Le testimonianze d’epoca descrivono il protagonista della nostra storia, il barone austro-tedesco Ludwig von Welden, come un militare tutto d’un pezzo, integerrimo e poco incline ai compromessi. Era un uomo d'ordine, fedele cane da guardia della Restaurazione, che nella sua carriera sembra essersi specializzato nella repressione dei moti liberali, da quello piemontese del ’21 alle rivoluzioni del ’48, fino agli anni in cui governò Vienna con il pugno di ferro. Eppure era anche un uomo di profonda cultura, un conversatore affabile, uno scrittore prolifico dalla penna facile e dallo sguardo indagatore, un alpinista appassionato, innamorato delle montagne e dei loro fiori. Tra gli episodi più sorprendenti della sua vita di repressore duro e puro, una romantica storia d'amore con una patriota italiana. Come botanico, fu qualcosa di più di un dilettante, in corrispondenza con importanti studiosi europei; a questo amante della flora alpina è giustamente dedicata una specie montana, non figlia delle Alpi ma dei vulcani del Centro America: Weldenia candida. Tra repressione, montagne, fiori e amori improbabili Il 25 agosto 1825, giorno in cui si festeggia san Luigi, un gruppo di alpinisti capeggiato dal colonnello tedesco Ludwig von Welden raggiunge per la prima volta una delle cime minori del gruppo del Rosa, a quota 4342 metri sul livello del mare. In onore del santo del giorno (ma un po’ anche di se stesso) Welden la battezza Ludwigshöhe, “corno (o cima) di Ludovico”. È solo una delle otto vette del massiccio cui dà il nome nella monografia Il Monte Rosa. Schizzo topografico e naturalistico, pubblicata a proprie spese a Vienna nel 1824. Una di esse è Parrot Spitze, la punta di Parrot, che abbiamo già incontrato parlando dello scalatore dell’Ararat. Come Parrot, anche Welden era un appassionato alpinista. Nato nel Ducato del Württemberg, fin da giovanissimo partecipò alle guerre contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica, a partire dal 1802 nell’esercito austriaco, aggregato allo stato maggiore e al servizio topografico, distinguendosi per il coraggio e lo spirito d’iniziativa; nelle fasi finali del conflitto servì proprio nel settore alpino, anche con funzioni di spionaggio. Nel 1815 fu inviato in Svizzera a osservare i movimenti delle truppe francesi in ritirata e gli furono affidate la ricognizione topografica delle ardue montagne del Giura e l’occupazione di alcuni valichi. Nel 1816 fu promosso colonnello e capo dell’ufficio topografico. Nel corso della carriera militare, oltre che dei panorami delle Alpi si era appassionato anche della loro flora. Ad iniziarlo alla botanica, quando era capitano di stato maggiore a Salisburgo, fu Franz Anton Braune; a Vienna, completò poi la sua formazione alla scuola di Jacquin. Nel marzo 1821, allo scoppio dei moti in Piemonte, fu nominato capo di stato maggiore dei reparti inviati a reprimere l’insurrezione. Fu così che in un salotto torinese incontrò un’affascinante nobildonna lombarda, Teresa Sopransa. Vedova da un ufficiale napoleonico, il conte Ignazio Agazzini, essa faceva la spola tra Milano e Torino per seguire i tre figli, che studiavano in un collegio militare della capitale sabauda. O per lo meno, questa era la copertura. In realtà, all’insaputa del colonnello austriaco, Teresa era una “giardiniera”, ovvero un membro della Carboneria, intima di Federico Confalonieri, e il suo ruolo era proprio assicurare i collegamenti tra i carbonari lombardi e quelli piemontesi. Nonostante dal punto di vista politico militassero in campo opposto, tra i due si accese una scintilla e la contessa invitò Welden a farle visita nella sua villa di Ameno, sul lago d’Orta. Il colonnello raccolse l’invito qualche mese dopo, nel giugno 1821; e nella bella villa di Ameno, oltre che della affascinante contessa, si innamorò del Monte Rosa, di cui poteva godere la splendida vista panoramica. Intanto la rete della polizia si stringeva attorno ai carbonari milanesi; nel dicembre 1821 Federico Confalonieri fu arrestato; nella sua corrispondenza si trovarono diverse lettere di Teresa, compromessa anche dalla confessione dello stesso Confaloneri. La contessa fu arrestata e interrogata; fu molto più ferma dell’amico nel respingere ogni accusa, giustificando quelle lettere con una relazione intima. Dopo poche domande, venne rilasciata, probabilmente proprio grazie all’intervento di Welden. La storia d’amore tra il colonnello austriaco e la “giardiniera lombarda” continuò e i due improbabili innamorati nel 1829 si sposarono a Trieste. Purtroppo, fu un legame di breve durata, perché Teresa morì appena due anni dopo. La passione di Welden per la montagna e i suoi fiori lo accompagnò invece per tutta la vita. Incaricato di dirigere una ricognizione topografica del tratto alpino compreso tra il Monte Bianco e il Monte Rosa, nel 1822 si stabilì a Macugnaga, raccogliendo anche informazioni etnografiche, zoologiche e botaniche, che pubblicò nella già citata monografia sul Monte Rosa, che include una rassegna della flora del massiccio. Nel 1824 visitò Napoli e la Sicilia, entrando in contatto con Tenore, con il quale scambiò esemplari botanici; lo stesso anno, finanziò la pubblicazione sulle piante dalmate raccolte da Portenschlag, Enumeratio plantarum in Dalmatia lectarum. L’anno successivo intraprese una spedizione botanica nelle Alpi attraverso Stiria, Tirolo e Svizzera. Nel 1828 venne trasferito in Dalmazia come aiutante generale; con una flora ricca di endemismi ancora relativamente poco conosciuta, la regione suscitò l’entusiasmo di Welden, che la percorse in molte escursioni, riferite in diversi contributi sulla rivista Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. Come governatore militare di Zara, intorno alla cittadella fece costruire un parco aperto non solo ai militari, ma anche ai civili, il primo parco pubblico del paese (ancora esistente, oggi si chiama Parco Regina Elena Madijevka). Nei tre anni in cui sostenne questo incaricò, estese l'esplorazione anche ad altre zone della penisola balcanica, comprese l’Albania e il Montenegro. Tra il 1832 e il 1838 fu delegato alla commissione militare centrale della Confederazione germanica a Francoforte; continuò a collaborare con la società botanica di Regensburg e con Reichenbach, cui inviò diversi contributi per la sua Flora germanica. Nel 1838, promosso maresciallo di campo, venne nominato comandante della divisione di Graz, e ne approfittò per creare un giardino di gusto romantico con sentieri serpeggianti e piante esotiche lungo le pendici del Monte del Castello (Grazer Schloßberg). Nel 1843, con il grado di generale, divenne governatore del Tirolo; come tale, nel 1848 assicurò i collegamenti tra il generale Radetzky e l’Austria, quindi partecipò a diverse azioni militari in Italia, tra cui il blocco di Venezia e la repressione delle città emiliane insorte. La sua azione decisa e spietata gli guadagnò la stima dell'Imperatore, che in quell’anno difficile lo inviò a controllare l'ordine pubblico prima in Dalmazia, poi a Vienna, quindi in Ungheria, dove si dimostrò tanto inflessibile e più realista del re da essere rimosso dopo pochi mesi. Tornato a Vienna come governatore della città, ripristinò l’ordine con il pugno di ferro, facendo internare migliaia di cittadini e imponendo un pervasivo regime poliziesco, basato sullo spionaggio e la delazione. In cambio, fu promosso Feldzeugmeister, il secondo più alto grado dell’esercito austriaco. Al contrario dei cittadini di Zara e Graz, che gli erano grati per i giardini che aveva fatto costruire per loro, quelli di Vienna, ovviamente, lo odiarono profondamente, a quanto pare ricambiati. Così nel 1851, quando, per ragioni di salute, Welden diede le dimissioni, decise di tornare a Graz, dove morì due anni dopo. Qui, per se stesso, aveva creato un giardino alpino in cui ogni pianta era coltivata nelle condizioni ottimali, che egli aveva studiato dal vivo nei suoi viaggi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Weldenia candida, figlia dei vulcani Come esploratore della flora delle Alpi e della penisola balcanica, Welden segnalò alcune entità ancora sconosciute; tra i nomi di cui ha la paternità, l’unico oggi ancora valido è Anthyllis aurea Welden ex Holst, una bella Fabacea a cuscinetto diffusa in ampia parte della penisola balcanica. Lo ricordano nell’epiteto Plantago weldenii Rchb., la piantaggine di Welden, un’erbacea di diffusione euro-mediterranea; il bellissimo Crocus weldenii Hoppe & Fürnr., lo zafferano di Welden, una specie illirica distribuita dai confini albanesi del Montenegro al Carso triestino e goriziano; Primula x weldeniana (A.Kern.) Dalla Torre & Sarnth., un ibrido naturale tra P. hirsuta e P. spectabilis, raro endemismo delle Alpi meridionali; Centaurea jacea subsp. weldeniana (Rchb.) Greuter, il fiordaliso di Welden, anch’esso un’entità illirica, presente in alcune stazioni delle nostre Alpi orientali. Ma a Welden è stato dedicato anche un genere, che ci porta molto lontano dalle Alpi o dalla penisola balcanica. Il primo esemplare fu raccolto nel cono vulcanico del messicano Nevado de Toluca verso la fine degli anni ’20 dell’Ottocento da Karwinsy e nel 1829 Julius Schultes - figlio di uno dei botanici viennesi amici di Welden - lo denominò Weldenia candida, pubblicandone la descrizione proprio in Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. È l’unica rappresentante di questo genere monotipico della famiglia Commelinaceae, che vive sulle pareti e i crateri dei vulcani di Messico e Guatemala, tra 2400 e 4000 metri. Nel 1893 alcuni esemplari raccolti nel Vulcano de Agua in Guatemala furono introdotti a Kew, dove questa deliziosa piccola specie è ancora coltivata nel giardino roccioso e nel giardino boschivo, dove fiorisce a fine primavera. Ha radici carnose, foglie lineari lanceolate, e cime compatte di fiori candidi con una lunga corolla tubolare trilobata, che ricordano singolarmente un croco. Ciascun fiore dura solo un giorno, ma nelle piante accestite molti fiori vengono prodotti in successione nell’arco di varie settimane. Qualche approfondimento nella scheda.
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I secoli centrali del Medioevo tendono alle imprese gigantesche: si costruiscono cattedrali che toccano il cielo, Dante osa un poema che percorre i tre regni ultraterreni, il domenicano Vincenzo di Beauvais in Speculum majus sintetizza in oltre ottanta volumi tutto lo scibile. Non da meno il confratello Alberto di Bollstädt, più noto con il soprannome Alberto Magno, ovvero Alberto il Grande, che espose per i suoi allievi l'intero corpus aristotelico, spaziando dalla teologia, alla morale, alla logica, alla psicologia, ai diversi settori delle scienze naturali. A differenza di Vincenzo, egli non fu solo un compilatore, ma un pensatore originale, che seppe riunire la più stringente logica aristotelica all'esperienza diretta. E' sua l'unica opera di botanica generale nei diciotto secoli che separano Teofrasto dal Rinascimento, De vegetabilibus et plantis, in cui, tra l'altro, fu il primo a distinguere monocotiledoni e dicotiledoni. Lo storico della botanica Ernest Meyer, curatore della prima edizione critica di questa opera, volle celebrarlo con la dedica della bellissima Alberta magna. Il dottore universale Maestro di san Tommaso, insieme al quale Dante lo fa comparire tra gli spiriti sapienti del cielo del Sole, il domenicano Alberto di Bollstädt, più noto come Alberto Magno, ovvero Alberto il Grande, fu uno dei più grandi pensatori dell'età medievale, un filosofo, un teologo e uno studioso di tale sapienza da essersi guadagnato il soprannome di "dottore universale". Gli sono ascritte almeno venti opere (più altrettante spurie) che spaziano dalla teologia, alla logica, alla metafisica, all’etica, alla politica, alla psicologia, alla astronomia, alla musica, alla mineralogia, alla zoologia e alla botanica. In questo campo, fu anzi l'unico, nel lunghissimo periodo che separa Teofrasto dal Rinascimento, ad aver studiato le piante di per sé, e non per i loro usi pratici, Intorno al 1250, l’ordine domenicano lo incaricò di dirigere lo Studio generale di Colonia, destinato alla formazione dei membri tedeschi dell’ordine. Per “rendere intellegibile” ai suoi allievi la filosofia aristotelica appena riscoperta, Alberto decise di esporla in una serie di commenti, in forma di parafrasi accompagnate da approfondimenti e digressioni. In tal modo, sulla scorta delle opere di Aristotele (vere o presunte), venne a comporre una vera e propria enciclopedia universale, in cui le scienze naturali occupano uno spazio non secondario. Anche se non conosciamo con precisione le date di redazione delle singole opere, è probabile che dopo aver redatto il commento a De anima, in cui si distinguono tre tipi di anima (vegetativa, sensitiva, razionale), Alberto abbia lavorato contemporaneamente al commento delle opere del corpus aristotelico sulle piante (dotate di anima vegetativa) e sugli animali (dotati di anima vegetativa e sensitiva). Per questi ultimi, nel suo De animalibus egli si rifece a tre opere del filosofo greco: Historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium, tradotte all'arabo intorno al 1220 da Michele Scoto e riunite appunto sotto il titolo De animalibus. Il testo di riferimento di De vegetabilibus et plantis è invece lo pseudo aristotelico De plantis, che nel Medioevo veniva attribuito a Aristotele, ma in realtà si deve probabilmente a Nicola Damasceno, storico e filosofo vissuto all’epoca di Augusto. Per arrivare fino al nostro studioso domenicano, queste opere avevano compiuto una strada lunga e tortuosa. A partire dal VI secolo d.C., diversi libri del corpus aristotelico vennero tradotti dal greco in siriaco; nel corso del Medioevo, gli studiosi arabi a loro volta li tradussero in arabo; in questa veste, non molti anni prima della nascita di Alberto approdarono in Europa dove furono tradotti in latino. Di questo gruppo fa parte anche il breve trattato di Nicola sulle piante, tradotto il latino da Alfredo di Sarhesel (Alfredus Anglicus) intorno al 1200. Si trattava di un'operina esile, e certamente insoddisfacente. Alberto ne fece il punto di partenza per una trattazione ben più articolata, arricchita da informazioni ricavate da altre fonti, in particolare il Canone di Medicina di Avicenna e la Practica del medico salernitano Matteo Plateario per le piante officinali, e l’Opus agricolturae di Palladio per l’agricoltura, dall'interrogazione di erboristi e agronomi, ma soprattutto delle osservazioni e dalle indagini dello stesso Alberto, convinto che “in queste questioni la migliore maestra è l’esperienza”. Logica aristotelica e conoscenza sperimentale De vegetabilibus et plantis comprende sette libri, a loro volta divisi in trattati suddivisi in più capitoli. Il primo libro ha funzione di introduzione. Nel primo trattato, Alberto spiega perché, dopo aver studiato l’anima, è bene dedicarsi ai vegetali, esseri viventi dotati di anima vegetativa. Seguono puoi varie riflessioni (sono le prime “digressioni”) sulla vita delle piante, le loro percezioni sensoriali, le loro manifestazioni. Alberto conclude che quella dei vegetali è una vita nascosta (vita occulta): non possiamo studiare direttamente l’anima delle piante, che lavora in modo inavvertito, mentre si manifesta materialmente nel corpo delle piante e nelle funzioni di nutrizione, crescita e propagazione. Nel secondo trattato, Alberto commenta il primo libro dello pseudo aristotelico De plantis, in una parafrasi che funge quasi da sommario degli argomenti che svilupperà in modo originale nel secondo libro (le parti delle piante, il confronto degli organi dei vegetali con quelli degli animali, la classificazione); segue un’analisi delle differenze tra piante coltivate e piante selvatiche, in termini di collocazione, alimentazione, varietà di frutti, profumo, gusto, propagazione. Il cuore dell’opera di Alberto, la parte più originale e interessante ai nostri occhi, è il secondo libro, anch’esso articolato in due trattati, l’unica “botanica generale” dai tempi di Teofrasto, in cui la logica aristotelica si unisce all’esperienza diretta per studiare le piante nella loro essenza (per principium vitae occultae, “secondo l’essenza della loro vita nascosta”) e nella loro manifestazione materiale. Come già in Aristotele e Teofrasto, le piante sono classificate in alberi, arbusti, suffrutici (olus), erbe e funghi, una categoria introdotta per la prima volta dallo stesso Alberto. Comunque il sapiente domenicano si affretta ad osservare che questa divisione è illogica, perché nel corso del suo sviluppo una pianta può passare da una forma all’altra (come le rose, tra le piante da lui più attentamente studiate, che possono presentarsi come arbusti ma anche veri e propri alberi). Egli passa quindi ad esaminare le singole parti, o organi, delle piante, divisi in tre categorie: organi integrali essenziali (partes integrales essentiales); organi accidentali essenziali (partes accidentales essentiales); organi accidentali non essenziali (partes accidentales non essentiales). Gli organi integrali essenziali sono la linfa (succus) che contiene in sé (in potentia) tutte le altre parti della pianta, e le parti attive della pianta (in actu); queste ultime sono loro volta suddivise in membri organici (membra officilia), ovvero quelli che servono a mantenere l’individuo in vita, cioè la radice (radices), i canali attraverso cui scorre la linfa (venae), i nodi (nodi), il midollo (medulla) e la corteccia (cortex), e membri similari (membra similia) che includono il legno, per gli alberi, e la “carne”, ovvero il fusto, per le erbe. La parti accidentali essenziali sono quelle che servono a conservare la specie, non l’individuo: le foglie, i fiori, i frutti e i semi. Nella loro descrizione, Alberto dimostra eccezionale precisione e grande capacità di osservazione: discute la forma e le dimensioni di vari tipi di foglie, e analizza il fiore come presagio del futuro frutto, descrivendo stami, ovario, colori. Inoltre, trattando della corteccia, è forse il primo a distinguere monocotiledoni (tunicatae, ovvero piante dotate di tunica) e dicotiledoni (corticatae, ovvero piante dotate di corteccia). Gli elementi non essenziali sono le spine, distinte per la prima volta da Alberto in quelle derivate dalla modificazione dei fusti e in quelle derivate dalla modificazione delle foglie. Egli è infatti conscio che gli organi delle piante si trasformano; ritiene ad esempio che i viticci delle viti siano grappoli mai formati. Il terzo libro è occupato da due digressioni, la prima dedicata ai frutti e alle loro differenze rispetto alle altre parti della pianta; segue l’esame di vari esempi di frutti e semi, dei loro colori e dei tipi di germinazione. Nel secondo trattato si studiano vari tipi di gusti e odori di frutti, succhi e semi, un elemento che secondo Alberto (che qui si rifà all’esperienza degli erboristi) è essenziale per riconoscere le diverse specie. Il quarto libro è di nuovo una parafrasi dello pseudo aristotelico De plantis, in quattro trattati. Nel primo si esamina la relazione tra le piante e i quattro elementi; nel secondo si trattano le regioni favorevoli o ostili alla fruttificazione; nel terzo le basi della propagazione e della fruttificazione delle piante dotate di radice (con una lunga digressione sulle differenze tra i vari tipi di spina); nel quarto il colore delle piante, la differenza tra sempreverdi e caducifoglie, la linfa di alberi e erbe, la crescita degli aghi di pino in inverno. I due trattati del quinto libro ospitano altrettante digressioni. La prima integra vari argomenti già esposti in precedenza e aggiunge questioni come se possa esserci fusione tra le anime di due piante che crescono insieme (come l’olmo e la vite) e se le piante possano trasformarsi l’una nell’altra. La seconda si occupa delle virtù delle piante, in associazione con i quattro elementi, con particolare attenzione alle piante alimentari, officinali e magiche. Il sesto libro è un vero e proprio erbario ordinato alfabeticamente, in cui Alberto si rifà a Avicenna e Plateario per le piante officinali, ma attinge ampiamente alle proprie conoscenze dirette per trattare specie dell’Europa centrale e del Mediterraneo. È diviso in due trattati, il primo (in 36 capitoli) dedicato agli alberi, il secondo (in 22 capitoli) a arbusti e erbe; di ogni specie, è fornita la descrizione, l’habitat, le proprietà e gli usi. Infine, il settimo libro, basato fondamentalmente su Palladio, è un trattato di agricoltura. Un albero fiammeggiante per il protettore dei naturalisti Riconosciuto già in vita come auctoritas per la sua somma sapienza, per i suoi studi nei campi dell'astronomia, dell'astrologia, della mineralogia e dell'alchimia Alberto ebbe anche fama di mago. Si arrivò ad attribuirgli la scoperta della pietra filosofale e sotto il suo nome circolarono diverse opere spurie, la più nota delle quali è il Libro dei segreti, Liber Secretorum Alberti Magni virtutibus herbarum, lapidum and animalium quorumdam, meglio noto come "Grande Alberto", in contrapposizione al "Piccolo Alberto", un libro di magia alchemica e cabalistica comparso all'inizio del XVIII secolo. Quanto alla Chiesa cattolica, nel 1622 Alberto fu beatificato da Gregorio XV; nel 1931, su sollecitazione dei vescovi tedeschi, fu proclamato santo da Pio XI e riconosciuto come dottore della Chiesa; dieci anni più tardi, Pio XII lo dichiarò patrono dei cultori delle scienze naturali. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Come naturalista, fu noto e apprezzato soprattutto in Germania; tra i suoi estimatori, lo stesso Humboldt. Tuttavia a riscoprire il contributo di Alberto Magno alla botanica fu il tedesco Ernest Meyer, che nella sua Geschichte der Botanik (1854-57) scrisse di lui: "Nessun botanico che sia vissuto prima di Alberto può essere paragonato a lui, tranne Teofrasto, che non conosceva; e dopo di lui nessuno ha dipinto la natura in tali vividi colori, o l'ha studiata così approfonditamente, fino all'arrivo di Conrad von Gessner e Andrea Cesalpino. Tutti gli onori, dunque, vanno tributati all'uomo che ha fatto tali stupefacenti progressi nella scienza della natura, da non trovare nessuno, non che lo sopravanzi, ma che lo eguagli nei tre secoli successivi." Meyer, che fu anche il curatore della prima edizione critica di De vegetabilibus, volle onorare Alberto anche con la dedica di una pianta, battezzando Alberta magna E. Mey. (1838) una spettacolare pianta sudafricana. Appartenente alla famiglia Rubiaceae, è un arbusto o un piccolo albero con lucide foglie sempreverdi simili a quelle degli agrumi, verde scuro nella pagina superiore, più pallide in quella inferiore, e smaglianti infiorescenze di fiori tubolari rosso brillante; nel paese d’origine, fiorisce dalla tarda estate all’autunno (tra febbraio e giugno). In passato furono assegnate al genere Alberta altre specie originarie del Madagascar, che tuttavia successivamente sono state trasferite ad altri generi; oggi Alberta è dunque un genere monotipico endemico delle foreste e dei fondi valle del Transkei nelle province del Capo Orientale e del KwaZulu-Natal. Qualche approfondimento nella scheda. Benché abbia vissuto buona parte della sua vita adulta nella "piatta" Livonia, Friedrich Parrot amava sopra ogni cosa le montagne: le misurava, ne disegnava le carte, le studiava come fisico e geologo, ma soprattutto le scalava. Le aveva scoperte giovanissimo durante una spedizione in Crimea e nel Caucaso; più tardi lo troviamo sulle Alpi, a tentare la scalata del Monte Rosa, e sui Pirenei. Ma il suo nome è soprattutto legato all'Ararat, la sacra montagna di Noè, che riuscì a conquistare nel 1829 al terzo tentativo. Ad accompagnarlo, l'armeno Khachatur Abovian, futuro padre della letteratura armena moderna. A ricordarlo due piccoli generi di piante, ovviamente montane: Parrotia e Parrotiopsis. Uno scienziato innamorato delle montagne Il monte Ararat, nell'Armenia storica (oggi, dopo tanti passaggi di mano, è in territorio turco), non è una montagna come le altre; sulla sua cima (posta a oltre 5100 metri) secondo il racconto biblico si posò l'arca di Noè; per questo motivo, la chiesa armena la ritenne sacra e vietò di avvicinarsi alla cima, dove si riteneva fosse ancora preservata l'augusta reliquia. Dal XVI secolo fino al 1828 la venerata montagna si trovava in territorio persiano, ma quell'anno, in seguito alla guerra russo-persiana del 1826-28, fu ceduta all'impero russo. Fu così che Friedrich Parrot, un giovane scienziato e appassionato alpinista dell'Università di Dorpat, propose allo zar di organizzare una spedizione per esplorarla e cercare di conquistarla. E' curioso che colui che è considerato il padre dell'alpinismo russo e armeno abbia trascorso gran parte della sua vita adulta in un paesaggio piatto e privo di montagne: Dorpat, oggi Tartu, all'epoca una delle principali città della Livonia, era sede di un'antica università che era rinata all'inizio dell'Ottocento, in gran parte grazie all'energica azione di Georg Friedrich Parrot, il padre di Friedrich, che ne divenne anche il primo rettore. Grande scienziato - era un fisico di fama europea - e amico personale dello zar Alessandro I, era riuscito a trasformare quella università periferica in un centro di studi all'avanguardia, che nel corso dell'Ottocento diede un importante contribuito all'esplorazione geografica, geologica e naturalistica di molti territori dell'Impero russo. Friedrich, che era nato in Germania, arrivò in Livonia bambino e, dopo gli studi liceali a Riga e a Dorpat, frequentò i corsi di medicina e scienze naturali all'Università di Dorpat. Era appena ventenne quando, nel 1811, il suo professore di mineralogia, Moritz von Engelhardt, lo invitò ad accompagnarlo in una spedizione scientifica incaricata di effettuare rilievi barometrici in Russia meridionale, Moldavia e Valacchia. Strada facendo, cambiarono itinerario, e si diressero verso la Crimea e il Caucaso. E fu così che Friedrich scoprì le montagne e se ne innamorò. Insieme a Engelhardt, cartografò l'idrografia della Crimea e ne scalò le montagne per stabilirne l'altezza con il metodo barometrico; si spostarono poi verso il Caucaso, seguendo il corso del fiume Terek dalla sorgente alla foce. Oltre a disegnare le mappe di altre montagne, i due scalarono il monte Kasbek, di cui Parrot studiò i piani di vegetazione. Quindi si divisero: mentre Engelhardt misurò il livello del Mar Nero, Parrot misurò quello del Mar Caspio. I risultati della spedizione furono pubblicati nel 1815 in Reise in die Krim und den Kaukasus; Parrot redasse tra l'altro la parte dedicata alla vegetazione del Caucaso. Nel 1812 Napoleone invase la Russia e Parrot, benché non ancora laureato (avrebbe conseguito la laurea nel 1814), lavorò come medico all'ospedale di Riga e poi come chirurgo militare fino alla fine della guerra. Tornata la pace, egli poteva finalmente coltivare la sua passione per la montagna. Nel 1816 tentò di scalare il Monte Rosa, ma raggiunse solo il limite delle nevi. Anche se non riuscì a scalarla, qualche anno dopo gli fu dedicata una delle cime del massiccio, la Punta Parrot. Nel 1817 visitò estesamente i Pirenei, compiendo la prima ascensione della Maladeta e del Pic de Perdiguère. Dopo aver esercitato per qualche anno la professione medica in Germania, nel 1821 tornò a Dorpat come professore di fisiologia e patologia; nel 1826 assunse la cattedra di fisica, lasciata dal padre che si era trasferito a San Pietrburgo. Nel 1828, in virtù del trattato di Turkmenchay, la Persia cedette all'Impero russo parte dell'Armenia e dell'Azerbaigian e il governo russo decise di inviare nella regione una missione esplorativa capeggiata da Parrot. Quest'ultimo pensò che era arrivato il momento di realizzare il suo grande sogno: scalare il monte sacro dell'arca, il grande Ararat. Sottopose il progetto allo zar Nicola I, che lo approvò e garantì una scorta militare. Fu così che nell'aprile del 1829, insieme a un gruppo di studenti di medicina e scienze naturali Parrot partì da Dorpat in direzione dell'Armenia russa. La difficile conquista dell'Ararat Dopo aver raggiunto la steppa calmucca, il gruppo si divise in due parti: mentre il grosso della spedizione si dirigeva direttamente a Mozdok in Ossezia, Parrot, insieme a Maximilian Behaghel von Adlerskron e alla guida militare Schütz, attraversò il fiume Manych e si dedicò a una serie di nuovi rilievi del livello del Mar Nero e del Mar Caspio. La spedizione riunita proseguì poi verso sud attraverso la Georgia; raggiunto il confine armeno, la notizia di un'epidemia di peste nei dintorni di Erevan la costrinse a tornare in Georgia, per esplorare la Chachezia e condurre diverse misurazioni. Solo alla fine di agosto, il gruppo poté raggiungere la città santa di Echmiadzin, sede del catholicos, il Capo della chiesa apostolica armena; benché in generale la chiesa armena considerasse la spedizione sacrilega, il catholicos Yeprem I permise che vi si aggregasse, come guida ed interprete, lo studente di teologia Khachatur Abovian. Insieme a lui, il gruppo attraversò il fiume Aras e si diresse verso il villaggio di Akhuri (oggi Yenidoğan, nella Turchia orientale), posto a circa 1200 metri di altitudine sul versante settentrionale dell'Ararat. Stabilirono poi il campo base presso il Monastero di San Giacobbe, a 1943 metri sul livello del mare. Tra il 12 e il 14 settembre, tentarono una prima volta di raggiungere la cima della montagna dal versante nord-est, ma il freddo e la mancanza di abiti adeguati li costrinsero a rinunciare. Sei giorni dopo, su consiglio del capo villaggio di Akhuri, tentarono la scalata dal versante nord-ovest. Tuttavia furono sorpresi dal tramonto a quota 4885 metri e dovettero nuovamente tornare indietro. Ma, proprio come succede nelle fiabe, il successo doveva arrivare al terzo tentativo: il 27 settembre 1829 Parrot, Abovian, due soldati russi e due guide armene raggiunsero finalmente la cima del grande Ararat; Abovian eresse una piccola croce e raccolse un pezzo di ghiaccio, la cui acqua, per lui sacra, portò poi con sé in una bottiglia. Il 27 ottobre Parrot e Abovian scalarono poi insieme anche l'altra cima della sacra montagna, il piccolo Ararat. Colpito dall'intelligenza, dalla cultura e dallo zelo di Abovian, Parrot istituì per lui una borsa di studio a Dorpat. I sei anni trascorsi dal giovane armeno nella città estone furono estremamente fruttuosi: egli seguì corsi di filosofia, letteratura, scienze sociali e scienze naturali, imparò il tedesco, il russo, il francese e il latino, strinse amicizie e entrò in corrispondenza con molti intellettuali europei. Autore di poesie e di un romanzo storico, è considerato il padre della letteratura armena moderna, oltre che una figura eminente del movimento per la modernizzazione del paese. Quanto al nostro Parrot, non era tipo da accontentarsi di una tranquilla carriera universitaria di professore di fisica, dividendo le sue giornate tra le lezioni, il laboratorio (tra l'altro, inventò un gasometro e un baro-termometro) e la famiglia. Nel 1837 partecipò a una spedizione a Capo Nord e in Lapponia studiò fenomeni connessi con il magnetismo e la rotazione dell'asse terrestre. Al ritorno, già ammalato, ne diede conto in Kurze Nachricht von meiner Reise zum Nordkap; morì a Dorpat nel gennaio 1841. Una sintesi della sua vita avventurosa nella sezione biografie. Parrotia persica & friends Come abbiamo visto, tra gli interessi di questo medico e scienziato polivalente, soprattutto fisico e geologo, rientrava anche la botanica. Durante la sua prima spedizione aveva studiato i piani di vegetazione del Caucaso, e risulta che anche successivamente abbia raccolto piante nell'area del Caspio. E' proprio qui, sui monti dell'Azerbaigian, che vive la pianta destinata a immortalarne il nome nella nomenclatura botanica. Nel 1831 Carl Anton Meyer, un botanico di origine tedesca che aveva studiato a Dorpat con Ledebour e Bunge, con i quali nel 1826 aveva preso parte a una spedizione negli Altai e nella steppa del Kazakistan, decise di dedicargli una delle piante raccolte durante la spedizione, Parrotia persica, un endemismo della catena dei monti Alborz. Appartenente alla famiglia Hamamelidaceae, è un alberello noto soprattutto per lo spettacolare fogliame autunnale: le grandi foglie prima di cadere si tingono di giallo, d'arancio e di rosso. Piuttosto interessante anche la fioritura, che avviene sui rami nudi prima dell'emissione delle foglie molto presto nella stagione, tra febbraio e marzo; i fiori, piccoli e privi di petali, si fabbo notare per i numerosi stami con le antere rosso brillante. A lungo si è pensato che Parrotia fosse un genere monospecifico; solo nel 1998, sulla base dell'esame del DNA, è stata riclassificata come P. subaequalis una specie cinese prima classificata come Hamamelis subaequalis, poi come Shaniodendron subaequalis. E' anch'essa un piccolo albero o un grande arbusto con infiorescenze globose di fiori circondati da brattee e vistoso fogliame autunnale, dapprima bruno, quindi rosso brillante e viola. Molto raro in natura, è stato recentemente introdotto nei giardini (dove la sua sorella più nota era arrivata fin dal 1848, sempre grazie a Meyer, che ne l'aveva riprodotta nell'Orto botanico di San Pietroburgo). Ma c'è anche una "cugina" più lontana, assegnata a un genere a parte, Parrotiopsis, dal botanico C.K. Schneider nel 1905. La sua unica specie è Parrotiopsis jacquemontiana, originaria dell'Himalaya occidentale, dall'Afghanistan al Kashmir, dove vive nelle foreste tra 1200 e 2800 metri, un delizioso arbusto con vistose fioriture primaverili, che appaiono sui rami nudi; a renderli speciali, sono le grandi brattee crema che circondano un fitto ciuffo di stami dorati. Scoperto negli anni '30 dell'Ottocento, fu inizialmente assegnato al genere Fothergilla, quindi a Parrotia, con i nomi Parrotia jacquemontana e Fothergilla involucrata. Per completezza, ricordiamo anche x Sycoparrotia semidecidua, un ibrido intergenerico tra Sycopsis sinensis e Parrotia persica, prodotto intorno al 1950 nell'Orto botanico di Basilea in Svizzera. E' un bellissimo alberello, notevole sia per i fiori, con stami gialli e antere rosse, sia per il fogliame autunnale. Come i suoi colleghi Galinsoga e Sobral, anche il "terzo uomo" della medicina di corte spagnola, Josep de Masdevall, fu omaggiato da Ruiz e Pavon con la dedica di uno dei loro nuovi generi americani. Dei tre, era certo il più meritevole, come attivo ispettore delle epidemie e inventore di un medicamento che per qualche decennio lo rese celebre in Europa, l'oppiata di Masdevall. Oggi, più che con i medici che la decantarono come panacea e febbrifugo universale, a leggerne gli ingredienti tendiamo a schierarci con i monelli di Cadice che la presero di mira in una canzone satirica. Più discutibili ancora le idee di Masdevall in tema di tutela dell'ambiente e di salute dei lavoratori. Indiscutibile è invece la bellezza delle splendide orchidee del genere Masdevallia. Panacea o veleno? Nel 1783 la Catalogna fu devastata da un'epidemia di "calenturas putridas", ovvero di febbri tifoidi, i cui effetti andavano ad aggiungersi a quelli delle endemiche febbri malariche; iniziata nella provincia di Lerida in seguito al transito dell'esercito francese che rientrava dall'assedio di Gibilterra (1779-1783), unito alle pessime condizioni igieniche sanitarie e alle piogge incessanti, si estese rapidamente a gran parte della Catalogna e all'Aragona provocando moltissime vittime. A far fronte all'emergenza, il primo ministro spagnolo Floridablanca inviò una commissione capeggiata dal medico Josep Masdevall, che visitò i borghi coinvolti, impose misure igienico-sanitarie atte a circoscrivere il contagio e impose agli ammalati, qualsiasi fosse la natura delle loro febbri, un rimedio di sua invenzione. Composto da radice di china, sciroppo d'assenzio, carbonato di potassio, cloruro d'ammonio, tartaro emetico, il preparato univa le proprietà febbrifughe della china agli effetti emetici dei sali; assai drastica e per nulla innocua - il tartaro emetico, tartrato di potassio e antimonio, utilizzato fino al Novecento, è altamente tossico - la cura sembrò efficace e trasformò Masdevall nell'astro nascente della medicina spagnola, salutato come l'"Ippocrate iberico". Il ritrovato di Masdevall, noto come elettuario antipiretico e soprattutto come "oppiata di Masdevall", acquistò ben presto fama europea, grazie anche alle capacità imprenditoriali dell'inventore, che lo propagandò nell'instant book Relación de las epidemias de calenturas pútridas y malignas ("Relazione sulle epidemie di febbri putride e maligne", 1786), presto tradotto e pubblicato in Italia, in Francia, nell'impero. La fama del nuovo specifico raggiunse anche le Americhe e il Maghreb; nel 1787, è elogiato dalla Gaceta de Mejico; nel 1800, viene utilizzato per debellare un'epidemia in Marocco. Grazie al successo della sua cura, Masdevall poté scalare i vertici della sanità spagnola: fin dal 1783 fu nominato ispettore generale delle epidemie del principato di Catalogna e medico di camera del re; nel 1785 fu promosso a "medico di camera con esercizio e stipendio" e nobilitato (da allora si chiamò de Masdevall); nel 1788 divenne terzo protomedico di Castiglia e nel 1791 secondo protomedico; nel 1799, alla morte di Francisco Martínez Sobral, la sua carriera culminò con la nomina a primo medico del re, nonché presiedente del Tribunale del Protomedicato, protomedico dell'Esercito e presidente della regia società di medicina. La terapia messa a punto da Masdevall trovò seguaci entusiasti, ma provocò anche polemiche. Tra i più ostili, buona parte dei medici catalani e l'Accademia medica di Barcellona, che attaccò Masdevall con tanta violenza che nel 1784 le autorità proibirono di "parlare in bene o in male del sopra nominato dottor Masdevall e del suo metodo di cura", pena la prigione. Applicata con successo in altre crisi epidemiche anche in Aragona e nella Mancia, si dimostrò invece così inefficace in occasione di un'epidemia scoppiata a Cadice nel 1800 che i monelli la derisero in una canzone il cui ritornello suonava Santo dios, Dios inmortal, libernos de la opiata de Masdevall ("Dio santo, Dio immortale, liberaci dall'oppiata di Masdevall"). Masdevall è anche noto per aver condotto uno dei primi studi sull'impatto ambientale e sanitario delle manifatture tessili. Nel 1784, il conte di Floridablanca, in seguito al divieto della municipalità di Barcellona di installare nuove manifatture di cotone, chiese a Masdevall di studiarne l'impatto per la salute pubblica. Nel suo Dictamen [...] sobre si las fabricas de algodon y lana son perniciosas o no a la salud pública de las ciudades donde están establecidas ("Relazione sulla questione se le fabbriche di cotone e lana sono pericolose o no per la salute pubblica delle città dove vengono edificate") concluse che le preoccupazioni del municipio e dell'Accademia di Medicina pratica di Barcellona erano infondate. Per arrivare a questa conclusione si basò su un ragionamento analogico: dal momento che le sostanze chimiche utilizzate per la tintura e la stampa dei tessuti si impiegavano anche in farmacia con effetti benefici, non potevano danneggiare la salute degli operai e dei cittadini. Stiamo parlando della radice di garanza (Rubia tinctoria), effettivamente usata come disinfettante e antisettico, ma oggi disusata come colorante perché cancerogena; nonché di arsenicati, acqua forte, vetriolo, zucchero di Saturno (ovvero diacetato di piombo), tutte sostanze altamente inquinanti e poco benefiche. Ma le conclusioni di Masdevall erano esattamente quelle che le autorità di Madrid si aspettavano da lui, e contarono non poco nel lanciare la sua carriera di medico di corte. Indubbiamente ambizioso e sempre attento ai propri interessi anche economici, Masdevall fu comunque un medico innovatore, un funzionario solerte e attivo e uno spirito riformatore che propose tra l'altro una riforma del curriculum di medicina che dava ampio spazio al praticantato. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La curiose e coloratissime Masdevalliae La prima Masdevallia fu scoperta da Ruiz e Pavon nell'inverno del 1779 nella valle di Tama in Perù; poiché porta un solo grande fiore violetto, in Prodromus Florae Peruvianae et Chilensis (1794) i due botanici la battezzarono Masdevallia uniflora, in onore appunto del protagonista della nostra storia, all'epoca "terzo uomo" nella gerarchia dei medici di corte dopo Sobral e Galinsoga. Per molti anni fu l'unica specie attribuita a questo genere, ma a partire dagli anni '30 dell'Ottocento le scoperte di nuove specie si moltiplicarono rapidamente; oggi è vastissimo, con oltre seicento specie distribuite dal Messico al Sud America tropicale, con centro di diversità tra Colombia e Ecuador. Sono per lo più epifite delle foreste nebulose d'altura, tra 2000 e 4000 metri, dove vivono sui rami ricoperti di muschio, in una situazione di umidità costante. Essendo così vasto, il genere è anche molto vario, ma con alcune costanti piuttosto riconoscibili: prive di pseudobulbi, hanno rizomi striscianti che producono una singola foglia carnosa sostenuta da corto fusto eretto; molto caratteristici sono soprattutto i fiori, con grandi sepali saldati alla base, in modo da formare un tubo che circonda e protegge i piccoli petali e il labello; di forma da triangolare a falcata, in molte specie essi si prolungano all'apice in una "coda" a volte breve, a volte lunghissima. Sono per lo più piante compatte, talvolta minuscole, con fiori piccoli, ma coloratissimi (i colori vanno dal bianco al rosa, all'arancio al viola) e spesso molto numerosi. Oggi sono tra le orchidee più amate dai collezionisti, ma più che le specie si coltivano i numerosi ibridi, frutto di incroci complessi. Il genere è sicuramente polifiletico, ovvero artificiale; ne sono già stati separati alcuni piccoli generi (come Dracula, Dryadella e Trisetella) e altri aggiustamenti seguiranno in futuro. Qualche approfondimento e una selezione di specie nella scheda. |
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November 2024
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