Nel Cinquecento la creazione dei primi orti botanici imprime una svolta allo studio delle piante. Accanto a quelli pubblici, nati in ambito universitario, come quelli di Pisa e Padova, anche giardini privati ebbero talvolta un ruolo nella (ri)nascita dell'interesse per la botanica. Ne è un esempio il giardino della Montagnola, creato a Napoli da Gian Vincenzo Pinelli intorno alla metà del XVI secolo, grazie al quale si formò un vivace circolo di studiosi e appassionati. Un giardino e una corrispondenza internazionale Il nome di Gian Vincenzo Pinelli è noto agli studiosi di Galileo e ai bibliofili. Trasferitosi a Padova dal 1558, attratto da quella celebre università, vi creò una immensa biblioteca che, almeno in parte, venne acquistata dal cardinal Borromeo andando a costituire uno dei fondi più importanti della Biblioteca ambrosiana; raccolse attorno a sé un importante circolo di intellettuali, fu il primo ospite di Galileo che poté avvalersi della sua notevole collezione di volumi di ottica; fu in corrispondenza con il fior fiore degli intellettuali europei. Ma prima di tutto questo, nella sua giovinezza napoletana, Pinelli fu veramente un "giovane meraviglioso". Di salute cagionevole, aggravata da un grave incidente a un occhio, fin da bambino si dedicò attivamente allo studio, acquisendo una cultura vastissima e poliedrica. Le cospicue risorse economiche della famiglia (il padre era un mercante genovese trasferitosi a Napoli per meglio curare i propri interessi commerciali) gli permisero di avere i migliori maestri: il filosofo e letterato napoletano Gian Paolo Vernaglione per la cultura classica e le lingue latina e greca; il celebre compositore fiammingo Filippo de Monte per la musica. I suoi interessi includevano anche le scienze: i problemi di vista lo spinsero a studiare ottica; le piante medicinali esotiche che affluivano al porto di Napoli, uno dei principali del Mediterraneo, lo avvicinarono alla medicina e botanica. Fu così che intorno alla metà del secolo il giovanissimo Pinelli fece impiantare in una proprietà della famiglia fuori delle mura della città, sulla collina dei Miracoli in località Montagnola, un giardino botanico privato, sul modello di quello che pochi anni prima Ghini aveva creato a Pisa. Secondo le testimonianze dell'epoca, comprendeva specie sia medicinali sia ornamentali, ed era ricco di essenze rare ed esotiche. Forse grazie a Ghini, Gian Vincenzo entrò in contatto con il suo allievo prediletto, Bartolomeo Maranta, che rientrato a Napoli da Pisa intorno al 1555, divenne il suo maestro di medicina e botanica, nonché il curatore del giardino. In realtà, fu un arricchimento reciproco: se Pinelli si giovò della grande competenza di Maranta, quest'ultimo fu stimolato dalle intelligenti conversazioni con il dotatissimo allievo. La frequentazione quotidiana del giardino della Montagnola permise al botanico di mettere alla prova le conoscenze apprese alla scuola di Ghini e di creare un vero e proprio metodo per il riconoscimento dei semplici, esposto in Methodi cognoscendorum simplicum libri tres (1559), che volle dedicare a Pinelli (al tempo ventitreenne). Maranta non era il solo frequentatore di quel favoloso giardino; un altro abituè fu il farmacista Ferrante Imperato che ne ottenne esemplari per la sua collezione e rese omaggio a Pinelli nella prefazione della sua Historia naturale, dove lo celebra come fondatore della scuola naturalistica napoletana. Tuttavia nel 1558 Gian Vincenzo riuscì finalmente a convincere il padre a lasciarlo partire per Padova. Non sappiamo quale sorte avesse il giardino dopo la sua partenza; pare che per qualche tempo fosse affidato alla cura di Maranta che tuttavia a sua volta lasciò Napoli a più riprese (e per un certo periodo, nel 1562, subì anche il carcere dell'Inquisizione). Probabilmente, lontani il proprietario e il curatore, il giardino languì e fu abbandonato. Non di meno, anche a Padova Pinelli continuò a interessarsi di scienze naturali; oltre alla ricchissima biblioteca, considerata la maggiore del tempo, creò anche una collezione di antichità e di storia naturale; anche la casa padovana aveva un giardino ricco di piante rare. Soprattutto, fu l'animatore di una rete di studiosi europei, che consentì di collegare gli esponenti dell'umanesimo e della ricerca scientifica italiana con gli studiosi d'oltralpe. La sua stessa casa - meta irrinunciabile degli intellettuali stranieri in visita in Italia - divenne in un vero centro di smistamento da cui transitavano lettere, libri, pacchi di reperti. Ad esempio, Imperato si rivolse a lui per far pervenire un pacco (che conteneva tra altri esemplari una collezione di semplici essiccati) al botanico tedesco Camerarius; e a Pinelli fece spesso ricorso per procurasi reperti rari per il suo museo. Fu sempre Pinelli a mettere in contatto Clusius con Imperato e Aldrovandi. Anche Gessner e i fratelli Bahuin furono tra i suoi contatti. Dopo aver fondato in giovinezza un giardino, nella maturità Pinelli fu dunque uno dei principali tramiti tra la botanica italiana e quella europea. Questi i suoi meriti botanici; qualche informazione in più sulla vita del poliedrico erudito, che fu cultore di molte materie ma non scrisse neppure un libro, nella sezione biografie. Pinellia, un drago verde dalla Cina Al fervore di studi della Napoli rinascimentale, seguì una lunga pausa. Bisognò attendere il Settecento perché rifiorissero gli studi di botanica e addirittura il 1807 perché Napoli avesse il suo orto botanico. Per una singolare coincidenza, sorse proprio in località Montagnola, dove 250 anni prima Pinelli faceva coltivare il suo orto dei semplici. Se ne ricordò Michele Tenore, primo prefetto dell'orto napoletano, nell'agosto del 1839, quando creò un nuovo genere, staccandolo da Arum. Nella comunicazione all'Accademia reale delle scienze si dichiara deciso a imitare l'esempio dei botanici di tutte le nazioni che quasi ogni giorno creano nomi in onore dei "più distinti cultori della scienza delle piante". Quindi aggiunge: "Di simili omaggi noi scrittori della Penisola mostrar ci dobbiamo più teneri, come quelli che meno frequenti occasioni avendo di tributarli, una schiera non meno numerosa d'illustri nomi negli annali della scienza registrati troviamo, che ne attendono tuttora il meritato favore". La sua scelta cadde dunque su Pinelli, di cui Tenore ricorda i meriti come fondatore del giardino della Montagnola, prima istituzione di questo tipo in Napoli. Nacque così il genere Pinellia della famiglia Araceae. Pinellia è un piccolo genere endemico dell'Asia orientale (Cina, Corea, Giappone) che comprende nove specie, con centro di biodiversità in Cina. Alcune di esse sono relativamente conosciute anche da noi come piante ornamentali, prima fra tutte la famigerata P. ternata. Famigerata perché questa erbacea, per quanto bella e gradevole, si dimostra fin troppo espansiva e volonterosa, tanto da essere ormai considerata una pericolosa infestante. Così, l'anno scorso l'orto botanico di Torino ha chiamato a raccolta amici, studenti, volontari per eradicarla dalle sue aiuole. Eppure in Cina è una specie di notevole importanza etnobotanica, utilizzata nella medicina tradizionale nel trattamento di svariate malattie. Più controllabili e (a mio parere) più attraenti altre specie: in particolare la giapponese P. tripartita, con foglie trifogliate con venature molto evidenti e uno spadice lunghissimo, verde acido, che le ha guadagnato il nome di Green Dragon. Notevole anche il fogliame di P. pedatisecta, che forma una grande ventaglio di lunghe foglioline lanceolate, di aspetto molto esotico. Un po' meno diffusa è la piccola P. cordata, che in alcune varietà ha foglie a freccia o cuoriformi piacevolmente marmorizzate. Qualche approfondimento nella scheda.
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La prima immagine a stampa (1599) di una Wunderkammer, una camera delle meraviglie, immortala il Museo di Ferrante Imperato, farmacista napoletano, collezionista, studioso di scienze naturali con particolari interessi per la geologia, creatore di un immenso, misterioso e sfortunato erbario. A fine Settecento, l'ancor più sventurato botanico napoletano Domenico Cirillo gli dedicherà il genere Imperata. Un grande museo napoletano Nel Cinquecento, con la rinascita degli studi naturalistici, inizia anche il collezionismo dei naturalia, oggetti più o meno rari e curiosi tratti dai tre mondi della natura (minerali, animali, piante). Le prime collezioni private, note come "Teatri della natura", furono create da scienziati, medici e farmacisti. Nate a scopo di studio, furono comunque segnate dal gusto del meraviglioso, dell'esotico e dello stravagante. Quale aspetto potessero avere lo vediamo dall'illustrazione che apre l'Historia naturale di Ferrante Imperato, creatore di un celebrato museo presso la sua abitazione napoletana (che si trovava in piazza santa Chiara, nei pressi di palazzo Gravina, e non nello stesso palazzo, come si dice in molti siti). L'immagine ci mostra tre pareti della sua "camera delle meraviglie"; su quella di sinistra, e in parte su quella di fondo, illuminata da una grande finestra, una elegante scaffalatura in legno custodisce scatole, sacchetti e boccette; sulla parete di fronte, una libreria con imponenti volumi in folio; nella parte alta delle scaffalature, uccelli impagliati; la parete di fondo e il soffitto sono letteralmente tappezzati di animali, soprattutto marini, tra tutti spicca un coccodrillo. In primo piano, sulla destra un giovane (probabilmente Francesco, figlio di Ferrante Imperato) mostra la collezione a due visitatori, elegantemente vestiti alla spagnola. Sul fondo, un po' in disparte, un quarto personaggio, che potrebbe essere un terzo visitatore o lo stesso Ferrante Imperato (è vestito con la stessa pomposa eleganza dei "turisti", ma non porta la spada, privilegio dei nobili). Insieme a quelli allestiti da Ulisse Aldrovandi a Bologna e da Francesco Calzolari a Verona, il museo napoletano di Imperato era noto in tutta Europa ed era meta di numerosi visitatori. Secondo le testimonianze dell'epoca, comprendeva dodicimila reperti tratti dai tre regni della natura (minerali, fossili, pietre preziose e gemme, terre, coloranti, conchiglie, animali imbalsamati, pesci e animali marini essiccati, oli, inchiostri, profumi, balsami e resine, erbe secche e semi) e alcuni artificialia, oggetti curiosi creati dall'uomo, che Imperato parte aveva raccolto personalmente nei suoi viaggi nel sud d'Italia, parte aveva acquistato alla fiera di Francoforte - che a quanto pare frequentò assiduamente -, parte aveva ottenuto come dono o in scambio da altri membri della grande rete che raccoglieva i naturalisti europei. Fondato probabilmente intorno al 1566 - come si deduce dal contratto con gli stipettai che realizzarono i mobili - nacque dapprima dalla stessa professione di farmacista. Lo speziale-farmacista, un professionista che non aveva formazione universitaria ma un vasto sapere pratico, acquisito dopo un lungo apprendistato regolato dagli statuti della propria corporazione, preparava le medicine prescritte dai medici, partendo dai semplici: non solo erbe, spezie e altri prodotti di origine vegetale come resine e balsami, ma anche minerali e persino alcuni animali (la carne di serpente era un ingrediente indispensabile della celebre teriaca). La sua bottega includeva perciò un vero e proprio laboratorio, con mortai, alambicchi e altre attrezzature per pestare, impastare, distillare i preparati "galenici". Non si vendevano solo droghe medicamentose, erbe medicinali e preparati farmaceutici, ma anche quei prodotti che in futuro spetteranno al droghiere: spezie alimentari; candele, cera, miele, zuccheri e conserve; carta, inchiostro e colori per la pittura; insetticidi e veleni per i topi; profumi, acque distillate e belletti... Non stupisce dunque che due farmacisti di successo come Imperato e Calzolari abbiano trasformato le loro botteghe in veri e propri musei. Le due istituzioni erano piuttosto simili: entrambe si trovavano al primo piano, sopra il negozio, comprendevano una galleria di ritratti di scienziati illustri e la vera e propria camera delle meraviglie; quello di Imperato comprendeva anche un terrazzo con un piccolo giardino botanico pensile. Sia Calzolari sia Imperato erano inseriti nel circuito dei naturalisti europei e italiani, da cui ricevettero molti materiali per le loro collezioni, e godevano di un notevole prestigio personale. Ma mentre il veronese si accontentò di essere un farmacista, Imperato nutriva maggiori ambizioni; la sua bottega era un vero e proprio laboratorio, in cui lui stesso e altri studiosi potevano condurre ricerche e esperimenti. Celebre la sua collaborazione con Bartolomeo Maranta, il cui frutto fu Della theriaca et del mithridato libri due, firmato dal solo Maranta ma nato dal sodalizio scientifico tra i due. Come naturalista, l'interesse principale di Imperato andava ai minerali e alla geologia: osservatore attento del territorio campano, studiò gli affioramenti geologici, descrisse con esattezza le serie stratigrafiche osservate nelle cave di pozzolana, comprese e spiegò correttamente la natura dei fossili, il ruolo delle acque nel modellamento nel terreno, l'origine della salinità marina. Espose le sue ricerche in un vasto trattato, Dell'Historia naturale, pubblicato nel 1599 a cura del figlio Francesco, in cui studiò terre, acque, aria, minerali, metalli, erbe e animali soprattutto dal punto di vista della loro utilità per l'uomo. Alle citazioni degli autori del passato vi affianca i risultati delle sue osservazioni, spesso in dissenso con le idee ricevute e ricche di intuizioni corrette. Un erbario leggendario e sfortunato A fare la parte del leone nel trattato sono le terre, i minerali, i metalli. A animali e piante, forse per non entrare in competizione con ammirati studiosi come Mattioli, Imperato dedicò solo gli ultimi due libri; vi compiono una manciata di piante per lo più officinali, nuove, di identificazione discussa o poco note. Ad esempio, vi troviamo una delle prime segnalazioni della melanzana rossa (Solanum aethiopicum). Eppure la botanica rientrava tra gli interessi principali del poliedrico studioso e il suo erbario costituiva uno dei punti di forza del Museo. Ci sono giunte informazioni contrastanti sulla sua consistenza: le piante, sistemate su fogli di carta di formato in folio con un particolare trattamento che conservava i colori naturali, erano raccolti in grandi volumi, dieci secondo alcune testimonianze, 80 secondo altre. Dopo la morte di Imperato (avvenuta dopo il 1615), il figlio Francesco ne custodì l'eredità, incrementando addirittura le raccolte. Le generazioni successive tralasciarono invece il museo: le collezioni furono abbandonate e disperse, probabilmente anche in seguito all'epidemia di peste che devastò Napoli nel 1656. Nel Settecento i 9 volumi superstiti del grande erbario pervennero a Sante Cirillo, medico, botanico, membro della Royal Society, che li trasmise al nipote, il grande botanico Domenico Cirillo. Costui partecipò attivamente alle vicende della Repubblica partenopea; dopo il crollo della repubblica e il rientro dei Borbone, fu arrestato, processato e condannato a morte. Il giorno stesso della sua esecuzione, il governo borbonico permise a una folla di fanatici sanfedisti di saccheggiarne la casa, distruggendo molti scritti e materiali scientifici di inestimabile valore, incluso l'erbario di Imperato. Fortunosamente, si salvò un solo volume, che pervenne a uno storico locale, Camillo Minieri Riccio, e nella prima metà dell'Ottocento fu venduto alla Biblioteca nazionale di Napoli, dove è oggi custodito. Il volume superstite, di 536 pagine, comprende 442 esemplari. Supponendo vera l'informazione secondo la quale l'erbario originariamente fosse composto da 80 volumi, e ipotizzando che ciascun volume fosse di dimensioni analoghe, si arriverebbe alla favolosa cifra di 35.000 esemplari secchi. Per capirne l'enormità basti pensare che il coevo erbario di Cesalpino (del 1563) contiene 768 esemplari e quello di Caspar Bauhin (il più grande dell'epoca) ne raccoglieva circa 4000. Anche se la cifra fosse fantasiosa, e fosse da accettare l'ipotesi più prudente di 10 volumi, l'erbario rimarrebbe comunque il più imponente del suo tempo. Testimonianze dell'epoca ci dicono che era ricco di piante esotiche, ottenute da altri studiosi o acquistate a grande prezzo; Imperato avrebbe addirittura finanziato un viaggio in India per procurarsene alcune. Per maggiori informazioni sulla vita di Imperato, si rimanda alla biografia. Imperata, una bella invasiva Parti dell'erbario di Cirillo sfuggirono alla devastazione sanfedista e passarono al botanico Vincenzo Petagna (1730–1810). Mescolati ad essi, si trovano circa 170 esemplari di provenienza sconosciuta, che in base a recenti analisi potrebbero aver fatto parte dell'erbario di Imperato. Alcuni di essi sono storicamente importanti, perché costituiscono i tipi su cui si basò Cirillo per stabilire denominazioni binomiali, alcune delle quali ancora accettate. Fu proprio su uno di questi esemplari (da lui denominato Imperata arundinacea, oggi I. cylindrica) che Cirillo stabilì il genere Imperata, dedicato all'illustre predecessore, pubblicato nel secondo volume di Plantarum rariorum regni neapolitani (1788-1792). Imperata è un piccolo, ma diffuso genere di erbe tropicali e subtropicali (famiglia Poaceae). Sono erbe perenni rizomatose, con steli solidi, eretti e infiorescenze setose, cui si deve il nome comune inglese satintail "coda di raso". Oggi le si attribuiscono undici specie, diffuse nelle Americhe, in Asia,in Africa, in Micronesia e in Papuasia, dopo il distacco di altre specie, assegnate a generi affini (Miscanthus, Saccharum, Lagurus, Cinna). La specie più nota, I. cylindrica, è ubiquitaria: originaria dell'Asia, del Sud Africa e delle isole del Pacifico, è stato introdotta nell'Europa meridionale e in America, dove spesso si è naturalizzata, diventando a volte invasiva. Nei paesi originari è invece una specie di estrema utilità: è estesamente utilizzata per consolidare aree litoranee sabbiose e altri terreni franosi; gli steli secchi sono utilizzati per ricoprire i tetti, intrecciare tappeti e borse, fare la carta. Alcune cultivar sono coltivate per il valore ornamentale; la più diffusa nei giardini è la giapponese I. cylindrica 'Red Baron', con foglie rosse. Qualche informazione in più nella scheda. Imperato è anche ricordato da una specie di zafferano, Crocus imperati, endemismo presente esclusivamente nell'Italia centrale e meridionale. Se pensate che le calceolarie si chiamino così perché i loro singolari fiori assomigliano a una pantofola, in latino calceolus, non sbagliate. Ma molto probabilmente, il vecchio Linneo (e prima di lui il padre Feuillée) volle fare un gioco di parole e prendere due picconi con una fava: chiamò quel genere di piante sudamericane Calceolaria non solo per la forma dei loro fiori, ma per rendere omaggio a un altro protagonista della botanica rinascimentale, il farmacista veronese Francesco Calzolari. Esplorando il Giardino d'Italia Parlare di Francesco Calzolari vuol dire parlare del Monte Baldo. Il Baldo è un massiccio montuoso che separa il lago di Garda e la provincia di Verona dal Trentino, il bacino del Mincio da quello dell'Adige, celebre per la grande varietà floristica, che gli ha guadagnato il soprannome di Hortus Italiae, il giardino d'Italia. E' una sorta di orto botanico naturale in cui si susseguono almeno quattro fasce floristiche e climatiche: la fascia mediterranea, estesa lungo le rive del Garda, con la coltivazione dell'olivo e degli agrumi e essenze tipicamente mediterranee, come il leccio, l'alloro, il rosmarino, lo scotano; la fascia montana caratterizzate da boschi di faggio, tiglio, carpino nero, abete bianco, larice e peccio, e più in alto, oltre i 1000 metri, praterie ricche di erbe; la fascia boreale, dominata dal pino mugo e caratterizzata da fioriture vistose e dalla presenza di molti endemismi, come l'anemone del Baldo, Anemone baldensis; la fascia alpina, la più elevata, con la vegetazione rupestre delle cime più alte, tra i 2000 e 2200. La varietà di altitudine, esposizione e suolo crea un'infinità di microclimi e nicchie ecologiche più o meno vaste, ciascuna con una flora caratteristica; ma facciamolo raccontare da Francesco Calzolari stesso: "Cotanta è poi nello stesso monte la varietà dei luoghi e delle cose, che troppo lungo sarebbe tutte con ordine ricordarle. Imperciocchè vi sono valli non picciole in esso di vivo masso, erte, e inchinate, e scheggiose, e forte sparute; così viceversa praterie di pascoli assai pingui ed ampie, smaltate di varia spezie d'erbe e di fiori, e alcune di loro piane ed ombrose, ed altre inchinate ed apriche. [...] E per non dilungarmi lascio da parte le frondose e folte selve di faggi, di querce e d'elci, e alcune di soli castagni, et altre in cui vengono i silvestri pini, i larici e gli altissimi abeti. Del resto che dirò del variare dell'aria e del cielo! Cose mirabili certamente! conciossiachè quelli che tutta cotesta montagna van discorrendo, provan dell'aere, anche a brevi intervalli, grande variazione; per modo che sembra a parecchi di aver cambiato clima, non che paese, e ciò perché questa parte è volta al levar del sole, quella al cadere; alcuna dal sole è abbruciata, ed altra a perpetua ombra soggiace. Qua il sito è freddo in tutta la state per neve e per gielo; là poi per calore divampa. A certe altre parti quasi per tutto l'anno v'ha una temperatura da primavera; per la quale la diversità di luoghi e di siti la cotanto diversa copia di piante in questo terreno germoglia, che non più in nessun altro d'Italia." Di questo orto botanico naturale, Francesco Calzolari si autonominò esploratore e prefetto. Erede di una ben avviata farmacia che sorgeva proprio sulla piazza delle Erbe di Verona, allievo e amico di Luca Ghini, sulle pendici del Baldo andò a cercare le erbe medicinali che altri coltivavano negli orti botanici, con le quali mise a punto una teriaca, elogiata da Mattioli. In contatto con molti dei bei nomi della botanica rinascimentale italiana, organizzò molte spedizioni di esplorazione scientifica della montagna, la più celebre delle quali avvenne nel 1554 e vide la partecipazione, insieme a Calzolari, di Ulisse Aldrovandi, Luigi Anguillara e Andrea Alpago. Una dozzina di anni dopo (1566) l'esperienza si tradurrà nel più noto scritto di Calzolari, Il viaggio di Monte Baldo, una specie di guida floristica del massiccio montuoso, con un puntiglioso elenco delle sue specie e della loro localizzazione. E' un'operina di appena 16 pagine, famosa per essere la prima flora locale in cui si indica l'habitat di ogni specie; qui e nelle sue lettere, il farmacista veronese nomina ben 450 specie diverse che crescevano tra Verona e la cima del Baldo. Una ricchezza che permane: nel bel sito del Parco naturale del Monte Baldo ne sono fotografate e descritte 104. All'esplorazione del monte Baldo (un'area ricca anche di fossili e particolari formazioni geologiche) risale anche la passione di Calzolari per la raccolta di oggetti naturalistici. Nel corso degli anni egli mise insieme un'imponente collezione che sistemò al primo piano della sua abitazione, sopra il negozio di speziale, un vero e proprio museo suddiviso in tre locali: il primo conteneva i ritratti dei più importanti scienziati e medici del suo tempo; il secondo vasi e alambicchi per la distillazione; il terzo, il museo vero e proprio, con spezie, piante, minerali, fossili e curiosità naturali di vario tipo sistemati in teche bene ordinate o appesi scenograficamente al soffitto. Visitato e ammirato dagli scienziati in visita a Verona, il Museum Calceolarium fu uno dei più importanti gabinetti di curiosità del Rinascimento italiano, accanto al Teatro della Natura di Aldrovandi, al Museo allestito a Napoli da Ferrante Imperato, alle collezioni naturalistiche del Granduca di Toscana. Al Baldo è legata anche la pagina più tragica della vita del farmacista veronese: mentre su "alte et asprissime pendici" del monte era alla ricerca di erbe rare per la farmacia paterna, il figlio maggiore, Angelo, a soli 28 anni morì in seguito a uno dei primi incidenti alpinistici ricordati dalla letteratura, dopo venti giorni di penosa agonia. Altre informazioni sulla vita di Calzolari nella sezione biografie. Calceolariae, scarpette dai colori del sole Il genere Calceolaria fu creato da un sacerdote francese, Louis Feuillée, che tra il 1708 e il 1711 esplorò l'America meridionale. Nell'Histoire des plantes medicinales qui sont les plus en usages de l'Amérique meridionale, descrisse due specie cilene: Calceolaria salviae (probabilmente da identificare con C. integrifolia) e C. foliis scabiosae (presumibilmente C. tomentosa). Feullée aveva in mente la forma del fiore, simile a una babbuccia, ma intendeva anche rendere omaggio a Calzolari (la forma latina del cui cognome è Calceolarius). Nel 1770, in Sistema naturae, Linneo riprese e ufficializzò il nome, e il gioco di parole: a forma di pantofola / dedicata a Calzolari. Il genere Calceolaria, un tempo assegnato alla famiglia Scrophulariaceae, oggi appartiene a una famiglia propria (Calceolariaceae); molto vasto, comprende circa 250 specie americane, distribuite tra il Messico meridionale e la Terra del fuoco, e nettamente distinte in due gruppi: il primo, distribuito dal Messico al Perù, comprende specie tropicali, per lo più andine; il secondo, presente in Cile e Argentina, comprende specie rustiche delle regioni temperate e fredde; alcune specie di particolare fascino vivono nella fredda Patagonia e si spingono addirittura nelle isole Falkland; quelle più note sono erbacee, annuali e perenni, ma alcune sono arbusti alti anche 4 metri. Nei nostri giardini sono presenti soprattutto due gruppi di ibridi: le bizzarre e coloratissime Calceolariae erbacee, note come C. x herbeobryda, con vistosi fiori a palloncino nei colori più caldi e solari (giallo, arancio, rosso, mattone, talvolta bicolori, picchettati e screziati) coltivate soprattutto in vaso o in appartamento; i più alti e robusti ibridi arbustivi C. x fruticohybrida con fiori più piccoli, gialli, utilizzati per lo più come piante da aiuola. Purtroppo sono meno diffuse le perenni rustiche di origine cilena e argentina, alcune delle quali sono esigenti piante da collezionisti da riservare alle serre alpine, ma altre, almeno nel nord Italia, si adatterebbero molto bene alla coltivazione in giardino roccioso, purché protette dalle piogge invernali. Curiose e inconfondibili per la singolare forma dei fiori, le Calceolariae sono anche interessanti per alcune particolarità biologiche; il labbro inferiore della corolla di molte specie (circa l'80 % del genere) è dotato di tricomi ghiandolosi, detti eleofori, che secernono oli non volatili, ricercati come ricompensa dagli impollinatori, gli imenotteri del genere Chalepogenus. Le Calceolariae sono tra le poche angiosperme a utilizzare questa strategia di impollinazione e a produrre questo tipo di oli. Altre informazioni nella scheda. Nella soffitta della casa di campagna della sua famiglia, un bambino russo di otto anni scopre un tesoro: una raccolta di vecchi, polverosi libri di entomologia. Il più affascinante di tutti è un grande in folio, con meravigliose immagini dai colori vividi, che ritraggono piante esotiche dalle curve sinuose, tra le quali si insinuano, quasi in posa, bruchi, crisalidi, farfalle e altri insetti. Qual bambino si chiamava Vladimir Nabokov, da adulto diventerà uno scrittore famoso e, proprio grazie a quell'incontro, un esperto di lepidotteri. Quel libro era Metamorphosis Insectorum Surinamensium, "La metamorfosi degli insetti del Surinam", l'opera più celebre della pittrice e naturalista Maria Sibylla Merian. Giovinezza "normale" di un'artista All'epoca - siamo all'inizio del '900 - l'artista era da tempo dimenticata, al contrario dei suoi tempi, quando proprio quel libro le assicurò l'attenzione degli studiosi, ma soprattutto dei "curiosi", ovvero i collezionisti di oggetti naturali, di mezza Europa. E di oggi, quando, soprattutto grazie agli studi di genere, è stata riscoperta e esaltata come antesignana dell'ecologia e della scienza al femminile. Maria Sibylla, nata a Francoforte nel 1647 da una famiglia di artisti, ricevette la sua formazione soprattutto dal patrigno, il pittore Jacob Marrel, specialista in nature morte di fiori, perfezionatosi in Olanda. Non c'è niente di inconsueto nella sua giovinezza, almeno per una giovane donna del suo ambiente: a diciotto anni si sposò con un apprendista del patrigno, Johann Andreas Graff (specializzato invece in prospetti architettonici), ne ebbe presto una prima figlia, aiutò il ménage familiare dando lezioni di pittura e ricamo a ragazze di buona famiglia e dipingendo lei stessa il soggetto ritenuto più consono a un pennello femminile, ovvero i fiori. Convenzionale è anche la sua prima opera: Blumenbuch, pubblicato tra il 1675 e il 1680 in tre serie di 20 tavole ciascuna, poi ripubblicate tutte insieme nel 1680 sotto il titolo Neues Blumenbuch. Si tratta di un florilegio - dello stesso genere del Jardin du Roy di Pierre Vallet - che ritrae in modo piacevole e accattivante le più amate piante da fiore, in particolare bulbose, come modelli facili da riprodurre per ricamatrici e pittori dilettanti. Merian non ha pretese di originalità: molte tavole sono adattamenti di dipinti del patrigno oppure del pittore francese Nicolas Robert; il suo lavoro consiste soprattutto nel semplificare le linee e nel creare contrasti e gradazioni di colore più facili da rendere con ago e filo. E' un'opera commerciale (anche se non ne vennero tirate molte copie), venduta in un'edizione economica in bianco e nero e in un'edizione più costosa, con le tavole acquarellate a mano dall'autrice; anzi, pagando ancora un po' di più, erano disponibili copie realizzate secondo la tecnica della controstampa (ricavata posando un foglio su una stampa fresca, in modo da ottenere un'immagine specularmente invertita rispetto alla stampa, quindi riproducente la matrice). L'impressione realizzata con la controstampa è molto più sfumata e morbida rispetto a una normale stampa calcografica, particolarmente adatta per essere dipinta ad acquarello con i colori sfumati prediletti dalla pittrice. Niente di inconsueto, abbiamo detto. Tranne un particolare: fin dall'età di tredici anni Maria Sibylla coltivava una passione senz'altro singolare. Incuriosita dai bachi da seta che si allevavano nella sua città, cominciò a chiedersi se anche gli altri insetti condividessero quelle trasformazioni o "metamorfosi" (da uova minuscole a bruchi voraci a bozzoli setosi a farfalle); iniziò così a raccogliere, allevare e collezionare insetti. Siamo a metà Seicento e la scienza incominciava appena a sfatare l'opinione più diffusa, risalente niente meno ad Aristotele: quella della generazione spontanea, secondo la quale insetti, vermi e altri piccoli animali nascerebbero dal fango o da sostanze in putrefazione. Nonostante i bachi da seta e la loro "muta" fossero sotto gli occhi di tutti, bruchi, crisalidi e farfalle erano generalmente ritenuti animali diversi. Tra il 1662 e il 1669 Johannes Goedaert (anche lui, come Merian, naturalista e pittore-incisore, ma seguendo il cammino inverso, dalla scienza all'arte e non viceversa) in Metamorphosis et historia naturalis insectorum disegnò bruchi, pupe e insetti adulti, ma era ancora un assertore della generazione spontanea, convinto che nel passaggio dal bruco alla crisalide all'insetto adulto si verificasse una specie di trasformazione alchemica, con la morte dello stadio precedente e la rinascita, dai suoi resti, dello stadio successivo. La prima confutazione scientifica della generazione spontanea risale al 1668 e si deve a Francesco Redi (Esperienze intorno alla generazione degli insetti), con i suoi studi sulle mosche carnarie; è dell'anno successivo l'Historia generalis insectorum di Jan Swammerdam in cui per la prima volta vengono definite con precisione le fasi della vita degli insetto: uovo, larva, pupa, adulto. Medico e anatomista, Swammerdam basò le sue conclusione su approfondite indagini anatomiche, avvalendosi del microscopio. Erano tuttavia studi recentissimi, noti a pochi scienziati; l'opinione generale dell'ambiente in cui viveva Maria Sibylla era che gli insetti fossero creature demoniache, segni della collera di Dio, da tenere lontani con preghiere e esorcismi. La mania della ragazza di allevare questi flagelli era considerato dai suoi parenti, in particolare la madre, un passatempo inadatto a una rispettabile ragazza da marito o a una distinta madre di famiglia, sia pure di una famiglia di artisti. Ma lei continuò a coltivare questa passione e il suo amore per gli insetti, in qualche modo, fa capolino nel Blumenbuch: i protagonisti sono i fiori, ma in qualche tavola una farfalla si posa su una foglia di tulipano, un bruco si inarca su un petalo di giglio, una crisalide s'appoggia morbidamente su una peonia. Niente di innovativo, intendiamoci; accostare insetti e piccoli animali ai fiori faceva parte delle convenzioni della natura morta, anche se in genere l'artista vi attribuiva significati simbolici (la farfalla è la rigenerazione, il bruco un memento mori), mentre Maria Sibylla per ora era guidata soprattutto da ragioni estetiche (ad esempio, riequilibrare la composizione, aggiungere un tocco di colore, accentuare una linea). Maturità: da artista convenzionale a artista-naturalista Le novità, la rottura delle convenzioni, arrivano con il secondo lavoro. Nel 1679 Merian pubblica la prima parte di Der Raupen wunderbare Verwandelung und sonderbare Blumennahrung, "La meravigliosa trasformazione dei bruchi e lo straordinario nutrimento tratto dai fiori", seguito nel 1683 dalla seconda parte (l'editore è lo stesso marito, probabilmente convinto delle potenzialità commerciali della curiosa opera). Ora gli insetti sono i protagonisti assoluti: ciascuna delle 100 tavole (50 per ogni parte) ne ritrae una specie in tutti gli stadi della sua trasformazione, accompagnata dalla pianta (o da una delle piante) di cui si nutre. Altrettanto importanti sono i testi di accompagnamento, in cui Merian spiega dove ha raccolto l'animale, come l'ha osservato, come è avvenuta la metamorfosi. Per scrivere questo libro, infatti, la nostra pittrice si è ormai trasformata in una naturalista autodidatta sul campo: ha osservato gli insetti nel loro ambiente naturale, cercando di individuarne le abitudini alimentari, gli eventuali nemici, le interazioni con altre specie; ha raccolto e allevato i bruchi in apposite cassette, fornendo il cibo prediletto, osservandone e registrane con accuratezza la trasformazione in pupa e in adulto, disegnando dal vero ciascuna fase con estrema accuratezza nel suo quaderno di studio. Alcune tavole ricostruiscono una piccola nicchia ecologica con le sue catene alimentari: così, in quella dedicata alla Rosa centifolia, non solo vediamo tutti gli stadi di una falena nottuide, ma anche acari che vengono mangiati da una larva di sirfide, il pupario di quest'ultima e un adulto che visita un bocciolo. Sono questi dettagli che hanno fatto riconoscere a Maria Sybilla Merian il titolo di "prima ecologista". Ma nel frattempo, anche la vita privata dell'artista-naturalista stava mutando. Benché fosse nata una seconda figlia, il matrimonio scricchiolava. Dopo aver vissuto alcuni anni a Norimberga, nel 1681, alla morte del patrigno, Maria Sibylla ritornò a Francoforte per assistere la madre, raggiunta poco dopo dal marito, ma evidentemente qualcosa si era spezzato. La donna rifiutò di tornare a Norimberga come egli le chiedeva e nel 1685 si trasferì, insieme alla madre e alle figlie, in Frisia, in una comunità labadista (un gruppo calvinista che viveva in comunità, seguendo regole molto rigide), dove da tempo già viveva uno dei fratellastri, Caspar, anche lui pittore. Dietro questa scelta estrema, senza voler mettere in dubbio profonde motivazioni religiose, stava probabilmente anche il desiderio di separarsi dal marito, visto che, secondo le regole labadiste, i matrimoni con non adepti erano considerati nulli. Merian visse per alcuni anni nel castello di Walta, sede della comunità labadista; qui, come risulta dai suoi quaderni, poté continuare le sue osservazioni naturalistiche; ma soprattutto, ebbe modo di vedere per la prima volta le sgargianti farfalle tropicali. Il gruppo aveva intenzione di fondare una comunità in Suriname, la recente colonia olandese a Nord del Brasile, e nei loro andirivieni alcuni membri ne avevano portato alcuni esemplari di insetti tropicali. In ogni caso, nell'estate del 1691, l'artista lasciò i labadisti insieme alle figlie, per trasferirsi a Amsterdam; forse, le regole troppo rigide di quella austerissima comunità le stavano strette, forse aveva altri sogni, altri progetti. Finì così la seconda fase della sua vita. Suriname: Maria Sibylla prende il volo Quando giunse ad Amsterdam (Maria Sibylla aveva 44 anni) era ormai una donna indipendente, capace di mantenere se stessa e le sue figlie, anch'esse due valide pittrici di fiori e nature morte, vendendo le sue opere ai ricchi borghesi e collezionisti olandesi. Entrò in contatto con molti di loro e ne poté visitare le prestigiose collezioni: quella di Nicolas Witsen, sindaco della città e direttore della Compagnia olandese delle Indie occidentali, e di suo nipote Jonas, che aveva sposato la figlia del proprietario di una piantagione in Suriname e ne aveva ereditato le collezioni naturalistiche; quella del famoso professo Frederick Ruysch; quella raffinatissima di Levinus Vincent e di suo moglie, Johanna van Breda. Maria Sibylla ne fu allo stesso tempo ammirata e delusa: ammirata per la bellezza degli splendidi insetti esotici custoditi nei loro gabinetti, delusa perché c'erano solo adulti; niente uova, niente bruchi, pupe o crisalidi. A quanto pareva, a nessuno interessava studiare e documentare le metamorfosi degli insetti esotici. La pittrice concepì così l'idea di partire per il Suriname per assolvere lei stessa questo compito, usando i metodi che aveva inventato per studiare gli insetti europei. Tutti cercarono di dissuaderla: in primo luogo, il clima era micidiale, del tutto inadatto a una donna europea di età già avanzata; i costi erano notevoli e lei, che si manteneva con il suo lavoro di artista, non aveva denaro; soprattutto, come pretendeva lei, una donna, un'autodidatta, senza alcuna formazione scientifica accademica, di intraprendere una spedizione che fino ad allora non era stata osata neppure da scienziati maschi ben più titolati? Maria Sibylla non si lasciò scoraggiare e pianificò la sua spedizione con il senso degli affari che la contraddistingueva fin dalla giovinezza: il viaggio sarebbe stato autofinanziato dalla vendita di esemplari rari di insetti, da lei raccolti e preparati (ricercatissimi dai collezionisti, si vendevano a caro prezzo) e del libro che intendeva ricavare dai dipinti dal vivo e dalle ricerche; per gli aspetti logistici, si sarebbe appoggiata sulla comunità labadista (per un certo periodo, infatti, soggiornò nella piantagione "Providentia", che apparteneva alla famiglia labadista Van Aerssen-van Sommelsdijk); l'avrebbe accompagnata la figlia minore (si è anche ipotizzato che essa, e forse anche la sorella maggiore, avessero preparato il viaggio materno visitando il Suriname prima di lei). Anche se è di moda il modello della donna incompresa, circondata dall'ostilità generale, in realtà l'ambiente degli scienziati e dei collezionisti olandesi non rimase indifferente; in particolare, Witsen riuscì a procurarle il prestito necessario a finanziare la spedizione. Così nel giugno 1699, all'età di 52 (ad ogni buon conto, prima di partire fece testamento) l'audace pittrice si imbarcò per il Suriname con la figlia Dorothea Maria. Rimasero in Suriname circa due anni, vivendo prima a Paramaibo poi a Providentia, 65 km nell'interno. L'ambiente delle giungla era impenetrabile e le piante ritratte da Merian sono per lo più esemplari coltivati nelle piantagioni, soprattutto di uso alimentare, talvolta introdotte. A procurargli gli insetti furono gli schiavi neri e gli indiani, i suoi principali informatori sull'ecologia degli animali, mentre i coloni olandesi (non pensavano che allo zucchero, secondo una scandalizzata Maria Sibylla) guardarono alla sua impresa con scetticismo e divertimento. Essa cercò di applicare gli stessi metodi usati in Europa, scoprendo che in quel clima così caldo e umido erano inefficaci: ad esempio, una volta raccolse (o più probabilmente fece raccogliere dagli schiavi messi a sua disposizione) più di cento bruchi e grandi quantità della loro pianta ospite; il giorno dopo erano tutti morti di fame, tranne uno, perché erano bastate poche ore a far seccare le foglie, rendendole dure e immangiabili. Molto prima del previsto, le precarie condizioni di salute (contrasse la malaria o la febbre gialla) la costrinsero al rientro. Aveva comunque potuto raccogliere materiale sufficiente per allestire la sua opera più celebre, Metamorphosis Insectorum Surinamensium, un sontuoso in folio con 60 incisioni (a differenza delle opere precedenti, l'artista non le incise essa stessa) che usci nel 1705 in due edizioni, in latino e olandese. Per ragioni di costi, Merian dovette però rinunciare a un secondo volume, che avrebbe dovuto essere dedicato a rettili e anfibi, come anche alle edizioni tedesca e inglese. In ogni caso, il volume (che dal punto di vista scientifico è di minor valore rispetto a quelli sugli insetti europei, perché non era stato possibile condurre ricerche ugualmente approfondite) le assicurò immediata fama e divenne un costoso e irrinunciabile ornamento di ogni biblioteca naturalistica. A partire dalle tavole originali, nel corso del Settecento ne uscirono ben cinque edizioni, anche in altre lingue, l'ultima in Francia nel 1771. Ma nella seconda metà del secolo, mano a mano che la scienza fissava i propri metodi e si dotava di strutture istituzionali, a Maria Sibylla Merian (donna, autodidatta, artista) incominciarono ad essere negati i meriti scientifici: mentre lei si era concentrata sulle relazioni orizzontali tra mondo vegetale e animale, agli scienziati che le succedettero interessava classificare e catalogare; le sue illustrazioni, che tanto erano piaciute ai contemporanei per la qualità estetica, ora, con l'affermarsi delle convenzioni dell'illustrazione scientifica, apparivano costruite, innaturali, troppo estetizzanti. Così, per oltre un secolo e mezzo venne dimenticata. L'interesse per la sua opera rinasce intorno all'ultimo quarto del Novecento, nell'ambito degli studi di genere sul ruolo delle donne nell'arte e nella scienza, ed è prorompente. Nel 1990 la Germania ne stampa l'immagine sulla banconota da 500 marchi. Le sue opere vengono ripubblicate e volgarizzate in decine di pubblicazioni, utilizzate per copertine di CD, libri, poster o gadget. A luglio di quest'anno, in occasione del trecentesimo anniversario della morte (avvenuta appunto nel 1717) si sta organizzando un grande simposio internazionale (molto ricco il sito che le è stato dedicato in vista dell'evento). Una sintesi della sua vita, passata attraverso tre stadi, come quelle degli amati insetti, nella sezione biografie. La spettacolare ma sconosciuta Meriania L'omaggio di un genere del regno vegetale arrivò a fine Settecento, quando la fama della pittrice-naturalista era da tempo in declino. A creare in suo onore il genere Meriania fu il naturalista svedese Olof Peter Schwarz, nella sua monografia dedicata alla flora delle Indie occidentali (Plantae Indiae occidentalis, 1791). Una dedica azzeccata: infatti, anche se la specie tipo di Schwartz, M. purpurea, è originaria delle Antille, alcune altre specie crescono anche nella Guyana, ovvero il Suriname della cui fauna e flora Maria Sibylla fu la prima studiosa. Appartenente alla famiglia Melastomataceae, questo genere neotropicale comprende 70-90 specie di arbusti o piccoli alberi dalle fioriture decisamente spettacolari, con grandi fiori purpurei o aranciati a 5-6 petali con stami curiosamente ripiegati tutti da una parte. Presenti dal Sud del Messico fino al Sudest del Brasile, passando per le Antille e l'America centrale, hanno il maggior centro di biodiversità in Colombia, con 36 specie. Bastano già i nomi specifici per farne intuire la bellezza sensazionale: splendens, nobilis, speciosa, pulcherrima, addirittura fantastica. Tuttavia, endemiche di piccole aree montane, spesso a rischio, sono ben poco conosciute al di fuori dei paesi d'origine; nonostante il grande potenziale decorativo, con una sola eccezione, sono coltivate solo negli orti botanici. L'eccezione è la specie più nota, M. nobilis, un alberello originario della foresta nebulosa colombiana, dove vive tra i 1900 e 2900 metri, godendo per tutto l'anno di un clima mite e costantemente umido. Questa specie, con grandi fiori porporini, considerata uno degli alberi più belli del pianeta, per prosperare richiede dunque condizioni molto particolari: non sopporta né gli inverni rigidi né le estati calde. Ciò spiega perché nonostante l'eccezionale bellezza è rimasta una pianta per collezionisti, raramente coltivata fuori dei confini patrii. Per qualche informazione in più su queste magnifiche piante che meriterebbero maggiore notorietà si rimanda alla scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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