Nel 1626, poco dopo essersi insediata a Batavia, di fronte alle malattie e alle epidemie che decimavano i suoi uomini nelle Indie orientali, la VOC decise di inviare in Indonesia un medico capo che coordinasse tutto il settore saniatario. La scelta cadde su Jacob de Bondt (Jacobus Bontius). Prima di cadere vittima egli stesso delle malattie che affliggevano la colonia olandese, lavorò a Giava per appena quattro anni, molto fruttuosi per le sue ricerche sulle malattie tropicali e sulla storia naturale dell'isola. Lo si ricorda soprattutto per aver descritto per primo malattie come il beriberi e la framboesia e animali come il rinoceronte di Giava e l'orango. Plumier e Linneo gli dedicarono il genere montipico Bontia, che però, dalle Indie orientali, ci porta in quelle occidentali. Un medico olandese nell'insalubre Batavia Nel 1619 la Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC) prende il controllo della regione di Jayakarta, nel settentrione dell'isola di Giava, e sulle rovine dell'antica capitale edifica un insediamento fortificato che da quel momento ospiterà il suo quartier generale. All'inizio del 1621, con una solenne cerimonia, viene battezzato Batavia (in ricordo dei Batavi, l'antica tribù che abitava l'Olanda all'epoca romana, in cui gli olandesi riconoscono i propri antenati). Per la sua posizione, Batavia era perfetta per essere il centro amministrativo, mercantile e militare della VOC, ma pessima dal punto di vista sanitario. È stato calcolato che nel periodo che va dalla fondazione al 1739 ogni anno tra 500 e 700 dipendenti della Compagnia vi soccombessero di tifo, malaria, dissenteria, beriberi e altre malattie; la cifra si accrebbe drammaticamente dopo questa data, con 2000-3000 perdite annue. Inizialmente l'assistenza sanitaria fu affidata ai chirurghi di bordo delle navi della Compagnia e furono anche inviati alcuni medici nelle stazioni commerciali più grandi, ma nel 1626 i "17 signori" (ovvero la direzione della VOC) decisero di inviare a Batavia un medico capo che dirigesse e coordinasse tutto il settore. La scelta cadde su Jacob de Bondt (o alla latina Jacobus Bontius, 1592-1631). Bondt aveva tutte le carte in regola per assolvere pienamente il compito di medico, farmacista e ispettore dei chirurghi delle Indie orientali. Laureato in medicina all'università di Leida nel 1614, apparteneva a una famiglia di medici e docenti universitari. Suo padre Geraert de Bondt (Gerardus Bontius) fu il primo professore di medicina, matematica e astronomia dell'ateneo, e dal 1587 fu il primo titolare della cattedra di anatomia e botanica, cui nel 1598 si aggiunse la direzione dell'orto botanico. Celebre per la sua erudizione, dell'università di Leida fu anche rettore. Tre dei suoi quattro figli maschi, Reiner, Johannes e Jacob, furono medici. Il maggiore Reiner (o Reynerius Bontius) fu a sua volta professore di medicina e rettore dell'Università di Leida, nonché medico personale di Maurizio d'Orange. Il quarto fratello Willem era invece un giurista ed ebbe ruoli pubblici, incluso quello di borgomastro di Leida e si rese celebre, più che per le sue posizioni religiose ostili ai rimostranti, per aver inscenato un solenne funerale del suo cane che causò grave scandalo. Ma ciò avvenne alcuni anni dopo la morte del nostro Jacob. Quest'ultimo era il più giovane degli otto figli (c'erano anche quattro sorelle) del professor Geraert, e accettò con entusiasmo la proposta dei 17 signori, deluso delle sue prospettive di carriera in patria e convinto che un soggiorno di qualche anno nelle Indie gli avrebbe aperto la strada di una cattedra universitaria. Era talmente fiducioso di questo brillante futuro che decise di portare con sè in Indonesia la moglie e i due figli bambini. Nel marzo 1627 la famiglia Bondt si imbarcò per Giava; sulla stessa nave viaggiava in incognito, a sua volta accompagnato dalla moglie, da un figlio neonato e da altri parenti, il governatore generale delle Indie olandesi Jan Pieterszoon Coen. Bondt portava con sè anche la sua biblioteca di oltre 2000 volumi. Durante il viaggio, che si protrasse fino al 13 settembre, la moglie di Bondt morì. Era il primo dei lutti che avrebbero funestato l'avventura del medico nelle Indie olandesi. Risposatosi poco dopo l'arrivo a Batavia, nel giugno 1630 perse anche la seconda moglie, morta di colera; all'inizio del 1631, fu la volta del figlio maggiore, morto di una malattia infantile (forse morbillo). La menzione della morte di amici e conoscenti punteggia le sue opere ed egli stesso, soprattutto durante i due assedi di Batavia del 1628 e del 1629, si ammalò gravemente e per due volte fu in punto di morte. Indebolito nel corpo e nello spirito, si spense infine a soli 39 anni il 30 novembre 1631. I compiti professionali affidati a Bondt erano gravosi: come medico capo, doveva soprasiedere all'ospedale di Batavia, verificare l'equipaggiamento medico delle navi della Compagnia, ispezionare l'attività di medici e chirurghi (è possibile che a tal fine abbia fatto un viaggio di ispezione nelle Molucche e a Timor), praticare autopsie, prestare assistenza medica ai dirigenti della VOC, a cominciare dal governatore Coen (questi morì di colera durante il secondo assedio di Batavia, e Bondt nella sua opera ne descrive la malattia e la morte). Inoltre durante i due assedi fu nominato membro della corte di giustizia, nel 1630 fu advocaat fiscal e dal 1630 alla morte balivo di Batavia. Nonostante tutti questi impegni, la cattiva salute e i lutti, dedicò moltissimo tempo a investigare la medicina e la natura delle Indie olandesi, con fini sia medici sia più generali. Poco dopo il suo arrivo a Batavia, scrisse a uno dei suoi fratelli: "Mi sto applicando per raggiungere non solo la conoscenza delle erbe che crescono qui a Giava, ma soprattutto per acquisire un'idea più perfetta delle spezie di cui la nostra parte del paese è più fruttuosa". Immediatamente dopo la conclusione del secondo assedio di Batavia (maggio-settembre 1629), completò Methodus Medendi qua in Indiis Orientalibus oportet in cui descrisse 19 malattie del ventre, del torace e della pelle comuni nelle Indie ma sconosciute nei Paesi Bassi, tra cui il beriberi e la framboesia. Dimostrò anche grande ammirazione per i guaritori locali, in particolare per la loro abilità nel curare la dissenteria e altre affezioni intestinali. Ne fece i suoi informatori per conoscere le virtù delle erbe medicinali, nelle quali riconosceva il rimedio sovrano: "Dove le malattie sono endemiche, la mano generosa della natura ha piantato a profusione erbe le cui virtù sono adatte a contrastarle". Nella dedicatoria a Methodus Medendi, dedicato ai 17 signori, egli afferma di star componendo un'opera sulla storia naturale della regione e quando sarà finita promette "un commento sugli alberi, arbusti ed erbe che crescono a Giava". Lamenta anche che la malattia, che lo ha bloccato per quattro mesi gli abbia impedito di "viaggiare nel paese per esplorare liberamente le deliziose foreste di Giava e acquisire una conoscenza esatta delle erbe più nobili che vi vivono". Per scrivere quest'opera, da tempo doveva aver cominciato a raccogliere note di campo e disegni. Nel gennaio 1631 Bondt completò una seconda opera, De conservanda valetudine; si tratta di un dialogo sul modo migliore per conservare la salute nel clima difficile delle Indie, ispirato ai Coloquios dos simples e drogas da India di Garcia da Orta, che Bondt conosceva grazie all'edizione di Clusius. Gli interlocutori sono lo stesso Bondt (Bontius) e Duraeus, ovvero lo scozzese Andrew Durie, capo chirurgo del Castello e più tardi del secondo ospedale di Batavia. Fu compagno di escursioni di Bondt che lo definisce "chirurgus expertissimus". Subito dopo aver completato questo breve lavoro, in cui in vari punti si discosta da Garcia da Orta, Bondt ne analizzò più compiutamente l'opera in Animadversiones in Garciam da Orta, in cui, secondo Cook, "offre gentili correttivi e supplementi all'opera di da Orta"; al suo predecessore si ispira come metodo, ma aggiunge molte informazoni di prima mano. Così descrive Assa foetida che il portoghese conosce solo di nome e a proposto del rinoceronte che da Orta confessa di non aver mai visto, Bondt scrive: "Non solo l'ho visto un centinaio di volte nascosto nelle sue tane, ma anche mentre vaga nella foresta", per poi raccontare un incontro alquanto pauroso. Era un assaggio della quarta e ultima opera di Bondt, quella sulla storia naturale di Giava, che considerava il suo compito principale ma non riuscì a completare a causa della morte. Più di dieci anni dopo la sua scomparsa, i tre saggi completati, preceduti dalla dedicatoria a mo' di prefazione, andarono a costituire De medicina Indorum (Leida, 1642). pubblicata a cura del fratello Willem. Più tardi. non sappiamo per quali vie, il manoscritto dell'incompleta storia naturale pervenne a Willem Piso, che decise di pubblicarlo nella sua De Indiae Utriusque re naturali et medica (Amsterdam, 1658). L'opera di Bondt ne costituisce la seconda parte, Historia naturalis et medica Indiae orientalis, in sei libri; i primi quattro sono una riedizione di De medicina indorum, il quinto ("De quadrupedibus, avibus et piscibus") e il sesto ("De plantis et aromatibus") sono tratti dal manoscritto inedito. Gli animali presentati sono 33 e le piante 62. Cook, che ha riscoperto ed esaminato il manoscritto originale, conservato tra le carte appartenute al collezionista William Sherard, ha constatato che esso contiene le descrizioni, senza ordine apparente, di 16 animali e 42 piante; molte sono accompagnate da illustrazioni, note e commenti. Presumibilmente c'era un secondo volume, oggi perduto. Confrontando il manoscritto con il testo a stampa, risulta che Piso ha dato un ordine ai materiali, ha ritoccato il latino, aggiunto poemi introduttivi e informazioni occasionali, e anche introdotto qualche argomento nuovo, basandosi su informazioni ricevute da persone che erano state nelle Indie dopo Bondt. Insomma, si comportò da editor relativamente rispettoso, come abbiamo già visto per i materiali sulla flora e la fauna brasiliane ricavati da Marcgraf. Stando alle lettere di Bondt. un certo numero di immagini dovettero essere disegnate da un suo cugino, Adriaen Minten. Altre da lui stesso, ricorrendo al metodo dell'imprinting (cioè ricalcando l'impronta del soggetto). Tra quelle di animali, alcune sono notevoli. Non solo troviamo la prima immagine credibile del rinoceronte di Giava (Rhinoceros sondaicus), diverso da quello indiano, ma anche un babirussa di Sulawesi, una tigre vista presumibilmente a Bali, e persino un dodo, non ancora estinto quando il medico, in viaggio per l'Indonesia, fece scalo a Mauritius. L'immagine più intrigante è però quella dell'organo, che chiaramente Bondt non aveva mai visto di persona, ma di cui aveva sentito parlare dai locali in termini più o meno favolosi come di un "uomo dei boschi" forse persino dotato di parola. E come un uomo selvatico è raffigurato, non sappiamo per iniziativa di chi (forse di Piso o dell'editore Elzevir). Quanto alle piante, quelle descritte sono quasi tutte medicinali, più qualcuna culinaria, per le quali Bondt raccolse informazioni da donne locali. C'è anche un capitolo sul tè e le sue virtù medicinali, ma non un'immagine, perché Bondt lo conosceva solo nella forma essiccata che era commercializzata a Giava e le informazioni che aveva raccolto da più parti, tra cui Jacques Specx, che prima di essere nominato governatore generale aveva vissuto in Giappone, erano contraddittorie. Un olivo... americano Si deve nuovamente a Plumier la dedica a Bondt di uno dei suoi generi americani, Bontia, poi fatto proprio da Linneo. Molto sobriamente, Plumier lo ricorda come "medico ordinario" della città di Batavia a Giava e come autore dei sei libri di Historia naturalis et medica Indiae orientalis, pubblicati da Piso. Egli scrive anche di conoscere una sola specie di questo genere. Ed è così anche oggi. Bontia (Scrophulariaceae) è infatti un genere monospecifico, il cui unico rappresentante è B. daphnoides, un arbusto o piccolo albero che cresce nella maggior parte delle isole dei Caraibi e lungo le coste del Venezuela e della Guyana, soprattutto nei boschi di mangrovie. Ha foglie coriacee, ellittiche, con accentuata nervatura sulla faccia inferiore, che possono ricordare quelle del genere Daphne (da qui l'eponimo), cosparse di ghiandole oleose. Ma forse l'allusiome è all'olivo, come farebbero pensare alcuni nomi volgari, come wild olive (Barbados) olivier bord de mer (Martinica) o aceituna americana (Cuba), che fanno riferimento non alle foglie, ma ai frutti, drupe grossolanamente sferiche dapprima verdi poi nere a maturazione. Curiosi i fiori, che sbocciano solitari all'ascella delle foglie. Retti da un lungo picciolo, hanno cinque sepali verdi appuntiti a forma d'uovo e cinque petali uniti alla base a formare un lungo tubo bruno-giallastro ricoperto da numerose ghiandole che poi si apre in due lobi diseguali diffusi e retroflessi. Essendo piuttosto ramificato e sempreverde, nei Caraibi è spesso utilizzato come frangivento e per siepi difensive; è stato introdotto in Florida e alle Hawaii. Decotti delle foglie sono utilizzati nella medicina tradizionale per curare varie affezione e le ricerche ne hanno confermato le proprietà antivirali,
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Quando ancora non si chiamavano così, l'ungherese János Orlay è stato un cervello in fuga. Quando capì che in patria le sue prospettive erano ben poche, non esitò a cambiare mestiere e a trasferirsi in Russia, dove fece una carriera formidabile, divenendo segretario dell'Accademia di medicina e chirurgia, medico di corte, consigliere imperiale. Uomo dai molteplici interessi, oltre che di medicina si occupò di mineralogia, storia, linguistica, didattica e forse un pochino anche di botanica, Quanto meno, abbastanza da meritare la dedica dell'aereo genere Orlaya. Come un ex seminarista ungherese divenne medico imperiale Nel 1794, allo Josephinum, l'accademia medica di Vienna voluta da Giuseppe II, si iscrive un perfezionando giunto da San Pietroburgo; si fa chiamare Ivan Orlov e si passa per russo, ma, almeno per gli studenti ungheresi e la comunità magiara della capitale austriaca, nonché per l'occhiuta polizia politica, la sua vera identità è un segreto di Pulcinella: si chiama János Orlay (1770-1829), è un ungherese della Transcarpazia, quindi suddito di sua maestà l'imperatore cesareo. E' a Vienna per completare la sua formazione medica, ma anche per una missione speciale: reclutare intellettuali ungheresi disposti a trasferirsi in Russia, dove promette brillanti prospettive di carriera. E' esattamente ciò che ha fatto lui quando si è reso conto che nella patriarcale, arretrata e cattolica Ungheria esse sono invece ben scarse. Orlay era nato nel 1770 a Palágy, un villaggio nei pressi di Ungvár (oggi Užhorod, in Ucraina), la capitale storica della Rutenia subcarpatica. Palágy era un'enclave ungherese in un'area popolata prevalentemente da slavi di lingua russina o rutena, quindi il bilinguismo e la doppia cultura dovettero essere per lui assolutamente naturali fin dall'infanzia. La sua famiglia era nobile, ma impoverita; il ragazzo, che doveva essere brillante, frequenta le scuole inferiori in diverse località della Transcarpazia. Come era usuale all'epoca per i ragazzi poveri ma dotati, è destinato alla Chiesa; nel 1787, diciassettenne, si iscrive alla facoltà teologica di Leopoli, completa gli studi al Collegio teologico di Eger e al seminario di Pest e nel 1789 entra nell'ordine degli Scolopi. Il suo destino sembra segnato; diventerà sacerdote e insegnante. E infatti già nel 1789, diciannovenne, è assegnato al liceo dei Padri Scolopi di Nagykároly (oggi Carei in Romania) come insegnante di lingue classiche, storia, geografia, aritmetica. Sappiamo che era dotatissimo per le lingue, e scriveva perfettamente tanto l'ungherese quanto il russo. Presto - non sappiamo come e perché - qualcosa si spezza; dopo appena un anno, Orlay chiede di essere trasferito a una scuola laica, ma incontra un netto rifiuto, come fallisce la sua aspirazione a un posto di assistente all'Università di Pest. In questo contesto matura la decisione di imprimere una svolta drastica alla sua vita: il 6 maggio 1791 lo troviamo a San Pietroburgo come borsista presso l'Istituto medico e chirurgico e come tirocinante presso l'ospedale militare. L'arrivo in Russia sarà certo stato preceduto e preparato da contatti, presumibilmente con l'ambasciata a Vienna, ma non ne sappiamo nulla. Orlay János, divenuto Ivan Semënovič Orlov (avrebbe mantenuto questo cognome fino al 1797, per poi tornare a quello originale) nel febbraio 1793 supera l'esame davanti al Collegio medico statale, continua a lavorare all'ospedale militare e incomincia a farsi notare per la sua abilità come medico e per la sua profonda e versatile cultura. Nel settembre dello stesso anno viene nominato vicesegretario scientifico del Collegio medico imperiale (ovvero della facoltà di medicina) e provvede a riordinarne la biblioteca e il gabinetto anatomico. Stringe amicizia con un altro medico immigrato, lo scozzese James Wylie, che presto diventerà medico di corte e metterà mano alla riforma della medicina militare. Forse è proprio grazie a lui che nel luglio 1794 viene inviato a Vienna a perfezionarsi allo Josephinum. Il sedicente Ivan Orlov arriva a Vienna accompagnato da un "cavaliere russo" (come ci informa un rapporto di polizia), per tre anni studia con diligenza e frequenta la comunità ungherese e gli ambienti scientifici; nel 1797 rientra in Russia dove riprende il suo ruolo sia all'ospedale militare sia al Collegio medico. Negli anni successivi la sua carriera procede brillantemente; è medico del reggimento Semenovsky, poi medico dell'ufficio postale di San Pietroburgo, infine dal 1800 chirurgo di corte. In seguito a questa nomina, si dimette dal ruolo di segretario del Collegio medico, anche se continua a collaborare con traduzioni e lavori originali, come quello che nel 1804 dedica agli slavi tra i quali ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza, i russini della Carpazia. I suoi interessi si sono infatti allargati all'etnografia, all'archeologia, alla mineralogia; è via via ammesso a diverse società scientifiche tanto russe quanto tedesche. La sua reputazione scientifica è attestata dagli onori che riceve in occasione di un viaggio all'estero tra il 1805 e il 1806: l'università di Königsberg gli conferisce la laurea honoris causa in lettere, a Dorpat si laurea in medicina e chirurgia con una tesi sulle virtù mediche della natura, a Jena incontra Goethe e diventa membro della Società mineralogica. La carriera medica raggiunge l'apice nel 1805, quando è nominato medico aggiunto dello zar Alessandro I, come primo assistente di Wylie. Nel 1806 lascia il lavoro di medico ospedaliero per affiancare Wylie nella redazione della farmacopea militare russa (Pharmacopoea castrensis Ruthenica) e nella creazione dell'Accademia di Medicina e Chirurgia di San Pietroburgo, di cui diventa segretario scientifico. Nel 1809 è nominato consigliere di collegio e nel 1811 gli è affidata la direzione della rivista dell'Accademia; la pubblicazione è tuttavia sospesa in seguito all'invasione napoleonica. Orlay ritorna a lavorare in ospedale come medico capo e lo fa con tanto zelo che alla fine della guerra lo zar gli conferisce una medaglia e onorificenze degli ordini di San Valdimiro e di Sant'Anna. Nel 1816 è nominato consigliere di stato. Il micidiale clima pietrino sta però minando la sua salute. Nel 1817 si dimette da segretario dell'Accademia, di cui rimane membro onorario, e chiede di essere assegnato un nuovo incarico in una zona più calda; intanto fa un lungo viaggio nel Caucaso, sia per rimettersi, sia con l'obiettivo di cercare la patria degli ungheresi e l'origine della loro lingua. Wylie si oppone a lungo al suo trasferimento e lo sconsiglia di accettare una cattedra alla facoltà di medicina di Mosca; solo nel 1821 è desinato a nuovo incarico: è un ritorno agli 'antichi interessi didattici, con la nomina a preside del neo istituito liceo di Nežyn (oggi Nižyn in Ucraina); tra gli allievi dell'istituto c'è anche il futuro scrittore Nikolaj Gogol'. Orlay si distingue per le capacità amministrative e pedagogiche; nel 1825 è nominato ispettore del distretto di Char'kov (oggi Charkiv in Ucraina), nel gennaio 1826 è promosso consigliere di stato effettivo e traferito come preside al liceo Richeliu di Odessa. In questa città muore nel 1829. Orlaya, fiori di pizzo Quando fece carriera e poté permetterselo, Orlay creò una vasta biblioteca e una collezione di manoscritti che riflette i suoi molteplici interessi, di cui fece dono alla Società di storia e antichità russe di Mosca. Come medico, certamente anche la botanica non gli era estranea; tra i manoscritti donati, figura anche il resoconto del viaggio negli Altai di Gottlob Schober, un medico che esplorò la Russia meridionale all'epoca di Pietro il Grande. Certo si trattava però di un interesse secondario; sufficiente d'altra parte a farlo definire "botanofilo", assicurandogli la dedicata del genere Orlay da parte del botanico tedesco Georg Franz Hoffmann, un altro membro della "legione straniera" di intellettuali al servizio della Russia: era infatti il direttore del dipartimento di botanica dell'università e dell'orto botanico di Mosca. Egli infatti così scrive in Genera Plantarum Umbelliferarum (1814): "In onore di un uomo illustrissimo, da lodare per dottrina, prudenza, perizia, l'insigne botanofilo János Orlay". Segue una sfilza di titoli, che fa sospettare che quella dedica a un uomo all'epoca assai influente non fosse poi così disinteressata. Orlaya Hoffm. è un piccolo genere dalla famiglia Apiaceae (Umbelliferae), con tre specie native dell'Europa sudoccidentale e dell'Asia centrale, Orlaya daucoides, O. grandiflora, O. daucorlaya, tutte presenti anche nella flora italiana. Le prime due sono considerate da alcuni sinonimi, da altri specie indipendenti. Sono annuali con foglie finemente divise e umbelle di fiori rosati o bianchi che sono state paragonate a pizzi. Infatti, la specie più frequentemente coltivata O. grandiflora in inglese si chiama laceflower, fiore di pizzo. Un tempo era una comune infestante dei campi arati, ma l'uso di erbicidi ne ha molto limitato la diffusione. In compenso, è diventata una pianta da giardino molto apprezzata per la lunga fioritura, adatta sia alle bordure miste sia in massa a prati naturali. La meno comune Orlaya daucorlaya ha distribuzione essenzialmente balcanica; come la precedente, preferisce luoghi incolti, aridi e assolati. Vive in Grecia, Bulgaria, Albania, ex Yugoslavia; in Italia è presente in poche località dell'Abbruzzo. Il nome di Gabriele Falloppio probabilmente è noto anche a chi non ha particolari conoscenze né di anatomia umana, né di storia della medicina, per aver prestato il suo nome alle trombe uterine o tube di Falloppio. Egli fu infatti un grande anatomista, il primo ad aver descritto con precisione l'apparato sessuale femminile, tanto che si devono proprio a lui anche termini come placenta e vagina. Ma le sue scoperte riguardano anche molte altre parti del corpo umano, e in particolare la testa e i suoi organi. Professore prima a Ferrara, poi a Pisa, infine per un decennio a Padova, fu anche un medico ricercato da pazienti altolocati. Era un grande sperimentatore e, anche se i suoi contributi che hanno fatto la storia riguardano soprattutto l'anatomia, era un buon conoscitore dei "semplici" e aveva una notevole fama come farmacologo, tanto che dopo la sua morte precoce uno stampatore veneziano pubblicò sotto il suo nome un ricettario con 400 "segreti", sicuro che avrebbe attirato l'interesse di un vasto pubblico. Che l'opera sia davvero di Falloppio è discusso, ma è certamente un documento interessante e curioso. Non è invece certo, ma assai probabile che Adanson pensasse a lui creando il genere Fallopia, che tra le sue dodici specie annovera due piante native della nostra flora e una notissima rampicante ornamentale, forse fin troppo esuberante. La breve vita di grande anatomista Il 9 ottobre 1562 moriva a Padova, a soli 39 anni, uno dei più illustri professori dello studio, l'anatomista Gabriele Falloppio (1523-1562). A stroncarlo fu una malattia polmonare, la tisi secondo alcuni, una pleuropolmonite secondo altri. Nato a Modena da un uomo d'arme di pessima fama morto di sifilide che lo lasciò orfano quando aveva solo dieci anni, dal padre ereditò solo una salute malferma e una situazione economica precaria che lo costrinse ad abbandonare gli studi. La famiglia lo spinse ad abbracciare lo stato ecclesiastico, contando che ereditasse il beneficio di uno zio canonico; così a 19 anni fu ordinato sacerdote, ma presto abbandonò una carriera che gli garantiva qualche entrata ma per la quale non aveva alcuna vocazione. Fin da bimbo l'aveva infatti trovata nella medicina: si racconta che a soli sei anni già annotasse mentalmente i decorsi di un'epidemia di peste. Incominciò a studiare anatomia, farmacologia, botanica da autodidatta, quindi la sua formazione proseguì nell'ambito del Collegio medico di Modena, dove divenne allievo di Niccolò Machella. Avido lettore e proprietario di una biblioteca notevole per l'epoca, Machella era un medico erudito e dalle posizioni eterodosse, uno dei principali animatori dell'accademia informale che si riuniva presso la bottega dello speziale Antonio Grillenzoni, cui partecipavano anche umanisti come il celebre filologo Ludovico Castelvetro. Gli accademici dibattevano con grande libertà e spirito critico di letteratura e scienza, ma anche - più pericolosamente - di religione, tanto che nel 1543 furono costretti a sottoscrivere un formulario di accettazione dei dogmi della chiesa cattolica. Tra il firmatari il ventenne Falloppio, accusato di essere "un pessimo eretico luterano". Falloppio si perfezionò nella dissezione di animali e raggiunse una tale abilità nel 1544 il suo maestro gli affidò la pubblica dissezione anatomica del cadavere di una giovane donna impiccata come criminale. Ottenne anche la licenza di praticare la chirurgia, ma intorno al 1545 il miglioramento della situazione economica della famiglia gli permise di trasferirsi a Ferrara per studiare anatomia e medicina con Gianbattista Canano e Antonio Musa Brasavola. Forse seguì come uditore anche le lezioni di Gianbattista da Monte e Matteo Realdo Colombo a Padova, ma non ne abbiamo la certezza. E' probabile che già affiancasse i suoi maestri come dimostratore di anatomia e per l'anno 1547-48, sebbene non avesse ancora conseguito la laurea, fu incaricato di insegnare "la scienza delle erbe, delle piante e delle altre cose che nascono dalla terra", ovvero di commentare Dioscoride. L'anno successivo fu chiamato ad insegnare medicina all'Università di Pisa, incarico che mantenne fino al 1551. Il duca Cosimo I gli permise di sperimentare veleni e oppiacei sui condannati, fino a provocarne la morte, per poi anatomizzarli, cosa che gli procurò pressi i posteri l'accusa di aver praticato la vivisezione. Meno discutibili le sue ricerche sulla causa e le possibili cure della sifilide, di cui fu tra i primi a comprendere correttamente l'origine contagiosa. Nel fecondo ambiente del recente ateneo pisano, Falloppio allargò i suoi interessi alle scienze naturali e strinse amicizia con Luca Ghini, il fondatore del primo orto botanico, e il suo allievo Bartolomeo Maranta. Ci è noto che erborizzò nelle campagne pisane, alla ricerca delle piante degli antichi. Fu così che riconobbe nella salsapariglia la Smilax di Dioscoride e prese a utilizzarla anche per curare la sifilide. La sua competenza di "simplicista" era tale che, dopo la morte di Ghini, Maranta inviò a lui il manoscritto del suo Methodi cognoscendorum simplicium, pregandolo di verificarne l'esattezza e di correggerlo. All'epoca Falloppio era già a Padova, dove nel 1551 fu chiamato a reggere la doppia cattedra di "Lettura dei semplici e chirurgia, con l'obbligo di anatomia", anche se avrebbe conseguito la laurea solo l'anno dopo (si addottorò a Ferrara con Brasavola nell'ottobre 1552). Per dieci anni, tenne lezioni seguitissime, in cui profondeva la sua competenza nei campi dell'anatomia, della chirurgia, della medicina generale, della farmacologia e più in generale delle scienze naturali; così nel 1555 trattò del morbo gallico, ovvero della sifilide, nel 1556 delle acque termali e dei tumori, nel 1557 di metalli e fossili, di fratture e lussazioni, nel 1558 delle ulcere provocate o meno dal morbo gallico e dei purganti, nel 1560 del libro di Ippocrate sulle ferite alla testa, nel 1561 del primo libro di Dioscoride, nel 1562 (l'ultimo della sua vita) nuovamente di morbo gallico e ulcere. Avendo fatto della "sua meravigliosa scientia prove soprahumane", come scrive un biografo contemporaneo e conterraneo, F. Panini, divenne un medico noto e ricercato. Tra i suoi pazienti più illustri, il papa Giulio II, Alfonso II e Isabella d'Este, il duca di Parma Ottavio Farnese, il tipografo Aldo Manuzio che guarì di una malattia agli occhi. Uomo noto per la sua gentilezza, la pacatezza, la rettitudine morale, i poveri li curava gratis, fin da ragazzo, quando addirittura chiedeva la carità per loro. Forse intorno al 1554 (non conosciamo con precisione la data) nella sua vita entrò Melchiorre Guilandino; non era raro che Falloppio ospitasse e aiutasse gli studenti indigenti e meritevoli, ma nel medico tedesco, coetaneo, con alle spalle una travagliata storia familiare, fondamentalmente autodidatta, trovò un alter ego e un inseparabile compagno di vita, con il quale amava erborizzare sui colli euganei. Il legame tra i due giovani medici non mancò di suscitare la malignità di Mattioli, un tempo amico di Falloppio; quando Guilandino osò criticare i suoi Commentari a Dioscoride, a suo parere con il consenso e la complicità di Falloppio, non potendo attaccare direttamente quest'ultimo, troppo celebre e prestigioso, l'irascibile senese incominciò a diffondere insinuazioni scurrili sulla loro relazione, che, se fossero giunte alle orecchie dell'inquisizione, avrebbero potuto diventare molto pericolose. Lo stesso Falloppio , a malincuore, consigliò l'amico di accompagnare in Oriente il bailo veneziano in partenza per Costantinopoli. Quando seppe che Guilandino era stato catturato da corsari turchi ed era prigioniero ad Algeri, mise insieme 200 scudi e, nonostante la salute traballante, non esitò a partire per la Grecia per consegnare il riscatto. Sappiamo che soffriva di una debolezza polmonare, probabilmente da identificare come tubercolosi. Mano a mano che il suo fisico si indeboliva diventò sempre più difficile per lui far fronte ai tanti impegni, ed in particolare alle lezioni nelle stanze fredde e umide dell' ateneo patavino; fin dal 1556-57, tramite un altro amico, Ulisse Aldrovandi, entrò in trattative segrete con l'Università di Bologna per trasferirsi in quell'ateneo. Ma le trattative andarono per le lunghe e solo nel 1562 sembrò certa la sua nomina per l'anno accademico 1562-63; ma prima che potesse assumere la cattedra bolognese, all'inizio di ottobre si ammalò di una forma acuta di "mal di punta" che in meno di una settimana lo portò alla morte. Sconsolato, Guilandino (che da un anno, certo anche grazie all'interessamento del suo compagno, era diventato prefetto dell'orto botanico) pose sulla sua tomba una commossa epigrafe: «Falloppio, in questa tomba non verrai sepolto da solo / con te viene sepolta anche la nostra casa». Nel 1589, alla morte di Guilandino, le ossa di Falloppio vennero traslate nella sua tomba "da una mano pietoso". Grandi scoperte anatomiche e ricette pratiche Intorno al 1557 Falloppio incominciò a esporre le proprie scoperte anatomiche in un trattato che pubblicò a Venezia nel 1561 con il titolo Observationes anatomicae. Si tratta della sua unica opera edita in vita. Consapevole dell'importanza delle sue scoperte, che in molti casi superavano e correggevano quelle dello stesso Vesalio, temendo che qualcun altro se ne attribuisse il merito, si affrettò a pubblicare il suo trattato senza figure (certo pensava a una seconda edizione illustrata, ma ne fu impedito dalla morte); è però stato scritto che le sue descrizioni sono così accurate e precise da rendere quasi superflue le immagini. La sua scoperta più famosa è certamente quella delle trombe uterine, comunemente note come trombe o tube di Falloppio. Da lui prende il nome anche il legamento inguinale, o legamento di Falloppio. Oltre agli organi riproduttivi di entrambi i sessi, studiò molte altre parti del corpo umano, e in particolare l'anatomia della testa e dei suoi organi. Diede importanti contributi alla conoscenza dell'anatomia dell'orecchio e dell'occhio, diede un'accurata descrizione dei muscoli del capo e del collo, analizzò la struttura dei denti e descrisse il processo di sostituzione dei denti da latte con quelli permanenti, dimostrò la funzione dei muscoli intercostali, descrisse accuratamente i nervi oculo-motori, l'ipoglosso e il trigemino. Notevoli furono anche i suoi contributi alla medicina generale e alla farmacologia, ma li conosciamo solo in modo indiretto, attraverso numerose opere postume, non scritte direttamente da lui, ma basate sugli appunti presi durante le sue lezioni dai suoi allievi e forse su sui manoscritti. La più nota di queste opere "indirette" è probabilmente De morbo gallico tractatus, pubblicato a Padova nel 1563, che contiene anche la prima descrizione di un antenato del preservativo inventato dallo stesso Falloppio. Per passare all'argomento che più interessa questo blog, ovvero la botanica farmaceutica, la "materia medica" come si chiamava allora, le sue lezioni sui purganti furono pubblicate nel 1565 come De simplicibus medicamentis purgantibus tractatus. Ma forse il lascito più curioso è una raccolta di ricette, pubblicata inizialmente dallo stampatore veneziano Marco di Maria nel 1563 sotto il titolo Secreti diversi, et miracolosi e poi ripubblicata nel 1565 in edizione ampliata, con le ricette riordinate e riviste da alcuni allievi di Falloppio; il libro ottenne abbastanza successo da essere successivamente ristampato tre volte entro il 1602 da altri tipografi. La curiosa opera, che dovrebbe presentare le ricette messe a punto e sperimentate da Falloppio in vent'anni di carriera medica, raccoglie 400 "segreti", divisi in tre libri. Il primo, dedicato al "modo di fare cerotti, unguenti, pillole e altri medicinali", è quello più propriamente medico; vi compaiono ad esempio rimedi contro la peste, per combattere o prevenire la quale vengono anche suggeriti gli alimenti più opportuni. Falloppio prescrive ricette per curare le malattie polmonari, cui egli stesso era soggetto, il mal di testa, il mal di denti, i calcoli renali. Non mancano antidoti contro il morso dei serpenti e ricette per eliminare i vermi, curare la rogna, guarire le ferite da taglio. Molte le ricette per curare la sifilide, di cui, come abbiamo già visto, Falloppio era uno specialista. Il secondo libro è dedicato a "diverse sorti di vini e acque molto salutifere". Vi troviamo un vino "per il core, et per molti altri casi, miracoloso, et salutifero" che, oltre a fluidificare il sangue, combatte la malinconia e un altro che facilita e mantiene le gravidanze; acque per guarire le malattie della pelle e una per sciogliere i calcoli renali, a base di varie erbe tra cui la sassifraga. Infine il terzo libro, dedicato a "secreti di Alchimia, et altri dilettevoli, e curiosi", esce dalla medicina vera e propria per occuparsi dell'igiene della persona e della casa, con ricette per cacciare mosche, zanzare, pulci e pidocchi, trucchi per lavare e pulire i vestiti, pomate cosmetiche per la pelle, ricette contro la calvizie, per rendere i capelli biondi o migliorare la memoria. Tra la chimica, l'alchimia e la magia, le ricette per preparare il sale d'ammonio, l'acqua borica, il cinabro, l'ambra e il corallo, trasformare il piombo in oro, trovare il cadavere di un annegato. Potrebbe invece risalire alle esperienze degli anni di Pisa il metodo per estrarre oppio finissimo per fare dormire: "con un poco di questo farai dormire uno quanto tu vuoi, ma ci bisogna buona discretione". Non sappiamo quanto di queste ricette risalga davvero a Falloppio; alcuni studiosi considerano il libro del tutto spurio, altri lo ritengono almeno in parte risalente all'esperienza del medico modenese, che però qui si rivolge non ai dotti o agli studenti di medicina, ma alle persone comuni, alla ricerca di rimedi pratici con ingredienti semplici e facili da reperire. Per il suo ampio ventaglio di argomenti, la raccolta è comunque un documento significativo della pratica medica e farmacologica del tempo. Rampicanti assai esuberanti, con qualche confusione Nel 1763, nel secondo volume di Familles de plantes Michel Adanson separò da Polygonum il nuovo genere Fallopia. Benché egli non fornisca alcuna indicazione sull'origine della denominazione, si ritiene generalmente abbia così voluto rendere omaggio a Gabriele Falloppio, il cui cognome latinizzato era appunto Fallopius, con una sola p. Esplicita è invece la dedica al nostro del secondo genere Fallopia (Malvaceae), creato da Loureiro nel 1790: "L'ho nominato in memoria del celebre Gabriele Falloppio, professore di botanica a Padova". Per la legge della priorità, il genere di Loureiro è illegittimo, mentre è valido quello di Adanson (famiglia Polygonaceae). Valido ma con una storia piuttosto travagliata. Nell'Ottocento, i botanici per lo più lo includevano in un più ampio genere Polygonum: così fecero sia Meissner nel 1856 sia Bentham e Hooker nel 1880. Il genere è stato universalmente accettato solo nella seconda metà del Novecento, a volte inteso in senso più ristretto, a volte in senso più ampio, a includere anche l'affine Reynoutria. Le analisi basate sul DNA hanno confermato sia l'indipendenza di Fallopia, sia la sua stretta affinità con Reynoutria e Muhelenbeckia, con le quali forma un'unica clade nota con la signa RMF (Reuynoutria, Muhelenbeckia, Fallopia). Sono noti anche ibridi intergenerici con Reynoutria (x Reyllopia) e Muhelenbeckia (x Fallenbeckia). La situazione è comunque ancora fluida. Per fare solo due esempi POWO riconosce Reynoutria e Fallopia come generi indipendenti, mentre INaturalist include tutte le specie di Reynoutria in Fallopia. Senza dimenticare i botanici che ancora optano per un vastissimo Polgygonum. Da qui incertezze di denominazione: ad esempio. il poligono giapponese è classificato come Reynoutria japonica nell'edizione più recente di Flora d'Italia, ma è ancora denominato Fallopia japonica in molti libri e repertori. Qui, seguendo la linea prevalente, considereremo Fallopia e Reynoutria come generi separati. Ne ricordiamo le differenze principali: Fallopia comprende specie rampicanti, annuali o perenni, con infiorescenze ascellari ad asse semplice; i fiori hanno perianzio carnoso e stimmi capitati; i frutti sono talvolta muniti di ali. Reynoutria comprende specie non rampicanti con infiorescenze ascellari ad asse ramificato; i fiori hanno perianzio sottile e stimmi flabellati; i frutti non sono alati. Purtroppo, i due generi hanno in comune una caratteristica spiacevole: varie specie dell'uno come dell'altro, introdotte nei giardini come ornamentali, si sono rivelate aliene invasive di straordinario successo e difficili da combattere, anche se da questo punto di vista Reynoutria ha la fama del peggiore. Fallopia in senso stretto comprende una dozzina di specie originarie dell'emisfero boreale (Eurasia, Nord America, Africa settentrionale), ma largamente introdotte anche altrove. Sono per lo più liane e rampicanti noti per il grande vigore e la rapida crescita, decidui, tanto annuali quanto perenni. Il genere è soprattutto eurasiatico, con nove specie, e centro di diversità in Cina con cinque specie, tre delle quali endemiche; due specie sono nordamericane; una di amplissimo areale si spinge anche in Africa. E' F. convolvulus, diffusa dalla Macaronesia all'Asia orientale, passando per il Nord Africa e l'Europa; è presente anche in tutte le regioni italiane, dove cresce come infestante delle culture di cereali e negli ambienti ruderali; è già citata negli erbari del rinascimento, incluso quello di Mattioli. Si ritiene tuttavia non sia originaria del nostro territorio, ma vi sia giunto in un'epica molto antica. Della flora italiana fa parte anche l'eurasiatica F. dumetorum, ugualmente presente in tutte le regioni eccetto la Sardegna; come la precedente è un'erbacea annuale e cresce preferenzialmente sulle siepi e ai margini delle foreste di latifoglie decidue. Sono invece largamente coltivate F. aubertii e F. baldschuanica, la prima di origine cinese, la seconda proveniente dall'Asia centrale, che POWO tratta come specie diverse, mentre molte fonti autorevoli le considerano sinonimi. Il problema non è semplice, trattandosi di specie altamente variabili. F. aubertii fu raccolta nel 1899 nel Tibet cinese dal padre missionario francese Georges Aubert, che ne inviò i semi al Muséum national di Parigi, che la distribuì già l'anno successivo; nel 1907 fu descritta da Louis Henry come Polygonum aubertii e riclassificata nel 1971 dal botanico ceco Holub come F. aubertii. Fallopia baldschuanica fu invece raccolta per la prima volta nell'attuale Turkestan nel 1883 da August von Regel che la introdusse nell'orto botanico di San Pietroburgo e l'anno successivo la pubblicò come Polygonum baldschianicum; il nome deriva dal toponimo latino Baldschuan, una località della zona orientale del kanato di Bukhara. Anch'essa fu riclassificata come F. baldschuanica da Holub nel 1971. Se si tratta della stessa specie, la priorità spetta a questa denominazione, mentre F. aubertii è sinonimo. F. baldschuanica è rampicante estremamente vigoroso, capace di crescere anche di 30 cm al giorno, raggiungendo un'altezza di 15 metri. E' in grado di coprire rapidamente una facciata (perciò la chiamano Consolazione dell'architetto), ma si arrampica anche su alberi e altri rampicanti, ed è difficile da rimuovere per le radici molto forti. In Italia è stata introdotta per la prima volta in Piemonte nel 1900; oggi è presente in tutto il territorio nazionale tranne la Calabria, è naturalizzata nella maggior parte delle regioni e classificata come alloctona invasiva in Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche e Campania. F. aubertii, se si tratta di un'entità diverse, è molto simile; forse la principale differenza sono le infiorescenze pelose anziché glabre, e forse un vigore appena minore. Sono piante di grande bellezza (al momento della fioritura si trasformano in una cascata di fiori candidi), ma può essere imprudente coltivarle, a meno di controllarne strettamente la crescita. A partire dalla seconda metà del Settecento, l'Università di Vienna acquisì grande rinomanza per la sua scuola di medicina. Il merito spetta all'olandese Gerard van Swieten, che, nominato archiatra dell'imperatrice Maria Teresa, trapiantò nella capitale austriaca gli insegnamenti del suo maestro Boerhaave, riformando profondamente il fino ad allora arretrato insegnamento della medicina. Tra i suoi meriti, anche l'introduzione della chimica e della botanica nel curriculum dei futuri medici e la fondazione dell'orto botanico universitario di Vienna. Il suo allievo Nikolaus von Jacquin, che tanto gli doveva anche a livello personale, volle ricordarlo dedicandogli Swietenia, il genere cui appartengono gli alberi da cui si ricava il bellissimo mogano. Un medico riformatore A Vienna, al centro della piazza omonima, campeggia il gigantesco monumento all'imperatrice Maria Teresa d'Austria, voluto da Francesco Giuseppe per celebrare la sua antenata e insieme le glorie dell'impero austriaco. La sovrana è assisa sul trono, al sommo di un alto pilastro in granito, ciascuno dei cui lati è ornato da un timpano con un gruppo ad alto rilievo ed una statua indipendente, che rievocano i quattro settori in cui eccelse l'Austria dei lumi: la politica, l'amministrazione, le armi, le scienze e le arti. A rappresentare queste ultime nel rilievo il numismatico Joseph Hilarius Eckhel, lo storico György Pray e i musicisti Christoph Willibald Gluck, Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart bambino; davanti a loro la statua dell'archiatra Gerard van Swieten (1700-1772), fondatore della scuola di medicina di Vienna, che dell'imperatrice non fu solo il medico personale, ma ascoltatissimo consigliere e anima di molte riforme non solo in campo medico. Eppure egli non era né austriaco né suddito imperale, ed aveva accettato il prestigioso incarico con estrema riluttanza. Olandese, era nato a Leida in una famiglia cattolica di origini nobili. Iniziò gli studi nella città natale in modo brillante, ma a 12 anni perse il padre, un affermato notaio che lavorava soprattutto per una clientela cattolica. Inviato dai suoi tutori a studiare filosofia a Lovanio, si appassionò di scienze naturali. Avrebbe voluto studiare medicina a Leida, ma al momento non ne aveva la possibilità economica. Così a 15 anni fu messo a bottega ad Amsterdam presso il farmacista Laurens Tatum; tuttavia nel 1717 contrasse il vaiolo e, una volta guarito ritornò a Leida; ne approfittò immatricolarsi nella facoltà di medicina, in quegli anni dominata dal grande Boerhaave, un medico famoso in tutta Europa, che insegnava medicina, chimica, botanica e dirigeva l'orto botanico universitario. Fu così folgorato dalla sua versatile sapienza e dal suo metodo innovativo (Boerhaave fu il primo a portare i suoi studenti al capezzale dei malati, creando di fatto la medicina clinica) che per anni, anche quando era già lui stesso medico, continuò a seguire le sue lezioni (si dice ne abbia persa solo una). Tra il 1718 e il 1720 completò la formazione come farmacista presso Nicolaas Stam, decano della corporazione dei farmacisti e ottimo chimico (suo padre David era stato il maestro di chimica di Boerhaave), ottenendo la licenza nel 1720. Senza interrompere gli studi di medicina, aprì una propria bottega a Leida e nel 1725 si laureò con una tesi sulle arterie e le loro funzioni. Per qualche tempo affiancò le due attività di farmacista e medico, ma del 1727 si concentrò sulla medica e prese anche ad impartire lezioni private di chimica e medicina, finché nel 1734 gli venne vietato dall'Università. Come medico aveva un'ampia clientela ed era molto stimato, tanto che nel 1738, quando morì Boerhaave, sarebbe stato il più indicato a succedergli: ma ciò era impossibile, in quanto cattolico. Ne aveva seguito le lezioni fino alla morte, e nel 1742 iniziò a pubblicare i suoi aforismi con i propri commenti (Commentaria in Hermani Boerhaave aphorismos de cognoscendis et curandis morbis, "Commenti sugli aforismi di Boerhaave su come diagnosticare e curare le malattie"); l'opera, arricchita con la sua personale pratica clinica, l'avrebbe accompagnato per tutta la vita, fino all'ultimo volume, uscito nel 1772. La sua fama intanto aveva travalicato i confini dell'Olanda; nel 1742 morì l'archiatra imperiale e, su raccomandazione del futuro cancelliere von Kaunitz, che all'epoca amministrava i Paesi Bassi austriaci e aveva sentito parlare della sua competenza professionale e della sua indipendenza di pensiero, il posto fu offerto a van Swieten che inizialmente rifiutò, scrivendo a un amico che preferiva rimanere "un piccolo repubblicano piuttosto che portare un titolo pomposo che nasconde un'esistenza da schiavo". La diplomazia imperiale però continuò a lavorarlo ai fianchi, finché, dopo un anno e mezzo, nell'ottobre 1744, forse soprattutto considerando che, come cattolico, aveva poche prospettive di carriera in patria, cedette, e da repubblicano si fece monarchico. Subito dopo l'accettazione, fu chiamato a Bruxelles, per assistere la sorella minore di Maria Teresa, governatrice dei Paesi Bassi, mai ripresasi dopo aver dato alla luce un bimbo nato morto. Purtroppo van Swieten non poté salvarla, ma non perse perciò la fiducia dell'imperatrice. Nel maggio 1745, dopo aver venduto i propri beni olandesi, si trasferì a Vienna con la famiglia; infatti, nel frattempo si era sposato con Maria ter Beeck van Coesfelt, anch'essa figlia di un notaio e sorella di un antico compagno di scuola di Lovanio, e ne aveva avuto cinque figli; la sesta, chiamata Maria Teresa, in onore della sovrana, sua madrina, sarebbe nata a Vienna. Van Swieten, le cui idee innovative (nonché i modi borghesi) erano tutt'altro che graditi a cortigiani e maggiorenti austriaci, godette della stima e dell'assoluta fiducia della sovrana; oltre che archiatra, fu nominato prefetto della biblioteca imperiale e nel 1749 gli fu affidata la riforma della facoltà di medicina dell'Università di Vienna, all'epoca molto arretrata e dominata dai gesuiti e dalla corporazione dei medici. Come preside della facoltà, Van Swieten, oltre a tenere egli stesso conferenze di fisiologia e medicina generale nella biblioteca di corte, rinnovò il corpo insegnante; dotò l'università di aule e strutture adeguate; istituì le cattedre di medicina teorica, medicina pratica, anatomia, chirurgia, chimica e botanica; rinnovò totalmente la conduzione degli ospedali di Vienna, trasformati in veri e propri centri di ricerca in cui furono create classi di medicina strutturate, dove gli studenti completavano la loro formazione al capezzale dei malati, imparavano a redigere una diagnosi motivata e assistevano alle autopsie. Tra i suoi maggiori collaboratori in campo medico, un altro olandese, Anton de Haen (1704-1776), da lui chiamato a reggere la cattedra di medicina pratica, che fu, tra l'altro, il primo a introdurre il controllo regolare della temperatura corporea e l'uso del termometro. Nel 1751, come bibliotecario imperiale, van Swieten fu nominato presidente della commissione di censura, dalla quale esautorò i gesuiti, cercando, anche se non sempre con successo, di analizzare i libri sulla base di criteri razionali, come l'utilità e la rilevanza scientifica. Nel 1752 l'Università divenne un'istituzione statale e riforme furono introdotte anche nelle facoltà di teologia, filosofia e giurisprudenza. L'imperatrice, che lo ascoltava anche in altri campi, nel 1755 gli affidò un'inchiesta su un preteso caso di vampirismo avvenuto in Moravia; van Swieten dimostrò che si trattava di una superstizione e in Abhandlung des Daseyns der Gespenster ("Discorso sull'esistenza dei fantasmi") diede una spiegazione scientifica dei vari fenomeni all'origine del mito; il risultato fu un decreto imperiale che vietava antiche pratiche macabre come esumare e trafiggere o bruciare i cadaveri dei supposti vampiri. Si dice che Bram Stoker si sia ispirato a lui per il personaggio del cacciatore di vampiri van Helsing del suo romanzo Dracula. La creazione dell'orto botanico di Vienna si inquadra nella generale azione riformatrice di van Swieten. Prima di lui all'università di Vienna non si insegnavano né la botanica né la chimica; inoltre, l'università non disponeva di edifici adeguati. Gradualmente, durante la sua gestione furono creati un anfiteatro anatomico, un laboratorio chimico, una clinica di facoltà e appunto un orto botanico, istituito nel 1754 in un'area di un ettaro sul Rennweg, adiacente al palazzo di Belvedere. Concepito come Hortus medicus, era destinato all'insegnamento della botanica applicata a medici e farmacisti e vi era annesso il laboratorio di chimica. Il progetto e la sistemazione delle piante vennero affidati al francese Robert Laugier (1722-1793), primo titolare della cattedra di chimica e botanica fin dal 1749, e poi primo direttore dell'orto botanico, che fece sistemare le aiuole didattiche secondo il sistema di classificazione di Boissier de Sauvages basato sulla forma delle foglie. Laugier diresse il giardino per una quindicina di anni, finché van Swieten, che ne aveva scarsa stima (gli rimproverava l'insufficiente conoscenza del latino e, come amico e corrispondente di Linneo, certo poco apprezzava il sistema di Sauvages), riuscì a costringerlo alle dimissioni, convincendo l'imperatrice a tagliargli lo stipendio: aveva infatti pronto per rimpiazzarlo un botanico di ben altro valore: il suo conterraneo, allievo e protetto Nikolaus Joseph von Jacquin, secondo prefetto dell'orto botanico e titolare delle cattedre di chimica e botanica dal 1768. Gli ultimi anni di van Swieten furono funestati, oltre che da un serie di malattie (nel 1772, in seguito a un tumore, subì anche l'amputazione di una gamba), dallo scontro con il figlio maggiore di Maria Teresa, divenuto imperatore come Giuseppe II nel 1765 in seguito alla morte del padre Francesco Stefano di Lorena. Egli infatti imputava al medico olandese la morte delle due mogli e delle due uniche figlie: nel 1763 la prima moglie era morta di vaiolo insieme alla secondogenita neonata, nel 1767 sempre di vaiolo era morta anche la seconda, mentre nel 1770, l'adorata figlia maggiore Maria Teresa era morta di pleurite ad appena otto anni. Quale fosse la responsabilità del vecchio medico in queste tragedie non saprei, ma certo egli inizialmente si era opposto all'inoculazione del vaiolo, una pratica ancora molto rischiosa. Il vaiolo lo era anche di più: tra le vittime di questa malattia implacabile ben cinque dei sedici figli dell'imperatrice; solo dopo la morte della sedicenne arciduchessa Maria Giuseppina, van Swieten si convinse e scrisse a William Pringle, il medico di Giorgio III, chiedendo di inviare a Vienna un medico esperto per inoculare il vaiolo all'intera famiglia imperiale. La scelta cadde su un altro olandese, Jan Ingenhousz, che aveva già inoculato con successo i famigliari di Giorgio III. Dopo aver brillantemente espletato il suo compito, rimase a Vienna come medico imperiale e qui completò i suoi studi in cui gettò le basi della comprensione del meccanismo della fotosintesi. Va dunque ascritto a merito di van Swieten aver portato a Vienna, oltre a de Haen e von Jacquin, anche questo dotatissimo connazionale. Il figlio maggiore Gottfried si illustrò in altri campi. Dapprima diplomatico, poi prefetto della biblioteca imperiale e presidente della commissione di censura dopo il padre, è celebre soprattutto per i suoi interessi musicali. Ambasciatore a Berlino negli anni '70, commissionò sei sinfonie a Carl Philipp Emanuel Bach, che gli dedicò una delle sue opere più famose, la terza raccolta delle Sonate per intenditori ed appassionati; a Berlino inoltre raccolse molti manoscritti di Bach e Händel, che poi fece regolarmente eseguire nei concerti domenicali che si tenevano nella biblioteca di corte, influenzando profondamente tanto Mozart quanto Haydn. Nel 1780, proprio nell'intento di far conoscere e diffondere la musica degli antichi maestri, fondò la Società dei cavalieri associati, per la quale tra il 1789 e il 1790 Mozart arrangiò diversi opere di Händel, tra cui il Messiah, che il salisburghese diresse più volte al clavicembalo. Alla sua morte, fu van Swieten a pagarne il funerale, quindi organizzò la prima esecuzione del Requiem, tenuta come concerto di beneficenza a favore della vedova e dei figli. Van Swieten figlio ebbe stretti rapporti anche con Haydn, per il quale scrisse i libretti della Creazione e delle Stagioni, e con il giovane Beethoven, che gli dedicò la prima sinfonia. Il mogano, un legname troppo sfruttato Nikolaus von Jacquin non mancava mai di ricordare coloro che in un modo o in un altro lo avevano aiutato nelle sue ricerche; non poteva certo dimenticare il suo maestro, colui che gli aveva aperto la strada di Vienna e aveva gettato lo basi della sua carriera scientifica. Per onorarlo degnamente, scelse una pianta speciale: quella da cui si ricava il più ricercato e bello dei legnami, il mogano. Linneo, come i botanici dell'epoca, pensava che avesse qualche affinità con i cedri e lo collocò nel genere Cedrela come C. mahagoni. Von Jacquin lo assegnò al nuovo genere Swietenia, come S. mahagoni (1760). Questo grande albero delle Antille all'epoca era l'unica specie nota, o almeno fino all'inizio dell'Ottocento si pensava che le variazioni che si riscontravano nel legname proveniente da altre zone fossero dovute al suolo o alle condizioni di crescita, finché nel 1837, studiando esemplari raccolti durante una spedizione nella costa pacifica del Messico, Zuccarini ne identificò una seconda specie di dimensioni minori che chiamò S. humilis. Infine nel 1886, George King, il sovrintendente dell'orto botanico di Calcutta, ne identificò una terza specie, proveniente dall'Honduras e appunto coltivata in quel giardino, e la denominò S. macrophylla. Sono queste le tre specie del genere (famiglia Meliaceae), abbastanza simili tra loro, ma presenti in areali diversi e solo in parte contigui: S. mahagoni è esclusivo della Florida meridionale e delle Antille (Bahamas, Cuba, Giamaica, Hispaniola); S. humilis occorre lunga la costa pacifica dal Messico all'America centrale; S. macrophylla, infine, la specie di maggiore diffusione, vive invece lungo la costa atlantica di Messico e America centrale e si spinge in Sud America fino all'Honduras, alla Bolivia e al Brasile. Sono alberi da medi a grandi (il maggiore, S. mahagoni, può superare i quaranta metri, con un tronco dal diametro di due metri), piuttosto ramificati, con foglie pinnate, da decidue a semi sempreverdi, a seconda dell'area di crescita; i fiori, raccolti in infiorescenze lasse, sono piccoli, con cinque petali ovati da bianchi a verde giallastro; i frutti invece sono grandi capsule legnose più o meno ovoidali che si aprono in cinque valve e contengono numerosissimi semi alati. Gli europei probabilmente conobbero il mogano, o almeno il suo legname, fin dal loro arrivo nelle Antille. Si dice che sia fatta di mogano una croce, datata 1512, conservata nella cattedrale di Santo Domingo, così come alcuni arredi dell'Escorial del tempo di Filippo II. Gli spagnoli però lo utilizzarono soprattutto per le costruzioni navali, e anche nei possedimenti francesi delle Antille fu scarsamente sfruttato. A lanciarne la voga furono dunque gli inglesi, soprattutto dopo il 1721, quando un decreto del Parlamento britannico eliminò i dazi per il legname importato dalle Indie britanniche. Nel corso del secolo, divenne uno dei legnami più apprezzati per ebanisteria, mobili e finiture di prestigio, tanto in Gran Bretagna quanto nelle Tredici colonie; il 90% arrivava dalla Giamaica, il resto dalle Bahamas, con piccoli contributi da altre isole, cui, dopo la temporanea occupazione di Cuba durante la guerra dei Sette anni, si aggiunse anche quest'isola. Attraverso le colonie britanniche, ci è giunto anche il nome mogano. Mentre in spagnolo l'albero - ma anche il suo legname - veniva (e viene) chiamato caoba, un nome derivato da una lingua dei Caraibi, e in francese acajou, dalla lingua tupi, nelle Antille britanniche incominciò ad essere noto come mahogany, una parola dall'etimologia discussa. La spiegazione più diffusa, ma non certo accettata da tutti, la fa risalire a m’oganwo, un nome che gli sarebbe stato dato dagli schiavi neri giamaicani per la sua somigliano con un albero africano (Khaya ivoriensis), chiamato in yoruba oganwo, ovvero "re del legno". Come che sia, il commercio del mogano americano, che nell'Ottocento si estese anche alle altre due specie, divenne così imponente da mettere a rischio la sopravvivenza di questi alberi; il mogano delle Antille era già raro all'inizio del Novecento, e un secolo dopo anche quello centro e sudamericano era avviato sulla stessa strada. Oggi tutte e tre le specie sono incluse nella lista rossa delle piante minacciate; nel 1975 Swietenia humilis è stato inclusa nell'Appendice II CITES (la lista delle piante a rischio di estinzione senza una stretta regolamentazione), seguita nel 1992 da S. mahagoni e nel 2003 da S. macrophylla. Questa è di fatto l'unica specie oggi di una qualche importanza commerciale; dopo che nel 2001 il Brasile ne ha vietato l'esportazione, il maggior produttore è divenuto il Perù, da cui proviene circa il 74% della produzione mondiale, purtroppo in gran parte tagliata illegalmente nella foresta amazzonica. La coltivazione di S. macrophylla, in seguito alle crescenti restrizioni del commercio del mogano americano, alla fine del Novecento è stato introdotta in vari paesi asiatici (India, Bangladesh, Indonesia) e nelle Fiji, ma queste piantagioni sono ancora recenti, con alberi giovani: ecco perché il commercio illegale continua. La soluzione più sostenibile è dunque non acquistare prodotti ricavati dal legname di questi alberi minacciati. D'altro canto nelle Filippine, dove sia S. mahagoni sia S. macrophylla sono state introdotte all'inizio del Novecento, sono considerate specie invasive, con un impatto negativo sul suolo e la biodiversità naturale. Dunque anche l'introduzione al di fuori della loro area d'origine non è senza rischi. La nostra storia comincia in un giardino di Messina; ospite del proprietario, il visconte Ruffo, una sera forse del 1662 il medico e professore universitario Marcello Malpighi vi passeggia, finché un ramo di castagno gli sbarra la strada; lo spezza, ma non lo getta; incuriosito dalla sua natura fibrosa, decide di portarselo a casa per studiarlo al microscopio. E' l'inizio dello studio dell'anatomia vegetale, di cui, insieme a Nehemiah Grew, lo scienziato emiliano è il padre fondatore. Ma anche uno dei padri dell'osservazione al microscopio, dell'embriologia e dell'anatomia comparata, lo scopritore dei capillari, dei globuli rossi, dei recettori sensoriali linguali e cutanei, dei tubuli renali che da lui prendono il nome di glomeruli di Malpighi, dello sviluppo embrionale del baco da seta e dei pulcini, e di molto altro. Recuperando un assist del solito Plumier, Linneo gli dedicò il genere Malpighia, che a sua volta dà il nome alla famiglia Malpighiaceae. E c'è ancora qualche sorpresa. Nemo profeta in patria: Malpighi e Bologna Il 28 dicembre 1667, Henry Oldenburg, segretario della Royal Society (fondata appena sei anni prima) scrive al medico e professore italiano Marcello Malpighi (1628-1691) per invitarlo a corrispondere regolarmente con la società, inviando informazioni e manoscritti su ogni soggetto interessante riguardante le scienze naturali. La lettera - segno della crescente reputazione internazionale di Malpighi - arriva in un momento delicato per lo scienziato bolognese (uno dei tanti, in realtà, della sua vita costellata di contrasti), che accetta di buon grado. Nel 1669 sarà il primo italiano a diventare membro della Society, che sosterrà finanziariamente le sue ricerche, pubblicherà la sua opera omnia e nel 1684, quando egli perde i suoi microscopi in un incendio, gli rifonderà la spesa e gli procurerà nuove lenti. Gli scontri con i sostenitori dell'ortodossia e dell'autorità di Galeno erano iniziati presto, quando Malpighi era ancora studente dell'università di Bologna. Qui prese a frequentare il circolo anatomico che si riuniva attorno a Bartolomeo Massari, dove si praticava la dissezione degli animali e, quando disponibili, di cadaveri umani, Furono forse queste frequentazioni ad attirargli l'ostilità del corpo accademico, e in particolare di Ovidio Montalbani (onnipossente professore di matematica, logica, astronomia e medicina, ma anche astrologo ufficiale della città e autore di fantasiosi almanacchi che firmava come Bumaldus, nome con il quale è entrato nella nomenclatura botanica grazie all'eponimo di Spiraea bumalda). Minacciato addirittura di morte, se volle laurearsi Malpighi dovette piegarsi a dichiarare la sua fedeltà alla medicina galenica. Fu forse per questo che, anche se gli venne proposta una cattedra di logica nell'ateneo bolognese, preferì accettare l'invito dell'arciduca Leopoldo di Toscana e si trasferì a Pisa ad insegnare medicina pratica. I tre anni trascorsi nella città toscana furono decisivi. Malpighi entrò a far parte dell'Accademia del Cimento, che si rifaceva al magistero di Galileo e al metodo sperimentale, legandosi particolarmente al matematico e naturalista Giovanni Alfonso Borelli che lo introdusse alla iatromeccanica, ovvero alla concezione - derivata dal razionalismo cartesiano - che assimilava i corpi di uomini e animali a macchine complesse. Riprese i suoi esperimenti e incontrò lo strumento che l'avrebbe accompagnato per il resto della vita: il microscopio. Nel 1659 un tragico affare di famiglia lo richiamò a Bologna: nel corso di una rissa per strada (molto simile nella dinamica all'episodio di Ludovico-fra Cristoforo nei Promessi Sposi) suo fratello Bartolomeo uccise Tommaso Sbaraglia, primogenito di una famiglia in lite con i Malpighi per questioni di confini e fratello di un altro dei rivali accademici di Marcello, Giovanni Girolamo. Bartolomeo Malpighi fu inizialmente condannato a morte, ma il fratello, grazie all'aiuto del Cardinal Farnese, riuscì a farlo rilasciare dopo meno di un anno di reclusione. Risolta l'incresciosa faccenda, Malpighi rimase a Bologna, assumendo la cattedra di medicina teorica. La sua prima importante scoperta - poi riferita nelle due epistole a Borelli De pulmonibus - è del 1660, quando indentificò la struttura spugnosa del polmone in termini di alveoli circondati da una rete di minuscoli vasi sanguigni e gettò le basi per la comprensione del processo di respirazione. L'anno successivo, partendo dall'osservazione dei polmoni di una rana, fornì la prova che confermava la teoria della circolazione del sangue di Harvey, scoprendo i capillari che mettono in relazione vene e arterie. Erano scoperte rivoluzionarie che lo resero famoso in tutta Europa, ma rinfocolarono più che mai il malanimo, il rancore e l'invidia dei tradizionalisti che, rifacendosi a Galeno, pensavano che il sangue fosse prodotto dal fegato e che i polmoni fossero costituiti da sangue coagulato. A venirgli in soccorso fu l'amico Borelli, che lo convinse a trasferirsi a Messina dove gli procurò una cattedra pagata quattro o cinque volte di più di quella bolognese. Nella città siciliana, dove Malpighi si mosse con prudenza, rinunciando persino a esercitare come medico per non suscitare risentimenti, continuò con grande successo le sue ricerche: studiò gli organi del gusto e del tatto e la loro connessione con il cervello, pubblicando poi i risultati dopo il rientro a Bologna, nel 1665, nei tre opuscoli De lingua (per lo studio delle papille della lingua si avvalse anche dell'aiuto della sua cuoca, che gli insegnò come rimuovere i due strati più superficiali di una lingua bovina, mettendo in evidenza il corpo papillare), De cerebro e De externo tactus organo. Come vedremo meglio in seguito, fu sempre a Messina che incominciò ad occuparsi di anatomia vegetale. Nonostante ogni cautela, anche nella nuova sede non tardarono a scoppiare le polemiche. Malpighi decise di rientrare a Bologna, dove gli fu assegnata la cattedra di medicina pratica e, come medico, si creò una vasta clientela che gli diede una certa agiatezza. Tuttavia, con la decisione di lasciare Messina si inimicò Borelli; fu forse per questo che accettò con entusiasmo la proposta della Royal Society da cui abbiamo preso le mosse, che lo sottraeva all'isolamento. Anche se non interruppe mai gli studi di anatomia (studiando il rene e il sangue, con la scoperta tra l'altro dei globuli rossi), i contatti londinesi lo spinsero ad allargare le sue ricerche, oltre che all'anatomia vegetale, all'embriologia, con De bombyce, sui bachi da seta, 1669 e soprattutto il fondamentale De formatione pulli in ovo, 1673, sull'embrione del pulcino, entrambi pubblicati a Londra a spese della Royal Society. La sua carriera scientifica e la fama internazionale avevano raggiunto l'apice, tanto che dal 1687 la Royal Society ne pubblicò l'opera omnia; ma non bastò per tacitare le polemiche nella provinciale Bologna. Nel 1676 il botanico Giovanni Battista Trionfetti attaccò e cercò di ridicolizzare i suoi studi sull'anatomia vegetale; nel 1689 il libello De recentiorum medicorum studio dissertatio epistolaris ad amicum, uscito anonimo, ma dovuto all'arcinemico Giovanni Girolamo Sbaraglia, sostenne l'inutilità dal punto di vista pratico delle indagini anatomiche e delle osservazioni al microscopio, difendendo le cure tradizionali che si rifacevano all'esperienza diretta e all'insegnamento degli antichi. Nel 1683 la casa di Bologna di Malpighi andò distrutta in un incendio; fu in questa occasione che la Royal Society gli venne in soccorso per ripristinare i preziosi microscopi. Sembra invece non sia mai avvenuta l'incursione nella sua casa di campagna di un gruppo di uomini mascherati guidato da Sbaraglia, che Malpighi racconta in una lettera a un amico: non è il racconto di un fatto reale - come a lungo si è creduto -, ma la metafora grottesca degli attacchi alla sua reputazione subiti da Sbaraglia e soci. Malpighi era ormai stanco delle polemiche; si facevano sentire anche l'età e crescenti problemi di salute. Nel 1691, una nuova svolta: l'ex cardinale di Bologna Antonio Pignatelli venne eletto papa con il nome di Innocenzio XII, e volle con sé il vecchio amico Malpighi come medico personale; nonostante fosse riluttante a lasciare la sua città, egli non poté rifiutare. Il pontefice lo nominò addirittura Cameriere segreto, con lo status ecclesiastico di monsignore e il diritto di esercitare liberamente la professione a Roma; con il che, cessarono anche gli attacchi alla sua persona, ormai divenuta intoccabile. Ma soltanto tre anni dopo moriva in seguito a due colpi apoplettici. Un trattato sull'anatomia delle piante All'origine dell'interesse di Malpighi per l'anatomia delle piante, c'è un piccolo episodio (l'equivalente della mela di Newton) e un convincimento scientifico profondo. Racconta lo stesso Malpighi che quando viveva a Messina (siamo probabilmente nel 1662) una sera stava passeggiando nel giardino di uno dei suoi protettori, il visconte Ruffo; a un certo punto, si imbatté in un ramo di castagno che gli sbarrava la strada; lo spezzò, ma, anziché gettarlo, da quel grande osservatore che era, fu subito colpito dalla sua natura fibrosa. Lo portò a casa e lo esaminò al microscopio, osservando la struttura che oggi chiamiamo xilema, Il convincimento scientifico è quello dell'uniformità della natura, che opera con i medesimi meccanismi in tutti suoi regni. Lo studio dell'anatomia delle piante sarà dunque un grimaldello per comprendere le strutture di organismi più complessi, come egli stesso spiega nella prefazione di Anathome plantarum: "La natura delle cose, avvolta nelle tenebre, si svela solo con metodo analogico, e deve essere investigata nella sua totalità, affinché noi, attraverso lo studio delle macchine più semplici e più accessibili ai sensi, possiamo risolvere la struttura di quelle più complicate". In giovinezza aveva studiato essenzialmente l'anatomia dell'uomo e degli animali "perfetti", ma per comprenderla aveva dovuto passare a quelli più semplici: "questi, avvolti nelle proprie tenebre, rimangono nell'oscurità; per cui è necessario studiarli analogicamente attraverso gli animali semplici. Mi arrise quindi l'indagine degli insetti; ma anche questa comporta le sue difficoltà. Finii quindi a rivolgermi alle piante, in modo che una lunga esplorazione di questo mondo mi aprisse la strada per ritornare ai miei primi studi, partendo dal gradino della natura vegetante". Quando entra in contatto con la Royal Society, ha già fatto molti passi avanti in questo campo e nel 1674 è in grado di inviare a Londra il manoscritto di quello che diverrà il primo volume di Anatome plantarum, pubblicato l'anno successivo dalla società londinese; il libro, scritto in latino, comprende 82 pagine, più un'appendice con il saggio sull'embrione dei pulcini, 54 tavole in bianco e nero con 336 figure, basate su disegni dello stesso Malpighi, un eccellente disegnatore. Solo una quindicina riproducono strutture viste al microscopio perché anche Malpighi, come Grew, integra l'osservazione a occhio nudo (o con una lente di ingrandimento) con quella al microscopio. Dunque lo stesso termine Anatome va inteso più come Morfologia che come anatomia in senso stretto. Nell'introduzione Malpighi rivendica l'importanza metodologica dello studio dell'anatomia delle piante, in precedenza ritenute organismi indifferenziati e privi di organi; egli le concepisce invece come un sistema che può essere diviso in parti con relazioni sinergiche, dunque veri e propri organi. Quindi li passa in rassegna analiticamente, a iniziare dal tronco con la corteccia (cortex) cui è dedicato il primo capitolo. Seguono le parti del fusto (de partibus caulem vel caudicem componentibus), in cui i termini caulis e caudex indicano rispettivamente lo stelo delle piante erbacee e il tronco di quelle legnose. Si passa quindi alla crescita della corteccia e ai nodi (de caudices augumento & nodis) con l'individuazione degli anelli di crescita annuale, di un cilindro legnoso, fasci fibrosi e fasci legnosi. Il quarto capitolo è dedicato alle gemme (de gemmis) di cui è correttamente riconosciuto il ruolo nella produzione di foglie e foglioline, nel caso di piante con foglie composte; vengono esaminate le gemme di varie piante, di cui è riprodotta la sezione longitudinale, e viene descritta la forma generale di varie foglie, poi esaminate nel capitolo successivo (de foliis). Con il sesto capitolo si passa ai fiori (de floribus) di cui Malpighi riconosce esplicitamente il ruolo nella riproduzione, descrivendone varie parti anche se in modo impreciso, e analizzando diversi tipi di fiori e infiorescenze. Non stupisce che il biologo bolognese, che in quegli stessi anni studiava l'embriologia animale, riservi il capitolo più ampio alla formazione del seme (de seminum generatione), dedicato alla fecondazione, alla formazione dell'embrione e alle prime fasi dell'emergenza della plantula, esplicitamente collegata al seme (seminalis plantula). Va nello stesso senso il capitolo successivo, dedicato alla formazione del frutto, significativamente non chiamato così, ma utero (de uterorum augumento & ipsorum succedente forma), presumibilmente inteso come ovario; vengono poi descritti diversi tipi di frutti in modo piuttosto esatto, anche se con una terminologia a volte imprecisa (viene però introdotto il termine pericarpo). Il nono e ultimo capitolo (De secundinis (et) contento plantarum foetu) ritorna sulla questione della formazione dell'embrione prima della germinazione del seme e della nascita della plantula. Nel 1679, sempre a spese della Royal Society, uscì una seconda parte, un volume di 93 pagine e 39 tavole, con 142 figure. Mentre la prima parte può essere considerata un trattato generale sull'anatomia della piante, la seconda parte si occupa essenzialmente di malformazioni e anomalie e strutture specifiche e in qualche senso curiose, con capitoli dedicati a galle, tumori e altre formazioni ipertrofiche, a peli, spine, viticci e formazioni analoghe, a piante eterotrofe e parassite. Di particolare interesse il capitolo sulle galle, che Malpighi spiegò correttamente come escrescenze prodotte dalla deposizione di uova da parte di particolari insetti; una spiegazione che fu contestata tra gli altri da Francesco Redi. In sintesi, in tutti i variegati campi in cui operò, Malpighi aprì nuovi orizzonti o, per dirla con il contemporaneo Domenico Gagliardi (Anatomes Ossium Novis Inventis Illustratae Pars Prima, 1689), nuovi mondi: "come un secondo Colombo del microcosmo, egli scoprì non soltanto uno, ma innumerevoli nuovi mondi nella sola struttura delle viscere", e - potremmo aggiungere - delle piante. Omaggi floreali L'ammirazione di Gagliardi è condivisa da Charles Plumier che pochi anni dopo la morte di Malpighi, nel suo Nova plantarum americanarum genera (1703) lo celebra con la dedica del genere Malpighia, accompagnata da un vero peana: "Il celeberrimo Marcello Malpighi bolognese, professore di medicina, archiatra del sommo pontefice Innocenzio XII, filosofo eminentissimo, membro della Royal Society, accuratissimo esploratore delle opere della natura, gettò le basi della vera anatomia delle piante con un'opera degna di ogni ammirazione, ovvero un ricchissimo tesoro botanico-anatomico che abbraccia 24 trattati". Linneo riprende la proposta in Hortus Cliffortianus e la ufficializza in Species plantarum. Oggi Malpighia è il genere tipo di un'intera famiglia, Malpighiaceae, con oltre 70 generi e 1300 specie, che a sua volta dà il nome a uno dei più vasti ordini delle Angiosperme, Malpighiales, cui fanno capo 36 famiglie e più di 16000 specie (l'8,5% delle Eudicotiledoni). Non male per il bistrattato Malpighi! che del resto è un nome familiare persino agli studenti delle scuole medie, ricordato da parti anatomiche, istituti e accademie, piazze e strade, un'isola dell'Antartide e un asteroide, mentre quello del rivale Sbaraglia è noto solo a pochi specialisti. Malpighia L. comprende un centinaio specie di arbusti e piccoli alberi nativi dell'America tropicale e subtropicale, dal Texas e dalla Baja California a Nord al Perù settentrionale a Sud, passando per l'America centrale e le Antille, dove troviamo il centro di diversità, con 58 specie (di cui 53 endemiche) nell'isola di Cuba. Sempreverdi e molto ramificati, hanno spesso dense chiome, rami spinosi o densamente pelosi, foglie semplici, fiori solitari o raccolti in umbelle, con cinque petali unghuiculati bianchi, rosa, rossi o viola, seguiti da un drupa dall'aspetto simile a una ciliegia. E sono proprio i frutti a far apprezzare la specie più nota, M. emarginata, nota con il nome comune acerola o ciliegia delle Barbados. Dal gusto delizioso, i frutti di acerola sono anche molto salutari perché contengono un'altissima percentuale di vitamina C (sei volte quella dell'arancia), nonché vitamine A, B1, B2 e B3, carotenidi e bioflavonidi; oltre che freschi, vengono consumati sotto forma di succo, marmellata e gelatina; l'estratto del succo è utilizzato, sotto forma di pastiglie, come integratore con ottime proprietà antiossidanti. In alcune erboristerie sono anche disponibili panetti di polpa essiccata. M. emarginata è talvolta confusa con M. glabra, che tuttavia ha fiori assai diversi e frutti più piccoli e insipidi. Ha invece essenzialmente usi ornamentali M. coccigera, un arbusto originario dei Caraibi, con foglie dai margini spinosi che ricordano quelle dell'agrifoglio e fiori con petali bianchi frastagliati seguiti da bacche rosse molto apprezzate dagli uccelli. Sempre nell'ambito delle Malpighiaceae, troviamo ancora due omaggi indiretti a Malpighi. Il primo è il genere Malpighiodes Nied. (ovvero "affine a Malpighia"), che comprende quattro specie di liane legnose diffuse tra il Venezuela, le Guiane e il Brasile settentrionale. Il maggiore tratto distintivo sono le aeree infiorescenze a dicasio, con 4 o 8 fiori portati in coppie di umbelle o corimbi; le corolle, a simmetria bilaterale, hanno petalo posteriore differente dagli altri quattro; il frutto è una samara con ali membranacee o ridotte. Sorprendentemente, si rifà a Malpighia anche il genere Galphimia: infatti ne è l'anagramma! L'enigmista che si divertì con questo gioco di parole non è altri che l'abate Cavanilles, il direttore dell'orto botanico di Madrid. Con circa 25 specie di grandi erbacee, arbusti e piccoli alberi, si estende dal Messico al bacino dell'Amazzonia, con centro di diversità in Messico, con una ventina di specie. Quella più nota è la bella G. gracilis, un arbusto originario del Messico orientale, spesso coltivato nei giardini a clima mite per l'alta resistenza alla siccità e i racemi di brillanti fiori gialli. Tanto per fare un po' di confusione, è commercializzata anche come G. brasiliensis o G. glauca (o anche Tyrallis brasiliensis e T. glauca), che però sono specie diverse. Dalle foglie e dai fiori essiccati di G. glauca si ricava un tè con proprietà rilassanti, dovute alla presenza di galpimina B; ecco perché in Messico è nota come noche buena o buena noche, la pianta della buona notte. Estratti di questa pianta sono usati in fitoterapia e omeopatia per contenere i disturbi da ansia e alcune allergie. Negli anni '70 del Settecento, il dottor Fothergill era il medico più quotato e più pagato d'Inghilterra. Quacchero, usava i suoi ingenti guadagni per opere di bene, ma anche per togliersi qualche capriccio: primo fra tutti un giardino che, a sentire Banks, era superato per ricchezza di piante esotiche solo dai giardini reali di Kew. Indaffaratissimo, il dottore non aveva tempo per occuparsene di persona, ma aveva al suo servizio uno stuolo di giardinieri, senza parlare dei cacciatori di piante che sguinzagliava ai quattro angoli del mondo. Così, secondo il suo biografo, nel giardino di Upton il circolo polare artico si incontrava con l'equatore. A ricordarlo, il genere nordamericano Fothergilla, dedicatogli da Linneo in riconoscimento dei suoi molti meriti come patrono del giardinaggio britannico. Strade nuove per la medicina Meno noto di altri parchi londinesi, il West Ham Park è un vasto parco situato nel borgo di Newham, uno dei quartieri nordorientali della "Grande Londra". Oltre a un roseto, ospita un importante arboreto con la collezione nazionale di Liquidambar. Un esemplare storico di Gingko biloba, piantato nel 1763, sta a testimoniare che nel XVIII secolo qui c'era un giardino che fu definito il "secondo per importanza dopo Kew". Era il parco di Upton House, una elegante casa di campagna che, dopo essere passata attraverso varie mani ed essere stata ribattezzata Ham House, fu demolita nel 1872. Poco dopo il parco passò alla città di Londra che ancora lo gestisce. A far piantare quell'albero a lato della casa (lo mostra chiaramente la deformazione della chioma) era stato il celebre John Fothergill (1712-1780) che l'anno prima aveva acquistato la proprietà con i proventi della sua fortunata carriera di luminare della medicina. Fothergill, uno dei numerosi figli di un fattore e predicatore quacchero, nacque nel 1712 nella fattoria di famiglia, chiamata Carr End, presso Bainbridge nello Yorkshire. Forse furono i racconti del padre, che in gioventù aveva visitato più volte le colonie americane per conto dei fratelli quaccheri, a fargli sognare ed amare la natura esotica. A sedici anni fu collocato come apprendista presso un altro fratello quacchero, un farmacista di Bradford che era anche libraio e incoraggiò il suo amore per lo studio. Fothergill avrebbe voluto iscriversi all'università, ma i dissidenti religiosi non erano ammessi negli atenei inglesi. Così si immatricolò ad Edimburgo per seguire i corsi di farmacia; ma fu notato dal celebre professore di anatomia Monro I che lo convinse a passare a medicina. Tra i suoi condiscepoli Alexander Russell, che sarebbe rimasto suo intimo amico per tutta la vita. Durante gli anni di Edimburgo Fothergill approfondì la conoscenza del latino e perfezionò un metodo basato sull'analisi e il confronto tra le "autorità" e i casi reali. Nel 1736 si laureò con una tesi sugli emetici e si trasferì a Londra per il praticantato presso l'ospedale St Thomas, dove studiò per due anni con un altro professore eminente, sir Edward Wilmot. Nell'estate del 1740, in compagnia di alcuni amici facoltosi, visitò l'Olanda, il Belgio, la Germania e la Francia, quindi si stabilì a Londra. Come laureato a Edimburgo, non aveva la licenza per praticare in Inghilterra e dovette dedicarsi all'assistenza dei più poveri: un'esperienza che gli permise di crearsi una reputazione di medico abile, gentile e caritatevole. Egli stesso più tardi avrebbe commentato: "Mi sono arrampicato sulle spalle dei poveri fino alle tasche dei ricchi". Nell'ottobre del 1744 fu il primo laureato di Edimburgo ad essere ammesso al Royal College of Physicians di Londra; poté così esercitare legalmente e aprire uno proprio studio. Quello stesso anno tenne la sua prima conferenza alla Royal Society, dedicata a un argomento allora inedito: la respirazione bocca a bocca. Da quel momento la sua reputazione non fece che crescere, come dimostrano le varie istituzioni mediche e scientifiche che lo accolsero tra i propri membri: il Collegio di medicina di Edimburgo (1754), la Royal Society (1763), l'American Philosophical Society (1770), la Reale società di medicina di Parigi (1776). Tra il 1746 e il 1748 Londra fu colpita da un'epidemia di scarlattina. Fothergill riuscì a salvare molti pazienti abbandonando le inutili cure tradizionali, basate su salassi e purganti, e trattandoli con vino, minerali acidi attenuati e blandi emetici. Frutto di questa esperienza fu Account of the Sore Throat Attended with Ulcers, che contiene anche una delle prime descrizioni della difterite. Nel 1748-49, allo scoppio di un'epidemia di peste bovina, raccomandò di isolare gli animali infetti e di sospendere mercati e fiere fino all'eradicazione del contagio. Era anche un deciso sostenitore dell'inoculazione del vaiolo, per la quale fu consultato persino dalla zarina Caterina II. Nel 1773, in Affection of the Face, fu il primo a identificare e battezzare la nevralgia del trigemino. Ormai era un medico alla moda, il più conteso da nobili pazienti e il meglio pagato di Londra. Si dice che negli anni '70 lavorasse anche venti ore al giorno, guadagnando la somma allora enorme di 5000 sterline l'anno (equivalente a 700.000 sterline di oggi). Durante l'epidemia di influenza del 1774-75 giunse a visitare sessanta pazienti al giorno. Era anche un filantropo, impegnato in molte battaglie civili. Si batté per la riforma delle carceri, presentò una proposta per l'istituzione di bagni pubblici, finanziò la pubblicazione della cosiddetta "Bibbia quacchera" e la fondazione della Ackworth School nello Yorkshire, destinata ai bambini della comunità quacchera. Amico di Benjamin Franklin, finanziò la pubblicazione dei suoi scritti sull'elettricità, di cui scrisse la prefazione; come membro della comunità quacchera, oltre che con Franklin era in contatto con altri correligionari delle colonie, della cui situazione era ben informato e che visitò a più riprese. Un altro dei suoi amici era l'abolizionista e educatore di Filadelfia Anthony Benezet. Nel 1775, dopo il Boston Tea Party, insieme a Franklin e David Barclay elaborò una proposta conciliatrice che però cadde nel vuoto. A questo punto, fu uno dei firmatari della petizione presentata al re dai quaccheri per caldeggiare un accordo pacifico. Il giardino dove il circolo polare incontra l'Equatore Tra tanti impegni professionali e sociali, Fothergill trovava ancora incredibilmente tempo per coltivare gli studi naturalistici, una passione diffusa tra i fratelli quaccheri, cui erano vietati divertimenti più mondani come il gioco, il teatro o i balli. Collezionava minerali, insetti e conchiglie, finché grazie a un confratello scoprì le piante. Come scrive egli stesso in una lettera a Linneo del 1774, si trattava del mercante Peter Collinson che lo convinse a investire una parte dei suoi guadagni nella creazione di un giardino botanico. Deciso a fare le cose in grande, nel 1762, Fothergill acquistò una proprietà di una trentina di acri nei pressi di Stratford, che all'epoca faceva parte della contea dell'Essex. Fece ampliare la casa, ribattezzata Upton House, e negli anni successivi estese la superficie della proprietà fino a 60 acri (24 ettari). Immediatamente mise mano alle sue vaste risorse finanziarie e alla rete di amici e corrispondenti per creare un giardino raffinatissimo, sul quale Banks si espresse in questi termini: "Secondo me, nessun altro giardino europeo, appartenga a un reale o un privato, è così ricco di piante rare e preziose. E' secondo solo a Kew per attrarre visitatori dall'estero". Per riuscire in tanta impresa, Fothergill affrontò "spese raramente sostenute da un singolo individuo. [...] si è procurato da ogni parte del mondo un gran numero delle piante più rare, e le ha protette negli edifici più grandi che il paese abbia mai visto". Nella mappa dell'Essex, disegnata nel 1777 da Chapman e André, Upton compare come un giardino recintato di 5 acri (2 ettari) circondato da un parco alberato. Più tardi (Fry, History of the Parishes of East and West Ham, 1888) fu descritto così: "Un canale tortuoso, a forma di mezzaluna, divideva il giardino in due parti, aprendosi occasionalmente su arbusti esotici rari. Dalla casa una porta a vetri dava accesso a una successione di serre fredde e calde, che si estendevano per quasi 260 piedi [circa 80 metri] e contenevano oltre 3400 diverse specie esotiche. All'esterno, in piena terra c'erano quasi 3000 specie diverse di erbacee e arbusti". Tra le piante coltivate all'aperto, c'erano moltissime specie di perenni da fiore, gruppi di arbusti e molti sempreverdi che rendevano il giardino interessante anche d'inverno, alberi rari provenienti per lo più dall'America settentrionale ma anche dalle Antille, dal Levante, dall'India e dalla Cina. Fothergill fece anche allestire uno dei primissimi giardini rocciosi, che forse precede quello di Chelsea (1773). Il fiore all'occhiello erano però le grandiose serre, dove aranci e mirti fiorivano liberamente e c'era addirittura un esemplare di tè (Camellia sinensis) che gli fu spedito dalla Cina nel 1769; trapiantato all'esterno, ma protetto d'inverno con una serra mobile e stuoie, fiorì per la prima volta nel 1774 (una novità assoluta in Europa) e raggiunse la ragguardevole altezza di 20 metri. Con una vita professionale tanto intensa, Fothergill riusciva a godersi il giardino solo occasionalmente, rubando qualche ora ai suoi pazienti. Lo affidò alle abili cure di un esercito di 15 giardinieri; tra i suoi protetti, c'erano anche quattro pittori, incaricati di immortalare le piante più rare in acquerelli su pergamena. Uno di loro era Sidney Parkinson, l'artista del primo viaggio di Cook. Ma per lui lavorarono anche artisti rinomati come Ehret e Miller. Alla sua morte, una collezione di 2000 dipinti su pergamena fu acquistata da Caterina II ed è stata solo recentemente ritrovata in un museo di San Pietroburgo. Egli aveva anche un'ampia biblioteca e un erbario di circa 600 esemplari, diversi dei quali testimoniano la prima introduzione in Europa di specie esotiche; dopo la sua morte fu acquistato da Joseph Jekyll, il nonno di Gertrude Jekyll, ed ora è custodito nel Garden Museum di Londra. Ovviamente, il primo fornitore di Fothergill fu l'amico Collinson, che lo coinvolse nelle sottoscrizioni delle "scatole di Bartram". Anche John Bartram era quacchero e presto instaurò una corrispondenza diretta con Fothergill che dopo la morte di Collinson nel 1768 finanziò per diversi anni le spedizioni di suo figlio William. Cospicue furono anche le raccolte di Humphrey Marshall, pure lui quacchero e cugino dei Bartram, che in cambio ricevette denaro e strumenti scientifici, tra cui un telescopio, un barometro e un microscopio. Diverse piante del Levante gli arrivarono dall'amico Alexander Russell che, come ho raccontato qui, gli inviò tra l'altro i semi del primo Arbutus andrachne a fiorire in Inghilterra. Stabilì contatti con viaggiatori e capitani di marina e fu direttamente coinvolto dall'amico Joseph Banks nel primo viaggio di Cook (1768-1771); come ho anticipato, il pittore ufficiale era il suo protetto Sidney Parkinson, che purtroppo vi trovò la morte. Stessa sorte toccò al suo servitore Thomas Richmond, che accompagnava Banks come aiutante di campo, e morì di ipotermia nella Terra del fuoco. Nel 1771, insieme a Banks appena rientrato dai mari del sud ed una cordata di altri collezionisti, inviò in Sierra Leone Henry Smethman e Andreas Berlin alla ricerca di insetti e piante; dall'Africa, gli inviò piante anche William Brass, uno dei raccoglitori di Banks. Nel 1775 si associò con il collega Robert Pitcairn, presidente del Royal College of Physician, per inviare Archibald Menzies a esplorare le montagne dell'Europa centrale. Per i suoi raccoglitori (i primi ad essere finanziati da un privato e non da un sovrano o da un orto botanico) Fothergill redasse anche sintetiche istruzioni (Directions for Taking Up Plants and Shrubs and Conveying them by Sea); raccomanda loro di preferire piante alte circa un piede, raccolte con un buon pane di terra; per i lunghi viaggi, devono essere sistemate in scatole lunghe quattro piedi, profonde e alte due; quando la scatola è piena a metà, deve essere trasportata a bordo della nave e racchiusa in una fitta rete sostenuta da archetti, in modo da tenere lontani topi di bordo e altri animali; devono essere assicurate la massima pulizia e una eccellente ventilazione. Il capitano va però avvertito dei pericoli della salsedine e in caso di cattivo tempo, bisogna provvedere a una copertura con un canovaccio. Ovviamente Fothergill era assiduo cliente dei più riforniti vivai britannici e scambiava piante con altri appassionati, come John Ellis. Fu tra i finanziatori del Gardener's Dictionary di Miller, alle cui abili mani talvolta affidava la moltiplicazione dei semi ricevuti dai suoi corrispondenti in giro per il mondo; lo stesso faceva con il non meno abile James Gordon. Dopo la morte di Fothergill nel 1780, gran parte delle piante vennero vendute all'asta (tranne ovviamente i grandi alberi del parco, qualcuno dei quali, come il Gingko biloba posto a fianco della casa, è arrivato fino a noi); buona parte delle tropicali furono acquistate da un altro medico collezionista, John Coakley Lettsom, un protetto di Fothergill che lo aveva aiutato a laurearsi e ad avviare la carriera. Lettsom gli dedicò una reverente biografia (Memoirs of John Fothergill, 1786) e elencò le piante tropicali del giardino nel catalogo Hortus uptonensis (ca. 1783). Nel ricordare commosso il giardino ormai scomparso del suo patrono, scrisse: "In quell'angolo fu creata una perpetua primavera, dove l'elegante proprietario talvolta si ritirava per qualche ora a contemplare i prodotti vegetali dei quattro quarti del mondo riuniti nella sua proprietà. Qui sembrava che il globo fosse stato alterato e che il Circolo polare artico si congiungesse con l'Equatore". Come Anamelis divenne Fothergilla Al dottor Fothergill è accreditata l'introduzione in Inghilterra di non meno di cento specie di piante, per lo più erbacee, anche se non manca qualche albero o arbusto. Tra questi ultimi, forse anche la specie che immortala il suo nome, Fothergilla gardenii. Sembra che il primo a raccoglierla sia stato un altro amico e corrispondente di John Bartram, il medico scozzese Alexander Garden, che ne parla in una serie di lettere a Linneo, a partire dal 1765. Il grande botanico svedese riteneva si trattasse di una nuova specie di Hamamelis, ma Garden, che aveva potuto confrontarla dal vivo con H. virginiana, pensava andasse attribuita a un genere a sé, che al momento egli battezzò provocatoriamente Anamelis (con alfa privativa: una non-Hamamelis). Per convincere Linneo, lo bombardò di lettere e gli inviò anche esemplari conservati sott'alcool. Linneo cedette solo nel 1773, con grande soddisfazione del medico scozzese che in una lettera del maggio di quell'anno commentò: "Sono veramente felice che questo elegantissimo arbusto, che io chiamavo Anamelis, abbia finalmente ottenuto il posto appropriato, perché mi addolorava molto che fosse costretto a schierarsi sotto bandiere altrui". Nella tredicesima edizione di Systema vegetabilium (1774) Linneo lo fece definitivamente felice immortalando insieme Fothergill, suo corrispondente al quale era grato per quanto aveva fatto a favore della scoperta di nuove piante, e il tenace scopritore. Fothergilla gardenii è una delle tre-quattro specie del piccolo genere Fothergilla (famiglia Hamamelidaceae) endemico degli Stati Uniti sud-orientali, dal Nord Carolina alla Florida; è un arbusto nano, meno diffuso nei nostri giardini di F. latifolia (per alcuni F. major), una specie montana originaria degli Allegheny. Spesso coltivati sono anche gli ibridi tra le due specie, noti come F. x intermedia, che in alcune cultivar hanno foglie blu polvere. Decidue, le Fothergillae in primavera prima di emettere le nuove foglie producono copiose fioriture di fiori bianchi crema privi di petali e con sepali ridotti, ma resi vistosi dai numerosissimi stami lunghi anche due o tre centimetri che si raggruppano in infiorescenze simili a folti piumini. In autunno tornano a dare spettacolo con le foglie che, prima di cadere, si tingono di rosso o arancio brillante. Altre informazioni nella scheda. Nel 1740, lo scozzese Alexander Russell prende servizio ad Aleppo come medico della stazione commerciale della Compagnia del Levante. Vi rimarrà 14 anni, stabilendo ottime relazioni con la variegata e multietnica comunità della città siriana e tutto osservando con occhio libero da ogni pregiudizio. Al suo ritorno in patria, scrive The Natural History of Aleppo. Il libro, improntato agli ideali illuministi, con la sua miriade di informazioni spesso di prima mano su zoologia, botanica, meteorologia, medicina e quella che oggi chiameremmo antropologia, desta un profondo interesse tra gli intellettuali europei e già nel 1760 gli guadagna la dedica del genere Russelia. Ma qui è impossibile non parlare anche del fratello minore Patrick. Di dodici anni più giovane, fin dal 1750 raggiunge Alexander ad Aleppo, quindi ne prende il posto e rimane in Siria per più di vent'anni, guadagnandosi l'unanime stima di locali ed europei. Come medico, studia l'inoculazione del vaiolo e le ricorrenti pestilenze che affliggono la città e diviene un grande esperto di malattie epidemiche e dei metodi per prevenirle. Tornato in patria nel 1771, nel 1781, rispondendo all'appello di un terzo fratello, Claud, lo raggiunge in India. Nel 1785, succede a Johann Gerhard König come naturalista della Compagnia delle Indie; importantissimi saranno i suoi contributi alla conoscenza della flora e della fauna indiane. Il principale frutto delle sue ricerche è An Account of Indian Serpents Collected on the Coast of Coromandel. Nel 1794 pubblica anche un'edizione rivista di Natural History of Aleppo. Un medico scozzese ad Aleppo Nel 1740, per prendere servizio come medico della stazione commerciale (factory) della Compagnia del Levante, giunse ad Aleppo lo scozzese Alexander Russell (ca. 1715-1768). Arrivava da Edimburgo, una città tutt'altro che provinciale, e conosceva Londra, ma non poté che innamorarsi di quella bellissima, ordinata, vivace e prospera città multietnica: "Le moschee, i minareti e numerose cupole formano uno splendido spettacolo, e i tetti piatti delle case situate sulle colline, sorgendo una dietro l'altra, presentano una successione di terrazze sospese, intervallate da cipressi e pioppi". Situata al crocevia tra la via della seta, che collegava l'Impero ottomano con la Cina attraverso l'Asia centrale e la Persia, e la via della spezie, che lo congiungeva con l'India attraverso lo Yemen e la penisola arabica, era la terza città più popolosa dell'Impero, dopo Istanbul e il Cairo. Nelle botteghe del suo suq, uno dei più vasti del mondo, accanto ai prodotti agricoli e ai manufatti locali, come il pregiato sapone d'Aleppo, era possibile acquistare prodotti d'ogni genere e di ogni provenienza: ceramiche e sete cinesi, tappeti e stoffe dell'Asia centrale, metalli persiani, pepe indiano, avorio africano, vetri veneziani. Luogo nevralgico delle strade commerciali che collegavano l'Oriente con i porti del Mediterraneo, fin dal Medioevo Aleppo era frequentata dai mercanti europei, che vi avevano creato empori o stazioni commerciali. Gli inglesi della Compagnia del Levante vi si erano stabiliti verso la fine del Cinquecento e ne avevano fatto la loro principale piazza commerciale. Commerciavano soprattutto tessuti: acquistavano sete persiane e vendevano panni di lana inglesi. Il momento d'oro era durato circa un secolo, ma quando Russell giunse ad Aleppo era già finito: il Mediterraneo e le vie di terra avevano perso la loro centralità rispetto alle rotte oceaniche che ora collegavano in modo diretto la Gran Bretagna con l'India o la Cina; le guerre tra la Russia e la Persia avevano interrotto il flusso delle merci persiane; la Russia stessa aveva aperto nuove vie commerciali che facevano concorrenza alla Compagnia. Mal gestita, sull'orlo della bancarotta, quest'ultima era ormai una realtà residuale, tanto che nel 1754 (per coincidenza, lo stesso anno in cui Russell lasciò la città) la corona le tolse il monopolio del commercio con l'impero ottomano, aprendolo al commercio libero. Ma nel 1740 si godevano ancora gli ultimi barlumi di prosperità. La Compagnia coordinava l'attività di una quarantina di mercanti, disponeva di magazzinieri, facchini, interpreti o dragomanni e di un piccolo staff costituito da un console (che all'occasione agiva anche come diplomatico), un viceconsole, un tesoriere, un cappellano e, appunto, un medico, alloggiati nel caravanserraglio Khan al-Gumruk. Quando arrivò ad Aleppo, Alexander aveva venticinque anni. Era il terzo figlio di un noto avvocato di Edimburgo, aveva ricevuto un'ottima educazione classica e tra il 1734 e il 1735, anche se non aveva conseguito la laurea, aveva seguito i corsi del prestigioso professore Alexander Monro primus, allievo di Boerhaave e esponente della "nuova medicina". Edimburgo era una città intellettualmente vivace, aperta al nuovo non solo nel campo medico, la culla dell'illuminismo scozzese i cui ideali sono ben riconoscibili anche in Alexander Russell: umanitarismo, convivialità sociale, tolleranza religiosa, apertura al diverso, fiducia nella ragione; i suoi maestri gli avevano trasmesso un metodo rigoroso basato sull'osservazione attenta, l'oggettività, la verifica empirica. Nel 1734 Alexander fu uno dei primi membri della Medical Society di Edimburgo; poi forse lavorò come praticante con uno zio chirurgo o come chirurgo navale; certo al suo arrivo ad Aleppo era un medico competente che seppe farsi apprezzare non solo dai dipendenti della Compagnia ma da clienti di ogni provenienza sociale e di ogni etnia e religione: franchi, ovvero europei, greci, turchi ottomani, armeni, ebrei, cristiani siriaci. Presto imparò l'arabo, che parlava fluentemente, e si fece una vasta clientela; era ben accolto in ogni ambiente e si guadagnò la stima di Mehmet Raghib Pasha, il governatore di Aleppo, che gli concesse di praticare la dissezione dei cadaveri e lo nominò medico capo. Nel 1742 in città scoppiò una delle ricorrenti epidemie di peste; Russell ne studiò i sintomi, ne ricercò le cure e le cause e prese a registrarne l'andamento in un diario. Era il primo nucleo di quella che sarebbe diventata Natural history of Aleppo: dagli argomenti propriamente medici, la sua attenzione si allargò al clima, agli animali selvatici e domestici, alle piante non solo medicinali, ai giardini, ai monumenti, agli abitanti, ai loro costumi, ai luoghi di ritrovo, ai commerci. In campo medico, il suo contributo più importante è lo studio della leishmaniosi, di cui diede la prima descrizione in Occidente. Tra gli animali descritti per la prima volta da Alexander, il criceto dorato Mesocricetus auratus, antenato di molti criceti di allevamento. Nel 1750 Alexander fu raggiunto dal fratellastro Patrick (1727-1805), fresco di laurea in medicina appena conseguita ad Aberdeen. Figlio della terza moglie del padre, gli era minore di dodici anni. Anche lui era allievo di Monro I, ma aveva potuto anche seguire i corsi di Francis Home, il primo professore di Materia medica a Edimburgo. Era un naturalista più completo di Alexander e, come quest'ultimo riconosceva apertamente, la sua competenza botanica era ben maggiore della sua. Grazie alla sua assistenza, che ne aveva anche alleggerito i compiti quotidiani, Alexander incominciò ad esplorare in modo più sistematico la flora dei dintorni di Aleppo, deciso a redigerne una lista completa. Delle raccolte botaniche dei due fratelli (Patrick ne ricavò un erbario) si giovarono anche gli amici londinesi, cui essi inviavano semi ed esemplari essiccati. Nel 1754 sulle montagne tra Aleppo e Lataika Alexander raccolse semi di Convolvolus scammonia, di cui inviò i semi a John Fothergill, suo condiscepolo ad Edimburgo e il più stretto dei suoi amici, insieme a una lettera in cui descriveva la pianta e i metodi di raccolta, più tardi pubblicata nella rivista della Medical Society di Londra. Si trattava infatti di una specie di notevole interesse medico, perché dalle sue radici si ricava una resina purgativa, nota come scammonea, che veniva esportata dalla Siria sotto forma di pani ed era soggetta a frequenti adulterazioni. Dopo il rientro a Londra, ne diede alcuni semi anche a John Ellis, che ne informò Linneo. Lo stesso anno raccolse semi del bellissimo corbezzolo greco Arbutus andrachne e ne inviò i semi sia a Fothergill sia all'amico comune Peter Collinson, che li seminarono nei loro giardini; Collinson li passò anche all'abile vivaista James Gordon, notoriamente infallibile nelle semine di arbusti. Il primo a fiorire fu l'esemplare coltivato nei giardini di Fothergill, dove nel 1766 Ehret lo immortalò. All'epoca Alexander si trovava già a Londra. Nel 1754 lasciò Aleppo e rientrò in Inghilterra, passando dall'Italia dove visitò i lazzeretti di Napoli e Livorno. Nel febbraio 1755 era a Londra dove, sollecitato da Fothergill, si dedicò alla preparazione per la stampa di The natural history of Aleppo, and parts adjacent; uscita nel 1756, l'opera era un bel volume in quarto arricchito dalle incisioni di vari artisti, tra cui Ehret e John Miller; in uno stile vivace e spontaneo, offriva una miriade di informazioni di prima mano che spaziavano dalla flora e la fauna al clima, dai monumenti cittadini ai caffè, dalla musica alla vita sociale delle diverse comunità aleppine, senza dimenticare ovviamente lo studio delle malattie epidemiche. Il libro ottenne un notevole successo e lo stesso anno Alexander fu ammesso alla Royal Society. Egli stesso ne era però insoddisfatto e pensava già a una seconda edizione; ma i crescenti impegni professionali e familiari glielo impedirono. Si sposò, ottenne la laurea formale all'università di Glasgow (sempre che non l'avesse conseguita in absentia mentre si trovava ad Aleppo), divenne consulente del governo per la prevenzione delle epidemie, nel 1760 fu ammesso al Royal College of Physicians e assunto come medico del St Thomas Hospital, un incarico che comportava anche l'insegnamento ai praticanti. Grande esperto di malattie epidemiche, che aveva affrontato senza paura durante gli anni di Aleppo, mettendo sempre il bene dei suoi pazienti al primo posto, fu egli stesso vittima di un'epidemia, quella di febbri putride che imperversò a Londra nel 1768. Medico e naturalista in Siria e in India Patrick era rimasto ad Aleppo e aveva preso il posto del fratello come medico della Compagnia del Levante. Abbiamo già visto che era un naturalista più completo del fratello maggiore; come lui era un gentiluomo amabile e un conversatore piacevole. Era dotatissimo per le lingue e si inserì presto nella società aleppina. Anche la sua competenza di medico non fece rimpiangere quella del fratello, anzi la superò. Il Pasha lo stimava tanto da permettergli di indossare il turbante, un simbolo di prestigio raramente concesso agli europei. Tra il 1760 e il 1762 la peste tornò a più riprese ad Aleppo; Patrick ne studiò attentamente le manifestazioni e introdusse metodi di prevenzione, come proteggere bocca e naso con un fazzoletto imbevuto d'aceto. Raccolse le sue osservazioni in un trattato sulla peste, che avrebbe pubblicato molti anni dopo. Ma i suoi interessi erano ancora più vasti di quello del fratello: la conoscenza approfondita dell'arabo gli permise di studiare i testi medici medievali, di raccogliere manoscritti, di interessarsi di letteratura e di musicologia. Sia per interesse personale, sia per contribuire alla seconda edizione di Natural history of Aleppo, proseguì l'opera del fratello, continuando a raccogliere informazioni che inviava nelle sue lettere ad Alexander; due di queste lettere, rispettivamente sui terremoti in Siria e sull'inoculazione del vaiolo furono poi stampate nelle Transactions della Royal Society. Ad Alexander e ai corrispondenti londinesi inviava anche semi e esemplari di piante. I due fratelli non si sarebbero mai rivisti. Patrick infatti lasciò Aleppo solo nel 1771, rientrando in patria nel 1772, quattro anni dopo la morte di Alexander. Inizialmente pensava di stabilirsi ad Edimburgo, ma fu convinto da Fothergill a trasferirsi a Londra. Incominciò subito a lavorare alla seconda edizione di Natural history of Aleppo, doveroso tributo alla memoria del fratello. Grazie a Fothergill, conobbe Banks e Solander che gli furono di grande aiuto per identificare le piante siriane e adeguarne la nomenclatura agli standard linneani. Nel 1777 anch'egli fu ammesso alla Royal Society. Ma prima che potesse terminare quel compito, lo attendeva un nuovo viaggio. Nel 1781 il fratello minore Claude, funzionario della Compagnia delle Indie, fu nominato amministratore capo della Compagnia a Visakhapatnam nella provincia di Madras. Non godendo di buona salute, gli chiese di accompagnarlo in India come suo medico. Anche se aveva già superato la cinquantina, Patrick accettò; durante il lungo viaggio in nave, portò a termine la revisione di Natural history of Aleppo e fu pronto per una nuova avventura. Nell'India meridionale, scoprì una flora e una fauna in gran parte inesplorate; strinse amicizia con Johann Gerhard König e incominciò a raccogliere animali e piante che inviava ai suoi corrispondenti londinesi; alla morte di König nel 1785, ne prese il posto come botanico e naturalista della Compagnia delle Indie. Imparò le lingue locali, incominciò a fare la spola tra le diverse sedi della Compagnia per raccogliere dai medici residenti "ogni genere di informazione sulle piante utili", mettendo insieme un erbario di 900 esemplari. Molte delle specie da lui raccolte sarebbero state pubblicate da Roxburgh (suo successore come botanico della Compagnia) in Plants of the Coast of Coromandel, di cui Russell scrisse la prefazione. Raccolse anche molti animali marini, ma come medico dovette soprattutto confrontarsi con il problema del morso dei serpenti. Incominciò a studiarli, alla ricerca di un metodo che permettesse di distinguere quelli letali da quelli innocui; ne esaminò le scaglie, la dentatura, sperimentò gli effetti dei loro morsi su cani, conigli e galline, verificò l'efficacia di possibili antiveleni. Fu così che conobbe e descrisse per la prima volta molti serpenti precedentemente ignoti alla scienza, tra cui quello che oggi porta il suo nome, la vipera di Russell Daboia russelii, una specie dal morso letale che ancora oggi in India causa ogni anno migliaia di vittime. Nel 1791, insieme a Claude e alla sua famiglia, Patrick ritornò definitamente a Londra per occuparsi della pubblicazione di varie opere, a cominciare dal trattato sulla peste A treatise of plague, uscito quello stresso anno. Nel 1794 fu la volta della seconda edizione di Natural history of Aleppo; anche se per rispetto della memoria del fratello apparve solo sotto il nome di Alexander e fu presentato come una semplice riedizione, in realtà si tratta di un libro in gran parte diverso. La prima parte del volume di Alexander, piuttosto caotica e frammentaria, si trasformò in un volume a sé, suddiviso in capitoli ben articolati; l'apparato di note e la bibliografia si arricchirono di fonti orientali e occidentali; molto argomenti furono trattati in modo molto più approfondito e il tono si fece decisamente più accademico. I vecchi nomi-descrizione prelinneani di Alexander, spesso ripresi dal Dictionary di Philip Miller, con la collaborazione di Banks e Solander vennero sostituiti con le denominazioni binomiali. Oltre ad essere trattato un numero maggiore di piante, crebbero anche le informazioni fornite, soprattutto sugli usi officinali. A questo punto, assolto il debito con Alexander, Patrick, oltre a pubblicare un certo numero di articoli sulle Transaction della Royal Society, poté dedicarsi a una serie di pubblicazioni riccamente illustrate, finanziate dalla Compagnia delle Indie. Nel 1795, come ho anticipato, scrisse la prefazione a Plants of the Coast of Coromandel di Roxburgh. Nel 1796 seguì il primo volume di An Account of Indian Serpents Collected on the Coast of Coromandel; il secondo volume, in quattro fascicoli, uscì tra il 1801 e il 1809, concludendosi dopo la morte dell'autore. Nel 1803 fu la volta di una corposa opera sui pesci, Descriptions and Figures of Two Hundred Fishes. Patrick Russell morì settantottenne nella sua casa londinese nel 1805. Russellia, un fuoco d'artificio di fiori Come ho anticipato, la prima edizione di Natural history of Aleppo fu ben accolta dalla critica e assicurò fama europea ad Alexander Russell. Nel 1760 von Jacquin volle onorarlo con la dedica del genere americano Russelia, di cui aveva raccolto la specie tipo, R. sarmentosa, durante il suo viaggio a Cuba. Qualche anno dopo, sia König sia il figlio di Linneo si ricordarono anche di Patrick con due generi omonimi, ovviamente non validi per la regola delle priorità. Dunque anche Patrick Russell sarebbe a rigori un "botanico senza Nobel", ma la sua vita si intreccia talmente con quella del fratello, i suoi studi sono tanto importanti che era impossibile non dargli il giusto spazio, erigendo anche lui a "dedicatario onorario" del bel genere Russelia Jacq., famiglia Plantaginaceae (un tempo Scrophulariaceae). Diffuso dal Messico alla Colombia passando per le Antille, raccoglie una quarantina di specie di arbusti molto ramificati, eretti o decombenti, con foglie in genere piccole, coriacee o membranacee, piccoli fiori dalla corolla tubolare raccolti molto numerosi in cospicue infiorescenze. Nell'Ottocento diverse specie vennero introdotte dal Messico in Europa e divennero popolari piante da serra: nelle riviste degli anni 30-50 sono citate R. sarmentosa, R. multiflora, R. floribunda, R. rotundifolia e addirittura ibridi orticoli come R. lemoinei (R. juncea x R. sarmentosa) e R. elegantissima. Poi, come spesso succede, la moda cambiò e ora è sostanzialmente coltivata una sola specie, R. equisetiformis. Originaria dell'America settentrionale e centrale dal Messico al Guatemala, è oggi diffusissima nei giardini di tutti i paesi a clima mite, dove si fa apprezzare per la facilità di coltivazione e l'esplosiva fioritura di fiori tubolari color corallo che le ha guadagnato il nome comune inglese firecracker plant, "pianta fuoco d'artificio". Qualche approfondimento nella scheda. Nel settembre 1534, il medico portoghese Garcia de Orta, figlio di una coppia di ebrei espulsi dalla Spagna e costretti alla conversione forzata, sbarca a Goa. A spingerlo a venire in India, da una parte, l'angosciosa situazione dei marrani, gli ebrei convertiti; dall'altra la curiosità per quel mondo esotico, ma in qualche modo familiare, visto che ne sono originarie molte droghe che usa nella sua professione. Si stabilisce a Goa, diventa il medico di fiducia di maggiorenti indiani e portoghesi, commercia in spezie e gioielli, impara dai suoi numerosi corrispondenti i principi delle medicine unani e ayurvedica, fa esperimenti e coltiva un orto botanico di acclimatazione. Frutto di trent'anni di vita e di ricerche nel subcontinente il suo originalissimo Colóquios dos simples e drogas he cousas medicinais da Índia segna il primo vero incontro tra la botanica europea e la flora indiana. Ma, come il suo autore, sarà vittima dell'intolleranza religiosa: dodici anni dopo la sua morte, l'Inquisizione sottopone Garcia de Orta a un processo postumo e ne condanna le spoglie al rogo e i libri all'Indice. Se nonostante tutto, i Colóquios hanno lasciato un segno nella storia della botanica e nella conoscenza delle piante indiane è merito di Corolus Clusius, che li scoprì durante un viaggio in Portogallo e li tradusse in latino. Un medico di origini ebraiche scopre l'India Il 12 marzo 1534, al comando di Martim Afonso de Sousa, ammiraglio dei mari delle Indie, una squadra di cinque navi salpa da Lisbona alla volta di Goa. A bordo, nelle vesti di medico personale dell'ammiraglio e di medico capo della flotta, il dottor Garcia de Orta. Ha poco più di trent'anni, e potremmo considerarlo un uomo arrivato: è molto reputato nella sua professione e da qualche anno tiene lezioni di filosofia naturale all'Università della capitale. Eppure quando don Martim Afonso gli propone di accompagnarlo in India, non esita a lasciare tutto per seguirlo. Dietro quella scelta, almeno due ragioni. Una è il fascino dell'India, ancora quasi inedita per gli Europei, se si pensa che Vasco da Gama è sbarcato sulle sue coste appena nel 1497. Inedita, ma in un certo senso anche familiare, visto che proprio dall'India parte la via delle spezie e proprio da lì arrivano molte delle sostanze che egli usa nel suo lavoro. Anzi, è stupito che i suoi conterranei vedano l'India solo come una fonte di guadagno, senza provare alcuna curiosità per quel mondo tutto da scoprire. La seconda ragione è più drammatica. Garcia de Orta è figlio di una coppia di conversos, ebrei che sono fuggiti dalla Spagna nel 1492 in seguito al decreto di espulsione dei re cattolici e nel 1497, per poter rimanere in Portogallo, si sono dovuti sottomettere alla conversione forzata. Hanno avuto la fortuna di trovare un protettore nel nobile Lobo de Sousa (il padre di dom Martim Afonso), grazie al quale Garcia ha potuto studiare nelle prestigiose università spagnole di Salamanca e Alcalá, e poi avviare una carriera di successo come medico e insegnante universitario. Ma è pur sempre un converso, anzi un marrano (un insulto che forse significa porco) che potrebbe cadere vittima di un pogrom come quello della Pasqua del 1506, quando a Lisbona la folla, istigata dai frati domenicani, massacrò quasi 2000 ebrei convertiti. E si vocifera che l'Inquisizione stia per essere istituita anche in Portogallo. A settembre la flotta getta l'ancora a Goa e Garcia de Orta sbarca per la prima volta nella terra che non lascerà più fino alla morte, trentaquattro anni dopo. Per quattro anni, accompagna il suo protettore in tutte le sue imprese: la cessione di Diu e la costruzione della sua fortezza; la devastazione dei porti del Samorin di Calcutta e dei suoi alleati; la guerra contro i corsari. Ogni volta che ne ha l'occasione, scende a terra, avido di scoperte: osserva ogni cosa, si informa sulle persone, i costumi, le lingue, impara tutto quello che può sulle piante e le tradizioni mediche locali. Un incontro molto importante è quello con il sultano di Ahmadagar, Buhran Nizam Shah, un principe tollerante, che si circonda di uomini di scienza e lettere senza badare alla loro origine; alla sua corte, Garcia da Orta conosce medici arabi e indiani, da cui apprende i principi delle medicine unani e ayurvedica. Nel 1538, quando l'ammiraglio viene momentaneamente richiamato in patria, il medico preferisce rimanere in India: la ama con tutto il cuore, ha ancora molto da scoprire, inoltre i suoi timori si sono concretizzati con l'istituzione dell'Inquisizione anche in Portogallo nel 1536. Si stabilisce a Goa, dove acquista una casa e esercita la professione medica, integrata con attività redditizie come il commercio di spezie e di pietre preziose. Ha molti clienti, sia tra i portoghesi sia tra gli indiani, ma anche incarichi ufficiali, come medico dell'ospedale cittadino e della prigione. Piante indiane e Inquisizione Da questo momento, troppo impegnato con le sue varie attività, Garcia de Orta non viaggia più, ma vivendo a Goa, il centro del commercio portoghese delle spezie, ha modo di incontrare persone di ogni genere e di accedere a molte fonti di informazione. Nelle botteghe multietniche del bazar (i mercanti sono indiani, arabi, persiani) trova oggetti curiosi, frutti esotici, spezie ed erbe medicinali. La sua rete di agenti commerciali e di corrispondenti gli spedisce piante e semi da altre regioni del subcontinente. Il dottore, che oltre al portoghese, all'ebraico e alle lingue classiche, parla bene anche l'arabo, si intrattiene con tutti, si interessa di tutto, ma soprattutto di medicina, spezie, piante: di ciascuna vuole conoscere il luogo di coltivazione, gli usi, gli effetti terapeutici. Nella sua casa c'è un piccolo museo di curiosità (che anni dopo farà la delizia del poeta Luis de Camões, suo intimo amico) e una fornita biblioteca, dove accanto ai classici che ha portato con sé dal Portogallo e ai testi arabi che ha acquistato in India, ci sono tutte le più importanti novità dei medici e dei naturalisti europei che si fa spedire dalla madre patria. Sul retro ci sono un piccolo orto-giardino dove coltiva le piante medicinali che sperimenta sui suoi pazienti e qualche albero da frutto. Nel 1541 Martim Afonso de Sousa ritorna a Goa come viceré, incarico che manterrà fino al 1546, e di nuovo vuole Garcia de Orta come medico personale. Anche i successori lo stimano e uno di essi nel 1548 gli assegna in enfiteusi l'isola di Mombain (qui più tardi sorgerà la città di Bombay, oggi Mumbai); il dottore ora può fare esperimenti molto più in grande nel curatissimo orto botanico o giardino di acclimatazione, dove coltiva piante di ogni provenienza. E' un personaggio estremamente stimato, con molti amici, tra cui appunto Camões, che arriva a Goa nel 1555, e il dottore Dimas Bosque, che vi giunge nel 1558 al seguito del nuovo governatore Constantino de Bragança. E' probabilmente questa rete di amici e protettori a tenere lontane dalla sua persona le ombre dell'Inquisizione. Dal canto suo, il dottore bada ad allontanare ogni sospetto: va a messa ogni giorno, ha relazioni cordiali con francescani, domenicani e gesuiti e assiste alle loro cerimonie pubbliche. Tuttavia, il pericolo si fa sempre più vicino. Nel 1548, le sorelle Isabel e Catarina, rimaste in Portogallo, vengono arrestate; rilasciate, fortunatamente possono raggiungerlo a Goa, insieme alla vecchia madre e alle rispettive famiglie. Ma proprio a Goa, nel 1557, si tiene un processo contro un gruppo di venti conversos accusati di praticare segretamente il giudaismo; poiché nella colonia non esiste ancora l'Inquisizione, vengono inviati a Lisbona dove una donna è arsa viva. E' la premessa per l'istituzione dell'Inquisizione anche a Goa, nel 1560 (a richiederla a gran voce è Francesco Saverio). Orta riesce probabilmente a ingraziarsi l'inquisitore Aleixo Dias Falcão, appena arrivato nell'isola; rassicurato dalla fama del dottore e dai suoi protettori altolocati, nel 1563 egli concede l'imprimatur alla pubblicazione di Colóquios dos simples. Egli ignora che in quel momento Garcia de Orta è già nella lista dei sospetti: nel 1561 a Lisbona è stato arrestato un suo nipote; rilasciato dopo lunga detenzione, ha fatto il nome dello zio e l'Inquisizione portoghese ha aperta un'inchiesta su di lui. Falcão viene a trovarsi in una situazione imbarazzante che forse spiega perché, fino alla morte di Gracia de Orta, avvenuta nei primi mesi del 1568, questi venga lasciato in pace. Ma pochi mesi dopo, sua sorella Catarina è nuovamente arrestata, processata, costretta alla confessione e bruciata viva in un autodafé; sottoposta a tortura, ha denunciato anche il fratello. Se il dottore è ormai irraggiungibile, non lo sono né le sue spoglie né la sua opera. Nel 1572 gli viene intentato un processo postumo, in cui è assolto; ma, processato nuovamente nel 1580, viene condannato: l'Inquisizione ordina di esumare il cadavere e di gettarlo alle fiamme insieme a tutte le copie reperibili dei Colóquios. Il suo nome diventa maledetto e la sua opera proibita. Per una sintesi della vita, si rimanda alla sezione biografie. Dialoghi sui semplici e le droghe dell'India In questo modo rischiò di scomparire l'opera che segna il primo incontro tra la botanica europea e le piante indiane: Colóquios dos simples e drogas e coisas medicinais da Índia, "Dialogo sui semplici, le droghe e la materia medica dell'India", che come ho anticipato Garcia de Orta pubblicò a Goa nel 1563. Era il frutto di un trentennio di studi ed esperienze sulla medicina, le spezie e le piante medicinali dell'India, anche se non sappiamo quando esattamente il medico portoghese abbia iniziato a scriverla. Quando venne data alle stampe, l'arte della tipografia era neonata a Goa, e il tipografo Ioannes de Endem commise tanti errori che per correggerli furono necessarie più di venti pagine di errata corrige, un record nella storia dell'editoria. Il libro è aperto dalla dedica al viceré Martim Afonso de Sousa, dall'introduzione di Dimas Bosque e da due poesie: una di un poeta locale non meglio noto, l'altra di Camões, la prima sua ad essere pubblicata: è una lirica encomiastica in cui il viceré è paragonato ad Achille e Garcia da Orta al centauro Chirone, suo maestro nell'arte medica e nella conoscenza delle erbe. Non mancano giochi di parole tra Orta, il cognome del dottore, e orta, che in portoghese significa giardino. Colóquio dos simples è un'opera originale da ogni punto di vista, a cominciare dalla lingua e dalla forma. Garcia de Orta decise di scriverla in portoghese, anziché in latino, una scelta che ne limitava la diffusione internazionale, ma allargava il pubblico potenziale dei lettori portoghesi ai non specialisti. La forma è quella del dialogo tra due personaggi: lo stesso Garcia de Orta e il dottor Ruano, che si immagina laureato ad Alcalá e appena giunto a Goa con l'intenzione di saperne di più sulle piante medicinali e le spezie indiane. Occasionalmente intervengono anche altri personaggi, tra cui la schiava Antonia, assistente di Orta, Dimas Bosque e un medico indiano. Si ritiene generalmente che entrambi i personaggi principali siano proiezioni dell'autore: Ruano è Orta al momento del suo arrivo in India, un giovane studioso con una preparazione ancora libresca, ma desideroso di apprendere, Orta è sempre lui, ma vecchio e ormai esperto di cose indiane dopo trent'anni di vita e pratica medica in India. Suddiviso in 59 dialoghi, di cui il primo funge da introduzione, Colóquios dos simples tratta in ordine alfabetico una settantina di sostanze medicamentose o semplici, 56 delle quali vegetali; si aggiunge qualche prodotto animale (l'ambra, il benzoino, l'avorio, le perle) o minerale (i diamanti e le pietre preziose). Molte sono allo stesso tempo familiari e esotiche: percorrendo la via delle spezie, raggiungono l'Europa da secoli, sono oggetto del commercio più redditizio (e i portoghesi sono qui proprio per assicurarsene il monopolio), ne parlano gli autori antichi, a cominciare da Dioscoride, Plinio e Galeno, oppure gli scrittori arabi. Tuttavia quelli che arrivano nelle botteghe degli speziali e nelle cucine dei ricchi sono semi, foglie, cortecce, radici essiccate; delle piante in sé, si sa poco o nulla. Orta è perfettamente consapevole di essere praticamente il primo studioso europeo ad averle viste nelle loro condizioni naturali; e, benché conosca bene i classici, proclama che la loro autorità viene meno di fronte all'esperienza diretta: "Inutile cercare di intimorirmi con Dioscoride o Galeno, io dico solo la verità e ciò che so". Altrettanta indipendenza di pensiero dimostra verso i botanici contemporanei, che in Europa discettano da lontano di ciò che non hanno mai visto. Dunque, anche se in Europa di molte piante si conosce il nome o i prodotti, Colóquios dos simples è un'opera di novità assoluta. Ovviamente ci sono le spezie e le sostanze aromatiche note fin dall'antichità e citate dagli autori classici: cannella, cardamomo, chiodi di garofano, zenzero, noce moscata, pepe, aloe, canfora, calamo aromatico, incenso, mirra; quelle che avevano raggiunto l'Europa solo nel Medioevo, di cui parlavano le fonti arabe: curcuma, galanga, sandalo, tamarindo; ma in molti casi, soprattutto per i frutti, quella di Garcia de Orta è la prima trattazione: carambola, giuggiola, mangostano, jackfruit, litchi, cocco delle Maldive, mango, neem. E anche quelle apparentemente note finalmente escono dalla leggenda e dal sentito dire. Ogni dialogo tratta una singola sostanza, o al più un gruppo di sostanze affini, e segue uno schema ricorrente, che possiamo esemplificare con la prima ad essere discussa, Aloe socotrina (Dialogo 2), forse da identificarsi con Aloe perryi Baker. Si inizia con il nome in varie lingue: prima latino e greco, quindi arabo, diverse lingue indiane, spagnolo, portoghese, turco, persiano. Si prosegue con la provenienza: è coltivata in vari luoghi, ma la migliore viene da Socotra. Seguono informazioni sul suo commercio, correggendo la falsa credenza che cresca ad Alessandria, dovuta al fatto che, prima che i portoghesi aprissero la via diretta con le Indie, la via delle spezie faceva capo a quel porto. A questo punto Orta ne discute l'uso medico, riportando sia quanto ne dicono le fonti arabe sia quanto ha appreso da altri medici sia ancora ciò che egli stesso ha sperimentato sui suoi pazienti. La pianta non viene descritta (e questa è l'eccezione, non la regola), ma se ne analizza il sapore e l'odore. Infine si discutono gli effetti collaterali, sui quali, in base alla sua esperienza, Orta si trova in accordo con Avicenna, e in disaccordo con Mesuè (ovvero Yuhanna ibn Masawayh). Nei dialoghi si inseriscono ogni sorta di digressioni, con informazioni sulla geografia, i popoli, i commerci, e aneddoti curiosi. Per la storia della medicina, è di particolare interesse il dialogo 17, in cui, a proposito del Costus, Gracia de Orta dà la prima descrizione clinica del colera. Era una malattia nuova per i medici portoghesi, che non sapevano come curarla; Orta raccolse informazioni sulle cure e le erbe usate dai medici locali, rivolgendosi anche ai loro pazienti portoghesi, visto che i medici indiani era poco inclini a svelare i segreti professionali, e le provò sui suoi pazienti, ottenendo risultati molto migliori di quelli dei colleghi. Eseguì anche un'autopsia su una delle vittime, la prima praticata in Asia da un medico europeo. Traduzioni, rifacimenti, plagi e giardini Pubblicati nella remota Goa in un'edizione infarcita di errori tipografici, in una lingua periferica e condannati all'oblio dall'Inquisizione, nonostante la loro importanza i Colóquios dos simples hanno rischiato di sparire dalla storia della scienza. Libro rarissimo, è stato preservato in meno di venti copie, nessuna delle quali si trova a Goa. Ma prima della condanna, qualcuna aveva fatto in tempo ad arrivare nelle biblioteche portoghesi. Appena un anno dopo la pubblicazione, una capitò nelle mani di Carolus Clusius, che stava visitando la penisola iberica come accompagnatore di un giovane Fugger. Capì immediatamente la sua importanza e decise di tradurlo in latino, la lingua internazionale della scienza. Tornato nelle Fiandre, lo pubblicò ad Anversa per i tipi di Plantin con il titolo Aromatum, et simplicium aliquot medicamentorum apud Indios nascentium (1567). Come spiega lo stesso Clusius nell'introduzione, non si tratta di una traduzione integrale, ma di un compendio e in un certo senso di un rifacimento: "Ho tradotto i Colloqui in latino, quindi li ho ridotti in epitome, scrivendo ogni capitolo in modo individuale e in un ordine più adatto di quello originale, espungendo diversi argomenti che non giudico importanti". In particolare, Clusius elimina la forma dialogica e trasforma il libro in un trattato; scarta le digressioni non rilevanti per la botanica e la medicina; aggiunge un indice dei nomi e le referenze bibliografiche degli autori citati; inoltre, per quanto riguarda l'origine geografica e le virtù medicinali delle piante, integra quanto più possibile il testo con notizie ricevute da altri informatori. Insomma, un libro tutto diverso, e decisamente più rispondente agli standard accademici; senza parlare dell'edizione: non c'è raffronto possibile tra la terremotata edizione dell'apprendista tipografo Joannes de Endem e la curatissima edizione plantiniana, corredata anche da una quindicina di xilografie. Non stupisce dunque che a circolare non sia stata l'edizione originale, ma l'epitome di Clusius; il botanico fiammingo continuò a lavorarci per tutta la vita, pubblicandone cinque edizioni successive, costantemente riviste e ampliate, e incluse quella finale nella sua ultima opera, Exoticorum libri decem (1605). Risalgono anche al testo di Clusius le traduzioni in lingue moderne, come quella italiana precoce di Briganti (1589). E' invece almeno in parte un rifacimento del testo originale di Orta il Tractado de las drogas y medicinas de las Indias Orientales del medico portoghese Cristóvão da Costa, più noto con il nome spagnolo Cristobal Acosta, pubblicato in lingua spagnola nel 1567. Acosta era vissuto a lungo in India e aveva conosciuto di persona Garcia de Orta. Anch'egli riorganizzò la struttura dei Colóquios, ne corresse gli errori, corredò il testo di illustrazioni e aggiunse la trattazione di semplici non contemplati nell'originale; ma il Tractado, in modo meno trasparente del lavoro di Clusius, non si presenta come un'epitome dei Colóquios, ma come un'opera a sé che "verifica" quanto scritto da Orta, come enuncia il sottotitolo: "Trattato delle droghe e delle medicine delle Indie Orientali [...] di Cristobal Acosta, medico e chirurgo che le vide con i suoi occhi: nel quale si verifica molto di ciò che è stato scritto dal dottor Garcia de Orta". Ecco perché molti commentatori parlano esplicitamente di plagio. In ogni caso, grazie a Clusius (che tradusse in latino ed incluse in Exoticorum libri decem anche il testo di Acosta) l'opera e il nome di Garcia de Orta furono conosciuti dai botanici europei, andando a costituire una fonte imprescindibile per gli studiosi successivi. Per leggere il testo originale, tuttavia, bisognò attendere il 1872 quando ne fu stampata la prima edizione moderna, che lo riproduce pagina per pagina ma corregge silenziosamente gli errori tipografici, e quindi non è un facsimile. Seguì tra il 1891 e il 1895 la prima edizione critica commentata. Ormai i tempi erano cambiati e il marrano Garcia de Orta poteva essere riconosciuto come una gloria nazionale. Nel 1998, in occasione dell'Expo di Lisbona, nel Parque das Nações è stato creato il Jardim Garcia d'Orta che ospita cinque giardini tematici con ecosistemi delle zone toccate dai navigatori portoghesi nell'età delle scoperte: la foresta temperata di Macao e dell'isola di Coloane; la vegetazione di Goa, dominata dai palmizi; la foresta tropicale umida di São Tomé e Príncipe; la flora della Macaronesia (Madera, Azzorre e Canarie); la flora semidesertica e le savane della costa orientale dell'Africa. Un piccolo giardino con lo stesso nome si trova anche a Panjim, la capitale del distretto nord di Goa. A rendere omaggio a Orta i botanici avevano pensato da un pezzo, dedicandogli successivamente tre generi: Garcinia, stabilito da Linneo nel 1753; Garciana, creato dal conterraneo Loureiro nel 1770 (oggi sinonimo di Phylidrum); Horta, stabilito dal brasiliano Vellozo e pubblicato nel 1829 (oggi sinonimo di Clavija). L'unico valido è dunque quello linneano; ma poiché Garcia da Orta deve condividerlo con un altro dedicatario, per saperne di più dovete aspettare il prossimo post. Prima che se ne conoscesse la causa (la carenza di vitamina C) lo scorbuto è stato la maledizione dei viaggi oceanici. Ed è proprio lo scorbuto a fare da filo rosso a questo post, con la scoperta in una remota isola antartica di una pianta capace di combatterlo, e la sua dedica a un medico, John Pringle, che aveva salvato la vita di molti soldati inglesi e aveva detto la sua anche su questa malattia e sul modo migliore per prevenirla. Accanto a lui, come comprimari, troviamo nuovamente il capitano Cook e il suo chirurgo William Anderson, ma anche un giovanissimo Joseph Dalton Hooker. Il cavolo delle Kerguelen e il dottor Pringle: prevenire è meglio che curare La vigilia di Natale del 1776 le navi della terza e ultima spedizione di Cook, la Resolution e la Discovery, a metà strada tra il Sud Africa e l'Australia occidentale raggiunsero un gruppo di isole disabitate, sempre battute dal vento glaciale e spesso avvolte dalla nebbia alternata a una pioggerellina incessante. A Natale gettarono l'ancora in una baia dell'isola principale (oggi Grande Terre), che Cook battezzò Christmas Harbour, e vi rimasero per sei giorni. In quell'isola in parte ricoperta dai ghiacci non crescevano né alberi né arbusti, tanto che Cook battezzò l'arcipelago Isole della desolazione; più tardi, i marinai trovarono una bottiglia con una pergamena che attestava che l'isola era già stata raggiunta nel 1772 dal francese Yves Joseph de Kerguelen-Trémarec. Per non privare il collega della gloria della scoperta, Cook cambiò il nome in Isole Kerguélen; per quanto pensasse che "queste isole della desolazione i francesi se le possono tenere", secondo le indicazioni dell'Ammiragliato ne prese formale possesso a nome del re d'Inghilterra con una cerimonia che il chirurgo di bordo, William Anderson, giudicò francamente ridicola. Anderson mise a frutto la breve sosta per esplorare la natura dell'isola; la fauna era rappresentata da foche (si tratta dell'otaria Arctocephalus gazella) e da molti tipi di uccelli, tra cui tre specie di pinguini; la flora nelle aree rocciose era limitata a muschi, licheni e ciuffi d'erba sparsi, ma dove c'era un po' di terra c'erano cuscini, e qui e là estesi tappeti, di una minuscola pianta verdissima con foglie simili a quelle della sassifraga (si tratta di Azorella selago); in alcuni luoghi, cresceva con relativa abbondanza una graminacea (Poa cookii) e, nei luoghi umidi, una pianticella dal gusto acido simile a crescione, forse da identificare con Ranunculus crassipes. In tutto, non più di sedici-diciotto specie, inclusi sei-otto muschi e il notevole lichene Neuropogon taylori. La pianta più interessante cresceva in considerevoli quantità lungo i declivi paludosi: alta circa due piedi, con forti radici rizomatose, era caratterizzata da grandi foglie arrotondate con apice appuntito, raccolte in fitte rosette simili a un piccolo cavolo cappuccio, da cui si ergevano scapi con infiorescenze erette. All'assaggio, le foglie risultavano decisamente acide, segno di sicure proprietà antiscorbutiche. Accettabili crude, bollite in una zuppa risultavano ottime e gradite all'equipaggio, che ne fece grandi scorte in vista della traversata che li attendeva. La pianta era nuova, e Anderson la battezzò Pringlea, senza aggiungere un epiteto. Il dedicatario era il presidente della Royal Society John Pringle. Come Anderson, era scozzese, anzi il più illustre membro della scuola medica di Edimburgo, oltre che esponente di punta dell'Illuminismo scozzese. A renderlo celebre, e a propiziare la sua nomina alla testa della Royal Society, erano stati i grandi risultati conseguiti come medico capo dell'esercito. Cadetto di una famiglia nobile, era stato inviato in Olanda per essere avviato alla mercatura, ma a Leida, affascinato dalle lezioni di Boerhaave, aveva deciso di studiare medicina e si era laureato (come molti conterranei) in quella università nel 1730. I suoi interessi includevano però anche la filosofia, e dal 1733 insegnò filosofia morale all'Università di Edimburgo. Intanto proseguiva la carriera medica e nel 1742 divenne medico personale del secondo Earl di Stair, John Dalrymple, all'epoca comandante dell'esercito inglese nelle Fiandre, che gli affidò la direzione dell'ospedale militare. Nel giugno del 1743, alla vigilia della battaglia di Dettingen in Baviera, su suo suggerimento l'Earl di Stair concordò con il comandante francese, il Maresciallo di Noialles, di considerare neutrali gli ospedali militari di entrambe le parti. Quest'atto è considerato un'anticipazione della Croce Rossa e della Convenzione di Ginevra. Nel 1744 il duca di Cumberland promosse Prigle medico capo dell'armata dei Paesi Bassi. Nei sette anni in cui servì l'esercito, il medico fu colpito dal fatto che la maggior parte delle perdite non avvenivano in battaglia o in seguito alle ferite, ma erano causate dalla dissenteria e da malattie infettive, prima fra tutte la misteriosa "febbre da accampamento" . Grazie alla sua mentalità pratica e aperta, capì che la soluzione stava nella prevenzione, migliorando l'alimentazione e l'abbigliamento e curando scrupolosamente l'igiene di persone e ambienti. Nel 1749 Pringle si stabilì a Londra, dove divenne un medico alla moda. Ebbe così modo di seguire da vicino un'epidemia di "febbre delle carceri", che portò alla morte di molte persone, inclusi vari giudici e il sindaco della città. A partire da questo episodio, pubblicò Observations on the Nature and Cure of Hospital and Jayl Fevers, in cui dimostrò che questa malattia era identica alla "febbre da accampamento": entrambe andavano identificate come tifo e potevano essere prevenute introducendo rigorose misure igieniche. Nel 1752 seguì la sua opera maggiore, Observations on the Diseases of the Army in Camp and Garrison, che gli diede fama europea e gli guadagnò l'ammissione alla Royal Society. In questo testo, considerato l'atto di fondazione della medicina militare, Pringle, anche se non aveva un'idea corretta dell'origine della malattia (che attribuiva a processi di "putrefazione" diffusi dal "miasma", ovvero dall'aria corrotta), individuava giustamente tra i veicoli di diffusione l'affollamento, la scarsa ventilazione, la mancanza di igiene, prescrivendo misure come il distanziamento dei malati, l'arieggiamento dei locali, la cura dell'igiene delle persone e degli ambienti. Negli anni successivi, condusse esperimenti su vari antisettici (fu lui a coniare il termine); dal momento che secondo le teorie di Boerhaave, la putrefazione ha natura alcalina, i mezzi migliori per combatterli sono le sostanze acide; prescrisse anche l'uso dell'ammoniaca. La carriera successiva di Pringle fu ricca di successi. Tra il 1752 e il 1775 uscirono ben sette edizioni di Observations on the Diseases of the Army, inclusa un'edizione tascabile in ottavo. Nel 1766 egli fu nominato baronetto e nel 1774 divenne medico personale del re e della regina. Era un apprezzato e influente membro della società colta della capitale, amico tra gli altri di Benjamin Franklin. Nel 1772 fu eletto presidente della Royal Society, incarico che mantenne fino al 1778, quando diede le dimissioni. Dopo un breve rientro a Edimburgo, che giudicò presto troppo provinciale, ritornò a Londra dove morì nel 1782. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Pringle legò le sue carte al Reale collegio dei medici di Edimburgo, con la singolare clausola che venissero mantenute sotto chiave in perpetuo. Nel 2004, dopo una lunga causa legale, l'accesso ai documenti e la loro pubblicazione sono stati infine consentiti. Va da sé che hanno un notevole valore per la ricostruzione della storia della medicina. Pringle, Cook e lo scorbuto: una storia di equivoci? Il prestigio scientifico e l'alto ruolo istituzionale di Pringle sarebbero già sufficienti a giustificare la dedica di Pringlea da parte di Anderson; del resto, l'unica pubblicazione del giovane chirurgo, An account of some poisonous fish in South Seas, venne trasmessa alla Royal Society sotto forma di lettera proprio a Pringle. Ma tra Pringle, Anderson e Cook (nonché Pringlea) c'è un legame più diretto: lo scorbuto. Benché questa piaga decimasse soprattutto i marinai, non era sconosciuta all'esercito: durante la guerra dei Sette anni (1756-1763) ebbero a soffrirne a più riprese i soldati britannici di stanza in Nord America, quando il prolungarsi dell'inverno rendeva indisponibili vegetali freschi. Dunque, non stupisce che Pringle abbia dedicato la sua attenzione anche a questa malattia. Ai suoi tempi, la causa (oggi sappiamo che si tratta di carenza di vitamina C) era sconosciuta. Fin dal XV secolo, quando i lunghi viaggi transoceanici lo avevano reso un triste compagno di viaggio dei marinai, si erano però scoperti vari rimedi empirici. I portoghesi avevano presto capito che il consumo di agrumi era una prevenzione molto efficace, tanto che crearono frutteti di aranci e limoni a Sant'Elena, un abituale scalo nel tragitto tra l'Europa e il Capo di Buona Speranza. Gli Olandesi invece caricavano le stive delle loro navi di barili di crauti, quasi altrettanto validi. Molti capitani di marina poterono verificare di persona che il rimedio principale era il consumo di verdura e frutta fresca. Ma nonostante queste esperienze, si continuava a morire: nel 1740 il capitano (e futuro ammiraglio) George Amson, nel corso di una spedizione di sei navi in Sud America nei primi dieci mesi di navigazione perse circa 1300 uomini su 2000. A complicare la situazione, c'era anche il fatto che lo scorbuto in genere non provoca la morte in modo diretto, ma piuttosto uno stato generale di prostrazione e debilitazione che favorisce l'insorgere di altre malattie letali: la dissenteria, la tubercolosi, la polmonite, ecc. I medici del tempo dunque tendevano a spiegarlo, più che come una malattia con una causa specifica (che non conoscevano) come uno squilibrio causato da una somma di fattori. Boerhaave (che abbiamo già incontrato come maestro di Pringle) scrisse un trattato sullo scorbuto in cui teorizzò che il morbo fosse causato da un vero e proprio avvelenamento del sangue, reso troppo sottile e alcalino da processi di putrefazione causati dal freddo, dall'umidità e dall'aria corrotta. Nel 1747 il chirurgo navale James Lind, imbarcato sulla nave Salisbury, condusse un esperimento controllato su sei coppie di marinai, ai quali somministrò sostanze diverse ritenute efficaci contro lo scorbuto; nel 1753 espose i risultati nel Trattato sullo scorbuto, nel quale concluse che "i risultati di tutti i miei esperimenti sono che arance e limoni sono i rimedi più efficaci per questo morbo dei mari". Tuttavia, lo scritto non ottenne seguito immediato, forse anche perché il rimedio messo a punto dal chirurgo, lo "sciroppo di Lind", si dimostrò del tutto inefficace; era prodotto facendo bollire il succo di limone, un processo che distrugge la vitamina C, termolabile. Pringle credeva in altri rimedi. Riprendendo le teorie del suo maestro, egli riteneva che, proprio come le febbri tifoidi, lo scorbuto dovesse essere considerato una malattia epidemica di origine putrida, che poteva essere combattuta sia con misure di igiene preventiva (come la ventilazione e la pulizia scrupolosa delle navi) sia assumendo sostanze acide, capaci di ristabilire l'equilibrio del sangue. Certamente, limoni e verdure fresche andavano benissimo, dal momento che sono acidi, ma il rimedio migliore a suo parere era il mosto di malto, oltre tutto economico, facile da trasportare e da somministrare. Durante la digestione, supponeva, i gas acidi prodotti dal malto avrebbero neutralizzato la putrefazione alcalina. Gli ammiragliati pensavano che non ci si fosse un'unica cura efficace, e che la soluzione migliore fosse rifornire le navi di una batteria di rimedi preventivi che includeva la "zuppa portatile" (una miscela di vegetali essiccati), sciroppi di frutta concentrati (tra cui quello di Lind), aceto, mostarda, malto, crauti, melassa, fagioli; non mancava il più drastico, l'elisir di vetriolo. Torniamo dunque a Cook. Durante il primo viaggio (1768-1771) egli riuscì a mantenere in relativa buona salute i suoi uomini, ma a Batavia molti si ammalarono di "dissenteria" e 30 uomini ne morirono. A privarli delle difese immunitarie, però, forse era stato proprio lo scorbuto. Cook stesso era convinto che la vera causa fosse "la lunga mancanza della dieta ricca di vegetali cui erano abituati in precedenza, e insieme ad essa tutti i disordini della vita in mare". Per il secondo viaggio, era deciso a non ripetere l'esperienza, tanto più che l'esplorazione dei mari più meridionali del globo richiedeva lunghi mesi di navigazione senza scali, nelle condizioni più proibitive possibili. Sia lui sia l'ammiragliato si affidarono dunque proprio all'autorità di Pringle. Le stive della Resolution e della Adventure furono rifornite con 40 barili di malto, 1000 libbre di zuppa portatile, 30 galloni di marmellata di carote, aceto, mostarda, grano, crauti e sciroppi di arance e limoni. Durante il viaggio, Cook impose ai suoi uomini una pulizia scrupolosissima, con il lavaggio quotidiano dei ponti, e approfittò di ogni scalo per approvvigionarsi di cibi freschi, in particolare quei vegetali "acidi" che erano considerati un toccasana contro lo scorbuto. Per convincere i suoi uomini a mangiare i poco graditi crauti, li fece servire ogni giorno alla mensa degli ufficiali. I risultati furono eccellenti: anche se si manifestarono diversi casi (tra i sicuramente affetti, il naturalista Johann Reinhold Forster) tutti furono curati con successo e neppure un uomo della Resolution morì di scorbuto. Sebbene con una piccola riserva, Cook si allineò con Pringle, riconoscendo i meriti del suo rimedio preferito; nella sua relazione alla Royal Society scrisse: "Avevamo a bordo una grande quantità di malto, con la quale è stato preparato del mosto dolce che è stato somministrato non solo agli uomini che manifestavano sintomi di scorbuto, ma anche a tutti coloro che, per vari motivi, sembravano più inclini a questa malattia. Senza dubbio si tratta della migliore medicina antiscorbutica finora trovata; se somministrato in tempo, con la necessaria attenzione a tutti gli altri fattori, io sono persuaso che impedisce allo scorbuto di fare progressi per un lungo periodo; ma allo stesso tempo non è mia opinione che in mare possa curare uno stadio avanzato della malattia". Gongolante, Pringle fece pubblicare la relazione nelle Transactions della Royal Society, ma soppresse la frase sottolineata. E' chiaro che Cook aveva ottenuto un grande successo, ma non sapeva perché. L'ammiragliato continuò a insistere con il malto per altri vent'anni; fu solo intorno agli anni '90 che i limoni (freschi e non in sciroppo) si imposero nella dieta dei marinai della Royal Navy. Una pianta contro lo scorbuto Adesso vi è chiaro perché il cavolo delle Kerguelen fu così apprezzato da Cook, e anche perché il nome Pringlea era particolarmente appropriato. Ma alla pianta mancava ancora il nome specifico. Per acquisirlo dovette aspettare quasi settant'anni e l'intervento di un altro giovane chirurgo: Joseph Dalton Hooker. Hooker arrivò nelle Kerguelen nel 1840 come aiuto chirurgo della Erebus, una delle due navi della celebre spedizione antartica guidata da Ross. Soggiornò nelle isole un paio di mesi, tra maggio e luglio, e ne approfittò per documentarne in modo completo la flora: mentre Anderson (che però era rimasto qui meno di una settimana) aveva trovato non più di 18 specie, Hooker riuscì a raccogliere, identificare e descrivere 150 specie, tra cui 18 angiosperme, 3 felci, 35 muschi, 25 licheni e una cinquantina di alghe. Ovviamente, anche per lui la specie più eccitante era il cavolo delle Kerguelen. Ne apprezzò le qualità alimentari e ne studiò gli effetti: "Per un equipaggio costretto a cibarsi di cibo sotto sale [...] è una verdura molto importante, perché possiede tutte le qualità del suo omonimo inglese, ma al contrario di quello contiene una grande abbondanza di oli essenziali che non producono mai bruciori di stomaco né nessuna delle sensazioni sgradevoli prodotte dalle nostre piante". Aggiunse che il gusto delle foglie crude ricordava quello del crescione, mentre quelle bollite assomigliavano al cavolo cappuccio, e le radici al rafano. Predisse, senza sbagliarsi, che questa pianta sarebbe stato la salvezza dei marinai che avrebbero frequentate quei mari e, finalmente, ne diede la descrizione scientifica e le assegnò un nome completo: Pringlea antiscorbutica. Si tratta dell'unica specie di questo genere ed è davvero parente dei nostri cavoli, appartenendo alla famiglia Brassicaceae. Non è esclusiva delle Kerguelen, ma è presente anche in altre isole dei mari Antartici: Isole Heard e McDonald, Crozet, Principe Edoardo. Sono ambienti proibitivi, a circa 50° grandi di latitudine sud, con clima pre-antartico, costantemente battuti da violente raffiche di vento gelido che non di rado superano i 150 km orari. Qui non esistono insetti che possano impollinarla (nelle isole ci sono insetti, ma quasi privi di ali), e il vento cessa solo in giornate particolarmente miti; in queste condizioni, è discusso se prevalga l'autoimpollinazione o l'impollinazione anemofila. Forse ciò spiega le particolari caratteristiche delle infiorescenze, densi racemi verticali, talvolta ramificati, di piccoli fiori portati su brevi peduncoli; ciascuno ha quattro sepali verdi e pelosi, ma la corolla, formata da quattro piccoli petali, è spesso incompleta o mancante, anche in boccio. Come tutta la vegetazione delle isole, Pringlea antiscorbutica, così abbondante ai tempi di Anderson e Hooker, è oggi a rischio. I tentativi di colonizzazione hanno portato qui topi e conigli, che divorano le radici; e piante aliene stanno sostituendo la vegetazione nativa. Qualche approfondimento nella scheda. Le splendide orchidee del genere Sobralia devono il loro nome al primo medico del re di Spagna Carlo IV, Francisco Martinez Sobral, che raggiunse questo ruolo in tarda età, dopo una lenta carriera al servizio della real casa. E' una figura un po' opaca, ricordata soprattutto per l'amicizia giovanile con Celestino Mutis, con il quale rimase poi in corrispondenza per tutta la vita, e per il ruolo che giocò nella decisione del re di Spagna di sottoporre i propri figli all'innesto del vaiolo, con esiti non felicissimi. Questa pratica, che nel Settecento precedette e in qualche modo preparò la vaccinazione, non era infatti esente da rischi, come il povero Sobral poté constare di persona sui suoi reali pazienti. Una scelta difficile Nel 1794, al vecchio dottor Sobral, decano dei medici di camera e protomedico del re Carlo IV di Spagna, toccò una difficile scelta. L'ennesima epidemia di vaiolo che infuriava nella capitale aveva raggiunto anche il palazzo reale dell'Escurial; tra i colpiti, la piccola infanta Maria Luisa, che era sopravvissuta ma era rimasta sfigurata. Il re rimase molto toccato, tanto più che qualche anno prima, nel novembre 1788, nell'arco di pochi giorni erano morti di vaiolo suo fratello Gabriel, la moglie di lui e a un figlio neonato. Temendo per gli altri figli, incluso l'erede al trono, il re chiese consiglio al dottore: era il caso di tentare di immunizzarli, innestando loro il vaiolo? Noto da secoli in Oriente e giunto in Europa attraverso l'impero ottomano, l'innesto del vaiolo o variolizzazione consisteva nell'iniettare in una persona sana materiale prelevato dalle pustole di un malato che avesse contratto la malattia in forma blanda; solitamente, il paziente si ammalava in modo leggero, divenendo poi immune. Benché fosse un enorme progresso rispetto al decorso normale della malattia, che aveva una mortalità oscillante tra il 20 e il 40%, la pratica non era tuttavia esente da rischi; talvolta si presentavano complicazioni, con circa il 3% di esiti letali. A partire dall'Inghilterra negli anni '20 del Settecento, l'innesto del vaiolo aveva cominciato a diffondersi in Europa e aveva via via conquistato il favore degli illuministi e dell'opinione pubblica colta; anche molti sovrani si erano decisi a far innestare se stessi e i propri eredi, a partire da Giorgio I che, visti gli esiti positivi della sperimentazione condotta su alcuni condannati nel carcere di New Gate, nel 1722 permise la variolizzazione di due nipoti. D'altra parte, proprio l'esperienza inglese stava a dimostrare che i rischi erano gravi: in seguito all'innesto del vaiolo erano morti due principini, nel 1782 Alfred di 2 anni e nel 1783 Octavius di 4 anni. L'ambiente medico spagnolo era stato a lungo fortemente ostile all'innesto del vaiolo. Nel 1757 il Tribunale del protomedicato vietò la diffusione della Memoria sulla inoculazione del vaiolo di La Condamine, argomentando che "non si può permettere la stampa di questo opuscolo perché la pratica di questo rimedio è nociva alla salute pubblica". Tuttavia, anche nella penisola iberica, di fronte alle dimensioni sempre più devastanti delle ricorrenti epidemie di vaiolo, divenuto la prima causa di morte, nella seconda metà del secolo diversi medici incominciarono a sperimentarlo. Nel 1784 il Tribunale del protomedicato e l'Accademia reale di medicina approvarono la pubblicazione del saggio del chirurgo irlandese naturalizzato spagnolo Timoteo O'Scanlan Ensayo apologético de la inoculación o demostración de lo importante que es al particular y al Estado ("Saggio apologetico sulla inoculazione ovvero dimostrazione della sua importanza tanto per i singoli quanto per lo Stato"). Ma la posizione del Protomedicato continuava ad essere cauta: nel 1793 autorizzò la pubblicazione delle opere a stampa sull'inoculazione, ma allo stesso tempo sconsigliava di praticarla come rimedio generale preventivo e di ricorrere ad essa solo in caso di epidemie. La decisione di Sobral, dunque, non era facile. Infine, egli diede il suo assenso e i chirurghi reali, sotto la sua supervisione, inocularono il vaiolo ai principi. Purtroppo, i timori del vecchio dottore erano giustificati; l'erede al trono, il futuro re Ferdinando VII, si ammalò in modo grave e per otto giorni fu tra la vita e la morte, e non recuperò mai del tutto la salute; una delle principesse, Maria Amalia, fu danneggiata nella vista. Sobral ne fu talmente scosso che confidò a un amico: "Il malato si è salvato, ma il medico ha fatto naufragio: non vivrò ancora a lungo". In realtà sarebbe vissuto fino al 1799, sfiorando la settantina. Come il collega (e rivale) Galinsoga, Sobral si era formato come chirurgo (cirujano latino), per poi laurearsi in medicina a Salamanca. Aveva poi perfezionato gli studi presso il reale Collegio di chirurgia di Cadice, all'epoca all'avanguardia in Spagna, dove si legò d'amicizia con uno dei suoi compagni, Celestino Mutis. Nel 1758, Pedro de Virgili, il direttore del Collegio di Cadice, fu nominato chirurgo reale e si trasferì a Madrid, portando con sé come assistenti i suoi migliori allievi, tra cui Sobral e Mutis. Entrambi furono nominati professori supplenti della cattedra di anatomia dell'Hospital general. Per Sobral era l'inizio di una lenta ma sicura carriera che lo avrebbe portato ai vertici delle istituzioni mediche spagnole; trasferitosi all'Escorial, lavorò dapprima all'ospedale del convento di San Lorenzo; nel 1767 fu nominato medico della famiglia reale per i servizi di palazzo; nel 1780 divenne medico di camera e nel 1791 decano dei medici di camera e protomedico. Come tale, era presidente del Tribunale del Protomedicato e dell'Accademia medica di Madrid, di cui era già vicepresidente dal 1784. Dal 1795 fu anche presidente del Collegio reale di medicina. Dopo la morte di Galinsoga nel 1797, assunse anche la funzione di medico della regina e di protomedico dell'esercito. Nonostante questa sfilza di titoli, non ha lasciato molte tracce di sé, eccetto una bella casa che fece costruire nel borgo di San Lorenzo de l'Escurial, non per sé o la propria famiglia, visto che come medico del re aveva diritto a un appartamento nel palazzo reale, ma come forma di investimento; infatti Sobral la affittava alla corona per ospitare gli alti dignitari per prendevano parte alle udienze reali. Una sintesi biografica nella sezione biografie. Bellissimi fiori effimeri Come primo medico del re e presidente del tribunale del protomedicato, Sobral era indubbiamente un uomo di potere, al vertice delle strutture sanitarie della monarchia iberica. Scontata dunque la dedica di uno dei loro generi peruviani da parte di Ruiz e Pavon, che anzi vollero rimarcare il loro rispetto per tanto personaggio battezzando Sobralia un'orchidea dalle fioriture spettacolari. Sobralia è un vasto genere di orchidee per lo più terrestri, o più raramente litofite o epifite, cui oggi sono assegnate oltre 150 specie, distribuite tra Messico, centro America, sud America settentrionale, in vari ambienti tropicali o subtropicali. In alcune aree, soprattutto di montagna, sono abbastanza comuni e formano dense comunità; molto variabili per aspetto e dimensioni, hanno sottili fusti a nodi simili a canne di bambù, foglie bilobate profondamente venate esse stesse decorative, e grandi fiori simili a quelli di Cattleya con un grande labello dai margini arricciati; talvolta sono chiamate con il nome comune "orchidee bambù". Nonostante la loro bellezza, sono coltivate soprattutto da collezionisti perché ogni fiore dura molto poco, anche meno di un giorno. Molte specie sono piuttosto alte, anzi S. altissima detiene il record della famiglia, potendo superare i tredici metri. Tra le specie più note, S. decora che era molto apprezzata in epoca vittoriana non solo per i fiori, meno grandi rispetto ad altre specie, ma anche per la bellezza dei fusti e del fogliame e S. macrantha, con grandissimi fiori da rosa a lavanda. Più rara, ma stupefacente per il colore delle fioriture S. warszewiczii, con profumatissimi fiori azzurro lavanda. Qualche informazione in più nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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