dalla sifilide) o importate; il terzo libro, dedicato ai veleni e agli antidoti, presenta tra l'altro la prima descrizione e la prima raffigurazioni di serpenti come la boicininga (presumibilmente Crotalus durissimus) o l'ibiboboca (Macrurus ibiboboca). Propriamente botanico è il quarto libro, in cui Piso esamina 104 semplici e le loro proprietà; accanto alle piante medicinali, come l'ipecucuana Carapichea ipecacuanha, le cui proprietà emetiche sono illustrate per la prima volta, ci sono anche piante alimentari come l'anacardio Anacardium occidentale, il falso pepe Schinus terebinthifolia, la noce del paradiso Lecythis zabucajo. La seconda sezione del volume è costituita dagli otto libri di Marcgraf (Historiae rerum naturalium Brasiliae libri octo), occupa 303 pagine ed è illustrata da 429 xilografie; i primi tre libri trattano le piante, divise in erbe, piante da frutto e arbusti, alberi, per un totale di 301 piante descritte e 200 raffigurate; il quarto i pesci; il quinto gli uccelli; il sesto i quadrupedi e i serpenti; il settimo gli insetti (gli animali trattati sono i totale 367, di cui 222 illustrati); l'ottavo e ultimo libro, di argomento etnografico, è una descrizione delle diverse regioni geografiche e dei loro abitanti. La quasi totalità delle specie descritte erano nuove per la scienza. Grazie soprattutto alla profondità e all'accuratezza del lavoro di Marcgraf, Historia naturalis Brasiliae divenne una pietra miliare, insuperata fino alle opere sulla fauna e la flora brasiliane di Spix e von Martius. Molto del fascino dei capitoli sugli animali si deve alle bellissime xilografie, quasi certamente di mano dello stesso Marcgraf; un certo numero di disegni botanici fu invece presumibilmente disegnato in Olanda. Preparando il volume, de Laet si rese infatti conto che diverse piante non erano illustrate; le disegnò o le fece disegnare sulla base di campioni d'erbario raccolti dallo stesso Marcgraf o inviati da altre persone residenti in Brasile. Aggiunse poi un certo numero di note, tratte per lo più dai Quatro libros de la naturaleza del monaco Francisco Ximenez che egli stesso aveva già citato nella sua Nieuwe Wereldt ofte Beschrijvinghe van West-Indien, e un'appendice sui nativi del Cile, basata sulle relazioni della spedizione olandese a Valdivia. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1649, l'erbario di Marcgraf, che si trovava evidentemente a casa sua, fu acquistato dal danese Willum Worm, e inviato a suo padre Ole, professore di medicina dell'Università di Copenhagen e proprietario di una celebre wunderkammer (Museum Wormianum). Alla morte di Ole Wurm, le sue collezioni, incluso l'erbario di Marcgraf, furono vendute dalla famiglia al re Federico III e più tardi passarono al Museo botanico, dove esso è attualmente conservato. Consta di 173 fogli con 177 campioni; è di enorme importanza storica perché, oltre ad essere la fonte evidente di alcune delle tavole botaniche di Historia naturalis Brasiliae, è probabilmente il più antico erbario dell'America tropicale. Come farsi notare dai pipistrelli Primo studio scientifico sull'etnografia, la medicina, la flora e la fauna di una regione del Sudamerica, Historia naturalis Brasiliae ebbe un'ampia circolazione ed esercitò una profonda influenza. A suscitare ammirazione, senza nulla togliere ai libri di Piso, che ebbero comunque un ruolo pionieristico nel campo della medicina tropicale, furono soprattutto i libri di Marcgraf sulla flora e sulla fauna. Tra i loro estimatori, Linneo, che li utilizzò come testo di riferimento e ne trasse molte denominazioni, e Aublet, che se ne servì per le sue ricerche in Guiana. È di Linneo (che però, come spesso capita, si rifà al precedente di Plumier) la dedica all'astronomo e naturalista tedesco del genere Marcgravia, che è anche il genere tipo e più numeroso della famiglia Marcgraviaceae; esclusiva dell'America tropicale, quest'ultima comprende sette generi e circa 130 specie, per la maggior parte liane o rampicanti. Marcgravia comprende una sessantina di specie, distribuite dal Messico meridionale al Brasile attraverso le Antille e l'America centrale; sono liane e rampicanti terrestri delle foreste tropicali umide, caretterizzate da diverse interessanti particolarità. La prima è l'accentuata eterofillia: le Margravia si arrampicano mediante radici avventizie che si abbarbicano alla corteccia dell'albero ospite, presenti solo nella fase giovanile, durante la quale la pianta ha steli piatti o quadrangolari e piccole foglie sessili alternate distiche; nella fase adulta troviamo lunghi rami eretti, privi di radici avventizie, e foglie completamente sviluppate, molto più grandi, picciolate e disposte a spirale. Alcune specie, dopo aver perso il contatto con il suolo, possono diventare epifite, ma tendono comunque a sviluppare lunghi rami ascendenti, all'apice delle quali si sviluppano le infiorescenze, spesso a decine di metri dal suolo, emergendo dalla canopia della foresta. Un'altra particolarità riguarda appunto le infiorescenze. Come tutte le Margraviaceae, quelle del genere Marcgravia posseggono bratteole modificate in nettari; pendule, sono poste all'apice dei rami e sono rette da un lunghissimo stelo; i fiori, che irradiano da un unico punto, sono disposti in un singolo giro a umbella piatta; quelli centrali sono sterili e dotati di bratteole modificate in nettari - dalla forma simile a quella dei fiori di Nepenthes - che pendono al di sotto dei fiori periferici fertili. In tal modo, gli impollinatori, attirati dal nettare, mentre si cibano si imbrattano il dorso di polline; si tratta di colibrì, opossum e per diverse specie di piccoli chirotteri. Tra le specie impollinate da pipistrelli troviamo la stupefacente M. evenia, una rara liana delle foreste cubane; oltre alle bratteole modificate in nettari, poste al di sotto, al sopra dell'infiorescenza si trovano diverse brattee simili a una foglia concava; i ricercatori hanno dimostrato che riflettono e rimandano gli ultrasuoni emessi dai pipistrelli del genere Monophyllus aiutandoli a dirigersi velocemente verso i fiori che così vengono impollinati con maggiore frequenza. Varie specie di Marcgravia (tra le altre, M. umbellata, M. sintenisii, M. rectiflora) sono ricercate dai collezionisti come piante da terrario o da serra calda. Vengono coltivate soprattutto per il fogliame, sia in cestini appesi, sia come rampicanti su supporti in legno o sfagno, soprattutto in terrario, dato che richiedono umidità elevata e una temperatura calda e costante. Proprio per le particolarità delle foglie e delle infiorescenze differisce da Marcgravia il genere Marcgraviastrum, che ne è stato separato nel 1997. Distribuito dall'America centrale (Nicaragua e Honduras) al Brasile nelle foreste pluviali o nebulose, comprende una quindicina di specie di arbusti e liane epifite, semiepifite o terrestri; hanno foglie sessili o picciolate disposte a spirale e non differenziate in una fase giovanile e in una fase adulta e fiori raccolti in un'infiorescenza umbelliforme eretta anziché pendula; in alcune specie diventano invece pendule quando maturano i frutti. Inoltre, mentre i fiori di Marcgravia sono tetrameri, quelli di Marcgraviastrum sono pentameri e tutti sviluppano un nettario, non solo quelli centrali sterili. Tra le sue specie, vorrei segnalare almeno M. sodiroi, endemica della Colombia e dell'Ecuador, il cui epiteto ricorda il sacerdote italiano Luigi Sodiro (1836-1909), pioniere dello studio della flora dell'Ecuador. Nel 2022, in occasione dei 400 anni dalla nascita, la città natale e il Land Brandeburgo hanno dedicato un convegno internazionale e una serie di pubblicazioni a Christian Mentzel, medico personale del Grande Elettore Federico Guglielmo. Personaggio poliedrico, come medico ebbe un ruolo centrale nella creazione delle strutture sanitarie dello stato prussiano, come botanico fu autore di una flora locale di Danzica e di uno dei primi dizionari universali dei nomi delle piante, come chimico si occupò della pietra fosforica bolognese, come bibliotecario curò la redazione di alcune magnifiche opere illustrate; negli ultimi anni della sua vita fu in relazione con vari studiosi che vivevano o avevano vissuto in Asia e divenne uno dei padri fondatori dello studio della lingua e della civiltà cinesi. Plumier gli dedicò il genere Mentzelia, poi ufficializzato da Linneo. Una flora locale e un grande viaggio d'istruzione Il quattrocentesimo compleanno del medico, botanico e sinologo Christian Mentzel (1622-1701) è stato celebrato a Fürstenwalde, la sua città natale, con un simposio internazionale - culmine di una serie di iniziative in ricordo del poliedrico personaggio. La città sorge sul fiume Sprea, quasi a metà strada tra Berlino e Francoforte sull'Oder, e nel Seicento, grazie alla sua posizione sul fiume, era un importante nodo commerciale, rinomato anche come centro scolastico. Mentzel, che era figlio del sindaco, ricevette la prima eduicazione in casa poi nel 1630 fu ammesso al Ginnasio di Joachimsthal, una scuola d'élite da poco fondata e finanziata dall'elettore di Brandeburgo. Nel frattempo però era scoppiata la guerra dei Trent'anni; nel 1636 studenti e professori furono costretti a mettersi in salvo da un'incursione svedese durante la quale la scuola andò distrutta. Christian dovette interrompere gli studi e nel 1639 perse anche il padre, morto di peste. Si trasferì allora a Berlino per studiare al Köllnisches Gymnasium; studiò quindi medicina prima a Francoforte sull'Oder poi a Königsberg. Nel 1647 accompagnò l'ambasciatore del Brandeburgo a Varsavia e a Cracovia e nel 1648 fu assunto come lettore di anatomia e botanica presso il ginnasio accademico di Danzica. Si trovò così a collaborare ai progetti di riforma scolastica di Johann Raue (Ravius), ammiratore e seguace di Comenio, che davano maggiore spazio a uno studio non libresco della natura. Così le sue lezioni di botanica non si svolgevano solo in aula, ma anche nei prati, nei campi e nei boschi. Proprio come supporto didattico per i suoi studenti Mentzel scrisse il suo primo libro, Centuria plantarum circa nobile Gedanum ad elenchum plantarum gedanensis dom. Nicolai Oelhafii. L'esilissimo libretto (poco più di 20 pagine) elenca in ordine alfabetico 100 piante reperibili nell'area di Danzica; secondo quanto scrive l'autore, è il frutto di cinque mesi di escursioni: "Condussi per campi e foreste la più nobile adolescenza e quanto da ogni lato si offriva fiorente, lo sottoponevo ai loro occhi fedeli". Uno di quei nobili adolescenti era Jakob Breyne che proprio grazie a Mentzel si appassionò alle scienze naturali, Mentzel per lo più si rifà al precedente della prima flora di Danzica, anzi dell'intera area compresa tra Prussia e Polonia, Elenchus plantarum circa nobile Borussorum Dantiscum sua sponte nascentium (1643), del medico (e suo predecessore come insegnante di anatomia e botanica al ginnasio accademico) Nikolaus Oelhafen, estraendone solo le piante che ha effettivamente incontrato e presentandole in modo più sintetico, adatto a un "quaderno di campo" per adolescenti; elimina tra l'altro le indicazioni sugli usi medici. Ogni voce, brevissima, inizia con il nome latino per lo più ripreso dal Pinax di Caspar Bauhin, seguito dal nome tedesco e dai sinonimi in altri autori, dall'epoca di fioritura e dalla localizzazione (generica in latino, specifica in tedesco, ad esempio in littoris maris bei Zoppot). Nel 1650, forse poco dopo aver pubblicato il libro, Mentzel lasciò Danzica per un lungo viaggio di istruzione; imbarcatosi ad Amburgo, visitò l'Olanda, dove fu ad Amsterdam e Leida e forse strinse alcuni dei legami che gli sarebbero stati utili nella sua futura carriera; quindi continuò il suo viaggiò in nave, toccando le coste della Francia, del Portogallo e della Spagna. Proseguì nel Mediterraneo, toccando successivamente Maiorca, la Corsica, la Sardegna, le Isole Eolie, la Sicilia, Malta, Creta e Corfù, dalla quale raggiunse Venezia. Visitò Pisa, Firenze, Roma, Napoli, dove scalò il Vesuvio, quindi riprese gli studi di medicina a Bologna e a Padova, dove nel 1654 ottenne il dottorato in filosofia e medicina. Sulla via del ritorno, visitò ancora Verona, Vicenza, Trento, Innsbruck, Vienna, Augusta e Norimberga, dove incontrò il futuro presidente dell'Academia Naturae Curiosorum, Johann Georg Volkamer. Quindi si stabilì come medico prima a Fürstenwalde, poi a Berlino. Qui attirò l'attenzione del grande elettore Federico Guglielmo che lo nominò aiutante medico di corte e medico di campo. In questa veste partecipò alla campagna contro gli svedesi in Holstein; quindi accompagnò a Cleves e Königsberg l'elettore che nel 1660 lo promosse a proprio medico personale e membro del consiglio di corte. Bibliotecario e... editor Era un compito faticoso che spesso imponeva a Mentzel lunghi viaggi lontano da Berlino per accompagnare l'elettore nelle campagne militari e nelle visite diplomatiche o per assistere lui o i suoi famigliari in caso di malattia, come nel 1667, quando andò nei Paesi Bassi per recuperare la principessa Luise ammalata di tisi e riportarla in patria o nel 1674 quando non poté salvare dalla morte il giovanissimo principe Carl Emil, ammalatosi di febbri perniciose durante una campagna in Alsazia. Dal 1661 fu anche impegnato, con altri medici di corte tra cui Elsholtz, nella riforma del settore sanitario che sarebbe sfociata nell'editto medico del 1685. Per molti anni a causa di questi impegni pressanti e dei continui spostamenti non poté scrivere né soddisfare la sua passione per la botanica, anche se sappiamo che continuò ad osservare la flora e a probabilmente tenne un diario di campo dei propri ritrovamenti. L'elettore gli aveva affidato anche la sua biblioteca e intorno al 1660 gli chiese di occuparsi di una collezione di immagini di animali, piante e persone del Brasile olandese che gli era stata donata da Johan Maurits di Nassau Siegen in cambio della nomina a governatore di Mark e Cleves. Si trattava di due libri rilegati con immagini ad acquarello, noti come Libri principis, e di alcune centinaia di fogli sciolti, dipinti sia ad acquarello sia ad olio, questi ultimi presumibilmente opera di Albert Eckhout, oltre a diversi disegni e schizzi. Su richiesta dell'elettore, Mentzel riorganizzò gli oli in quattro volumi in folio con animali e piante; ciascuno è aperto da un frontespizio, con il titolo manoscritto Theatrum Rerum Naturalium Brasiliae e un sottotitolo specifico, racchiusi in una cornice miniata formata da animali; Mentzel figura come autore. Come dimostrano i numerosi fogli bianchi intercalati ai dipinti, egli progettò una rassegna completa della fauna e della flora del Brasile olandese (o Nuova Olanda); infatti anche i fogli bianchi sono numerati, hanno un titolo vernacolare brasiliano e spesso un rimando alle due principali opere scaturite dalla breve occupazione olandese del Nord est brasiliano: Historia Naturalis Brasiliae di Willem Piso e Georg Marcgraf e De Indiae utriusque re naturali et medica di Piso. Chiaramente, Mentzel aveva intenzioni di completare l'opera con ulteriori immagini, in gran parte copiate da queste opere. ma ciò non si realizzò mai, vuoi per i troppi impegni, vuoi per il costo insostenibile, vuoi per insormontabili problemi tecnici. Le immagini sono organizzate secondo un ordine che si vuole "naturale". Nel primo volume troviamo i pesci perché furono i primi ad apparire; nel secondo gli uccelli perché "proprio come i pesci tagliano l'acqua con le pinne, gli uccelli tagliano l'aria con le ali [...] e le somiglianze e le relazioni tra loro indicano chiaramente che Dio onnipotente li ha creati lo stesso giorno"; nel terzo gli indiani e altri abitanti del Brasile olandese perché "l'uomo è il padrone di tutta la creazione e deve essere il primo", seguiti da scimmie, gatti, conigli, volpi, per concludere con insetti e anfibi, la cui natura è considerata intermedia tra animali e piante. Queste ultime occupano il quarto volume, ma Mentzel non diede loro un particolare ordine, anzi sottolineò che ordinarle e classificarle era impossibile. I fogli di piante sono 106, intercalati con 206 fogli bianchi, ma titolati con nomi vernacolari brasiliani e con rimandi alle opere di Piso e Marcgraf; gli studiosi hanno identificato 162 piante vascolari e il fungo Copelandia cyanescens, cui se ne aggiungono altre 196 per i fogli intercalati. Nella maggior parte dei casi, si tratta di piante native del Brasile, ma ci sono anche una trentina di specie introdotte. Le date dei frontespizi dei quattro volumi ci dicono che Mentzel lavorò al Theatrum Rerum Naturalium Brasiliae tra il 1660 e il 1664, poi abbandonò il progetto e i volumi vennero riposti così come si trovavano nella biblioteca dell'elettore. Del resto era iniziato un nuovo ciclo di guerre, conclusosi solo nel 1679 con la pace di Saint Germain. Ora Mentezel non doveva più trascorrere lunghi periodi lontano da Berlino e poteva tornare a studiare e a scrivere. Nel 1675, mentre la seconda moglie dell,'elettore era in travaglio, approfittò dell'attesa per scrivere un saggio sulla cosiddetta pietra di Bologna, ovvero una pietra fosforescente di barite che nel Seicento attirò l'attenzione di molti studiosi, tra cui Fortunio Liceti, che era stato suo professore a Padova. Con questo saggio Mentzel iniziò una regolare collaborazione con l'accademia Leopoldina, cui fu ammesso quello stesso anno. Un lessico botanico e molte opere "cinesi" Tornò anche a occuparsi di piante, con un'opera singolare che fonde l'interesse per la botanica con quella per le lingue: un dizionario universale dei nomi delle piante. Proprio come la piccola flora di Danzica che aveva scritto da giovane, anche quest'opera della vecchiaia nacque da un intento didattico. Mentzel aveva tre figli maschi, ma, come scrisse - metà rassegnato metà sconsolato - all'amico Volkamer, nessuno dei tre aveva voglia di studiare. Infine però Johann Christian si convinse a seguire le orme paterne e a studiare medicina. Per avviarlo alla botanica, che continuava a considerare una competenza di base indispensabile per ogni medico, il padre gli assegnò il compito di leggere tutti i testi di botanica che gli capitassero sotto mano e compilare una lista alfabetica di tutti in nomi delle piante via via citate, in tutte le lingue. Da esercizio scolastico, l'idea si trasformò in un progetto editoriale cui padre e figlio lavorarono insieme a quattro mani; nel 1682 fu pubblicato sotto il titolo Pinax Botanōnymos Polyglōttos Katholikos o Index Nominum Plantarum Universalis. Come ci informa il chilometrico frontespizio, contiene i nomi delle piante in dozzine di lingue e dialetti, a iniziare dal latino e dal greco, per proseguire con le principali lingue europee, ma anche con idiomi più esotici dei quattri continenti: ebraico, caldeo, arabo, siriano, turco, tataro, malabarico, bramino e cinese per l'Asia, egizio, etiopico, mauritano, malgascio ecc. per l'Africa, brasiliano, virginico e messicano per le Americhe. In appendice, Mentzel volle aggiungere una breve selezione di piante rare (Pugillus rariorum plantarum), tanto appartenenti alle collezioni dall'ex allievo Jacob Breyne quanto incontrate nei suoi viaggi, illustrate da tavole calcografiche di buona qualità; aggiunse infine un indice delle piante del manoscritto brasiliano. L'opera era la prima nel suo genere e conobbe un certo successo, venendo ristampata nel 1696. Dal 1685 con la promulgazione dell'editto medico, come medico personale dell'elettore Mentzel entrò a fare parte di diritto del Collegium medicum. Più o meno nello stesso periodo l'elettore gli affidò la cura della sua biblioteca di libri cinesi. In quegli anni, in Europa l'interesse per la Cina, che incominciava ad essere conosciuta soprattutto grazie ai missionari gesuiti, era vivissimo. Molto vi aveva contribuito la recente pubblicazione di China illustrata di padre Athanasius Kircher (1667) che, con l'incoraggiamento dell'elettore, aveva spinto l'orientalista prussiano Andreas Müller a intraprendere lo studio del cinese e la stesura di una serie di opere, tra cui una Clavis sinica che avrebbe dovuto facilitare l'apprendimento degli ideogrammi e della lingua cinese. Federico Guglielmo incaricò Müller di catalogare i manoscritti orientali della biblioteca elettorale ma fu deluso dalla mancata consegna della Clavis sinica che aveva finanzaito e l'orientalista prometteva da diversi anni; nel 1685, quando Müller lasciò Berlino, l'elettore passò l'incarico a Mentzel. Quest'ultimo all'epoca era già sulla sessantina e non aveva alcuna conoscenza del cinese, ma ne affrontò lo studio con energia e entusiasmo. Inoltre, attraverso l'Accademia curiosorum leopoldina, era già in contatto con alcuni membri della Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC) da cui poté per ottenere informazioni di prima mano, manoscritti e altri materiali, che andarono ad arricchure la biblioteca elettorale. I suoi corrispondenti più importanti furono Georg Eberhardt Rumpf (Rumphius) e Andreas Cleyer. Con il primo, naturalista al servizio della VOC nella remota Ambon nelle Molucche e come lui membro della Leopoldina, cominciò a corrispondere nel 1682 e scambiò numerose lettere, che poi pubblicò in forma di brevi articoli o notizie tra il 1682 e il 1698 nella Miscellanea curiosa sive Ephemerides dell'Accademia. Ancora più fruttuosa la corrispondenza con l'intraprendente Cleyer. Anche lui era membro dell'Accademia curiosorum ed era in contatto con l'orto botanico di Amsterdam. Durante in suoi due mandati come mercante-capo della factory di Dejima (1683-84 e 1685-86) riuscì ad acquistare uno splendido manoscritto con disegni di uccelli e piante e altri li fece eseguire da un pittore europeo; inviò i materiali a Mentzel che riunì le circa 1300 illustrazioni, precedute da un dedica all'elettore Federico III (era succeduto al padre nel 1688) e da una breve introduzione, in una Flora japonica in due tomi rilegati. Mai pubblicati, entrarono a far parte della collezione di illustrazioni naturalistiche della Biblioteca di stato di Berlino nota come Libri picturati con la sigla A41. L'edizione digitale della magnifica opera è consultabile qui. Egli stesso interessato alla farmacopea e alla medicina cinesi, oltre a contribuire di persona alla rivista dell'Accademia curiosorum con numerose osservazioni su questi argomenti, Cleyer fece pervenire a Mentzel testi medici cinesi per la biblioteca elettorale e altri materiali, che furono da lui uniti agli acquarelli e agli schizzi del dono brasiliano del principe di Nassau Siegen nel volume manoscritto noto come Miscellanea Cleyeri (Liber picturatus A38) e probabilmente custoditi nella sua casa. Confluito nella Biblioteca elettorale di Berlino, insieme ai Libri principis e al Theatrum rerum naturalium Braziliae, fa parte dei Libri picturati scomparsi durante la Seconda Guerra mondiale e ritrovati presso la Biblioteca Jagellonska di Cracovia. Ho già racconta questa storia in questo post. Già nel 1685 Mentzel fu in grado di pubblicare un piccolo lessico latino-cinese (Sylloge minutiarum lexici Latino-Sinico-Characteristici), in cui gli ideogrammi cinesi sono accompagnati dalla traslitterazione fonetica in caratteri latini. Entrato poi in contatto con il missionario gesuita belga Philippe Couplet, l'anno successivo pubblicò una cronologia della storia cinese (Kurtze chinesische Chronologia oder Zeit-Register), basata sulla Tabula chronologica dello stesso Couplet e su Sinicæ historiæ decas prima del gesuita italiano Martino Martini. Su consiglio di Couplet, riprese poi il progetto di Müller di una chiave per l'apprendimento del cinese (Müller da parte sua vi aveva rinunciato e prima di morire fece bruciare i propri manoscritti), basandosi per la grammatica su un manoscritto di Martini, per la pronuncia sul Vocabulario de letra China del domenicano spagnolo Francisco Díaz e per l'impostazione generale sul lessico cinese Zihui che organizzava gli ideogrammi in 214 radici. Tuttavia, non andò oltre prefazione (Clavis Sinica, ad Chinensium scripturam et pronunciotionem Mandarinicam) pubblicata nel 1698. Infatti Mentzel si era già imbarcato in un progetto ancora ambizioso: un dizionario cinese-latino (Chinensium Lexici characteristici inscripti 字彙 Cú-guéi) di cui redasse nove volumi, rimasti però inediti. Per l'intensità e la ricchezza di risultati, l'attività di Metzel come sinologo è tanto più stupefacente se pensiamo che negli ultimi anni della sua vita egli era gravemente malato. Nel 1686 fu colpito da un'emiparesi che gli lasciò un tremore costante degli arti; non poteva più scrivere e poté continuare a studiare e lavorare solo grazie al figlio, che poi gli succedette come medico di corte. Morì a Berlino nel 1701. Mentzelia, fiori notturni dalle Americhe Come botanico, ad assicurare una certa fama postuma a Mentzel fu soprattutto il suo Index Nominum Plantarum Universalis; in Nova plantarum americanarum genera Plumier lo onorò con la dedica del genere Mentzelia proprio ricordando quest'opera; quanto a Linneo, che riprese il genere fin da Hortus cliffortianus, in Bibliotheca botanica elenca il medico dell'elettore sia tra gli autori di flore locali (riferendosi ovviamente alla sua centuria sulla flora di Danzica) sia tra i lessicografi, e utilizzò ampiamente il dizionario di Mentzel come opera di riferimento. Menzelia L. (famiglia Loasaceae) è un genere di un cdntinaio di specie originarie delle Americhe, con centro di diffusione nell'America nord-occidentale; sono soprattutto erbacee annuali, biennali e perenni di breve vita, con qualche arbusto. La grande maggioranza vive in ambienti aridi o subdesertici, spesso disturbati o poveri. La caratteristica più costante sono le foglie munite di peli uncinati che per la loro capacità di attaccarsi a ogni cosa sono stati paragonati al velcro; presumibilmente hanno funzione difensiva, ma è stato anche ipotizzato che i numerosi insetti che vi vengono intrappolati, cadendo poi ai piedi della pianta, contribuiscano ad arricchire il suolo povero di nutrienti. Per la grande variabilità di forme tanto del genere quanto delle specie e per le affinitàmtra queste ultime, è considerato un genere tassonomicamente difficile. Tanto la forma delle foglie, in genere caratterizzate da margini ondulati, dentati o serrati, quanto la struttura dei fiori sono alquanto varie. I fiori, singoli o riuniti in infiorescenze termiali, possono avere da 5 a 10 petali, talvolta intervallati da brattee, stretti in alcune specie, ampi in altre, mucronati in altre ancora; le corolle sono biache, bianco crema, gialle, a volte rosse alla gola. Molto decorativi gli stami, molto numerosi. I fiori si aprono nel tardo pomeriggio o di sera per essere impollinati da falene e altri insetti notturni. Tra i caratteri distintivi più importanti, anche la superficie dei semi. Ad esempio, quelli di M. affinis, un'annuale distribuita tra California meridionale, Arizona, Nevada e a Baja California, hanno forma prismatica, quello di M. congesta sono angolati con lati concavi ricoperti di minute protuberanze, quelli di M. involucrata sono minuscoli, ruvidi e bianco-cenere. Il genere è particolarmente rappresentato negli Stati Uniti; porta il suo nome la rivista "Mentzelia", organo della Northern Nevada Native Plant Society. Alcune specie, in particolare la californiana M. lindley, sono talvolta coltivate come annuali da giardino. Una scelta di specie nella scheda. Il medico pomerano Peter Lauremberg, vissuto a cavallo fra Cinquecento e Seicento, è ancora un uomo rinascimentale per la cultura enciclopedica; ma come studioso aperto alla sperimentazione e alla verifica diretta è anche un figlio del secolo di Galileo. Insegnò molte materie in varie università e di molte materie scrisse nelle sue numerose opere. Ritornato nella città natale Rostock, ebbe diversi giardini e si appassionò di piante e orticoltura, cui dedicò un influente trattato. Prevedeva di completarlo con una trattazione approfondita delle piante da coltivare, ma poté scriverne e pubblicarne solo un volume, dedicato alle piante bulbose e tuberose. È il dedicatario del piccolo genere Laurembergia (Haloragaceae). Un influente trattato sulla coltivazione dei giardini Medico, professore universitario, poligrafo ed erudito universale, Peter Lauremberg (1585-1639) era nato in una famiglia di intellettuali della città baltica di Rostock. La madre Johanna Longolia era figlia dell'umanista Gisbert Longolius (Gijsbert van Langerack), il padre Wilhelm fu medico, matematico, professore universitario, più volte rettore del'università di Rostock, così come lo sarebbero stati Peter e due dei suoi fratelli, il più celebre dei quali fu Johann, matematico, cartografo, pedagogista e autore di poesie in latino e basso tedesco. Con questo background culturale, non c'è da stupirsi che già a undici anni Peter traducesse dal greco e dal latino e scrivesse poesie latine. Vissuto nell'epoca che Peter Burke ha definito "dei mostri di erudizione", adulto, dopo essersi laureato in medicina, avrebbe insegnato in varie università filosofia, matematica, fisica, medicina, retorica e poetica e scritto decine di trattati che spaziano dall'anatomia (tra l'altro, precedette Harvey nella descrizione della circolazione del sangue) all'astronomia, dalla matematica alla pedagogia. Fu autore di un'enciclopedia e degli Acerra Philosophica, una raccolta di 400 aneddoti o storie morali ed educative. Scrisse persino di musica e compose cinque brani per liuto. Dopo aver vissuto ed insegnato per molti anni ad Amburgo, nel 1624 Peter Lauremberg accettò la cattedra di poesia all'Università di Rostock e tornò nella città natale. Qui possedeva un giardino urbano e diverse proprietà suburbane; si occupava anche dei giardini degli amici e iniziò a corrispondere e a scambiare piante con altri appassionati di Rostock e altre città baltiche, fino a Lubecca e Stralsund, e a farsene arrivare da commercianti che operavano in Germania e in Olanda, nonostante lo stato di guerra che investì pesantemente la regione. Nel 1628 Rostock fu presa dalle truppe imperiali di Wallenstein e i giardini suburbani di Lauremberg furono devastati; nel 1631 toccò alla casa di città, saccheggiata dagli svedesi; il professore fu ben felice di essere riuscito a salvare almeno un rosmarino e dei cipressi portandoli a casa di un cognato. Per quest'uomo abituato a tradurre ogni esperienza in pagine scritte, anche la passione per piante e giardini si trasformò in occasione di scrittura. Nacque così Horticultura, stampato a Francoforte sul Meno senza data, forse nel 1631, come si evince dalla dedica, o l'anno successivo. L'opera è di grande importanza storica per essere la seconda dedicata alla progettazione e alla coltivazione dei giardini in terra tedesca, preceduta unicamente da Garten-Ordnung del pastore turingio Johann Peschel (1597). E' anche una delle fonti di Von Garten Bau di Elsholtz che ne riprese alcune illustrazioni e lodò Lauremberg per aver cercato di dare ordine alla materia, ma lo criticò per aver scritto in latino. La lingua non è il solo tratto tipicamente rinascimentale del trattato di Lauremberg; a quella civiltà ci riportano l'erudizione, i continui riferimenti al mondo classico, le numerosissime citazioni di autori antichi, il taglio speculativo-filosofico di alcuni capitoli; l'esempio più evidente sono i capitoli 6-9 del primo libro sulla natura delle piante in cui Lauremberg, rifacendosi a Cesalpino e più in generale alla scuola filosofica aristotelica, discute se le piante abbiano o no un'anima, e in tal caso quale sia la sua sede. D'altra parte Lauremberg è anche un figlio del Seicento per la propensione alla sperimentazione e per il taglio pratico, direi manualistico, dei capitoli sulle tecniche di coltivazione, che per altro occupano la maggior parte del testo. Il volume, di poco meno di 200 pagine, dopo la dedicatoria al medico personale di Gustavo Adolfo, è aperto da un'ampia prefazione in cui Lauremberg espone i benefici donati dalle piante, dal cibo agli abiti al materiale da costruzione alle medicine fino al ristoro dei sensi e dell'animo. La prevalenza dell'utilità (commodum) sul mero piacere è ribadita dal capitolo iniziale del primo libro, in cui - proprio mentre in Olanda imperversa la tulipomania - Lauremberg scrive "E' sciocco spendere 500 o 1000 fiorini per un solo fiore che non si caratterizza né per profumo né per utilità, ma solo per l'apparenza e la novità, e dura appena otto giorni". Con il secondo capitolo si entra nel merito delle tecniche di coltivazione, trattate in modo più o meno analitico: la conoscenza e il miglioramento del suolo (Cap. 2); gli attrezzi (Cap. 3, con una bella tavola che sarà ripresa da Elsholtz); la vangatura (Cap. 4); la concimazione (Cap. 5); la natura e la fisiologia delle piante, viste in termini ancora essenzialmente filosofici (Capp. 6-13); la propagazione, trattata in modo molto dettagliato (Capp. 14-27); i trapianti (Cap. 28); la potatura (Capp. 29-30); l'irrigazione (Cap. 31); il diserbo, la cura degli alberi e le sarchiatura (Capp. 32-34); avversità e parassiti (Cap. 35-36); siepi, pergolati e topiaria (Cap. 37); i pulvilli (gli spazi destinati a una singola pianta e quindinl'organizzazione delle aiuole, Cap. 38). Di particolare interesse, il Cap. 9 ("La simpatia e l'antipatia tra le piante") in cui Lauremberg è tra i primissimi a trattare le consociazioni vegetali e il fenomeno che oggi chiamiamo allelopatia; e i diversi capitoli dedicati alla potatura e alla topiaria, arricchiti anche da bellissime tavole. Il secondo libro, articolato in appena otto capitoli e molto più breve del primo, è dedicato alle quattro parti del giardino: il frutteto e l'arboreto (pomarium, Capp. 1-4), il giardino dei fiori (florilegium, Capp. 5-6), l'orto (olitorium, Cap. 7), l'orto dei semplici (phytiatricum, Cap. 8). Come si vede anche da questo schema, la funzione ornamentale del giardino è ancora in secondo piano rispetto a quella produttiva, garantita da frutteto, orto e giardino dei semplici. Bulbi e tuberi in giardino e nell'orto Lauremberg ha allegato a ciascuna delle quattro parti del giardino liste di piante consigliate; si tratta però di semplici elenchi senza altre indicazioni. Progettava infatti di approfondire la trattazione delle singole piante in almeno altri due volumi, intitolati Apparatus plantarius e concepiti come parte integrante di Horticultura, di cui l'unico volume pubblicato riprende infatti il frontespizio. Per varie ragioni, inclusa la morte, sopravvenuta nel 1639, egli riuscì a completare e pubblicare un solo volume (Apparatus plantarius Primus, 1632), diviso in due parti o libri, dedicati rispettivamente alle piante bulbose e tuberose; si tratta presumibilmente della prima monografia su questo gruppo di piante. Graficamente molto curato, il volume è diviso in 38 capitoli (24 sulle bulbose, 14 sulle tuberose), molti dei quali sono preceduti da una tavola con il titolo e un'incisione di ottima fattura di Matthäus Merian, che aveva disegnato e inciso anche le tavole di Horticultura; questo famoso pittore e incisore era il padre di Maria Sybilla Merian. I capitoli seguono una struttura ordinata: nomen, la denominazione latina e tedesca; differentia, le varietà o meglio i cruteri di differenziazione; species, le specie o meglio i tipi; vires et usus: le virtù e gli usi, distinti in familiari (culinari o di altra natura) e medici; cultura: la coltivazione; corollarium: una sorta di appendice, in cui Lauremburg inserisce ogni sorta di informazioni erudite, soprattutte tratte dagli autori antichi. Anche per i nomi si attiene per lo più a quelli antichi, veri o presunti, e per le specie di nuova introduzione talvolta ne crea di propri, ad esempio chiama Adenes canadensis il topinambur Helianthus tuberosus e Adenes virginianus la patata Solanum tuberosum, ricavando il nome dal greco adén "ghiandola". Tuttavia nessuna della sue denominazioni è stata ripresa da altri botanici. Per compilare il suo volume, Lauremberg si rifà ai botanici precedenti, in particolare Dodoens e Clusius ma, soprattutto per la coltivazione, anche alle esperienze personali, anche se certamente non coltivò tutte le piante citate, molte delle quali anche per lui dovevano essere puri nomi citati da questo o quell'autore. Nel primo libro, dedicato ai bulbi, dopo una capitolo iniziale sulle caratteristiche generali delle piante bulbose, tratta 23 generi o meglio gruppi di piante, in ordine alfabetico. Si inizia con Allium, l'aglio, di cui, oltre a Allium sativum, l'aglio comune, elenca altri 9 tipi; non sempre è facile identificarli, visto che qui come nei capitoli successivi solitamente Lauremberg si limita ai nomi, talvolta accompagnati da qualche epiteto descrittivo; ad esempio, Allium campestre tenufolium caninum. Grazie a una descrizione per una volta più precisa, riconosciamo però in Allium aegyptiacum la cipolla egiziana Allium x proliferum. Dopo l'aglio, viene Cepa, la cipolla, con 5 varietà. Segue Colchicum, il colchico, che, oltre ad essere coltivato per le proprietà mediche (e temuto per la tossicità letale) nei giardini rinascimentali e barocchi era apprezzato per il "fiore elegantissimo"; Lauremberg cita tre varietà primaverili, due delle quali potrebbero corrispondere a Bulbocodium vernum, e dieci varietà autunnali, presumibilmente corrispondenti a Colchicum autumnale e forse C. bizantinum. E' poi la volta della Corona imperiale (Fritillaria imperialis) che Lauremberg vorrebbe ribattezzare Archityrsus, ovvero "scettro regio"; provenente dall'impero ottomano, era ancora una novità, ma egli ne conosce sei varietà, con corolle gialle (la più comune), rosse ("molto più elegante della precedente"), aranciate, con corona duplice (è la varietà 'Prolifera' o 'Crown on Crown') o triplice ("è comune a Costantinopoli, da noi è rarissima"). Egli osserva che le ultime due non sono specie a sè, ma "un divertimento della natura scherzosa"; al secondo o al terzo anno di coltivazione la corona ritorna infatti semplice. Molto ampia è la rassegna di Crocus, suddivisi in vero (lo zafferano, Crocus sativus, "amico delle cucine, non solo per il profumo e il sapore, ma perché rallegra il cuore e corregge il cibo cattivo"), autunnale (4 varietà), primaverile a foglia larga e stretta (rispettivamente 9 e 7 varietà, con fiori bianchi, viola, gialli, unicolori o striati). Del dente di cane (Dens Caninus, ovvero Erythronium dens-canis), cui dedica un capitolo brevissimo, conosce invece due sole varietà, violetta e bianca. Erano al contrario molto popolari nei giardini rinascimentali e barocchi le Fritillaria, nome che Lauremberg condanna ("non è neppure latino, e non lo usa nessuno degli eleganti scrittori antichi") e vorrebbe sostituire con Gaviana o "fiore dei gabbiani" perché i fiori macchiettati di Fritillaria meleagris ricorderebbero le uova di questi uccelli. Anch'essa era un'introduzione recente (la prima descrizione di F. meleagris risale al 1554 e si deve a Dodoens), ma già fioriva un vivace mercato di importazioni dall'impero ottomano e dai Pirenei e dalla Francia, dove secondo Lauremberg ne erano abbondantissime le campagne di Orange e La Rochelle. Egli ne elenca 14 varietà, distinte in primaverili e tardive; oltre a F. melegaris con fiori viola e bianchi, riconosciamo F. persica "Gaviana ramificata, massima, purpurea, con steli plurimi e molti fiori" e F. pyrenaica "giunta dai monti, piccola e con piccoli fiori di colore verde cinerino". Del gladiolo Gladiolus Lauremberg elenca 10 varietà, distinte per il colore dei fiori viola o bianco, i fiori semplici o doppi, la provenienza; le specie citate provengono da varie parti del continente europeo (Francia, Italia, Austria, Creta), ma c'è già un gladiolo sudafricano ("Gladiolo massimo del Capo di Buona Speranza"), già presente con lo stesso nome nel catalogo di Swertius (1612). Sorvola invece su Hermodactylus ("non ne conosco né varietà né specie, perché gli autori differiscono pesantemente e disputano su quale pianta possa essere") e passa al grande capitolo di Hyacinthus, di cui elenca 67 tipi. Va considerato però che all'epoca sotto questa etichetta erano classificati diversi generi della famiglia Hyacinthaceae (o sottofamiglia Scilloideae delle Asparagaceae). Oltre ai veri e propri giacinti (Hyacinthus orientalis), che Lauremberg invita ad usare per "aumentare la bellezza e il decoro dei giardini", troviamo dunque specie oggi assegnate ai generi Leopoldia, Muscari, Dipcadi, Scilla, Hyacinthoides e anche qualche Allium. Nel capitolo successivo, Lauremberg tratta insieme le Iris bulbose (21 varietà, distinte in a foglia larga e a foglia stretta; tra queste ultime, Iris tuberosa praecox, che "alcuni ritegono il vero Hermodactylus"; è la bellavedova che oggi, dopo essersi chiamato Hermodactylus tuberosus, è Iris tuberosa) e non bulbose "innumerevoli per varietà, da raccomandare non solo per la varietà di colori e il bellissimo aspetto, ma anche per le virtù e la grandissima efficacia"; distinguendole di nuovo in a foglia stretta e a foglia larga, ne elenca 48 specie o varietà. Segue Leucojum (che Lauremberg scrive Leucoion) con 8 varietà distinte in primaverili ed estive. Ai gigli (Lilium), piante importanti oltre che la loro bellezza e maestosità, per i valori simbolici, Lauremberg riserva tre capitoli, dedicati rispettivamente a Lilium candidum, Lilium cruentum (ovvero L. croceum e altre specie a fiori rossi, in 10 varietà) e Lilium intortum seu cymbalum, ovvero L. martagon e altre specie con i petali retroflessi (15 varietà). Sotto la denominazione omerica e mitica di Moly egli riunisce invece 14 piccole bulbose sia indigene sia esotiche di difficile identificazione che potrebbero essere degli Allium mentre in Moly novum Hondianum (cioè ripreso da Petrus Hondius), grazie alla descrizione per una volta più precisa, riconosciamo la sudafricana Albuca bracteata. Ed eccoci giunti al vastissimo capitolo sui narcisi Narcissus, un altro dei grandi protagonisti dei giardini rinascimentali e barocchi; Lauremberg mettele mani avanti premettendo "le varietà di narcisi sono tante che è difficile individuare criteri di differenziazione certi e includere tutte le specie. Mi limiterò unicamente alle principali". Quindi ne elenca 50, divisi in a foglia larga semplici e doppi, a foglie di giunco semplici e doppi, esotici. In quest'ultimo gruppo troviamo specie oggi assegnate ad altri generi, come Narcissus indicus [...] Jacobaeus ovvero Sprekelia formosissima. Numerose anche le orchidee (Orchis seu Satyrion) che Lauremberg, seguendo Dioscorde, Gerard e Dodoens, divide in Cynosorchis ("con testicoli di cane"), Tragorchis ("con testicoli di capra"), Serapias, Moriones, profumate e nuove. L'interesse per queste piante (le specie o varietà elencate sono 33) non è orticolo - per la coltivazione Lauremberg si limita a scrivere "niente di particolare rispetto ad altri bulbi" - ma medico; avevano infatti fama di potente afrodisiaco. E proprio per condividere le stesse proprietà, oltre che una qualche affinità nelle infiorescenze a pannocchia, il medico tedesco aggiunge alla fine del capitolo quelle che chiama Orchides palmatae, orchidee con foglie palmate, pur ammettendo che non sono piante bulbose. Così, accanto a orchidee vere e proprie come Satyrion basilicum major, che dovrebbe essere Gymnadenia conopsea, troviamo Palma Christi, ovvero il ricino. Nel capitolo su Ornithogalum sono elencati 14 tipi con infiorescenza ombellata o spicata; è di nuovo un gruppo misto, dove accanto a Ornithigalum veri e propri come O. arabicum, già con questo nome, e "ornitogalo a foglie larghe etiopico del Capo di Buona Speranza", che potrebbe essere O. dubium, troviamo Gagea lutea e Drimia maritima. Veniamo poi a Orobanche (7 varietà) di cui Lauremberg conosce la natura parassita: "La natura di queste erbe è tale che raramente nascono da sole; per lo più richiedono la vicinanza di altre piante, cui si uniscono; spesso emergono dalle radici di altre piante, come fa la cuscuta o l'ipocisto [...] soffocandole o strangolandole". Con Porrum il porro (7 varietà) torniamo nell'orto. Solo tre le varietà di Scilla, piante tossiche con vari usi medici, tra cui riconosciamo Drimia (o Squilla) pancration. Ed eccoci finalmente giunti all'ultimo capitolo del libro sui bulbi con la superstar Tulipa, il tulipano. Erano gli anni cui già infuriava la tulipomania e Laurenberg non si sottrae e dopo aver dichiarato "le varietà di tulipani sono indicibili sia per la bellezza dei colori sia per il numero" ne elenca 144, precoci, tardivi, di uno o due colori, variegati, di colore misto, e dedica due pagine alle indicazioni di coltivazione, rifacendosi a una larga esperienza personale. Teminato l'ampio libro sui bulbi (più di 100 pagine), si passa all'assai più breve libro sulle piante tuberose. Dopo un capitolo introduttivo, si inizia con i tuberi propriamente detti, ovvero i tartufi, che per noi non sono piante, ma tali sono stati considerati per secoli, fino a Linneo ed oltre. Quindi, in ordine alfabetico, gruppi di piante tanto esotiche quando indigene, talvolta coltivate per bellezza, ma più spesso come orticole: Adenes canadiensis seu Flos solis glandulosus, ovvero il topinambur Helianthus tuberosus, apprezzatissimo in cucina; Adenes virginianum seu Halicacabus glandulifer, ovvero la patata Solanum tuberosum, che all'epoca non si era ancora imposta nelle tavole tedesche e Lauremberg guarda quasi come una curiosità; Arisarum (2 specie); Arum (4 specie); Asphodelus (6 specie, non tutte oggi assegnate a quel genere; in Asphodelus minor Phalangium narbonense riconosciamo infatti Ornithogalum narbonense); Asphodelus liliaceus o Liliasphodelus, ovvero Hemerocallis (3 varietà differenti per colore; nella Germania settentrionale era di recentissima introduzione, ma già mostrava "di moltiplicarsi spontaneamente grazie ai tuberi, e spesso più del desiderabile"); Bulbocastanum, ovvero Bunium bulbocastanum o castagna di terra, all'epoca coltivato per i tuberi; Cyclamen, il ciclamino (17 varietà, distinte per dimensioni, colore dei fiori e epoca di fioritura; erano apprezzati in giardino, ma avevano anche usi officinali); Glans terrestris ovvero Lathyrus tuberosus, che, fino al Settecento, prima della affermazione della patata, era coltivato in larga scala in Olanda e nella Germania settentriinale; Glans terrestris malacensis ovvero la batata Ipomoea batatas, detta malacensis perché introdotta attraverso Malaga; Gramen amigdalosum, ovvero Cyper esculentus, che Lauremberg è orgoglioso di coltivare nel suo orto ottenendone tuberi "di non minore perfezione di quelli di Verona", l'unico luogo in cui avrebbero prosperato secondo alcuni botanici; Radix cava ovvero Corydalis cava (6 varietà, distinte per dimensioni e colore dei fiori; era coltivata come ornamentale ma aveva anche usi medici) chiude la serie e il volume. Il genere Laurembergia Come abbiamo visto, Lauremberg dedicò Horticultura al medico di Gustavo Adolfo, Johannes Salvius. Era un gesto di opportunità politica, visto che Rostock nel 1630 era passata sotto il dominio della corona svedese. Anche se a differenza di altre città della Pomerania orientale, rimaste sotto il controllo svedese fino al Congresso di Vienna, dopo la pace di Westfalia recuperò la sua indipendenza, i legami commerciali e culturali con la Scandinavia rimasero vivi. Il trattato sull'orticoltuta di Lauremberg ebbe un notevole successo e dovette circolare anche in Svezia; se ne ricordò l'allievo di Linneo Peter Jonas Bergius che in Descriptiones plantarum ex Capite Bonae Spei (1767) creò in suo onore il genere Laurembergia con queste parole d'elogio: "Ho imposto al genere questo nome in onore di Peter Lauremberg, un tempo botanico esimio e restauratore di un'orticoltura più sana". Laurembergia è un piccolo genere della famiglia Haloragaceae (la stessa di Myriophyllum), con sette specie distribuite tra Sud America, Africa, Madagascar, Malesia e Giappone. Di piccole dimensioni e con fiori non cospicui, sono erbacee perenni, spesso decombenti, con rizomi striscianti che radicano ai nodi. Hanno foglie semplici, opposte o più raramente unite in verticilli di due o quattro, intere o dentate; i minuscoli fiori, con calice con quattro lobi e quattro petali, si ammassano in compatte infiorescenze ascellari di 3-11; quello centrale con picciolo più lungo è maschile o androgino, gli altri femminili. I frutti sono nucole. Vivono di solito in ambienti umidi, talvolta stagionalmente allagati. L. repens, una specie ampiamente diffusa nell'Africa tropicale e subtropicale e in Sudafrica, è presente in una varietà di ambienti che vanno dalla savana al Karoo al fynbos di succulente, specialmente ai margini dei corsi d'acqua, ma può adattarsi a una maggiore aridità grazie alle foglie succulente. L. coccinea, nativa di India, Sri Lanka e Indonesia, è invece una pianta montana (sopra a 1400 e fino a 3100 metri) che vive nelle praterie, lungo i margini delle strade e talvolta, come semiacquatica, lungo le rive lacustri d può essere semisommersa per una parte dell'anno. Von Garten Bau di Johann Sigismund Elsholtz ovvero come coltivare un giardino nel freddo Brandeburgo13/4/2024 Il medico Johann Sigismund Elsholtz fu una delle figure più versatili della scienza tedesca del secondo Seicento; scrisse infatti di chimica (a lui si deve la creazione del termine "fosforo"), di medicina, di dietetica - di cui fu un precursore -, di botanica... e di giardinaggio. Come direttore dei giardini di corte del grande elettore di Brandeburgo, dovette affrontare la sfida del difficile clima della regione di Berlino, caratterizzato da lunghi inverni dalle temperature molto basse (senza dimenticare i suoli poco fertili e la ventosità); fece tesoro di questa esperienza per scrivere Von Garten-Bau, probabilmente il più importando libro di giardinaggio dell'epoca, insuperato fino al dizionario di Miller. Nel trattato, così come nei giardini del tempo, che possono essere esemplificati dal Lustgarten ("giardino di piacere") di Berlino, si affiancano quattro tipi di piante, secondo il duplice criterio dell'utile e del diletto: le piante officinali, coltivate nell'hortus medicus, insieme a una selezione di specie del territorio; le piante orticole, coltivate nell'hortus culinarius, ovvero nell'orto vero e proprio; gli alberi, coltivati nell'arboreto e nel pomarius, il frutteto; le piante da fiore dell'hortus floridus, coltivate in piena terra nei parterre a ramages del giardino di piacere se rustiche o in vaso e protette dai rigori invernali nell'orangerie se delicate. Tra i diversi giardini di corte diretti da Elsholtz come praefectus hortorum c'era anche il primo nucleo del futuro orto botanico di Berlino; in ricordo del suo ruolo di padre fondatore, Carl Ludwig Willdenow, che avrebbe rifondato quel giardino, gli dedicò l'interessante genere Elsholtzia. Il Lustgarten di Berlino Nel 1646, mentre volge al termine la terribile Guerra dei trent'anni, che ha devastato la Germania ma ha anche segnato l'ascesa della Prussia come potenza regionale, il Grande elettore Federico Guglielmo ordina di trasformare l'orto adiacente al Palazzo di città di Berlino (Berliner Stadtschloss) in un giardino di piacere (Lustgarten). E' in un certo senso il suo regalo di nozze alla moglie Louise Henriette di Nassau che ha sposato proprio quell'anno; figlia di Guglielmo il Taciturno, intelligente e colta, è lei, con l'aiuto dell'ingegnere militare Johann Mauritz e del giardiniere di corte Michael Hanff, a presiedere alla trasformazione, inspirandosi ai giardini della sua patria, l'Olanda. Collocato a nord del palazzo residenziale, su terrazze in lieve pendenza e fiancheggiato da un porticato monumentale, il Lustgarten comprendeva eleganti parterre con siepi a ramages e piante da fiore (hortus floridus), voliere, statue e sculture affidate a artisti di fama, un pergolato, un arboreto e un frutteto (pomarius); a nord c'era un hortus medicus dove si coltivavano piante medicinali e un hortus culinarius sive olitorius per la coltivazione degli ortaggi destinati alla tavola del principe. Vi si coltivavano anche piante esotiche, tra cui la patata, che fu coltivata qui per la prima volta in Prussia nel 1649, grazie ad alcuni tuberi importati dall'Olanda; all'epoca era considerata una curiosità ed era coltivata per la bellezza dei suoi fiori, così come i pomodori. Nel 1650 l'architetto Johann Gregor Memhardt costruì un padiglione in stile olandese, che comprendeva anche una grotta artificiale seminterrata, e disegnò un giardino d'acqua con fontane, giochi d'acqua e peschiere. Per proteggere dai rigori invernali gli agrumi, i melograni e le altre piante esotiche che, coltivate in vaso, nella bella stagione, erano esposte all'esterno, nel 1652 fu costruita una limonaia che tuttavia nel 1655 andò distrutta in un incendio causato da un difetto dell'impianto di riscaldamento. Ricostruita l'anno dopo, fu demolita nel 1658, per fare posto a un bastione difensivo e a un fossato che collegava i due bracci della Sprea, tagliando in due il giardino. Di conseguenza, il Lustgraten dovette in parte essere ridisegnato. Come si presentasse nel breve intervallo tra la sua creazione e la trasformazione successiva al 1658, lo sappiamo grazie a Hortus berolinensis, opera scritta dal medico e naturalista Johann Sigmund Elsholtz (1623-1688) tra il 1656 e il 1657. Trasferitosi a Berlino nel 1653, nel 1656 egli ottenne il libero accesso al Lustgarten per le sue ricerche scientifiche e scrisse quest'opera a mo' di ringraziamento; divisa in due parti, comprende un'accurata descrizione del giardino e un catalogo delle piante che vi erano coltivate. Forse proprio perchè resa obsoleta dalla ristrutturazione del Lustgarten, non fu mai pubblicata, ma valse a Elsholtz la nomina a medico di corte, botanico di corte e prefectus hortorum, ovvero direttore del Lustgarten e dei giardini di corte. Studioso versatile e di vasti interessi, Elsholtz ha lasciato opere significative nei campi della botanica, della chimica, della medicina e dell'igiene, di cui è consideraro un precursore. Nato a Francoforte sull'Oder, inizò gli studi presso l'università della città natale, quindi li proseguì a Wittenberg e a Königsberg. Viaggiò poi nei Paesi Bassi, in Francia e in Italia. Nel 1653 conseguì il dottorato in medicina a Padova con una tesi in cui riassunse la letteratura contemporanea sulle proporzioni del corpo umano in termini di peso, massa e dimensioni; pubblicata nel 1654 sotto il titolo Anthropometria, l'opera contiene tra l'altro la più antica illustrazione nota di un dispositivo per misurare l'altezza degli esseri umani, detto anthropometron. Subito dopo la laurea, Elsholtz ritornò in Germania e si stabilì a Berlino dove aprì uno studio medico; dopo la nomina a medico di corte e botanico regio (1657), si fece un nome tra gli scienziati tedeschi per le sue ricerche di vario argomento; nel 1674 fu ammesso alla Leopoldina, sulla cui rivista Miscellanea curiosa pubblicò una quindicina di articoli di argomento medico. In tutti i campi di cui si occupò, fu caratterizzato dalla propensione a sperimentare e a percorerre nuove strade. Come chimico, si occupò della distillazione dei coloranti e delle proprietà luminose del fosforo (del cui nome, letteralmente "portatore di luce", gli si attribisce l'invenzione). Come medico, è noto per i suoi esperimenti sulle iniezioni endovenose e sulle trasfusioni di sangue, esposti in Clysmatica nova (1667). Ma soprattutto è consideraro un precursore della dietetica e dell'igiene, grazie a Diaeteticon, pubblicata nel 1682, in cui compare per la prima volta in Germania il termine Hygiene ("igiene"). Ricca di suggerimenti pratici, comprese alcune ricette culinarie, come esplicita il sottotitolo fornisce istruzioni per mantenersi in salute attraverso una corretta alimentazione; inoltre Elsholtz vi sottolinea l'importanza di acqua e aria pulite e dell'igiene personale. Il libro incrocia anche la botanica, visto che cibi e bevante erano largamente ricavati da piante, di cui si analizzano le proprietà, facendo riferimento sia alla tradizionale teoria degli umori, sia all'analisi chimica. Va infine ricordato che, come medico dell'elettore, insieme al collega Mentzel ebbe un ruolo centrale nella stesura dell'Editto medico di Brandeburgo (1685) che poneva il settore sanitario sotto il controllo di un Collegium medicum e regolava professioni sanitarie e tariffe. Dalla botanica al giardinaggio Nella variegata ed eclettica opera di Elsholtz, le piante e i giardini occupano uno spazio privilegiato. Per circa trent'anni (dal 1657 alla morte) come prafectus hortorum presiedette ai giardini di corte, acquisendo una notevole esperienza anche pratica. Durante la sua gestione, il Lustgarten di Berlino si arricchì di molte piante, raggiungendo le mille specie, e fu aperto alla fruizione dei berlinesi, divenendo un popolare luogo d'incontro. Era il primo giardino pubblico della città che fino ad allora, come luoghi all'aperto, aveva conosciuto solo i mercati e le piazze d'armi. Dal 1685, il giardino ebbe nuovamente una limonaia (Pomeranzen Haus); costruita dall'architetto Johann Arnold Nering, era un imponente edificio con pianta semi circolare. Probabilmente uno dei primi compiti di Elsholtz appena assunto l'incarico fu il trasferimento dell'hortus medicus e dell'hortus culinarius, che occupavano l'area smantellata per fare posto al bastione e al fossato. Nel 1679 il Grande elettore ordinò di trasferirli a Schöneberg, in un'area precedentemente nota come Hopfengarten ("giardino del luppolo") perché fino a quel momento era adibita a questa produzione; si trattava soprattuto di un vasto orto e frutteto, ma poiché ospitava anche le piante medicinali, questa data viene di solito considerata quella di nascita del primo orto botanico di Berlino. In realtà, cominciò ad essere chiamato così e ad assumere realmente questa funzione molto più tardi, nel 1718, quando Elsholtz era morto da un pezzo e anche il Lustgarten di Berlino non esisteva più, spianato e trasformato in una piazza d'armi per ordine del re sergente Federico Guglielmo I. Oltre ai due giardini berlinesi, Elsholtz curava anche i giardini della residenza di Potsdam (anch'esso era dotato di una Pomeranzen Haus, l'unica struttura ancora esistente di quel periodo, anche se il solito re sergente ordinò di trasformarla in una stalla per un reggimento di cavalleria) e il giardino di piacere di Oranienburg. La storia di quest'ultimo merita qualche riga. Nell'estate del 1650, durante una battuta di caccia l'elettrice Louisa Henriette soggiornò a Bötzow, a nord di Berlino, e si innamorò del suo paesaggio che le ricordava l'Olanda. Qualche mese dopo, il marito le fece dono dell'uffico (Amt) di Bötzow con la tenuta e i villaggi annessi; al posto del vecchio casino di caccia venne costruito un castello completamente circondato da un fossato e, accanto ad esso, un giardino di piacere, entrambi in stile prettamente olandese. Preceduto da un elegante portico e fiancheggiato su due lati da un ambulacrum, che doveva fungere anche da limonaia, il giardino vero e proprio era rettangolare e comprendeva otto parterre a ramages; al centro, su una collinetta, sorgeva una casa di delizie, detta anche grotto. Lo spazio tra il giardino e il fossato del castello era occupato da un arboreto. In onore di Louisa Henriette, appartenente al casato Nassau Orange, il castello venne battezzato Oranienberg, nome poi esteso al villaggio e all'intero Amt. Nel 1663, Elsholtz pubblicò Flora marchica che è contemporaneamente il catalogo collettivo dei giardini di corte di Berlino, Potsdam e Oranienburg e una flora della marca di Brandeburgo. Le piante sono elencate in ordine alfabetico con il nome latino per lo più tratto dal Pinax di Caspar Bauhin, seguito dal nome volgare tedesco e spesso da sinonimi di altri autori; i più frequenti sono Clusius, Dodoens e Lobel, ma i testi citati sono moltissimi, dal vecchio Dioscoride fino al recente Hortus Eystettensis, a dimostrare un'ottima conoscenza della letteratura botanica e della pubblicistica sui giardini, ampiamente analizzata nella prefazione. Salvo qualche breve notazione occasionale (ad esempio, a proposito di Alnus nigra polycarpos, "L'ho trovato la prima volta sulle rive del fiume Stepenitz presso la città di Perleberg nel distretto di Prignitz"), Elsholtz si limita a un mero elenco: fa eccezione la voce dedicata a Agave americana (chiamata Aloe aculeata e amerikanische Aloe), che occupa quasi due pagine. Elsholtz racconta di averla vista in fioritura nel 1658 in un giardino di Stoccarda, rimanendo stupefatto per l'infiorescenza alta 23 piedi con un totale di 12.000 fiori. Su questa pianta che lo aveva tanto colpito e sulla storia delle sue fioriture in Europa, Elsholtz sarebbe tornato in Von Garten Bau ("Sull'orticultura"), in cui profuse tutto ciò che aveva imparato gestendo i giardini dell'elettore. Pubblicato in prima edizione nel 1666, è un vero e proprio trattato teorico-pratico sull'arte di disegnare e gestire un giardino, che fonde una profonda conoscenza della letteratura sull'argomento con una altrettanto profonda e vasta conoscenza pratica acquisita attraverso l'esperienza diretta. Come chiarisce il sottotitolo, "Lezioni di giardinaggio adatte al clima della Marca elettorale-Brandeburgo e agli stati tedeschli limitrofi", l'intento principale di Elsholtz è fornire indicazioni per affrontare in modo vincente la sfida costituita dal difficile clima della Germania settentrionale, con i suoi lunghi inverni resi ancora più rigidi dal vento. A differenza di De hortis Germaniae di Gessner, che pure è un precedente largamente citato, il trattato è scritto in tedesco; non si rivolge infatti a botanici e dotti, ma a giardinieri e progettisti. Fanno eccezione solo gli schemi riassuntivi che percorrono qua e là il libro, rendendolo parzialmente fruibile anche al di fuori della Germania. Ad aprirlo è una duplice dedica al Grande elettore e alla sua sposa, che però non è più Louisa Henriette, morta quarantenne sfiancata da innumerevoli parti ed aborti, ma la seconda moglie Sofia Dorotea di Schleswig-Holstein; la coppia è raffigurato nel frotespizio in veste di Apollo e Diana, mentre assisi sul carro del sole sorvolano il Lustgarten. Il trattato si articola in sei libri. Il primo è a sua volta un vero e proprio trattato generale sul giardinaggio; è aperto da un'introduzione che, dopo aver definito brevemente il ruolo e i compiti del giardiniere, presenta una breve storia del giardinaggio. Il primo capitolo, sulla scelta del luogo e della forma, è articolato attorno alla duplice funzione del giardino, il diletto e l'utile; la prima è assolta dall'hortus floridus (Blumen Garten) "con la Natura educata in modo che anche d'inverno mostri i fiori più belli", la seconda dall'orto vero e proprio (Kuchen-Garten), dal frutteto e dalla vigna per l'"utilitas alimentaria" e dall'hortus medicus per l'"utilitas medicamentaria". Seguono capitoli sulle strutture, compresa la limonaia (Pomeranzen Haus), gli attrezzi, i vari tipi di coperture (dalle campane alle serrette ai lettorini), le tecniche di propagazione, i lavori e le tecniche colturali, gli accorgimenti per affrontare avversità meteoriche, parassiti e malattie. A partire dal secondo libro, Elsholtz analizza i cinque settori del giardino già individuati nell'introduzione, dedicando un singolo libro a ciascuno: l'hortus floridus (libro II); l'orto (libro III); l'arboreto e il pomario (libro IV); il vigneto (libro V); l'hortus medicus (libro VI). Ogni libro è solitamente diviso in due parti, la prima dedicata alla progettazione e alle attrezzature specifiche, la seconda a un'ampia scelta di piante consigliate, seguita talvolta da un calendario delle attività mese per mese. Ad esempio, relativamente al giardino dei fiori, vengono trattati argomenti come i pergolati, le piramidi, il disegno di aiuole, parterre, viali e sentieri, la disposizione delle piante nelle aiuole; segue poi il catalogo delle erbacee da fiore, distinte in "erbacee perenni che vanno protette d'inverno", "erbacee perenni con radici bulbose o rizomatose che sopportano l'inverno", "erbacee con radici fibrose che sopportano l'inverno", "erbacee annuali o da seme". Se in questo libro le piante sono di fatto organizzate sulla base della rusticità, le orticole, protagoniste del libro successivo, sono invece divise sulla base dell'utilità in "utili per le radici", "utili per le foglie", "utili per i frutti". Il criterio della rusticità ritorna nel libro su alberi e arbusti, divisi in "da proteggere in inverno", "che sopportano l'inverno", "spontanei". Il libro sulla vigna è forse il più dotto, con un excursus sulla sua coltivazione in Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Ungheria; ma poi nella scelta delle varietà si privilegiano quelle rustiche "nostrali" e non mancano capitoli sulla vinificazione. Il libro sull'hortus medicus, a parte una breve introduzione, è quasi integralmente costituito da un catalogo di piante non necessariamente officinali; dopo le piante medicinali dei giardini e le specie officinali spontanee, troviamo infatti un capitolo sulle piante spontanee senza proprietà medicinali e un'appendice sui cereali; questa presenza apparentemente incongrua è probabilmente spiegata dalla grande attenzione riservata alla flora locale dagli orti botanici tedeschi, che all'epoca erano ancora chiamati horti medici. Questo libro è dunque quello che assomiglia di più a Flora marchica; anche qui troviamo voci, solitamente brevissime, costituite dal nome latino, per lo più tratto dal Pinax, seguito dal nome tedesco, dai sinonimi in altri autori e, almeno per le specie officinali, da sintetiche indicazioni sugli usi, che solitamente non superano due o tre righe. Tra le poche eccezioni la voce Nicotiana major latifolia, ovvero il tabacco, che occupa circa due pagine. Come Agave americana, era ancora una novità e destava molta curiosità, senza dimenticare che all'epoca era ritenuta quasi una panacea. Il volume, di oltre 400 pagine, si conclude con un calendario riassuntivo dei lavori mese per mese e con gli indici latino e tedesco delle piante trattate. Scritto da un botanico che amava profondamente le piante e aveva una larga esperienza diretta di progettazione e gestione di giardini, Von Garten-Bau segna l'incontro tra la botanica e il giardinaggio; per la prima volta le piante da giardino sono determinate con precisione con il loro nome botanico. Anche se Elsholtz fa ampio riferimento alla letteratura specialistica contemporeanea, come il trattato di Ferrari sugli agrumi o quello di Lauremberg sulle bulbose, il suo trattato supera tutto ciò che è stato scritto in precedenza, con una profondità e una ricchezza di informazioni ineguagliata fino al The Gardeners Dictionary di Miller; Teichert lo ha definito "il miglior libro sui giardini del XVI secolo". Il libro colmava una lacuna e ottenne un notevole successo; già nel 1672 uscì una seconda edizione, sostanzialmente identica a parte l'aggiunta di alcune tabelle riassuntive in latino, seguita da una terza nel 1684. Una quarta edizione ampliata, intitolata Neu Angelegter Garten Bau, benché predisposta dall'autore, uscì postuma nel 1690. Elsholtz era infatti morto all'inizio del 1688, senza poterne curare di persona la pubblicazione. Piante utili e dilettevoli Anche se, come abbiamo visto, il giardino di Schöneberg ospitava anche piante medicinali, all'epoca di Elsholtz non era propriamente un orto botanico. Solitamente però il botanico prussiano è considerato il fondatore dell'orto botanico di Berlino e come tale nel 1790 è stato onorato da Willdenow, che di quel giardino sarebbe stato il rifondatore, con la dedica del genere Elsholtzia (Lamiaceae). Lo stesso anno, ma in data successiva, un secondo genere Elsholtzia (Lecythidaceae) venne creato da Necker; non valido, è oggi sinonimo di Couroupita. Elsholtzia Willd. è un genere di una quarantina di specie, distribuite prevalentemente nell'Asia orientale temperata o subtropicale, con centro di diversità nello Yunnan in Cina; sono per lo più erbacee annuali o perenni, ma non mancano suffrutici. Se il dedicatario l'avesse conosciuto, certamente l'avrebbe apprezzato dal punto di vista tanto dell'utilità quanto del diletto. Come altri generi della famiglia Lamiaceae, le Elsholtziae hanno foglie aromatiche, ricche di oli essenziali e diverse specie hanno usi officinali nella medicina tradizionale, come antibatterici, antivirali, antinfiammatori. Ad esempio, E. pendulifolia in Vietnam è utilizzata per curare febbri e raffreddori; E. rugulosa in Cina ha una lunga storia come pianta mellifera e come pianta officinale da cui si ricava un reputato tè di erbe usato per curare molteplici affezioni. Ma, per usare i termini di Elsholtz, oltre all'utilitas medicamentaria, a varie specie si aggiunge l'utilitas alimentaria: molte trovano impiego in cucina come erbe aromatiche; i semi di E. fruticosa sono utilizzati per aromatizzare il cibo e se ne ricava anche un olio alimentare. E non mancano altri usi: varie specie sono impiegate in profumeria e E. splendens, per la sua alta tolleranza al rame, in Cina viene piantata come pianta pioniera per bonificare i terreni contaminati delle miniere dismesse. Venendo poi al diletto, alcune specie sono coltivate per la bellezza della loro fioritura. La più notevole è indubbiamente E. stauntonii, un'alta erbacea perenne o un piccolo arbusto con belle foglie dentate e infiorescenze a spiga da rosa a viola pallido che si aprono dalla tarda estate all'autunno; come le sue consorelle, ha foglie aromatiche che ricordano la menta, ma con sentori agrumati e di cannella che possono essere usate per preparare una piacevole tisana o per aromatizzare piatti della cucina asiatica. Dopo tante lodi, una nota dolente. E. ciliata, un'erbacea annuale originaria della Cina e del Sud est asiatico (le sue foglie profumate di limone sono un ingrediente della cucina vietnamita), è stata introdotta come officinale e pianta da giardino in vari paesi europei e negli Stati Uniti; poiché produce molti semi e ha un alto tasso di germinazione, può formare rapidamente estese popolazioni a danno delle specie autoctone, soprattutto in aree disturbate. Per questo è stata inclusa in liste di piante potenzialmente invasive e il Connecticut ne ha proibito la coltivazione, la vendita e la diffusione. In Italia, dove potrebbe essere stata introdotta come specie officinale usata in erboristera, è stata segnalata la prima volta in Friuli Venezia Giulia nel 1991; in Lombardia è stata osservata a partire dal 2002 ed è considerata naturalizzata in incolti ruderali; non è inclusa in nessuna lista e il suo impatto sulla flora autoctona è considerato irrilevante. In un articolo pubblicato qualche anno fa, Paolo Pejrone ha definito Beaumontia grandiflora "una dominatrice come la Lady che per prima la coltivò". Il riferimento è a Diana Wentworth Beaumont che, anche se si atteggiava a gran dama, non era affatto una lady; anche il fatto che fosse una dominatrice non è per nulla certo. Vicini malevoli ce ne hanno consegnato un ritratto caricaturale che forse è solo il frutto di risentimenti e pregiudizi sociali; anche se il personaggio era indubbiamente sopra le righe, le testimonianze di Loudon, Wallich e del giardiniere Marnock vanno in senso totalmente diverso. Certo amava la grandiosità e l'ostentazione, e lo dimostra anche la sua maggiore realizzazione come "donna di piante": la spettacolare serra tropicale a cupola, la più grande del suo tempo. Poco dopo la sua morte fu smantellata e la conosciamo solo da qualche disegno. Una discutibile leggenda nera Oggi è quasi dimenticato, ma al momento della sua uscita nel 1826 il romanzo satirico Almack's ebbe un certo successo. Prendeva infatti di mira una delle istituzioni dell'età della reggenza, Almack’s Assembly Rooms, che fu uno dei primissimi club ad ammettere sia uomini sia donne e divenne uno dei luoghi di ritrovo più prestigiosi ed esclusivi della capitale, con i suoi balli del mercoledì cui si poteva accedere solo dietro invito, a insindacabile giudizio delle patronesse, un gruppo di dame dell'alta società. Tra i personaggi figura una certa Lady Birmingham, descritta come una donna di bassa nascita, volgare e piena di pretese, che ostenta le sue ricchzze e i suoi diamanti. E' orgogliosisima del suo giardino; in una scena, a proposito delle piante americane della sua residenza di campagna, si vanta così: "Lee e Kennedy mi hanno detto che ho la collezione più bella dell'intero regno. Sono sicura che ben poche persone ne hanno così tante come me [...]. Al momento sono impegnatissima con gli arbusti, sto ampliando i miei impianti americani e sto creando un nuovo roseto; ne ho 180 nuove varietà". Dietro questo ritratto velenoso, i contemporanei riconoscevano facilmente una persona reale: Diana Wentworth Beaumont (1765–1831). Il romanzo fu pubblicato anonimo, ma era ben noto che l'autrice era Marianne Spencer-Stanhope Hudson. Gli Spencer-Stanhope erano vicini di casa dei Wentworth nello Yorkshire e, mentre i membri la vecchia generazione, rappresentata da sir Thomas Wentworth (1726-1792) di Bretton Hall e John Spencer di Cannon Hall, erano grandi amici, i giovani Spencer-Stanhope non perdevano occasione per prendere in giro la figlia maggiore ed erede Diana e le sue arie da gran dama e tra di loro la chiamavano sarcasticamente Madame Beaumont. Un'altra delle Spencer-Stanhope, Mrs Pickering, nata Anna Maria Wilhelmia Spencer-Stanhope, nelle sue memorie descrisse la giovane Diana come una serva di cucina che vendeva le uova al mercato di Pensitone; bambina al momento della morte di lei, doveva aver raccolto questa diceria dalla bocca di qualcuno dei suoi parenti. Si trattava certamente di una grossolana calunnia, che però in qualche modo rifletteva la nascita irregolare di Diana Wentworth. Suo padre, sir Thomas Wentworth, era stato uno scapolo impenitente e libertino che aveva sempre rifiutato di sposarsi, benché avesse avuto numerosi figli illegittimi da varie amanti. Un figlio e tre figlie, nate tra il 1765 e i 1775, di cui Diana era la maggiore, vennero riconosciuti e le ragazze, anziché servire in cucina, ebbero un'ottima educazione in collegi femminili. Sorprendentemente, nel suo ultimo testamento, scritto poche settimane prima della morte, sir Thomas, tranne un piccolo lascito e una rendita annuale, diseredò il maschio, lasciò cospicui lasciti alle figlie minori e le terre e il grosso del patrimonio a Diana. Non conosciamo il motivo di questa decisione controcorrente; Karen Lynch ipotizza che non ci fossero migliori mani di quelle di lei cui affidare l'amatissimo Bretton Hall; in effetti, una clausola del testamento stabiliva che la casa doveva continuare ad essere abitata dalla famiglia e che essa e i giardini dovevano essere mantenuti in perfetto ordine. Sir Thomas è stato descritto come un personaggio eccentrico i cui unici interessi dichiarati erano la caccia, i cavalli, le bevute, le donne e la tenuta di Bretton Hall; erede per parte materna della famiglia Blackett, proprietaria di miniere di carbone e piombo presso Durham, aveva investito grosse somme per rimodellare il parco. Inizialmente si affidò all'architetto Richard Woods, che creò un lago artificiale interrompendo il corso del fiume Dearne con una diga. Dopo il crollo della diga in seguito a una piena, preferì fare da solo "senza ricorrre a Capability [Brown] o a simili pretenziosi bricconi"; qualche anno dopo, volle un secondo lago "grande abbastanza per Giona e la sua balena". Nel parco, percorso da piacevoli viali, fece piantare molti alberi e creò diversi edifici di gusto gotico; uno degli isolotti ospitava addirittura un piccolo zoo. Diana condivideva con il padre l'amore per le piante e la natura, e probabilmente ne aveva ereditato anche l'eccentricità, la testardaggine e il gusto per l'eccesso. Nel 1786, a circa 20 anni, sposò un proprietario terriero dello Yorkshire di modesta fortuna, Thomas Richard Beaumont; nel 1792, dopo la morte di sir Thomas, la coppia fece di Bretton Hall la sua residenza principale, anche se soggiornava spesso anche a Hexam Abbey e in altre proprietà e durante la stagione mondana viveva a Londra. Grazie alle proprietà ereditate dal padre nello Yorkshire e nel Northumberland, Diana Wentworth Beaumont era già molto ricca; intelligente e dotata di un grande senso degli affari, durante la sua gestione raddoppiò il patrimonio, tanto che al momento della morte era considerata la commoner più ricca del paese. Il marito, che i contemporanei descrivono come una "testa debole" succube della moglie, forse era semplicemente abbastanza intelligente da delegare l'amministrazione a Diana, molto più abile di lui, che per altro spesso era lontano da casa come militare; tra il 1794 e il 1803 fu infatti colonnello di un reggimento di cavalleria. Thomas Richard intraprese anche una carriera politica; fu deputato per il Northumberland ininterrottamente dal 1795 al 1818. Era schierato con i Tory e con il governo e in questo lungo periodo non è noto che abbia preso la parola nemmeno una volta. La sua massima aspirazione - sicuramente condivisa dalla moglie - era ottenere un titolo nobiliare; corteggiava regolarmente il primo ministro di turno nella speranza di una baronia, ma nessun ministro gliela concesse mai, sicuro di avere comunque il suo voto. Il titolo non c'era, ma tanto nelle tenute di campagna quanto a Londra, i Beaumont vivevano in modo assai sfarzoso, secondo lo stile degli aristocratici; ma poiché non lo erano, suscitavano il riso di quella società intrisa di pregiudizi sociali. Gli Spencer-Stanhope si sbellicavano quando vedevano "Madame Beaumont" attraversare il villaggio con una carrozza trainata da due pariglie di cavalli neri e guidata da postiglioni in livrea di velluto; Lady Aynsley arricciva il naso ascoltandola vantare le rendite delle sue miniere di piombo. Certamente Diana era una donna imperiosa, tenace nel perseguire i suoi obiettivi, che aveva fama di litigare con tutti, compreso il figlio maggiore. Eppure, se ascoltiamo altre campane. il ritratto muta colore: non più una "dominatrice" soffocante, come l'ha definita anche Paolo Peirone, ma un'amministratrice puntuale, precisa e attenta ai bisogni e alla dignità dei suoi dipendenti. L'architetto paesaggista John Claudius Loudon. che visitò più volte Bretton Hall, ha scritto di lei: "Nessuna signora è stata una padrona più liberale e sollecita verso i suoi dipendenti, né una migliore proprietaria terriera rispetto ai suoi affittuari"; il ritratto tracciato dal capo giardiniere Robert Marnock - scritto vari anni dopo la morte di lei e quindi senza alcuna piaggeria interessata - è addirittura un peana: "Mrs Beaumont per la sua consuetudine con gli affari e l'ordine possedeva una mente dal potere gigantesco. Quando lavoravo come giardinere, mi dava spesso appuntamento presso un determinato albero, a un'ora e un minuto specifico e, sebbene questi appuntamenti fossero frequenti e a volte fissati una settimana o dieci giorni in anticipio, non ricordo una singola occasione in cui abbia mancato di presentarsi all'esatto minuto fissato; la sua puntualità e precisione non erano riservati alla sistemazione del giardino ma emergevano nella sua condotta nell'intera tenuta. Era un esempio ammirevole per i domestici, che dovrebbe essere seguito da padrone e padroni dei nostri giorni. Non si permise mai di entrare nell'orto durante l'orario di lavoro senza aver prima suonato la campana del giardino [...]. Proprio perché era così scrupolosa ed esatta nel disbrigo dei suoi affari, riusciva a trovare il tempo di dedicarsi al giardino e alla botanica, e all'occasione patrocinare meriti altrimenti senza sostegno". Un giardino senza rivali E' ora dunque di parlare di Mrs Beaumont come giardiniera e collezionista. La sua passione si esercitò soprattutto nel giardino di Bretton Hall che ereditò dal padre nel 1792 e continuò ad abbellire con interventi costanti per quarant'anni. Questi lavori, che non sembrano obbedire a un progetto coerente, ma piuttosto alle necessità e all'estro del momento, furono affidati di volta in volta ad architetti sempre diversi (che Diana litigasse con tutti non era forse così infondato). Il primo fu John Carr che già nel 1793 fu incaricato di ristrutturare la sala da pranzo e la biblioteca; nel 1803 un certo Mr Mickle disegnò le ringhiere del parco; nel 1804 un altro noto architetto, Willian Atkinson, disegnò un'aranciera, un museo per le collezioni naturalistiche, una latteria e l'Archway Lodge, una sorta di ingresso monumentale fiancheggiato da colonne con un arco abbastanza ampio da consetire l'ingresso di una carrozza. Fu poi la volta di William Lindley, cui si devono nuove cucine, la scuderia e una grotta con conchiglie; nel 1811 Jeffry Wyatt disegnò una voliera, alcuni cottage e la serra delle camelie che è uno dei pochi manufatti dell'epoca di Diana oggi conservato. Destinata ad ospitare la collezione di piante semirutiche provenienti dall'Asia, è un luminoso edifico in pietra ma con grandi finestre ad arco e un tetto in vetro e ghisa. I Beaumont ricevevano spesso (Mary Russell Mitford che fu loro ospite nel 1806 ricorda che ai loro pranzi partecipavano trenta o quaranta persone); si prestava dunque grande attenzione all'orto e al frutteto che dovevano provvedere una quantità sufficiente di verdure e frutti per la tavola della famiglia, del personale e degli ospiti. Fino al 1825 a occuparsene fu Christie Duff, rinomato per la coltivazione dei mirtilli rossi, del crescione, dei peschi a spalliera e la moltiplicazione dei rizomi di zenzero. Quando questi si licenziò, venne assunto come "caposquadra dell'orto" il già citato Robert Marnock (1800-1889) che quattro anni dopo sarebbe stato promosso capo giardiniere. I suoi ricordi, scritti una ventina di anni dopo, quando Marnock dirigeva l'orto botanico di Sheffield ed era una delle figure di punta del movimento Gardenesque, fanno rivivere i giardini di Bretton Hall negli anni d'oro: "Circa vent'anni fa, quando lo vidi la prima volta. Bretton Hall non aveva rivali per i suoi giardini, tanto per l'estensione quanto per la varietà. La forzatura di uva, ananas, pesche, fichi ecc. era praticata estesamente; c'era anche un'estesa collezione di piante da serra fredda e calda, un assortimento di piante erbacee rustiche che occupavano un'area circolare di non meno di tre acri, con le piante sistemate secondo il sistema di Linneo. Oltre a tutto questo, c'era un orto murato di sei o otto acri per la coltivazione delle verdure e la produzione di frutti rustici. All'epoca alla quale mi riferisco, c'erano sei grandi serre per la forzatura di pesche e nettarine; due vigne protette; una serra per i fichi; nove serre riscaldate per gli ananas con innumerevoli buche; due grandi aranciere e altrettante serre riscaldate. Infine un'immensa serra eretta dai Bailey di Holborn con una spesa 8.000 o 10.000 £, riscaldata con un complicato e costoso apparecchio a vapore". Siamo così arrivati alla celebre serra di Bretton Hall. Iniziata nel 1826, ma non completata fino al 1829 - non senza una causa legale che contrappose i coniugi Beaumont alla ditta londinese Bailey - era un edificio avveniristico, interamente costruito in vetro e ghisa; circolare, con un diametro di circa 18 metri, aveva un'alta volta a cupola, che raggiungeva l'altezza massima di circa 14 metri. Poco dopo il completamento della serra, il colonnello morì e la moglie lo seguì poco più di due anni dopo, nell'agosto del 1831. Il figlio ed erede, Thomas Wentworth Beaumont, in rotta con la madre che, dopo la sua maggiore età, aveva rifiutato di anticipargli l'eredità e aveva mantenuto il pieno controllo dei propri beni, non partecipò al funerale e si afffrettò a vendere all'asta tutto ciò che le ricordava la madre, di cui (lui educato a Eton e Cambridge) disapprovava gli eccessi. Almeno, questa è la versione che circolò. Forse, più prosaicamente, benché divenuto a sua volta il commoner più ricco del regno, aveva bisogno di liquidità per saldare i fornitori e i debiti in sospeso, e soprattutto per versare i cospicui lasciti testamentari che la madre aveva diposto per i figli e le figlie minori, dimostrando ancora una volta la sua indipendenza di pensiero. Tra i beni alienati, anche la serra circolare che fu svenduta a un fabbricante di birra, più interessato al sistema di riscaldamento che all'edificio in sè, che fu totalmente smantellato. Ne rimane solo qualche disegno. Un'amicizia botanica e uno scambio intercontinentale Sia Marnock sia Loudon lamentarono che i vari interventi nel parco di Bretton Hall si erano succeduti senza un disegno unificante; in effetti, più che al parco in sè, Mrs Beaumont era interessata alla sua collezione di piante rare, per la quale aveva fatto costruire successivamente la grande aranciera vetrata e la serra circolare. Al contrario del suo doppio letterario, lady Birmingham, non raccoglieva piante americane, ma soprattutto asiatiche che le furono spedite con una certa frequenza da Nathaniel Wallich a partire dal 1815. Mrs Beaumont era interessata alle scienze naturali (abbiamo visto che aveva allestito un piccolo museo, con una collezione soprattutto di minerali, e che in una parte del suo giardino le piante erano sistemate in modo sistematico, come in un orto botanico); era abbonata alle Transactions della Linnean Society alla quale inviava regolarmente esemplari delle sue piante più rare. In tal modo era entrata in contatto con Smith, Lambert e Banks. Permetteva anche agli artisti botanici di frequentare il suo giardino per ritrarre le piante dal vivo. In tal modo si era fatta una certa fama di protettrice della botanica. Nathaniel Wallich che - ricordiamolo - era suddito danese e per questa ragione era stato anche imprigionato come cittadino di una potenza ostile - nel 1815 era entrato al servizio della Compagnia delle Indie e cercava un patrono influente. Ovviamente aveva pensato a Banks e si era messo in contatto con lui attraverso Thomas Hardwicke, suo amico e membro dell'Asiatic Society. Hardwicke gli suggerì di rivolgersi anche a Mrs Beaumont che, come moglie di un membro della Camera dei Comuni e proprietaria di estesi giardini, avrebbe potuto a sua volte offrire una via d'accesso a Banks, Lambert e i vertici della Compagnia delle Indie. Così Wallich nel dicembre 1815 le scrisse e le spedì piante vive e semi. Fu l'inizio di uno scambio botanico nelle due direzioni; confermandosi una donna concreta, sollecita e cortese, Diana non si accontentò di ringraziare ma ricambiò il dono, scrivendo: "Quest'autunno chiederò al mio giardiniere di raccogliere tutti i semi che egli riterrà accettabili per voi, per l'orto botanico di Calcutta; ne ho parlato ai direttori della Compagnia, chiedendo che vi vengano spediti. Ciò mi ha dato l'opportunità di menzionare i vostri propositi e di sostenerli con le mie più forti raccomandazioni, come ho fatto con sir Joseph Banks e Mr Lambert, e ho ogni ragione di sperare che se ne cureranno". Da quel momento Mrs Beaumont per Wallich divenne un punto di riferimento, una protettrice e un'amica. Dello scambio si arricchirono tanto Bretton Hall quanto l'orto botanico di Calcutta - anche se non sappiamo di quali piante; l'unico campione dell'erbario di Wallich indicato come "Beaumont" e proveniente da Bretton Hall è la leguminosa Senna multijuga, nativa del Messico e dell'America subtropicale. Wallich provvide Bretton Hall di molte piante raccolte in varie parti dell'India e in Nepal, e proprio per accoglierle al meglio Mrs Beaumont fece costruire la grande serra a cupola. Tra le piante introdotte da Mrs Beaumont attraverso Wallich e coltivate per la prima volta a Bretton Hall, possiamo citare Wallichia caryotoides, Callianthe striata, Garcinia dulcis, Clerodendrum nutans, Hovwa pannosa, Tupistra nutans, Tetracera sarmentosa. Senza dimenticare Beaumontia grandiflora, su cui torneremo tra poco, e lo splendido Rhododendron arboreum, di cui Mrs Beaumont aveva trasmesso i semi al vivaio di piante esotiche di Joseph Knight. In effetti, Diana fu utile a Wallich anche mettendolo in contatto con vivai che potevano essere interessati a commercializzare le sue piante. Nel 1829, qundo venne in Inghilterra, visitò Mrs Beaumont a Bretton Hall e visitò con lei proprio il vivaio di Knight. Eccoci dunque giunti a Beaumontia, il piccolo genere di rampicanti dell'Asia tropicale dedicato alla amica e protettrice nel 1824 con questa motivazione: "L'ho nominato in onore della Sig.a Diana Beaumont, devotissima all'orticoltura e alla scienza botanica in Inghilterra e munifica fautrice di entrambe, alla cui benevolenza il giardino di Calcutta deve molte piante esotiche soprattutto europee". Beaumontia (famiglia Apocynaceae) comprende otto-dieci specie di rampicanti e liane nativi della Cina, del subcontinente indiano e del sudest asiatico. La specie più coltivata è B. grandiflora, un vigoroso rampicante sempreverde (anche se può perdere le foglie nella stagione secca) che produce un lussureggiante fogliame verde lucido e profumatissimi fiori bianchi campanulati raccolti in infiorescenze terminali. Resistendo per brevi periodi a temperature prossime allo 0, può essere coltivata anche in parte del nostro paese, in pieno sole e in posizione protetta, ma senza dimenticare che può raggiungere dimensioni ragguardevoli e richiede un supporto robusto. Joséphine de Beauharnais, ovvero l'imperatrice Giuseppina, la prima moglie di Napoleone, è nota per la passione per la botanica, che profuse nella creazione dello splendido parco del castello di Malmaison, successivamente residenza dei Bonaparte negli anni del consolato, poi casa di campagna e rifugio in quelli dell'impero, infine, dopo il divorzio, la sua casa, la sua consolazione, il luogo dove morì. Dotato di una serra calda all'avanguardia, fu funzionale all'introduzione in Francia di quasi duecento specie esotiche, soprattutto australiane. Per tutti, Joséphine è anche l'imperatrice delle rose, che certamente amava, ma probabilmente non di quell'amore esclusivo che le attribuisce il mito. A ricordarla contribuisce anche la splendida e capricciosa Lapageria (dal suo nome da ragazza, Marie Josèphe Rose Tascher de La Pagerie). Un parco all'inglese Il noto motto latino nomen omen, "nel nome c'è il destino", almeno a Marie Josèphe Rose Tascher de La Pagerie (1763-1814) parrebbe calzare. Fino a quando Napoleone Bonaparte la ribattezzò con il nome con cui è passata alla storia, per tutti fu Rose, un nome che preannunciava l'importanza che nella sua vita ebbero le piante, comprese le rose. Quando si incontarono per la prima volta in un salotto parigino, lei era Mme Rose de Beauharnais. Lui aveva 26 anni, lei 32, e aveva già alle spalle una vita tumultuosa e molto chiacchierata. Era nata in Martinica nella piantagione di una famiglia nobile ma impoverita; poi, ad appena 16 anni, erano arrivati il matrimonio con un nobile dissipatore e femminiere, prima dei vent'anni un figlio e una figlia, quindi la separazione, il carcere durante il terrore, la vedovanza in seguito all'esecuzione del marito Alexandre de Beauharnais. E debiti, tanti debiti, e amanti veri o presunti. L'ultimo, quello in carica al momento, si diceva fosse Paul Barras, uno dei cinque direttori. Che, secondo una delle varie versioni, sarebbe anche colui che presentò ufficialmente la bella vedova a Napoleone, che aveva appena nominato generale per essersi distinto nella repressione di un'insurrezione monarchica. Fu l'inizio di un amore appassionato da parte di lui - un po' meno da parte di lei - che sfociò nel matrimonio il 9 marzo 1796, due giorni prima che Bonaparte partisse per la Campagna d'Italia. Rose non era più Rose, ma Joséphine, come Napoleone l'aveva ribattezzata a partire dal suo secondo nome, forse per rifarla propria e cancellare quel passato tanto chiacchierato. E mentre Napoleone diventava Napoleone, Joséphine aveva finalmente un giardino. Nell'aprile 1799, mentre il marito era impegnato nella Campagna d'Egitto, ricorrendo a un prestito - era abituata a fare debiti - acquistò per 325.00 franchi il castello e la tenuta di Malmaison, a una dozzina di km da Parigi. Al suo ritorno Bonaparte andò su tutte le furie per quella spesa folle, ma, dopo il colpo di stato del 18 brumaio che lo rese padrone della Francia, si addossò il debito, forse attingendo al denaro predato in Italia ed estese addirittura il parco dagli iniziali 60 a 260 ettari. Anche per lui, Malmaison divenne la casa del cuore e per tutto il consolato ne fece la propria residenza; tra il 1800 e il 1802, insieme alle Tuilerie, fu addirittura la sede del governo. Joséphine era decisa a trasformare la tenuta "nel giardino più bello e curioso d'Europa, un modello di buona coltivazione". Inizialmente i lavori vennero affidati agli architetti Percier e Fontaine, che, oltre a restaurare il castello (loro avrebbero voluto abbatterlo e ricostruirlo, ma Napoleone optò per una più economica ristrutturazione), nel 1801 incominciano a recintare il parco, costruirono strutture di servizio come stalle per i cavalli e padiglioni di guardia, eressero il cancello principale e, per le piante di Joséphine, una orangerie riscaldata in grado di produrre 300 piante di ananas. Tuttavia presto emersero contrasti con Mme Bonaparte, che considerava il loro gusto in fatto di giardini troppo classico; desiderava un giardino all'inglese di gusto romantico e paesaggistico. Si rivolse così ai due guru del giardino all'inglese in Francia, lo scozzese Thomas Blaikie, che aveva disegnato il giardino di Bagatelle per il conte d'Artois, e Jean-Marie Morel, autore dell'influente Théorie des Jardin (1777). Morel costruì uno chalet svizzero, una stalla per le mucche, una latteria e una casa per i vaccari fatti venire dalla Svizzera e iniziò la costruzione della serra riscaldata (Grande serre chaude), completata nel 1805 da Thibault e Vignon. Costruita secondo i criteri più avanzati dell'epoca, era la prima in Francia a prevedere una così ampia superficie in vetro; lunga circa 50 metri e larga 19, era riscaldata da 12 stufe e poteva ospitare piante alte fino a 5 metri. La serra era addossata a un elegantissimo padiglione con una serie di salotti e una rotonda centrale raffinatamente arredati in cui era possibile riposarsi, intrattenersi ed ammirare piante rare e una collezione di vasi greci. Neppure Morel soddisfaceva del tutto il gusto romantico della ormai imperatrice (fu incoronata dallo stesso marito e congiuntamente a lui il 2 dicembre 1804); alla fine del 1805 gli subentrò Louis-Martin Berthault, in cui Joséphine trovò quasi un'anima gemella che l'avrebbe servita fino alla morte. Egli costruì una nuova galleria per ospitare le collezioni d'arte e a partire dal 1807 ridisegnò completamente il parco, creando un parco chiuso di 70 ettari perfettamente integrato nel paesaggio, con gli alberi disposti in modo da permettere allo sguardo di spaziare su monumenti già esistenti come l'acquedotto di Marly o il castello di Saint Germain. Berthault disegnò sentieri serpeggianti, fece scavare un corso d'acqua sinuoso che si allargava a formare un laghetto e disseminò il parco di edifici di gusto romantico: il Tempio dell'amore, il tumulo funerario della Malinconia, una grotta con rocce fatte venire da Fontainbleau. Tutte cose che facevano impazzire l'imperatrice, ma non l'imperatore, che le definiva sprezzantemente niaiseries "stupidaggini", e volle per sè un angolo di gusto più classico. Per ospitare gli animali giunti dall'Australia - li ritroveremo tra poco - c'erano una voliera e uno zoo; alla fattoria si aggiuns un allevamento modello di pecore merino. Le piante e gli uomini di Malmaison Fin dall'acquisto di Malmaison, Joshéphine era intenzionata a popolarne il parco e le serre con una collezione unica di piante esotiche. In primo luogo, forse già dalla primavera del 1800, si rivolse a André Thouin, il capo giardiniere del Jardins des Plantes che, oltre ad essere il massimo esperto di acclimatazione di esotiche in terra di Francia, negli anni aveva costruito un'immensa rete di corrispondenti che includeva botanici, giardinieri, vivaisti e collezionisti sia nel paese sia all'estero. In una lettera dell'agosto 1800, firmata Lapagerie Bonaparte, la futura imperatrice lo ringrazia per l'invio di frutti di fico-banana (Ficus pleurocarpa) che "mi hanno ricordato il paese natale e mi hanno dimostrato che siete capace di trionfare di ogni clima e di portare ogni cosa a perfezione". Scrisse anche alla madre, che continuava a vivere in Martinica; in una lettera del 1802 leggiamo: "Mandatemi tutti i semi d'America e tutti i frutti: batate, babane, aranci, manghi, infine tutto ciò che potrete". Thouin la mise in contatto con Jacques Martin Cels (1740-1806), un collezionista che, rovinato dalla rivoluzione, aveva trasformato la sua passione in professione, aprendo a Montrouge, nella periferia sud di Parigi, un vivaio in cui coltivava soprattutto piante americane introdotte da André Michaux. Il suo lavoro fu continuato dal figlio François (1771-1832) che allargò il vivaio e si specializzò nella coltivazione di esotiche ornamentali; nel suo catalogo del 1817 troviamo, accanto alle americane, anche molte sudafricane, dalie, e una notevole collezione di rose, circa 200 varietà, principalmente Gallica. Sicuramente il vivaio Cels fu uno dei principali fornitori di Malmaison, anche per le rose (ma su questo tornerò più avanti), insieme a quello di un altro contatto di Thouin, Louis Claude Noisette (1772-1849). Figlio di un giardiniere del conte di Provenza, intorno al 1798 aveva aperto un vivaio dove coltivava soprattutto piante americane, ottenute attraverso uno dei suoi fratelli, Philippe Stanislas, che viveva a Charleston. Uno dei suoi invii è Old Blush Noisette, la prima delle rose Noisette; ma giunse in Francia nel 1814, troppo tardi per essere coltivata a Malmaison. Joséphine ottenne molte piante dal Jardin des Plantes, e molto lo acquistò dai vivai, spendendo somme folli; è del marzo 1804 una consegna di 2014 tra erbacee, alberi e arbusti. Seppe inoltre approfittare del potere del marito; piante le giunsero dai botanici che accompagnarono Napoleone in Egitto e durante le campagne napoleoniche; in Italia come a Vienna, piante furono requisite dai giardini degli sconfitti per essere inviate a Malmaison. L'imperatore sollecitava diplomatici, ufficiali di marina e funzionari ad approfittare di ogni occasione per soddisfare la passione botanica della moglie e Joséphine stessa faceva pressione su ministri, dignitari, agenti francesi all'estero. Ad arricchirne il parco e le serre di piante in precedenza mai viste in Europa fu però soprattutto la sventurata spedizione Baudin, sponsorizzata da Napoleone primo console, ed in particolare il ricco carico del Géographe, che raggiunse Lorient nel marzo 1804. Napoleone aveva ordinato che il giardino di Malmaison avesse la precedenza sul Jardin des Plantes e quando Thouin ispezionò il carico, scoprì di essere già stato preceduto da Mirbel, il sovrintendente di Malmaison; così, delle 230 piante sopravvissute al tumultuoso viaggio, le 98 più sane presero direttamente la strada delle serre di Joséphine. Insieme a loro viaggiavano anche canguri, emù e una coppia di cigni neri, che divennero quasi un simbolo del giardino dell'imperatrice. Da quel momento, d'un colpo le serre di Malmaison ospitarono la più importante collezione europea di piante australiane, più ricca di quella degli stessi Kew Gardens. Per altro, le piante inglesi o importate dai britannici non mancavano. Come ho già raccontato parlando del vivaio Lee & Kennedy, a partire dal 1803 The Vineyard divenne il maggiore fornitore dei giardini dell'imperatrice; grazie alla compiacenza di Banks, con il quale Joséphine era in contatto attraverso il botanico Etienne Ventenat, ottenne anche alcune piante di Kew e soprattutto un passaporto che permise a Kennedy di continuare a fare la spola tra Francia e Inghilterra con i suoi carichi di piante nonostante lo stato di guerra e il blocco continentale. Con Kennedy, Joséphine creò addirittura un consorzio per inviare in Sudafrica il cacciatore di piante James Niven. Joséphine seppe anche circondarsi di personale molto qualificato. Nel 1801 ingaggiò un giardiniere scozzese, Alexander Howatson; in tempo di guerra, avere un dipendente britannico spiaceva assai a Napoleone, che nel 1805 approfittò del conto troppo salato di un trasporto di piante per licenziarlo. Egli fu così sostituito da Felix Delahaye, che era stato il giadiniere della spedizione Entrecasteaux, durante la quale aveva fatto estese raccolte; aveva poi lavorato per un certo periodo nel giardino di Pamplemousses a Mauritius e dopo il ritorno in Francia aveva restaurato i giardini del Trainon e il vecchio giardino di Maria Antonietta a Versailles. Era dunque un esperto di coltivazione di esotiche e, soprattutto, era forse l'unico giardiniere europeo ad avere visto le piante australiane in natura e molte le aveva raccolte lui stesso. Abbiamo già incontrato di passaggio due dei botanici che lavorarono per Joséphine a Malmaison, Mirbel e Ventenat. Charles-François Brisseau de Mirbel (1776-1854) ad appena vent'anni era diventato assistente naturalista al Muséum ed era un promettente scienziato, destinato a diventare il padre fondatore della citologia; nel 1803 Mme Bonaparte lo assunse come sovrintendente di Malmaison, dove poté continuare i suoi studi sui tessuti vegetali, l'evoluzione degli organi delle piante e le epatiche del genere Marchantia. Nel 1806 però egli lasciò Malmaison per entrare al servizio del re d'Olanda Luigi Bonaparte, che oltre ad essere fratello di Napoleone, era anche genero di Joséphine in quanto marito di sua figlia Hortense Beauharnais. A sostituirlo fu Etienne Pierre Ventenat (1757-1808). Fratello di Louis Ventenat, cappellano e naturalista morto durante la spedizione Entrecasteaux, era entrato nell'orbita dell'imperatrice grazie a Cels. Allievo e collaboratore di L'Héritier de Brutelle, in gioventù si era segnalato per la traduzione in francese di Genera plantarum di Antoine Laurent de Jussieu, poi, come il suo maestro, aveva focalizzato la sua attenzione sulla pubblicazione di piante nuove per la scienza. Nel 1799 pubblicò Descriptions des plantes nouvelles et peu connues cultivées dans le jardin de J. M. Cels, illustrato da 100 tavole in gran parte dovute ai fratelli Pierre-Joseph e Henri-Joseph Redouté. La raffinatezza di quest'opera attirò l'attenzione di Joséphine che volle qualcosa di simile per far conoscere al mondo le proprie collezioni di cui era estremamente fiera. Commissionò così a Ventenat i testi e Pierre-Joseph le illustrazioni del magnifico Jardin de Malmaison; in due tomi, usciti in 20 fascicoli tra l'aprile 1803 e il novembre 1805, comprendo 120 calcografie a colori incise da Allain a partire da acquarelli di Redouté e la descrizione di 161 specie, molte delle quali nuove per la scienza, scritta da Ventenat. Come ho anticipato, nel 1806 Ventenat fu nominato intendente e prese così sul serio l'incarico da morire, esausto di fatica, appena due anni dopo. A succedergli fu Aimé Bonpland, che era stato compagno di Humboldt nel suo viaggio sudamericano. Egli curò tra l'altro i testi di Descriptions des Plantes Rares Cultivées à la Malmaison (1812-1817), anch'esso illustrato da Redouté. Anche questo grande artista, soprannominato il "Raffaello dei fiori", può essere annoverato tra gli uomini di Joséphine. Oltre alle due opere già citate, i fiori di Malmaison ispirarono il suo capolavoro, Les Liliacées; pubblicato in 8 volumi di grande formato, usciti tra il 1802 e il 1816, comprende 486 incisioni a colori di altrettante specie di bulbose e monocotiledoni (non solo Liliaceae in senso stretto). Joséphine riuscì a convincere il ministro dell'interno Chaptal ad acquistarne 80 copie che furono distribuite tra dignitari e biblioteche in tutto il paese e all'estero. L'altro libro più noto di Redouté, Les Roses (1817-1824) fu creato dopo la morte dell'Imperatrice e ritrae rose coltivate in vari giardini francesi, non solo a Malmaison. Furono invece commissionate da Joséphine intorno al 1812 al pittore Auguste Garneray le 12 vedute del parco e della serra, oggi un documento inestimabile per ricostruirne l'aspetto. Essi infatti non sopravvissero a lungo alla loro creatrice, Nel 1809, essendo chiaro che, per la sua età, Joséphine non gli avrebbe mai dato un erede, Napoleone si decise a chiedere l'annullamento del matrimonio, sancito nel gennaio 1810. Fu però generoso con la ex moglie, con cui mantenne rapporti cordiali: essa conservò il titolo di imperatrice, cui si aggiunse quello di duchessa di Navarre (dal castello in Normandia che le donò dopo il divorzio, un po' per compensarla, un po' per tenerla lontana da Parigi mentre si celebrava il suo matrimonio con Maria Luigia d'Asbrugo), ottenne la piena proprietà di Malmaison e una pensione di 5 milioni di franchi. Mentre si completavano i lavori di adattamento per ospitare la sua piccola corte di quasi 200 persone, Joséphine visse a Navarre, poi tornò a Malmaison, che continuò ad accrescere ed abbellire fino alla morte. Il 29 maggio 1814 vi morì di polmonite. Si dice l'avesse contratta passeggiando nel parco con lo zar Alessandro, che avrebbe implorato di permetterle di unirsi al marito nell'esilio all'Elba. Quando Napoleone seppe della sua morte, si chiuse per due giorni nella sua camera; dopo la disfatta di Waterloo, prima di consegnarsi agli inglesi, risiedette a Malmaison che, però, senza la sua Joséphine, non era più la stessa. Poi iniziò la decadenza. L'imperatrice aveva lasciato debiti imponenti, riscaldare la serra era troppo costoso e le piante esotiche, abbandonate a se stesse, morirono; la casa e il giardino furono saccheggiati e vandalizzati; la proprietà fu parcellizzata e messa in vendita. Dopo diverse vicissitudini, nel 1903 il castello e il parco, ridotto a 6 ettari, passarono allo stato e divennero un museo. E finalmente... le rose Il parco di Malmaison non era un orto botanico, con le piante disposte in modo sistematico, ma un giardino di piacere. Era anche un giardino sperimentale dove vennero acclimatate piante che poi avrebbero profondamentro modificato i giardini e il paesaggio francese. Secondo L'impératrice Joséphine et les sciences naturelles (catalogo della mostra tenutasi a Malmaison nel 1997), le piante che vi furono coltivate per la prima volta in Francia tra il 1804 e il 1814 ammontano a 184. La corrispondenza tra l'intendente Mirbel e il prefetto delle Alpi Marittime Marc Joseph Dubouchage attesta l'invio in Costa azzurra di numerose piante soprattutto australiane acclimatate a Malmaison; tra di esse, Casuarina equisetifolia, Phormium tenax, varie specie dei generi Eucalyptus, Melaleuca, Metrosideros, Leptospermum, cui forse va aggiunta Acacia dealbata, la mimosa oggi onnipresente, che fiorì per la prima volta a Malmaison nel 1811. A fare da tramite all'introduzione di queste e altre specie esotiche nella Francia meridionale, il cui clima mite era considerato il più propizio all'acclimatazione di piante tropicali e subtropicali, fu il giardino di acclimatazione creato nel settembre 1801 nel recinto della Scuola centrale del dipartimento delle Alpi marittime a Nizza. E poi, naturalmente, c'è il capitolo rose. Ne ho già parlato in questo post, e qui mi limito a riassumere le informazioni principali. Secondo la vulgata erano le piante preferite di Joséphine che ne avrebbe fatte coltivare ben 250 varietà; molti si spingono anche a dire che, insoddisfatta delle rose europee non rifiorenti, avrebbe incoraggiato l'introduzione di rose cinesi e le ibridazioni che avrebbero portato alla nascita delle rose moderne. Altri parlano di migliaia di rose (peccato che nessuno delle persone che visitò quel giardino poco dopo la morte della imperatrice ne faccia parola e proprio le rose manchino le vedute di Garneray). In realtà, Joséphine era interessata in generale alle piante, specialmente esotiche, e non aveva una speciale predilezione per le rose; certamente a Malmaison non mancavano, ma non è neppure certo che ci fosse un roseto; molte delle piante più preziose erano infatti coltivate in vaso, ed esposte all'esterno al momento della fioritura. Purtroppo, mentre i cataloghi di Ventenat e Bompland documentano bene le esotiche coltivate nella serra e in giardino, non possediamo niente di simile per le rose. Come ho anticipato, Les roses di Redouté, che molti considerano un catalogo delle rose di Malmaison, fu scritto solo dopo la morte dell'imperatrice e ritrae le rose coltivate in vari giardini e vivai francesi che Redouté e Thory, l'autore dei testi, visitarono e citarono scrupolosamente; i giardini dp Malmaison sono ricordati solo per due rose, R. berberifolia e R. gallica. Questo equivoco è probabilmente all'origine della leggenda del roseto di Malmaison, nonchè dei vari pretesi elenchi delle rose che vi erano coltivate. Rimandando al post già citato per le specie sicuramente identificate, molte delle quali importate dall'Inghilterra attraverso Kennedy e altri vivai, vorrei qui aggiungere solo qualche informazione sui fornitori parigini. Presumibilmente il principale era André Dupont, che non fu mai un giardiniere di Malmaison come spesso si legge, anzi neppure un vivaista, ma un collezionista privato; prima della rivoluzione era il custode (e non il giardinere) del palazzo di Lussemburgo. Secondo il suo biografo V. Darkenne, incominciò a interessarsi di rose intorno al 1785, quando affittò un piccolo terreno dai monaci cerctosini nel pressi del Lussemburgo. Durante il Terrore fu imprigionato due volte e per quattro volte, per salvarla, dovette spostare la sua collezione di rose. Nel 1796, la sistemò nell'amgolo orientale del giardino del Lussemburgo, con le rose classificate per specie; nel 1801, la sua collezione (la chimava "éecole de roses"), di specie tanto native quanto esotiche, era la più completa d'Europa. Secondo la testimonianza di Antoine Laurent de Jussieu, Joséphine si rivolse a Dupont per chiedergli di rifornire di rose Malmaison ed egli accettò, come attestano le fatture (che purtroppo non indicano di quali vareità si trattasse). Darkenne stima che nel 1806 gliene abbia fornite da 200 a 500, presumibilmente più di un esemplare per varietà, visto che nel catalogo delle rose coltivate da Dupont nel 1813 (pubblicato da Thory nel 1819, Catalogo inedito Rosarum quas Andreas Du Pont in horto suo studiose colebat anno 1813) ne sono elencate 218. La collezione di Dupont comprendeva numerose rose botaniche europee, un'ampia selezione di alba, centifolia, damascena e soprattutto gallica (una sessatina, pochissime esotiche e qualche cinese, l'unica delle quali identificabile con certezza è la rosa di Macartney (R. bracteata, introdotta in Europa intorno al 1795). Dupont è considerato un pioniere dell'ibridazione artificiale delle rose e a volte gli viene attribuita la creazione di un numero impressionante di ibridi. In realtà nel catalogo compaiono solo 19 ibridi di gallica, non necessariamente tutti creati da lui. Come collezionista, riceveva rose da tutta Europa; come abbiamo visto in questo post, fu lui a introdurre la rosa Portland dall'Inghilterra; potremmo aggiungere 'Belle Sultane', che invece importò dall'Olanda. Gli ibridi di Gallica erano all'epoca le rose più alla moda ed è probabile che ce ne fossero parecchi tra quelle fornite all'imperatrice; lo stesso varrà anche per un altro probabile fornitore, Cels; il catalogo pubblicato da Cels figlio nel 1817 (Catalogue des arbres, arbustes, et autre plantes de serre chaude, d'orangerie et de pleine terre) offre circa 170 varietà di rose; una buona percentuale sono ibridi recenti dai nomi evocativi ('Belle sans flatterie', 'Panachée admirable'. 'Roi des pourpres') di cui si è per lo più persa ogni traccia. Ovviamente non ne conosciamo il pedigree; è invece giunta fino a noi R. celsiana (nel catalogo figura come grande Cels), un vigoroso ibrido di damascena. Abbiamo già visto che a Malmaison non potevano esserci rose Noisette, essendo la prima giunta in Francia dopo la morte dell'imperatrice. E lo stesso vale per le rose Boursault. Jean-François Boursault detto Malherbe era un ex attore che con la rivoluzione si era dato alla politica e agli affari, accumulando una grande ricchezza che investì tra l'altro in uno splendido giardino con tanto di serre calde. Forse potrebbe aver ceduto a Joséphine una talea della cinese Rosa multiflora carnea, che fu il primo a introdurre in Francia nel 1808, ma non Rosa banksiae 'Alba plena', giuntagli nel 1817, nè il primo ibrido Boursault, ottenuto nel 1818 incrociando R. pendulina non con una cinese, come si è creduto a lungo, ma con la nordamericana R. blanda. Quali e quante fossero le rose coltivate a Malmaison, in assenza di documenti, non lo sapremo mai. Ma anche se il roseto di Joséphine fosse un mito, da più di un secolo è diventato realtà. Nel 1911, dopo che quanto rimaneva del parco era stato donato allo stato, il compito di ri-crearlo venne affidato a Jules Graveraux, il creatore della Roseraie de L'Haÿ; egli, consultando i cataloghi dell'epoca, individuò 197 specie e cultivar disponibili ai tempi dell'imperatrice e ne fece dono al giardino; il suo elenco comprendeva 107 galliche, 27 centifolia, 3 muscose, 9 damascene, 22 bengalesi (ovvero cultivar di R. chinensis), 4 spinosissime, 8 alba, 3 lutee, 1 moscata e le specie alpina, arvensis, banksiae, carolina, cinnamomaea, clinophylla, glauca, laevigata, rugosa, sempervirens e setigera. Certamente è un falso storico, ma almeno su un punto anche oggi siamo d'accordo: Gravereux correttamente privilegiò le galliche, che erano ancora le rose più coltivate, come risulta anche dai cataloghi di Dupont e Cels. In occasione del bicentenario della scomparsa dell'imperatrice, il roseto è stato restaurato e ospita oggi 750 rose del Primo e del Secondo Impero. Una bella capricciosa A Joséphine de Beauharnais, creatrice di un magnifico giardino, patrona delle arti e della scienza, ma soprattutto moglie di un uomo che per un quindicennio fu il più potente d'Europa, non mancarono gli omaggi botanici, di sapore innegabilmente cortigiano. Nel 1802, quando Mme Bonaparte era ancora la "consulesse", Ruiz e Pavon dedicarono congiuntamente a marito e moglie, rispettivamente, Bonapartea e Lapageria; mentre la dedica a Napoleone (ne parlo qui) è un capolavoro di adulazione, quella a Joséphine è relativamente sobria: "all'eccellente Joséphine de La Pagerie, degnissima sposa di Napoleone Bonaparte, egregia fautrice della botanica e delle scienze naturali". Ventenat volle anche lui omaggiare con la dedica di un genere colei che in definitiva era la sua datrice di lavoro; per farlo scelse una delle quattro piante australiane nate dai semi portati in patria dalla prima nave della spedizione Baudin a rientrare, il Naturaliste, che precedette il Géographe di circa un anno. Era una pianta modestissima, per nulla imperiale, ma aveva il fascino della primizia, e. dato che Joséphine era appena stata incoronata imperatrice, la battezzò Josephinia imperatricis. Certo era sinceramente legato a colei che lo chiamava il "suo botanico" e lo aveva scelto come intendente del suo amato giardino, ma la sua dedica è decisamente meno moderata rispetto a quella dei due spagnoli: "L'onore di dedicare un genere all'illustre Imperatrice di Francesi dovrebbe essere ambito dall'autore del Jardin de la Malmaison. Possa questo debole omaggio ricordare al posteri la protezione illuminata che essa accorda alla scienza e lo splendore con cui la abbellisce". Il genere Josephinia fu ridotto a sinonimo di Sesamum, e il suo nome attuale della piante è Sesamum imperatricis che, più che i fasti imperiali, evoca la cucina. Sopravvive invece il genere creato da Ruiz e Pavon, che per bellezza e fascino esotico calza perfettamente alla dedicataria. Lapageria (famiglia Philesiaceae) è un genere monospecifico endemico del Cile, di cui l'unico rappresentante, L. rosea, è il fiore nazionale. Originaria delle foreste sclerofile e caducifolie dell'area centrale e centro-meridionale, dalla regione di Valparaiso a quello di Los Lagos, questa splendida pianta è un rampicante sempreverde con fusti contorti e sottili, foglie semplici, lanceolate, coriacee, lucide e grandi fiori solitari penduli a campana formati da sei tepali cerosi. Il colore delle corolle (tra selvatiche e coltivate, se ne conoscono 25 varietà) varia dal bianco purissimo fino al rosso passando da varie sfumature di rosa. I fiori sono impollinati da insetti, altri animali, ma soprattutto colibrì, e sono seguiti da bacche allungate eduli. La coltivazione è considerata piuttosto difficile. Da noi viene solitamente coltivata in vaso; necessita di ombra luminosa, ottima areazione (ma senza correnti d'aria) e un ambiente umido. Non sopporta né il freddo né il caldo eccessivo. Ama essere frequentemente nebulizzata e, poiché non tollera il calcare, va annaffiata con acqua demineralizzata. Insomma, coltivarla è una vera sfida, ma se trova le condizioni giuste può arrivare a 4-5 metri d'altezza e regalare sontuose fioriture. Margaret Cavendish Bentinck, seconda duchessa di Portland, fu una formidabile collezionista; collezionava oggetti naturali, in particolare conchiglie, ma anche procellane e altri manufatti. Se il suo nome oggi non è ricordato come quello di personaggi come Sloane, è perché dopo la sua morte la sua collezione di oltre 60.000 pezzi fu venduta all'asta e andò interamente dispersa. La famiglia poté riacquistare solo alcuni dei pezzi più preziosi, tra cui il celebre vaso Portland. Era anche un'abile giardiniera e aveva una notevole competenza botanica; dopo i decisivi incontri con Rousseau, Banks e Solander, questa passione raggiunse il culmine con la trasformazione di una parte del parco della sua residenza, Bulstrode Park, in orto botanico i cui fiori furono immortalati da Dionysius Ehret e dall'amica di lunga data Mrs Delany. Alcune delle vere e proprie leggende nate attorno alle rose Portland, un gruppo di rose antiche rifiorenti, le attribuiscono anche l'introduzione della prima rosa di questo gruppo. Ma la loro origine e la loro ascendenza costituiscono un duplice enigma, che è stato sciolto solo di recente. Nessun mistero invece nella dedica del genere Portlandia, con vistose fioriture che evocano i Tropici. La duchessa delle collezioni Per gli amanti dell'antichità, il nome Portland è richiama indubbamente il favoloso "vaso Portland", un vaso vitreo di epoca augustea oggi custodito al British Museum. Per gli amanti delle rose, evoca invece un gruppo di rose antiche rifiorenti. L'uno e le altre sono in qualche modo associati a Margaret Cavendish Bentinck, seconda duchessa di Portland (1715-1785), la donna più ricca della Gran Bretagna dei suoi tempi, nonché la massima collezionista. Era nata come Margaret Harley e in lei, come unica erede sopravvissuta, si concentrarono i patrimoni del padre, Edward Harley, secondo conte di Oxford e Mortimer, e della madre Henrietta Holles, a sua volta ricchissima erede dei Newcastle e dei Cavendish. La piccola Maria (così veniva chiamata in famiglia) crebbe a Wimpole Hall, la principale residenza di famiglia, circondata da libri, dipinti, sculture e fin da bambina fu incoraggiata a collezionare animali, conchiglie e altri oggetti naturali; sia il nonno paterno (un importante uomo politico) sia il padre erano a loro volta collezionisti, bibliofili e protettori delle arti. Nel 1734, diciannovenne, sposò William Bentinck, secondo duca di Portland, che, al contrario del padre, il primo duca, braccio destro di Gugliemo III, non occupò alcun incarico pubblico e preferì concentrarsi nella vita di famiglia. La coppia ebbe sei figli, quattro dei quali raggiunsero l'età adulta; tra di essi, il terzo duca di Portland, due volte primo ministro, uno dei principali uomini politici britannici della sua epoca. La famiglia divideva il suo tempo tra Londra, dove possedeva una casa a Whitehall e frequentava la corte, i concerti e gli eventi della stagione mondana, e la tenuta di Bulstrode circondata da un vastissimo parco dove già il nonno dell'attuale duca aveva creato un magnifico giardino - di origini olandesi, aveva portato dalla sua patria il gusto per i "paradisi" che costituivano l'orgoglio dell'élite della Repubblica delle province unite - e una notevole Menagerie con voliere di uccelli esotici. Anche se Maria, come abbiamo visto, collezionava conchiglie fin da bambina e aveva ereditato almeno una parte delle collezioni paterne, la passione per il collezionismo esplose negli anni '60, quando rimase vedova (l'amato marito Will morì nel 1761); grazie a una dote di 20.000 sterline, cui, dopo la morte della madre nel 1755, si aggiunsero la proprietà di Welbeck Abbey e una rendita annuale di ulteriori 8000 sterline, era una donna indipendente di larghissimi mezzi che poteva permettersi, letteralmente, ogni capriccio. Amante degli animali fin dall'infanzia, rifondò la menagerie, arricchendola di moltissimi animali; spiritosamente, in una lettera una delle sue più care amiche, Mrs Delany, scrisse: "La duchessa è ansiosa di collezionare animali come se prevedesse un altro diluvio e ne radunasse di ogni tipo per preservarne la specie". Arricchì il parco di varie strutture, tra cui una grotta artificiale (Grotto) che adornò lei stessa di conchiglie con l'aiuto di Mrs Delany. Collezionava soprattutto oggetti naturali, ma anche dipinti, smalti, porcellane, manufatti di varia natura, ogni cosa colpisse la sua curiosità, che, a quanto pare, andavano a mescolarsi in allegra confusione nei corridoi e nelle stanze di Bulstrode Hall, ormai trasformato in un vero e proprio museo aperto ai visitatori. Colta e raffinata, la duchessa di Portland frequentava altre dame con interessi simili (inclusa la regina Carlotta); tra le amiche più strette troviamo Elizabeth Montagu, la creatrice della cosidetta Blue Stockings Society, un club informale che incoraggiava l'educazione e l'espressione artistica delle donne, con la quale iniziò una scambio epistolare nel 1731, quando era appena sedicenne. Un'altra amica di lunga data era la già citata Mary Delany, che la duchessa aveva conosciuto poco dopo il matrimonio, quando ancora si chiamava Mrs Pendarves (dal nome del primo marito); le accumunavano molti interessi e hobby: entrambe parlavano fluentemente italiano e francese, suonavano il clavicembalo, erano abili nel ricamo e in lavori in legno o con conchiglie, amavano la natura, gli animali, le piante, le lunghe passeggiate nel parco. Poi l'amica rimase vedova, si risposò con Mr Delany e si trasferì in Irlanda. Tornò in Inghilterra dopo il 1770, quando rimase vedova per la seconda volta e da quel momento trascorse circa sei mesi all'anno a Bulstrode; ormai sulla settantina, si era perfezionata nell'arte del découpage e il suo soggetto preferito divennero i fiori: formati anche di centinaia di pezzi, i suoi accuratissimi collage ritraggono con precisione anche i particolari più minuti, come gli stami, il pistillo, le nervature delle foglie. Per consentirle un minimo di indipendenza economica, la duchessa le assegnò una piccola casa a Windsor e una pensione di 300 sterline. Un altro artista protetto dalla duchessa di Portland fu Dyonisius Ehret. che probabilmente ella conobbe nel giardino di Chelsea oppure le fu presentato da Miller (di cui Ehret aveva sposato la cognata). Il pittore dipinse per lei su pergamena circa 300 piante esotiche e 500 inglesi, e insegnò disegno alle sue figlie. Possiamo considerarlo un membro a tutti gli effetti della vera e propria équipe scientifica che aiutava la duchessa ad organizzare, catalogare e documentare la sua collezione. A presiederla era il pastore John Lightfoot; nominato cappellano dal duca, due volte la settimana celebrava nella cappella di Bulstrode, dove trascorreva tutto il tempo lasciatogli libero dalla sua attività come pastore di Uxbridge, insegnando botanica alla duchessa, curando la biblioteca e aiutandola con le collezioni. Ottimo botanico, autore di Flora scotica, corrispondeva con Linneo e introdusse la nobile allieva al sistema linneano. Fino al 1770, la botanica, alla quale, come abbiamo visto, era stata avviata da Lightfoot, era un interesse relativamente secondario per la duchessa, anche se amava le piante, teneva un erbario ed era un'appassionata giardiniera, particolarmente abile nella propagazione mediante propaggine. Un incontro importante fu quello con il filosofo Jean Jacques Rousseau, che nel 1766 visse per qualche tempo a Wootton Hall nello Staffordshire, dove intraprese addirittura un inventario della flora locale. Fu presumibilmente introdotto presso la duchessa di Portland da un vicino, Bernard Granville, fratello di Mary Delaney (nata Mary Granville). Rousseau si offrì di diventare il suo "erborista", ovvero di raccogliere per lei semi e campioni d'erbario, cosa che poi fece. Anche se espresse idee francamente maschiliste sulla predisposizione scientifica delle donne, il filosofo ammirava la competenza botanica della duchessa che riteneva ben superiore alla sua. Per più di dieci anni il ginevrino e la nobildonna scambiarono lettere, esemplari, libri, finché nel 1775 o nel 1776 la duchessa commise l'errore di inviargli una copia di Herbarium amboinense di Rumphius. Rousseau tollerava appena la coltivazione dei giardini e aborriva quella delle piante esotiche, che considerava una violenza contro la natura; dunque restituì il dono e interruppe la corrispondenza. La vera svolta si produsse però qualche anno dopo. La duchessa aveva conosciuto Daniel Solander, forse presentatogli da Collinson, poco tempo dopo il suo arrivo dalla Svezia. Nel novembre 1771, dopo il ritorno dall'Australia, egli si recò con Banks a Bulstrode per farle omaggio di semi e campioni d'erbario. Seguirono dotte discussioni in cui fu coinvolto Lightfoot. Pochi giorni dopo, la duchessa e Mrs Delany visitarono il British Museum, con Solander a fare loro da cicerone. Si spostarono poi a casa di Banks che mostrò loro altri esemplari. Questi eventi acutizzarono l'interesse della duchessa per la botanica, e ne nacquero probabilmente l'erbario dipinto affidato a Ehret e l'erbario a decoupage creato da Mrs Delany. Ma la conseguenza principale fu la trasformazione di una parte del giardino in vasto orto botanico secondo il modello del giardino dei farmacisti di Chelsea, con le piante "piantate separatamente secondo la loro specie". Fu probabilmente in questo stesso periodo che, per usare le parole di Lightfoot, la duchessa concepì il progetto di "far descrivere e pubbicare tutte le specie sconosciute dei tre regni della natura". Incaricò Solander di occuparsi delle conchiglie; secondo la testimoniamza di Banks, egli dedicava a questo compito un giorno alla settimana. Tuttavia le morti di Solander nel 1782 e quella della stessa duchessa tre anni dopo, misero fine a questo sogno tanto ambizioso quanto impossibile. Poco dopo la sua scomparsa, il figlio, il terzo duca di Portland, decise di mettere in vendita l'enorme collezione creata dalla madre (erano almeno 60.000 oggetti): c'erano creditori da pagare ed egli stesso aveva bisogno di denaro per la sua carriera poltica. Lightfoot dovette trasformare il catalogo della collezione cui lavorava da anni in catalogo d'asta; quest'ultima, tenuta nella residenza di Whitehall, si aprì il 24 aprile 1786 e si protrasse per oltre due mesi, terminando il 3 luglio. Vi parteciparono centinaia di londinesi e la collezione, divisa in 4000 lotti, fu interamente dissolta. La famiglia riacquistò solo alcuni pezzi di interesse artististico, tra cui un prezioso vaso vitreo di epoca augustea con decorazioni a cammeo; la duchessa l'aveva acquistato nel 1784 da sir William Hamilton, ambasciatore britannico a Napoli; in precedenza per 150 anni era appartenuto alla famiglia Barberini. Era il pezzo più prezioso, fu messo in vendita il penultimo giorno dell'asta e per aggiudicarselo il duca dovette sborsare 1,029 sterline, una somma enorme per l'epoca. Oggi è una delle gemme del British Museum ed è noto come Vaso Portland. Un enigma botanico Quanto alle "rose Portland", la loro storia è molto meno lineare, anzi è tanto contraddittoria e intricata da costituire un vero mistero. La versione a lungo dominante è quella riportata da Graham Stuart Thomas in Le rose antiche da giardino (data originale 1979): la progenitrice di questo gruppo di rose era presente nel vivaio Dupont di Parigi nel 1809; Dupont l'avrebbe ottenuta dall'Inghilterra e le avrebbe dato il nome della duchessa di Portland "che probabilmente la trovò o la ottenne dall'Italia all'inizio del secolo". In Inghilterra fu chiamata Rosa paestana, perché si riteneva fosse originaria della zona di Paestum, oppure "Scarlet four season Rose" perché era rosso vivido e ripeteva la fioritura in autunno. Se questa versione è corretta, dato che, come abbiamo visto, la nostra duchessa di Portland morì nel 1785, l'introduttrice non sarebbe lei, ma un'altra duchessa. Beales in Le rose classiche (data originale 1985) si rifà sostanzialmente alla medesima versione, ma si discosta da Thomas affermando che giù in Inghilterra era chiamata Rosa portlandica; aggiunge poi in nota che Sally Festing, autrice di una biografia della seconda duchessa, ha evidenziato che era già elencata nel catalogo di un vivaio inglese nel 1784, il che "deve pure mettere in dubbio l'Italia come suo paese d'origine". E, aggiungo io, rimettere in gioco la nostra duchessa. Ulteriore enigma è l'ascendenza di questa rosa. Nell'opera già citata, Thomas riporta che "era considerata come un incrocio tra la rosa francese (Gallica) e la Damascena autunnale"; egli però la ritiene piuttosto "una ibrido rosa Cinese - Damascena - rosa Francese" e aggiunge: "Dal colore e dal comportamento nano [...] si può presumere che la rosa Cinese progenitrice in questione fosse la cremisi Cinese di Slater" (Slater's Crimson China). Beales è invece convinto che "nessuna rosa cinese sia comunuqe coinvolta" ma che vi abbiano avuto parte attiva la Rosa x damascena bifera ('Quatre Saisons') per la rifiorenza e la R. gallica officinalis ('Rosa del farmacista') per il portamento ordinato e compatto. Il mistero ha ovviamente sollecitato la curiosità dei rodologhi e suscitato ulteriori ricerche. A fare il punto, e dare la risposta definitiva, è Peter Harkness in The Rose. A Colourful Inheritance (2005). In primo luogo egli ricorda che la rosa Portland è conosciuta sotto ben otto nomi: Rosa paestana, R. 'Portlandica', 'Duchess of Portland', Portland Crimson, 'Monthly Rose', 'Portlandia', 'Portlandica', 'Rosier de Portland'. Quindi riassume lo stato dell'arte così: "Le descrizioni di questa rosa nella letteratura non si contano. Si dice che sia originaria del Dorset, o di Beaconsfield, o forse di Napoli, negli anni '70 o '90 del 1700. Quanto alla sua ascendenza, si dice che coivolga unicamente gallica, oppure una damascena e una gallica, o una cinese e una damascena". Secondo Harkness, tutto questo garbuglio nasce dal fatto che "in realtà ci sono due diverse Portland", una nata in Inghilterra negli anni '70 del Settecento, l'altra introdotta da Dupont, giardiniere dell'imperatrice Giuseppina, all'inizio dell'Ottocento. La differenza salta all'occhio osservando la prima nel giardino della Royal National Rose Society, dove è coltivata sotto l'etichetta 'Duchess of Portland', e la seconda nel giardino parigino della Bagatelle, dove è coltivata come R. paestana. La rosa "inglese" (chiamiamola così per comodità), come risulta da cataloghi di vivai e da testi dell'epoca (come la monografia Roses, pubblicata da Henry C. Andrews nel 1805) nacque nei giardini del duca di Portland a Bulstrode prima del 1775, data in cui è elencata da Weston tra le rose "facilmente reperibili" sotto il nome 'Portland Crimson Monthly Rose'; la stessa data è riportata da Trees & Shrubs Hardy in the British Isles che però la chiama 'Portlandica'. Nel 1782, come ‘Portland’ era presente nel catalogo del vivaio Brunton e Forbes di Birmingham; veniva venduta a uno scellino, prezzo che, secondo Harkness, "suggerisce che non si trattasse di una novità". Intorno al 1785, fece la sua comparsa in Francia. E' identificabile nella rosa della Royal National Rose Society; l'aspetto generale, le foglie, i fiori rosa profondo indicano la parentela con la gallica, mentre la modesta rifiorenza riflette quella con la damascena. Veniamo invece a quella "francese"; l'unica certezza è che André Dupont iniziò a coltivarla nel 1803, quando la ricevette dall'Inghilterra. Nel 1809 era chiamata Rosier de Portland e Redouté la dipinse sotto questo nome. Nel 1811 Claude-Thomas Guerrepain nell'Almanach des Roses ne diede una precisa descrizione esaltandone "la preziosa qualità di fiorire dalla primavera all'autunno" e il bellissimo punto di rosso. E' la rosa di Bagatelle. Il brillante colore scarlatto e la rifiorenza hanno fatto a lungo pensare che uno dei genitori fosse una rosa rossa cinese, anche se l'aspetto generale, le foglie e i cinorrodi mostrano maggiori affinità con la Damascena. Le analisi del DNA di cinque rose Portland, condotte da Olivier Raymond dell'università di Lione, ha mostrato parentele con Damascena, Gallica e Centifolia, ma non con le cinesi. Rimane da capire la ragione del nome Portland e l'eventuale connessione con la seconda o la terza duchessa. Nel 1805, parlando della rosa di Bulstrode, Andrews riferisce che sarebbe stata chiamata così "in onore della defunta duchessa di Portland"; Harkness contesta questa affermazione: a suo parere nel Settecento non era ancora invalsa l'abitudine di dare alle rose il nome di una persona; gli sembra più probabile che i nomi 'Portland' o 'Portlandica' si riferiscano al luogo di origine, la tenuta di Bulstrode dei duchi di Portland. Quanto alla rosa "francese", abbiamo due versioni: una, che abbiamo già visto sotto la penna di Graham Stuart Thomas, pretende che una duchessa di Portland l'abbia portata o ottenuta dall'Italia attorno al 1800; l'altra che Dupont l'abbia ottenuta dall'Inghilterra nel 1803 e battezzata 'Rosier de Portland' in segno gratitudine per la terza duchessa di Portland per averlo aiutato a persuadere l'Ammirigliato, nonostante il blocco continentale, a concedere un passaporto al vivaista John Kennedy per trasportare in Francia questa e altre rose destinate ai giardini della Malmaison . Nessuna delle due storie può essere vera, per la semplice ragione che né nel 1800 né nel 1803 viveva una qualche duchessa di Portland. Sappiamo già che la seconda duchessa, ovvero Margaret Cavendish Bentinck, morì nel 1785. La terza duchessa, ovvero sua nuora Dorothy Bentinck nata Cavendish, morì a sua volta nel 1794, e non ci sarebbe stata una quarta duchessa fino al 1809, quando, con la morte del terzo duca, che non si risposò, il titolo passò al quarto duca e a sua moglie. Inoltre, Dupont non chiamò la rosa 'Duchess de Portland', ma 'Rosier de Portland'; l'ipotesi di Harkness è che l'omaggio fosse diretto al terzo duca di Portland il quale, come Segretario di stato ininterrottamente dal 1794 al 1801, quindi, dopo un breve periodo all'opposizione, dal 1803 Presidente del Consiglio privato e poi Primo ministro, "era certamente nella posizione di aiutarlo a ottenere un passaporto per le sue rose". Anche il nome R. paestana probabilmente non ha alcun rapporto diretto con l'Italia e Paestum; si tratta piuttosto di una semplice reminescenza della letteratura classica in cui le rose di Paestum erano celebrate per la loro bellezza, il profumo, il vivace colore rosso e la rifiorenza autunnale.
La prima metà del Cinquecento, prima che le divisioni religiose e la guerra insanguinassero il paese, fu per le Fiandre un'età d'oro, con un'eccezionale fioritura economica ed artistica. In questo contesto si svilippò anche il gusto per i giardini e le piante rare ed esotiche. Nella progettazione di alcuni di essi fu coinvolto il botanico Carolus Clusius. Dopo aver lavorato come "consulente botanico" per Charles de Saint Omer nel castello di Moerkerke, intorno al 1567 si trasferì a Malines, dove creò e curò il giardino del ricco collezionista Jean de Brancion; forse proprio qui incontrò per la prima volta la giovane nobildonna Marie de Brimeu. Poi la vita (e la guerra) li divisero. Si ritrovarono vent'anni dopo, quando il botanico, lasciata la corte imperiale, viveva a Francoforte, aveva pubblicato molti libri ed era il massimo esperto riconosciuto di piante esotiche, e Marie era diventata la principessa di Chimay e per non rinunciare alla sua fede protestate aveva scelto una vita d'esilio e avea lasciato il marito traditore di quegli ideali. Ora viveva a Leida, dove c'erano molti appassionati di giardini; riprese a scrivere a Clusius, usò tutta la sua influenza per farlo venire a Leida come prefetto dell'orto botanico e non cessò di scambiare con lui lettere e piante anche quando dovette lasciare prima Leida poi i Paesi Bassi. Le sue 27 lettere a Clusius costituiscono una testimonianza storica ed umana eccezionale. A ricordarla (nonostante un piccolo errore) il genere Brimeura, rappresentato anche nella flora sarda. Una donna coraggiosa e un amico ritrovato Con le sue circa 1600 lettere superstiti, l'epistolario di Carolus Clusius costituisce una testimonianza unica della rete che nel secondo Cinquecento univa botanici e amatori di tutta Europa, al di là di ogni frattura politica e religiosa. 377 sono state scritte da Clusius stesso, le rimanenti 1200 gli sono state inviate da circa 335 corrispondenti sparsi in undici paesi; tra di loro, adetti ai lavori come botanici, medici, farmacisti, ma anche un gran numero di appassionati. E appassionate: 110 lettere sono state scritte da 25 donne che, nella maggior parte dei casi, lo interpellavano come esperto di piante rare, chiedevano consigli su come procurarsele e scambiavano con lui semi, talee, bulbi e frutti. Appartenevano tutte all'alta società; le loro lettere sono scritte in francese, tedesco, olandese, mai in latino, la lingua della scienza da cui le donne erano escluse, così come dalle università. Tra queste corrispondenti, per il numero di lettere spiccano l'aristocratica viennese Anna Maria von Heusenstain, con 25 lettere scambiate tra il 1588 e il 1606, e la nobildonna fiamminga Marie de Brimeu principessa di Chimay (ca. 1550-1605) con 27 lettere inviate (nessuna delle risposte di Clusius è conservata). Per l'eccezionalità della sua figura, questa donna, che giocò anche un ruolo politico non irrilevante nelle tormentate vicende dai cui nacque la Repubblica delle Province unite, è sicuramente la più nota e studiata tra le correspondenti di Clusius. Marie apparteneva a una delle principali famiglie dell'aristocrazia francofona delle Fiandre meridionali. La sua prima lettera a Clusius, accompagnata da un dono di melograni e radici di rose muschiate e agrumi, risale al 23 febbraio 1571, quando aveva circa vent'anni e non era ancora sposata; tra le altre cose, la giovane donna ringrazia per l'invio di alcuni semi e ricorda a Clusius la sua promessa di aiutarla a restaurare il suo giardino danneggiato dal maltempo. All'epoca è dunque già appassionata di piante e giardini, e si rivolge al già celebre Clusius - che ha più del doppio dei suoi anni - in tono allo stesso tempo rispettoso ed affettuoso. Probabilmente i due si erano conosciuti a Malines, dove la famiglia di Marie possedeva una casa (e forse il giardino di cui si parla nella lettera), tramite il collezionista Jean de Brancion, presso cui Clusius abitava curandone il giardino. Poi, per vent'anni, la corrispondenza si interrompe. Le lettere intermedie potrebbero essere andate perdute, ma è più probabile che i due si fossero persi di vista. Nel 1573 Clusius fu nominato medico imperiale e lasciò definitivamente le Fiandre; per quasi quindici anni visse tra Vienna e l'Ungheria, per poi spostarsi a Francoforte. Quanto a Marie, nel 1572 ereditò da uno zio la contea di Megen nel Brabante settentrionale; lo stesso anno, o forse alla fine di quello precedente, sposò un esponente dell'aristocrazia militare, Lancelot de Barlaymont; forse visse con lui nel castello di Beauraing nelle Ardenne e ne ebbe due figli, morti nell'infanzia. Intanto era scoppiata la rivolta contro la Spagna; il marito combattè contro i ribelli, si distinse all'assedio di Zichem, ma durante l'assedio di Philippeville si ammalò e morì in giovane età nel 1578. La vedova stava maturando convinzioni politiche e religiose opposte. Fosse l'indignazione per la brutalità delle azioni militari del duca d'Alba (soprannominato il "macellaio delle Fiandre"), oppure lo sgomento per la distruzione delle sue stesse terre - dal 1572 la contea di Megen fu teatro di pesanti combattimenti; il castello, dove probabilmente era nata, fu arso e demolito, e se c'era un giardino, certo non sopravvisse; fatto sta che Marie abbracciò pienamente la causa dei ribelli e si convertì alla fede protestante. Le terre di cui era signora e ciò che aveva ereditato dal marito la rendevano ricchissima; nel 1580 si risposò con Charles III de Croÿ principe di Chimay; il giovane aristocratico aveva dieci anni meno di lei e ne subì a tal punto il fascino da adottarne le scelte politiche e religiose; condivideva anche il suo interesse per le piante e la natura. Per qualche tempo la coppia visse nel castello dei principi di Croy nell'Hainaut, ma anche questo fu danneggiato dalla guerra e, se c'era un giardino, andò certamente distrutto. Intanto la situazione politica andava evolvendo; il nuovo governatore Alessandro Farnese riuscì a riprendere il controllo delle province meridionali che scesero a patti con la Spagna e firmarono l'Unione di Arras che ribadiva la lealtà a Filippo II e al cattolicesimo. Marie e il marito decisero di lasciare segretamente il paese e nel giugno 1582, sfuggendo di misura a un gruppo di cavalieri spagnoli, riuscirono a raggiungere prima Sedan poi l'Olanda. Nel 1583 Charles de Croÿ venne nominato stadtholder delle Fiandre, ma la sua politica moderata lo portò in conflitto con Guglielmo d'Orange; nel maggio 1584 consegnò la città di Bruges ad Alessandro Farnese e ritornò alla fede cattolica. Marie visse queste vicende come un tradimento e decise di separarsi dal marito. Rimase nelle Province unite e visse successivamente in varie città (Middelburg, Delft, Utrecht) finché nel 1590 si stabilì a Leida. Nel 1584, contro le consuetudini, gli Stati Generali stabilirono che la nobildonna - e non suo marito - conservava il pieno controllo dei propri beni. Anche se questa decisione fu all'origine di una controversia legale senza fine con il principe, grazie ad essa Marie poté vivere come donna ricca ed indipendente. Nelle varie case in cui visse successivamente, aveva con sè parenti, amici, dame di compagnia, molti servitori, e per amministrare i suoi beni si avvaleva di segretari, tra cui l'ex predicatore Lieven Calvaert; il fatto che vivesse con lei diede adito a pettegolezzi, scientemente raccolti dal marito che nel 1586 giunse ad organizzare un tentativo di avvelenamento per liberarsene. Non sappiamo se Marie avesse un giardino nelle varie citt olandesi dove visse prima di Leida; probabilmente no, visto che si trattò sempre di sistemazioni precarie e di breve durata. A Leida invece si stabilì in una spaziosa casa sul Rapenburg dotata di un doppio giardino posteriore; solo un muro lo separava dal terreno incolto dove di lì a poco sarebbe sorto l'orto botanico. Qui Marie poté coltivare le piante che tanto amava e strinse amicizia con un gruppo di colte dame che condividevano la stessa passione, tra cui Louise de Coligny, vedova di Guglielmo il Taciturno. Questo circolo prescindeva da differenze religiose: tra le sue più intime amiche c'era anche Stephana van Rossem, che era stata l'ultima badessa del monastero di Rijnsburg smantellato dai protestanti. Marie aveva altri amici con l'hobby del giardinaggio: frequentava le case del mercante Daniel van der Meulen, che come lei aveva un giardino sul Rapenburg, e del patrizio della Zelanda Johannes van Hoghelande, intimo amico e corrispondente di Clusius. Fu probabilmente grazie a queste frequentazioni che nel 1591 riprese a scrivere a quest'ultimo, che le inviò bulbi e semi da Francoforte. La principessa di Chimay giocò indubbiamente un ruolo importante nella venuta di Clusius a Leida. Dovette usare tutta la sua influenza alla corte dell'Aja e negli ambienti universitari per far accettare le condizioni da lui poste - nessun incarico di insegnamento, la disponibilità di un servitore, l'assistenza di un giardiniere -, ma soprattutto fu determinante nel convincere il riluttante botanico ad accettare, nonostante l'età avanzata e i numerosi acciacchi. La nobildonna promise persino di ospitarlo e di mettergli a disposizione metà del suo giardino; e sarà stato forse qui che, in attesa che l'orto botanico fosse pronto ad accoglierli, vennero temporaneamente scaricati i bulbi di tulipano e le piante che Clusius aveva portato con sè da Francoforte. Ammettendo che sia andata così, si trattò di una sistemazione temporanea; poco dopo il suo arrivo, Clusius si stabilì presso una vedova nel Pieterskerkgracht, une via perpendicolare del Rapenburg, dove avrebbe abitato fino alla morte. Egli teneva molto alla propria indipendenza; in una lettera a Camerarius di pochi anni prima scrisse infatti: "A essere sincero, non mi auguro di entrare al servizio di un principe finché sono in grado di mantenermi con le mie entrate, per modeste che siano; perché una persona abituata alla libertà fin dalla prima giovinezza farebbe fatica a dipendere da qualcuno da vecchio". La relazione tra Clusius e la principessa di Chimay non è quella classica protetto-protettore, ma piuttosto un'amicizia tra due persone che condividono la stessa passione. Inoltre, poco dopo l'arrivo del botanico a Leida, Marie dovette trasferirsi a Loo presso all'Aja per essere più vicina alla corte; l'Aja e Leida non sono troppo lontane e non mancarono le visite reciproche, ma soprattutto si intensificò la corrispondenza. Marie scriveva regolarmente a Carolus; le sue lettere seguono per lo più un modello ricorrente: la principessa ringrazia per le piante ricevute, ne chiede altre, riferisce di quelle che non hanno resistito al freddo dell'inverno, racconta dei visitatori che hanno ammirato il suo giardino, si lamenta dei furti (sia lei sia Clusius furono spesso vittime di ladri di piante). Spesso parla della sua salute, sempre più malferma, e si preoccupa di quella dell'amico. Il giardino, di cui è estremamente fiera, è una gioia, anzi "l'unico piacere che oggi ho al mondo". Poi, nel 1600, il distacco più doloroso. Dopo lunghe trattative, Marie si lasciò infine convincere a riconciliarsi con il marito, a patto di mantenere la propria fede e la propria indipendenza. Lasciò dunque i Paesi Bassi per trasferirsi a Liegi, dove però non visse con il marito. Continuò a corrispondere con Clusius, a ricevere piante da lui, a creare giardini. Ma la sua salute, da tempo fragile, continuò a peggiorare, costringendola a trascorrere sempre più tempo in località termali, finché si spense nel 1605, a circa cinquantacinque anni. Clusius, che di anni ormai ne aveva ottanta, le sopravvisse di quasi cinque anni, Com'erano i giardini di Marie de Brimeu? Poiché non li fece mai ritrarre, possiamo ricostruirli soltanto attarverso i cenni contenuti nelle sue lettere a Clusius e le pochissime menzioni che ne fa quest'ultimo nelle sue opere. Secondo Anne Mieke Backer, che ha tentato questa difficile impresa, riflettevano una nuova concezione della natura in cui, all'interesse quasi esclusivo per le piante officinali e a una lora visione dominata dal simbolismo religioso, incominciava a sostituirsi l'interesse per le piante in sè e il godimento per la loro bellezza. Backer fa l'esempio del giglio (Lilium candidum): Clusius gli assegnava un posto centrale nella composizione dei giardini, ma solo per la sua "distinta grandezza e i suoi bei fiori" e non perché fosse una pianta consacrata alla Vergine Maria. Marie, più che una collezionista che si compiaceva di possedere una pianta per la sua rarità - era esattemente l'atteggiamentro del marito principe, che era anche collezionista d'arte e a Beaumont costruì un prestigioso giardino -, era un'amante delle piante, che ricercava per la loro bellezza e per la gioia di disporle nel modo più armonico, in base all'altezza, alla dimensione, al colore e tenendo conto del succedersi delle fioriture. Non si pensi però a un moderno mixed border: il modello cui guardava la principessa era piuttosto quelle delle tapezzerie mille fleurs, nelle quali ciascun fiore spicca sul fondo scuro (quello della terra nuda) e ogni fiore può essere ammirato sia in sè sia come parte di un insieme. Backer propone anche un elenco: ovviamente tulipani e altre bulbose (narcisi, giacinti, Frittilaria meleagris e Fritillaria imperialis, anemoni, ranuncoli,Erythronium dens canis), peonie, diversi tipi di rose, tra cui le rose muschiate, diversi tipi di gigli, Delphinium, cui si aggiungevano piante più comuni e da tempo coltivate, come iris, primule, mughetti, violette, garofani, nontiscordardimé, fiori di trifoglio, pervinche e margherite. C'erano anche piccoli alberi in vaso (melograni e agrumi) che d'inverno venivano portati all'interno. Non c'erano invece fontane, statue, padiglioni, siepi, viali alberati. Quelli di Marie, esule sempre in viaggio, erano giardini temporanei, in cui i fiori e la loro disposizione mutavano da un anno all'altro. Una piccola bulbosa per le fioriture di primavera Questa donna indubbiamente eccezionale è entrata nel numero purtroppo modesto delle dedicatarie di generi di piante grazie a Salisbury, che però incappò in una curiosa confusione. Nel protologo scrive di aver dedicato il genere Brimeura "a Marie de Brimeur, celebre all'epoca di Clusius per l'amore e la coltivazione dei fiori". Ebbene, tra le corrispondenti di Clusius c'erano due donne dal nome quasi uguale: la nobildonna Marie di Brimeu, che già conosciamo, e Marie de Brimeur, moglie del mercante di Anversa Coenraad Schets, che aveva un bel giardino in questa città negli anni '80 ed è citata due volte da Clusius in Rariorum plantarum historia. Per quanto posedesse un giardino con qualche pianta esotica, non era certo "celebre per l'amore e la coltivazione dei fiori"; dunque è indubbio che Salisbury pensasse alla nostra Marie, ma la confuse con la quasi omonima e aggiunse una r di troppo. Brimeura (Asparagaceae) è un piccolo genere di bulbose endemiche della penisola iberica, della Francia meridionale, delle isole del Mediterraneo occidentale, che comprende tre specie: B. amethystina, B. duvigneaudii, B. fastigiata. Hanno strette foglie lineari e fiori a campana con sei lobi, solitamente azzurri. La più coltivata è B. amethystina (talvolta commercializzata con il sinonimo Hyacinthus amethystinus); ricorda abbastanza da vicino Hyacinthoides hispanica e in primavera produce racemi laschi di fiori campanulati in varie sfumature di azzurro e violetto; la forma 'Alba' è bianca. B. duvigneaudii è un endemismo dell'isola di Maiorca. B. fastigiata, la sola specie della nostra flora, è endemica di Sardegna, Corsica e Baleari. Ogni bulbo produce da due a quattro foglie lineari e canicolate più lunghe degli scapi fiorali; i fiori sono raccolti da due a sei in infioresceze subcorimbose con steli cilindrici di colore rossiccio; dal diametro di circa 6 mm, hanno forma campanulata con tepali divisi fino a poco più della metà in sei lacinie con apici acuti. Il colore varia dal bianco al lilacino più o meno intenso con striature longitudinali più scure. Fiorisce da marzo a maggio. In Sardegna è piuttosto comune, ma spesso passa inosservata sia per le piccole dimensioni sia per l'habitat tipico: vive infatti tra gli arbusti al limitare della boscaglia o della macchia mediterranea. I primi orti botanici tedeschi nascono sul modello di Padova a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Tra i massimi protagonisti della loro nascita, il medico e botanico Ludwig Jungermann, che disegnò e curò successivamente l'orto botanico di Gießen, il primo ad occupare ancora parzialmente la sede originale, e quello di Altdorf, celebre per la bellezza e la ricchezza di piante rare. Jungermann fu anche il primo in Germania a scrivere flore locali e a tenere ufficialmente una cattedra di anatomia e botanica. Nella sua prassi didattica, poterono così integrarsi le lezioni teoriche, la dimostrazione delle piante nell'orto botanico e le escursioni nel territorio. È ricordato dal genere di epatiche Jungermannia, dalla storia tassonimica alquanto travagliata. Flore locali ed orti botanici Tra fine Cinquecento e inizio Seicento, in Germania vennero fondati diversi orti botanici universitari che si rifacevano direttamente al modello di Padova. Il primo fu quello di Lipsia, nato nel 1580 forse dalla trasformazione di un precedente giardino monastico, seguito nel 1586 da quello di Jena e nel 1593 da quello di Heidelberg. Travolti dalla guerra dei Trent'anni, nessuno di questi giardini è sopravvissuto. Il primo a trovarsi ancora almeno in parte nella collocazione originale - anche se assai ingrandito e con un aspetto totalmente mutato - è quello di Gießen, la cui fondazione ufficiale risale al 1609. L'università di Gießen (oggi Justus-Liebig-Universität Gießen) era recentissima; nel 1605 alcuni professori luterani del vicino ateneo di Marburg, da poco passato al calvinismo, si spostarono a Gießen dove, auspice il langravio Ludovico V di Assia-Darmstadt, fondarono l'Illustre et principale Gymansium Giessense che nel 1607, ottenuto il brevetto imperiale, si trasformò appunto in università. Come ateneo luterano, il suo scopo principale era formare pastori e funzionari, ma fin dall'inizio ci fu una facoltà di medicina che appunto nel 1609 fu dotata di un hortus medicus, grazie ancora al langravio che a tal fine aveva donato all'università un piccolo giardino di piacere situato presso la torre del castello. A presiederlo e di fatto a crearlo fu chiamato, con un salario di 50 talleri, il candidatus, ovvero dottorando in medicina, Ludwig Jungermann (1572-1653); allievo dell'anatomista Gregor Horstius, egli fu uno dei primi laureati in medicina della facoltà, ottenendo la licenza "summos honores in arte medica" con la tesi Assertiones medicae de catarrho nel dicembre 1610 e il dottorato nell'aprile 1611, con una tesi in cui si esaminava l'efficacia dei decotti di lattuga e ruta per curare l'"amore insano". Jungermann veniva da una famiglia doppiamente illustre. Il padre Caspar Jungermann fu professore di diritto e per ben sette volte rettore dell'università di Lipsia; la madre Ursula Camerarius era figlia dell'illustre umanista e collaboratore di Melantone Joachim Camerarius il Vecchio e sorella del medico e botanico Joachim Camerarius il Giovane. Mentre il padre avrebbe voluto avviarlo a studi giuridici, Ludwig scelse la medicina e la botanica, seguendo l'esempio dello zio materno nonché del compianto fratello maggiore Joachim. Joachim Camerarius (1531-1561) era stato un giovane estremamente brillante; dotato disegnatore, è il più accreditato autore del Camerarius florilegium, lo spettacolare erbario figurato fatto eseguire dallo zio, che lo considerava il suo erede scientifico, ancora più del figlio Joachim Camerarius III. Nel 1588 venne a studiare in Italia e si fece conoscere nell'ambiente dei naturalisti della penisola con il nome italianizzato Gioacchino Giovenio. Visitò Napoli dove fu tra i pochi a vedere il manoscritto di Hernández portato in Italia da Nardo Antonio Recchi e riuscì anche a copiare "con destrezza" alcune figure. Oltre che con lo zio (ci rimane un espistolario di oltre 100 lettere), corrispondeva con altri botanici tra cui Clusius cui inviò numerosi esemplari. Mentre studiava a Padova, fece diverse escursioni botaniche; tra l'altro fu in Tirolo con un altro corrispondente di Clusius, Tobias Roels. Nel 1590 Casabona lo inviò ad accompagnarlo a Creta, ma Jungermann rifiutò. L'anno successivo tuttavia si imbarcò a sua volta per Costantinopoli con quattro connazionali; durante il viaggio, a bordo scoppiò un'epidemia che gli fu fatale. Ludwig, più giovane di lui di undici anni, al momento della sua morte aveva diciannove anni ed era deciso a seguirne le orme. Tuttavia, forse memore della sua sorte, non si allontanò mai dalla Germania e divenne uno specialista della flora locale. Iniziò gli studi accademici a Lipsia, dove iniziò a creare un erbario e a scrivere una flora sulle piante del territorio; terminato entro il 1600 ma rimasto manoscritto (oggi è conservato presso l'università di Erlangen), il suo Viridarium lipsiense spontaneum è considerata la più antica flora locale e cittadina in terra tedesca; elenca e descrive in ordine alfabetico circa 800 piante spontanee di Lipsia e dei suoi dintorni. Jungermann proseguì quindi gli studi a Jena e ad Altdorf, una cittadina universitaria a circa 25 km da Norimberga, dal cui consiglio cittadino dipendeva. Qui strinse amicizia con il coetaneo Caspar Hoffmann (1572-1648), che prima di iscriversi ad Altdorf aveva frequentato le università di Strasburgo, Padova e Basilea, dove era stato allievo di Felix Platter e Caspar Bauhin. Né ad Altdorf né in altre università tedesche esisteva ancora una cattedra formale di botanica; fu dunque al di fuori del curriculum ufficiale che i due amici incominciarono ad esplorare la flora dei dintorni; come aveva fatto a Lipsia, Jungermann trasse da queste ricerche un catalogo che, nel partire per Gießen, affidò a Hoffmann per la pubblicazione. Prima che ciò avvenisse, tuttavia, passarono alcuni anni pieni di impegni per entrambi. Hoffmann era rimasto ad Altdorf e aveva assunto la cattedra di medicina teorica, mentre Jungermann era fortemente impegnato nella direzione dell'orto botanico di Gießen, cui nel 1614 si aggiunse la cattedra di anatomia e botanica, la prima ufficiale in terra tedesca. Inoltre, intorno al 1612 gli fu affidata la redazione dei testi di Hortus Eystettensis, grazie presumibilmente sia alla sua crescente fama come esperto di piante, sia alla relazione familiare con Camerarius, il cui giardino aveva fatto da modello a quello di Eichstätt. Constatando, come professore di medicina, quanto carenti fossero le conoscenze botaniche dei futuri medici, Hoffmann si ricordò di quel vecchio catalogo; gli era evidente che Jungermann non avrebbe potuto occuparsene perché "due lavori allo stesso tempo sono già sufficienti". Con il suo accordo, si decise a "mettere mano nella messe altri". Il risultato fu Catalogus plantarum circa Altorfium Noricum et vicinis quibusdam locis, pubblicato ad Altdorf nel 1615. Nel frontespizio, Jungermann figura come autore, mentre Hoffmann come revisore. Nella lettera dedicatoria al senatore di Norimberga Georg Christoph Volckamer, firmata da Hoffmann, questi sintetizza la genesi e gli scopi dell'opera, ribadisce che il materiale risale a Jungermann, ma che il lavoro redazionale è stato in gran parte svolto da lui. Il catalogo vero e proprio, in ordine alfabetico, è costituito da un elenco di nomi di piante in latino, essenzialmente basato su Phytopinax di Caspar Bauhin; seguono i sinonimi di altri autori (tra più citati Lobel e Dodoens), spesso il nome tedesco e quasi sempre l'indicazione dell'habitat: generica come nei boschi, in luoghi sabbiosi, in luoghi umidi, ecc; o più specifica come "nella Pfaffenthal", "presso la fortezza di Hollenstein". Le piante segnalate come nuove sono sei in tutto, ad esempio Chamaedrys fruticosa nostra, Pseudocamaedrys elatior Jungermannii, di cui si dà una breve diagnosi con le differenze rispetto a specie affini. Possono essere nuove però anche altre specie non segnalate come tali ma non seguite da referenze bibliografiche. Tra di esse parecchi muschi. Jungermann lavorò e insegnò a Gießen fino al 1625, pubblicando ancora due flore locali: Cornucopiae Florae Giessensis e Catalogus herbarum circa Giessam, pubblicate nel 1623 ed entrambe oggi perdute. Nel 1625, nell'ambito della guerra dei Trent'anni, il langravio occupò Marburg e decise di traferire in quella sede storica l'università, chiudendo quella di Gießen. Anche l'orto botanico fu abbandonato. Su invito di Hoffmann, Jungermann preferì trasferirsi a Altdorf; portò con sè quanto poteva delle piante del giardino di Gießen, con le quali creò un hortus medicus privato, Con il sostegno di Hoffmann, riuscì a convincere il consiglio cittadino di Norimberga a finanziare la sua trasformazione in orto botanico universitario (tre anni prima l'accademia di Altdorf si era ufficialmente trasformata in università). Il giardino, noto come Hortus medicus altdorfinus o Doktorgarten, si trovava al di fuori delle mura cittadine, a sud-ovest dell'edificio universitario; a pianta quadrata, era circondato da un muro di arenaria e misurava inizialmente 3000 m2. I due viali principali, incociandosi al centro, occupato da un padiglione, lo dividevano in quattro quadranti di uguali a dimensioni; i due posti a nord, che confinavano con gli edifici universitari, avevano funzione ornamentale, con ramages di gusto barocco disegnati da basse siepi di bosso; le erbe medicinali erano coltivate in quelli a sud, che avevano anche funzione di orto e vivaio. Il giardino cercava dunque di conciliare la funzione didattica con le esigenze estetiche di un giardino di piacere. Nel progetto di Jungermann confluiva un variegato bagaglio di esperienze: il ricordo del giardino di suo zio Camerarius a Norimberga, le suggestioni del giardino vescovile di Eichstätt, il modello degli orti botanici italiani e la sua stessa esperienza come prefetto dell'orto botanico di Gießen. Anche se erano gli anni difficili della guerra dei Trent'anni, nell'arco di pochi anni egli riuscì a creare un giardino rinomato per la sua bellezza e la ricchezza di piante esotiche e rare; alcune le portò con sè da Giessen, altre le ottenne da Eichstätt e da giardini monastici, altre ancora dai suoi numerosi corrispondenti. Molti sono citati nella breve prefazione del catalogo del giardino, Catalogus plantarum, quae in horto medico et agro Altdorphino reperiuntur, pubblicato da Jungermann nel 1635. Sono soprattutto tedeschi, medici o generosi proprietari di giardini privati (tra i pochi nomi che oggi ci dicono ancora qualcosa Gillenius, ovvero Arnold Gille, medico di Cassel, e Wilhelm Ernst Scheffer, medico di Francoforte), ma ci sono anche il prefetto di Leida Adolphus Vortius e Giovanni Pona, "farmacista veronese celeberrimo". Fino fine dei suoi giorni (morì ottantenne nel 1653), Jungermann visse ad Altdorf, come praefectus dell'orto botanico e professore di anatomia e botanica; fu anche più volte rettore. Faceva regolarmente lezione nel giardino e accompagnava i suoi studenti in escursioni botaniche. I contemporanei lo consideravano un "botanico non secondo a nessuno"; rifiutò ripetutamente nomine onorevoli, compresa quella di successore di Mathias Lobel come botanico del re d'Inghilterra. Era un uomo simpatico e affabile, versato anche nella poesia latina. Non si sposò mai; secondo un aneddoto, agli amici che lo esortavano a prendere moglie, rispondeva che lo avrebbe fatto quando qualcuno gli avesse portato una pianta che non conosceva. Alla sua morte lasciò in eredità alla biblioteca di Altdorf il suo notevole erbario di 2000 campioni. Due parole sulle vicende successive dell'orto botanico di Altdorf. Poco dopo la morte di Jungermann, fu ampliato, portando la superficie a 4500 m2 e dotato di un hibernaculum, ovvero una limonaia, che poteva essere riscaldata da due stufe. Fino alla fine del Settecento, fu tra i più ricchi e reputati della Germania. Il suo ultimo catalogo, redatto nel 1790 dal prefetto e professore di botanica Benedict Christian Vogel, che esclude le piante "indigene e volgari", registra 2500 piante esotiche. Una di esse era un'Agave americana che fiorì e fruttificò nel 1798. Dopo il congresso di Vienna, Norimberga, fin ad allora città libera, fu annessa al Regno di Baviera. L'università di Altdorf venne sciolta e il giardino smantellato. Poche piante, tra cui una cicadacea e un grande albero di canfora, furono trasferite nell'orto botanico dell'Università di Erlangen, mentre il grosso andò ad arricchire le aiuole e le serre del recentemente fondato orto botanico di Monaco di Baviera. Un genere con una storia travagliata Come ho anticipato, invece il giardino di Gießen esiste ancora. Dopo la pace di Westfalia, nel 1650, l'università di Gießen fu ripristinata e anche il suo orto botanico tornò a rivivere. All'inizio del Settecento, vi studiò Heinrich Bernhardt Ruppius, che era nativo proprio di quella città. Come Jungermann un secolo prima, studiava la flora locale e nella sua Flora jenensis (1718) si ricordò del suo predecessore dedicandogli il genere Jungermannia, poi convalidato da Linneo in Species plantarum. Si trattava del primo genere di epatiche fogliose ad essere descritto; ha dato il nome alla famiglia Jungermanniaceae e all'ordine Jungermanniales. Inizialmente incluse tutte le epatiche fogliose, poi nel corso dell'Ottocento, in base a specifiche caratteristiche degli organi riproduttivi, ne vennero via via separati numerosi generi. Nella seconda metà del Novecento prevalse invece l'idea di raggrupparli nuovamente in un vastissimo Jungermannia, che comprendeva tra 120 e 200 specie, distribuite in tutto il mondo, in ogni ambiente, eccetto i deserti, le savane e le foreste pluviali tropicali. A cavallo tra la fine del Novecento e gli anni Duemila, gli studi molecolari filogenetici hanno drasticamente mutato questo quadro, dimostrando che Jungermannia inteso in senso largo era un gruppo artificiale che raggruppava specie poco correlate tra loro. A Jungermannia in senso stretto, diviso da Liochlaena e Solenostoma sulla base di caratteristiche come la forma del perianzio e l'assenza di periginio, sono al momento attuale attribuite 9-10 specie prevalentemente distribuite nelle zone temperate dell'emisfero boreale. Una delle più diffuse è J. atrovirens, presente anche nella nostra flora; caratterizzata dal colore verde scuro che le dà il nome, è una specie alquanto variabile che cresce in una varietà di situazioni su suolo calcareo, in luoghi umidi o anche come acquatica in laghi e torrenti; dioica, ha foglie ovoidali concave che avvolgono gli steli da eretti a prostrati e può formare densi tappeti erbosi. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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