Se quest'estate sui vostri balconi coltiverete petunie e verbene, rivolgete un pensiero a John Tweedie: senza i suoi semi quelle magnifiche e coloratissime varietà orticole non sarebbero mai state create. Né sarebbero arrivate nei nostri giardini l'erba delle Pampas e il Solanum jasminoides. A ricordare questo scozzese fattosi argentino, Tweedia, un genere dell'Argentina e del Chile, di cui fu il primo raccoglitore. Una colonia agricola scozzese in Argentina Nel 1825, quando decise di dare una svolta alla sua vita, John Tweedie aveva già cinquant'anni; un'età avanzata, per gli standard dell'epoca (la speranza di vita per un uomo della sua classe sociale era intorno ai quarant'anni). Invece Tweedie non esitò a lasciare una carriera di successo come giardiniere paesaggista, che lo aveva visto giardiniere capo dell'Orto botanico di Edimburgo e progettista e direttore di diversi parchi in Scozia e Inghilterra, per unirsi a un gruppo di 200 coloni in partenza per l'Argentina. A organizzare l'emigrazione in massa erano stati i due intraprendenti fratelli Parish Robertson, che negli anni della lotta per l'indipendenza erano riusciti ad arricchirsi con il contrabbando e finanziando i ribelli ora al potere. Furono particolarmente vicini a Rivadavia (al momento Ministro degli esteri, più tardi presidente della repubblica) che si rivolse a loro per il suo progetto di attirare capitali stranieri per diversificare e sviluppare l'economia del paese, creando tra l'altro colonie agricole, affidate a coloni venuti dall'Europa cui sarebbero state concesse terre in enfiteusi. I Roberston proposero a Tweedie di unirsi agli emigranti come agronomo e progettista giardiniere; egli accettò, forse insoddisfatto della sua posizione, solida ma pur sempre subordinata, forse affascinato dalla possibilità di conoscere una natura ancora largamente ignota alla scienza europea. Del gruppo, per lo più scozzese, che salpò da Leith il 22 maggio 1825 a bordo del veliero Simmetry, facevano parte anche un architetto inglese (insieme a sei fornaciai) e un medico, oltre alla famiglia Tweedie al gran completo (lo accompagnavano la moglie e sei figli). All'arrivo, ad agosto, una prima momentanea delusione: il governo aveva cambiato idea e non concesse le terre; i fratelli Robertson risolsero la situazione affittando ai coloni la loro grande tenuta di Monte Grande, a una trentina di km da Buenos Aires. Tweedie, attivissimo, inventò una macchina per estirpate i cardi selvatici, che abbondavano nei campi abbandonati; introdusse la pratica di creare siepi vive per separare i campi dalle aree lasciate a pascolo e impedire le incursioni del bestiame; a Santa Catalina, un'altra tenuta dei Robertson, notando che in Argentina non esisteva legname adatto alle costruzioni. creò il primo bosco artificiale del paese, facendo arrivare dalla Gran Bretagna olmi, robinie, frassini, lecci, querce. Questo bosco esiste ancora ed è stato dichiarato Monumento nazionale. I primi tre anni furono favorevoli ai coloni e assicurarono attimi raccolti; poi incominciarono ad accumularsi le difficoltà: la guerra con il Brasile per il controllo dell'Uruguay, le dimissioni di Rivadavia, l'inflazione, la siccità, l'ostilità dei vicini che non potevano più far pascolare il loro bestiame sulle terre di Monte Grande. Nel 1829, la colonia si sciolse. Tweedie si trasferì con la famiglia a Buenos Aires, dove creò un vivaio con un negozio; il suo obiettivo era riprendere per clienti argentini la sua attività scozzese, progettando giardini per i più ricchi. Ma in mancanza di una clientela solida e solvente, il progetto fallì. Allora Tweedie, a quasi 55 anni, decise di cambiare ancora una volta vita: sarebbe diventato cacciatore di piante, mantenendosi con i semi e agli esemplari che avrebbe raccolto e inviato agli orti botanici, ai vivai e ai collezionisti britannici. Un "vecchio" raccoglitore instancabile Fin dall'arrivo a Monte Grande, Tweedie era stato affascinato dall'esotica flora argentina e aveva inviato molti esemplari in Gran Bretagna per l'identificazione; era in contatto con diversi orti botanici, in particolare Kew, Edimburgo, Glasgow e Dublino. Grazie al lui, tra il 1830 e il 1831 arrivarono all'orto botanico di Glasgow i semi di due petunie, Petunia integrifolia e P. violacea, che incominciarono ad essere incrociate tra loro, creando un vera e propria mania delle ibridazioni e contribuendo a determinare il tramonto del giardino paesaggistico, sostituito dalla nuova passione per le bordure di annuali dai colori sgargianti. Nel 1832 (qualche mese prima aveva incontrato un giovane Charles Darwin, di passaggio in Argentina nel viaggio di andata della Beagle), Tweedie partì per la sua prima vera spedizione, unendosi a un convoglio inglese, capeggiato dal diplomatico H.S. Fox, che rimontò il fiume Uruguay per 60 miglia; scese poi lungo il Rio Negro e dalla foce del fiume risalì verso nord, attraverso il Rio grande del Sud fino a Rio de Janiero, da dove poi rientrò a Buenos Aires in nave. L'area, nota come Banda Oriental, tra Argentina, attuale Uruguay e Brasile meridionale, caratterizzata da foreste pluviali a galleria, era ricchissima di biodiversità e praticamente sconosciuta alla scienza europea. Qui Tweedie incontrò un altro botanico, il belga Louis van Houtte, con il quale fece diversi viaggi. Il bottino fu immenso: almeno 1000 esemplari, con un'alta percentuale di specie mai descritte prima. La più bella di tutte è forse Calliandra tweediei, una spettacolare leguminosa con fiori scarlatti simili a piumini (il nome volgare infatti è plumerillo). Un secondo viaggio, del 1835, fu meno fortunato. Uscendo da Montevideo, la nave su cui era imbarcato naufragò, e Tweedie si salvò aggrappandosi al velame. La terra ferma sembrava più affidabile; fu così che a marzo si unì a una grossa carovana diretta a Tucuman, nel nord ovest del paese. Un viaggio lungo, lento e disagevole, che di solito richiedeva una quarantina di giorni; questa volta, ne occorsero più del doppio. Ogni possibile disagio rallentò il viaggio: indigeni ostili, animali selvaggi, fiumi in secca o in piena (uno fu superato in piccole canoe manovrate da robuste donne indigene che trattenevano le funi di traino con i denti). Da Tucuman Tweedie fece anche una puntata sulla cordigliera, dove nonostante la stagione avanzata riuscì a raccogliere una scatola di semi che spedì a W.J. Hooker a Glasgow. Tra gli apporti di questo viaggio Passiflora tucumanensis. Nel 1837 (aveva ormai 62 anni) si accontentò di una breve escursione di un mese nelle colline nei dintorni della capitale, che con il loro paesaggio mosso e desolato gli ricordavano le highlands scozzesi. Più tardi (non conosciamo le date esatte di questo e del seguente viaggio) ripartì verso sud con l'intenzione di raggiungere la Patagonia; la piccola nave su cui era imbarcato, con provviste solo per cinque giorni, si arenò a Cabo San Antonio; dopo un inutile tentativo di proseguire via terra, alleggerendo il carico riuscirono a salpare, raggiungendo Bahia Blanca dopo 19 giorni. Neppure questo scoraggiò il tenace scozzese, che tentò nuovamente di raggiungere la Patagonia; anche questa volta rischiò di morire di fame e si salvò nutrendosi di pinoli. Quando rientrò a Buenos Aires, era così stracciato e sporco che i suoi stessi amici non lo riconobbero. Altre spedizioni, sulle quali siamo meno informati, le intraprese fino all'età di settant'anni. Negli anni '40 Tweedie contribuì all'ibridazione di un'altra annuale da giardino molto popolare, inviando a Niven dell'Orto botanico di Glasnevin a Dublino i semi di diverse specie di verbena: Verbena tweediana e V. teucrioides, antenate delle verbene ibride (oggi classificate come Glandularia x hybrida, genere cui sono state assegnate molte verbene sudamericane, comprese ovviamente Glandularia tweediana e G. teucrioides). Altre introduzioni dovute a lui sono Mandevilla laxa (così chiamata in onore di H.J. Mandeville, console britannico a Buenos Aires), Solanum laxum (spesso più noto come S. jasminoides), e Cortaderia selloana, l'erba delle Pampas. Non provato da tante avventure, morì a 87 anni, nel 1862. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. In corrispondenza con molti botanici, vivaisti e appassionati, il suo contatto più assiduo fu con William Jackson Hooker, professore di botanica all'Università di Glasgow, poi direttore dei Kew Gardens, che pubblicò molte delle specie raccolte da Tweedie nel celebre Botanical Magazine di Curtis; le specie di Tweedie furono poi essenziali per la compilazione di Contributions towards a flora of South America and the islands of the Pacific, scritto in collaborazione con W. Arnold (1834). Tweedia, un genere a cavallo della Cordigliera In quest'opera Hooker non mancò di rendere omaggio al formidabile raccoglitore, dedicandogli almeno una trentina di nomi specifici: oltre a Calliandra tweedii e Verbena (= Glandularia) tweediana, tra gli altri Capparicordis tweediana, Bignonia tweediana (oggi Macfadyena ugnis-catis), Ruellia tweediana, nonché il genere Tweedia. Delimitato e ridotto da successive revisioni, Tweedia, della famiglia Apocynaceae, è oggi un piccolo genere di solo sei specie, distribuite equamente a est e a ovest delle Ande, con due specie argentine, una boliviana e argentina, tre cilene. Sono erbacee prevalentemente sarmentose, che si distinguono dai numerosi generi affini per i lobi della corona in genere liberi che si innestano in alto sul tubo della corolla; spesso il fiore ha la forma di una stella a cinque raggi, con punte ricurve e andamento elicoidale. Molto simili tra loro, le sei specie si sono tuttavia adattate ad ambienti molto diversi; le due specie argentine, T. aucarensis e T. echegaray, vivono in zone aride e rocciose della pre-cordigliera; la specie argentina e boliviana, T. brunonis, è nativa di un'area subtropicale, monsonica, con violente piogge estive; le tre specie cilene (T. andina, T. birostrata e T. stipitata) sono originare del Cile centrale, con clima di tipo mediterraneo, a piogge invernali. Recentemente è stata staccata dal genere T. australis, ora Diplolepis australis. Ma soprattutto non è più una Tweedia quella che gli appassionati di giardinaggio ancora chiamano T. caerulea, oggi Oxypetalum caeruleum (una perdita grave per il buon Tweedie: uno degli azzurri più belli dell'intero regno vegetale). Qualche approfondimento nella scheda.
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Da qualche tempo si è affermata tra i cosiddetti dolcificanti naturali la Stevia (più esattamente Stevia rebaudiana), nota per il potere dolcificante 300 volte superiore rispetto allo zucchero, senza calorie. Ma forse non a tutti è noto che il suo nome celebra un interessante personaggio del Rinascimento spagnolo, il medico e umanista Pedro Jaime Esteve. La battaglia contro i barbari e una flora pionieristica Nel Medioevo, la Spagna aveva contribuito alla conoscenza dei grandi testi medici (e botanici) dell'antichità grazie alla mediazione degli studiosi arabi: fu infatti attraverso le loro traduzioni che si conobbero, tra gli altri, Dioscoride, Galeno e Ippocrate. Se per secoli questo aveva posto la penisola iberica all'avanguardia negli studi medici, con l'Umanesimo anche qui si sentiva il bisogna di tornare alle fonti, leggendo i testi degli antichi direttamente sui manoscritti originali. Ma, vista l'autorevolezza della tradizione araba, il ritorno all'antico avvenne non senza polemiche. Gli innovatori, che spesso avevano studiato all'estero o erano in contatto con la rete di umanisti europei, si contrapponevano ai tradizionalisti, da loro soprannominati "barbari", che ancora controllavano i posti chiave della professione medica e dell'insegnamento universitario. Tra i più notevoli e tenaci sostenitori della nuova scuola, troviamo anche Pedro Jaime Esteve, che alla latina si firmava Petrus Jacobus Stevus. Secondo la tradizione avrebbe studiato a Parigi e a Montpellier, dove avrebbe appreso la materia medica (cioè la botanica farmaceutica) da Guillaume Rondelet; maggiore di età del francese, quando questi cominciò a insegnare, Esteve era già vicino ai quarant'anni; ma non sarebbe l'unico caso, in epoca umanistica, di personaggi di età matura che, attratti dalla fama di un grande maestro, lasciavano la patria e magari una carriera per seguirne l'insegnamento. In ogni caso, negli anni '40 del Cinquecento lo troviamo a Valencia, sia come medico sia come versatile professore universitario (insegnò greco, anatomia, chirurgia, materia medica, matematica). Insieme all'amico e concittadino Miguel Jeronimo Ledesma, fu uno degli esponenti più attivi dell'umanesimo iberico, tanto da essere espulso per un anno (1548) dall'Università per aver pronunciato "parole irrispettose" nei confronti di Juan de Celaya, rettore dell'Università di Valencia e uomo di punta dei "barbari". Come medico-umanista, i suoi maggiori contributi sono la traduzione latina e i commenti del secondo libro del trattato sulle Epidemie di Ippocrate (1551) e la traduzione della Teriaca (1552) di Nicandro (la riscoperta dei veri ingredienti della teriaca, considerato un potentissimo antiveleno, fu uno degli argomenti che più appassionarono - e divisero - i medici rinascimentali). Ancora a metà strada tra tradizione medievale e nuova scienza, fu un seguace della teoria galenica degli umori (il che lo portò a interessarsi anche di astrologia) e nel suo insegnamento dell'anatomia mantenne una posizione ambigua, di solo parziale accettazione, nei confronti di Vesalio. In ogni caso, non era un acritico difensore degli antichi; commentando la descrizione dell'anatomia delle vene e dei nervi periferici nel suo commento a Ippocrate, osserva che è tanto rozza e tanto lontana da ciò che chiunque può osservare nelle dissezioni anatomiche, da fargli pensare che si tratti di un'interpolazione (venerava troppo il nome di Ippocrate per metterlo in discussione direttamente). Tra i suoi molteplici interessi, c'era anche, come abbiamo visto, la botanica; dal suo maestro Rondelet aveva appreso i metodi e la passione della ricerca sul campo; già nei suoi commenti al testo di Nicandro (dedicato essenzialmente ai veleni animali) inserì informazioni su alcune piante, fornendo i nomi volgari e informazioni sulla loro localizzazione nell'area valenciana. Ma la sua opera più importante in questo campo fu un manoscritto, intitolato Diccionario de las yerbas y plantas medicinales que se hallan en el Reino de Valencia, "Dizionario delle erbe e delle piante medicinali che si trovano nel Regno di Valencia". L'opera, scritta presumibilmente tra il 1545 e il 1556, fu una delle prime flore regionali d'Europa; tuttavia, non fu mai stampata e andò perduta. Ne conosciamo parzialmente il contenuto grazie a un riassunto incluso nelle Décadas de la Historia de Valencia (1610) di Gaspar Escolano. Escolano fornisce una lista di 120 specie, di cui dà il nome in valenciano e spagnolo, e, solo per alcune, brevi indicazioni sulla localizzazione, sull'uso medico o alimentare, sulle proprietà. Una sintesi della vita di Esteve nella sezione biografie. La dolce erba dei Guaranì Nonostante ciò che si favoleggia in diversi siti internet, non c'è alcuna relazione diretta tra Esteve e la Stevia. Non la conobbe, né tanto meno fu il primo a studiarla o addirittura a raccoglierla. L'omaggio si deve a Cavanilles che, egli stesso valenciano, volle riconoscere i meriti di un conterraneo di cui erano ancora ben note e apprezzate le traduzioni, autore soprattutto della prima flora della sua regione, che, benché perduta, ne faceva comunque un precursore. Partendo dalla forma latinizzata del nome dell'illustre predecessore, nel 1797 egli creò il genere Stevia (famiglia Asteraceae) sulla base di quattro specie messicane, giunte all'Orto botanico di Madrid grazie alla Real Expedición Botánica a Nueva España. Stevia è un genere piuttosto diffuso, distribuito dal Sud degli Stati Uniti, fino al Sud America meridionale, presumibilmente con massimo centro di diversità in Messico; erbacee annuali e perenni, suffrutici e arbusti, molte specie sono estremamente variabili, causando notevoli problemi di classificazione; lo stesso numero delle specie è dunque incerto (da 350 a 220, di cui almeno una settantina in Messico) e abbondano i sinonimi. Hanno foglie semplici, opposte, raramente alternate, e capolini raccolti in corimbi, con flosculi ligulati assenti e cinque flosculi del raggio tubolari, solitamente bianchi. Si tratta sopratutto di piante di montagna (tra 1000 e 3000 metri), che vivono nel sottobosco di aree fresche e umide. Tra tutte, l'unica a destare sensazione è S. rebaudiana, un arbusto che cresce in un alcune aree del Paraguay. Le proprietà dolcificanti delle sue foglie erano sfruttate dagli indios Guaranì per attenuare il sapore amaro del mate; nel 1887, Moses Bertoni, un eclettico personaggio di origine svizzera che aveva fondato una comunità anarco-socialista e fu un pioniere degli studi etnografici sui Guaranì, identificò per primo la pianta (assegnandola inizialmente al genere Eupatorium), mentre il primo a studiarne le proprietà chimiche fu il chimico paraguayano Olidio Rebaudi, in onore quale nel 1899 Bertoni la battezzò Eupatorium rebaudianum. A riconoscerne l'appartenenza al genere Stevia fu qualche anno più tardi il botanico di Kew W. B. Hemsley. Il suo successo come dolcificante al di fuori del Paraguay (dove vengono usate le foglie fresche) e del Sud America, dove è stato usato dall'industria alimentare almeno dagli anni '40, inizia solo intorno al 1970, grazie ai Giapponesi. E iniziano anche le polemiche. Ma se volete saperne di più, leggete i particolari nella scheda. Questa storia sembra uscita dalle pagine di un romanziere tardo vittoriano. Gli ingredienti sono quelli giusti: un gruppo di amici con quel pizzico di eccentricità very British; un'escursione abbastanza avventurosa e audace da meritare il nome di spedizione ma con gli agi e i tempi rilassati di una gita in campagna; ardimentosi esploratori appassionati di caccia grossa; ladies coraggiose cacciatrici di piante. Uniamoci anche noi alla spedizione; la nostra metà è la Somalia britannica del 1895 sulle tracce della favolosa Edithcolea. Tre uomini e due donne a zonzo Quando si svolge la nostra storia, la penetrazione inglese in Somalia datava da appena dieci anni. L'occupazione militare era stata preceduta dalla spedizione di un gruppetto di esploratori che era penetrato nell'interno proprio per verificare le possibilità di aprire quell'area al commercio e al colonialismo britannico. Due di loro li ritroveremo tra gli allegri escursionisti del 1895: Ethelbert Lort-Phillips, un facoltoso architetto gallese, naturalista dilettante, vicepresidente della Zoological society, appassionato di caccia grossa e altri sport; l'amico Percy Aylmer, esploratore, cacciatore, più tardi militare sempre in scenari africani. Insieme i due avevano già condiviso altre avventure, soprattutto partite di caccia. La spedizione del 1884-85 non era stata una passeggiata: i somali, che giustamente temevano le mire europee sul loro territorio, aizzavano l'uno contro l'altra le potenze coloniali (in quell'area, Francia, Gran Bretagna, Italia) e non pochi europei furono vittime dei loro attacchi. Comunque, Lort-Phillips e i suoi amici ne erano usciti indenni (anche se erano stati costretti a rientrare anticipatamente dal Foreing Office, in seguito all'Assedio di Khartum); Lort-Phillips e il medico della spedizione, J. G. Trupp, erano anche riusciti a raccogliere una discreta collezione di reperti naturalistici, in particolare uccelli (Lort-Phillips era un appassionato ornitologo). Nei dieci anni intercorsi, il nostro architetto cacciatore si era sposato e era riuscito a contagiare del mal d'Africa la giovane moglie, Louisa Jane Gunnis, alla quale in occasione del matrimonio aveva donato bei gioielli d'argento portati con sé dalla Somalia. Sarà stato così che, quando la situazione si era ormai tranquillizzata con l'occupazione inglese dell'area nord-occidentale del paese (Somaliland, o Somalia Britannica), la coppia decise di ripercorrere le tappe di quel viaggio avventuroso, ormai trasformato in una gita di piacere dalla Pax britannica. A partire da Londra il 4 gennaio 1895 furono in cinque: Ethelbert e Louisa, l'amico Aylmer, Frank Gunnis (fratello di Louisa) e Edith Cole, un'amica di Louisa che era stata una delle sue damigelle di nozze. L'obiettivo, come dichiara Ethelbert in On birds observed in the Goolis Mountains in the Northern Somali-land, era "trascorrere tre piacevoli mesi lontano dall'umidità e dal freddo dell'inverno inglese"; altri sarebbero andati in Costa Azzura o magari a Madera, ma evidentemente i Lort-Phillips e i loro amici cercavano emozioni più forti e qualcosa di più inconsueto da raccontare ai loro ospiti nelle serate mondane (i loro nomi ricorrono nelle cronache del jet set). La prima tappa fu Aden, raggiunta con un comodo piroscafo, dove si trattennero un paio di giorni, per imbarcarsi sul "guscio d'uovo" che li avrebbe portati a Berbera, giusto di fronte, sulla costa somala. Imbarcatisi la sera, speravano di essere a destinazione già la mattina dopo, ma la traversata si protrasse invece fino al tardo pomeriggio, funestata dal mare grosso e dal mal di mare (sopportato stoicamente anche dalle giovani ladies). A Berbera le donne furono ospitate dal residente inglese, mentre i maschi si accampavano spartanamente nel maidan. Il progetto era fermarsi in città giusto il tempo per ingaggiare le guide e i portatori e affittare cammelli e cavalli, per poi partire immediatamente per le colline; ma si dovette cambiare programma, a causa di un'intossicazione alimentare che colpì tutti i membri maschili del gruppo. L'impavido Lort-Phillips se la cavò in una giornata ricorrendo a una dose da cavallo di olio di ricino, mentre gli amici, che avevano rifiutato quel drastico rimedio, rimasero ko per più giorni. Nell'attesa che si rimettessero, Ethelebert e le signore si spostarono nell'oasi di Dobar, a otto miglia da Berbera, dove si trovavano cisterne e orti, particolarmente ricchi di farfalle e coleotteri. Edith e Louisa incominciarono la loro raccolta entomologica, suscitando la sorpresa dei locali ("Che se ne fanno le signore? Non si possono neanche mangiare"). Dopo due giorni trascorsi piacevolmente a leggere, prendere il fresco all'ombra dei tamarindi e a cacciare farfalle, furono raggiunti da Percy e Frank, finalmente rimessi. Per raggiungere la loro meta, le montagne Golis, gli amici si mossero verso sud ovest, toccando l'oasi di Bihen, Gelloker (una località particolarmente piacevole, con una ricca vegetazione dominata dalle acacie a ombrello e una notevole fauna avicola), Hammar, ai piedi del passo Sheik. Qui Lort-Phillips fu protagonista di un'avventura a lieto fine, tra l'incosciente e il fanfarone. Mentre, munito di retino, cercava di catturare le farfalle nelle pozze formate da una cascatella, scorse un serpente ed ebbe la bizzarra idea di catturarlo con il retino; quando avvicinò quest'ultimo al volto per osservare meglio la sua preda, questa gli sputò in un occhio. Nonostante il dolore fortissimo il nostro barone di Munchausen gallese si lavò il volto nell'acqua, ricatturò il serpente che se l'era svignata e solo a questo punto tornò di corsa all'accampamento. Fu molto fortunato; nel giro di poche ore il dolore si attenuò, senza lasciare conseguenze. Solo più tardi avrebbe scoperto che il rettile era un cobra e che sarebbe bastata una piccola ferita per morire o per perdere l'occhio. Tordi, corvi e nuove piante Il giorno successivo, attraverso il passo Sheik, varcato senza difficoltà grazie alla nuovissima carrozzabile costruita dall'amministrazione inglese, il gruppo raggiunse finalmente le montagne Gulis. Senza affrettarsi troppo, esplorarono l'altopiano muovendosi verso occidente, alternando le piacevoli escursioni, la caccia, la raccolta di esemplari naturalistici (senza dimenticare le immancabili pause per il tè). Si erano divisi i compiti secondo un criterio di genere: gli uomini cacciavano, catturavano mammiferi e uccelli; le donne raccoglievano insetti e piante, all'occasione si occupavano dei piccoli animali catturati (come un cucciolo di babbuino, che fu poi donato alla Zoological Society). Per l'ornitologo Lort-Phillips, la spedizione fu un grande successo; la zona era ricca di uccelli, e riuscì a individuare due specie nuove che, galantemente, dedicò una alla moglie (il tordo della Somalia, Merula ludoviciae, oggi Turdus ludoviciae), l'altro a Edith (il corvo somalo, Corvus edithae; Lort Phillips si vanta di averlo riconosciuto come nuova specie solo sentendolo gracidare dalla sua tenda). Per il cacciatore Lort-Phillips, fu invece molto deludente: non c'erano grossi animali da cacciare, e anche se i leopardi attaccarono il loro accampamento cinque volte, non riuscirono a prenderne neanche uno. Il successo più grande tuttavia fu per le nostre cacciatrici di piante (e entomologhe). Gli altopiani somali sono aridi, ma nella stagione delle piogge la vegetazione si fa all'improvviso rigogliosa. Durante le ultime settimane del viaggio, iniziarono le piogge primaverili e quando il gruppo raggiunse la valle di Wadaba tutto era verdeggiante. Fu qui che Edith e Louisa raccolsero il loro più ricco bottino; alla fine, le piante da loro raccolte (anche Ethelbert e Percy concorsero, sebbene in minor misura) furono circa 350; quando furono esaminate a Kew (da Baker e Brown) si scoprì che quasi 70 erano nuove per la scienza. La più notevole è Edithcolea grandis, destinata a eternare il nome di Miss Cole, insieme a Caralluma edithae e Crassula coleae, mentre Louisa è ricordata da Euphorbia phillipsiae e Sansievieria phillipsiae. Prima di rientrare a Berbera al gruppo toccò ancora un'avventura che Lort-Phillips definisce "un'esperienza più eccitante". Lasciate ormai le colline, spostandosi da Wadaba a Bihen dovettero affrontare un lungo tratto di pianura assolata e priva di luoghi di sosta dove trascorrere le ore più calde della giornata; quando ormai disperavano di trovare un luogo adatto, scorsero in lontananza una macchia di verde: erano due acacie completamente coperte di liane e rampicanti che formavano un fresco baldacchino, al centro di un isolotto nel greto di un torrente quasi asciutto. Felici, si accamparono, estraendo dai loro panieri da caccia sedie, tavolini, provviste per un picnic in piena regola. Ma mentre si godevano felici la frescura facendo la pennichella, incominciò a piovere e a tuonare; rapidamente gli incoscienti viaggiatori trasformarono sedie tavole e coperta da picnic in una tenda improvvisata che, insieme agli alberi, li riparava egregiamente dalla pioggia che cadeva a catinelle; ma quegli alberi altissimi, in mezzo a una pianura spoglia - si resero conto troppo tardi - erano perfetti per attirare i fulmini, così come le loro armi e le suppellettili di metallo. Dopo una decina di minuti di panico, il temporale si allontanò; ma i pericoli non erano finiti: il corso d'acqua, gonfiatosi all'improvviso, travolse l'accampamento, trascinando via ogni cosa mentre i nostri audaci (e imprudenti) esploratori si salvavano a stento. Arrivati a Bihen, scoprirono che il resto della carovana, che aveva percorso un'altra strada, non aveva incontrato nemmeno una goccia di pioggia. Pochi giorni dopo, rientrarono a Berbera, dove terminò la loro comune avventura africana. I coniugi Lort-Phillips tornarono altre volte in Africa, poi si lanciarono in un'impresa di altro genere: si spostarono in Norvegia, dove Ethelbert fu un pioniere dell'industria turistica, costruendo cinque alberghi destinati agli inglesi appassionati di pesca al salmone. Di Edith, che vivrà ancora per più di quarant'anni, quasi si perdono le tracce: abbiamo qualche sua lettera ai direttori di Kew, la segnalazione della partecipazione a qualche occasione mondana, sempre in compagnia dei Lort-Phillips, che sicuramente visitò anche in Norvegia. Le poche notizie che sono riuscita trovare su di lei sono sintetizzate nella sezione biografie. Edithcolea, fiori come tappeti persiani Davvero bella e singolare è Edithcolea grandis, l'unica specie del genere monotipico Edithcolea, della famiglia Apocynaceae (un tempo Asclepiadaceae): per i fiori particolarmente grandi con corolle che possono superare i 10 cm di diametro e la sorprendente combinazione di colori, che in inglese le hanno guadagnato il nome di Persian carpet flower, "fiore tappeto-persiano", è uno dei rappresentanti più belli e ricercati della tribù Stapelieae. La corolla a cinque lobi, a stella appiattita, ha il disco esterno con colore di base giallo macchiettato di un ricco rosso porpora, con macchie puntiformi che si fanno via via più piccole e fitte al centro, formando righe concentriche attorno alla corona centrale. Quel bersaglio colorato non è fatto per la gioia dei nostri occhi, ma per trarre in inganno gli insetti impollinatori, soprattutto mosche, così come quell'odorino di carogna che ha in comune con le sue consorelle. Che non scoraggia certo i collezionisti, come non li ferma la fama di difficile di questa pianta che, figlia delle zone aride della regione dei Grandi laghi, del Corno d'Africa e dello Yemen, si trova un po' spaesata nelle nostre case. A dedicarla ad Edith l'anno stesso della scoperta (1895) fu Nicholas Edward Brown, tassonomista di Kew, uno dei due botanici che esaminò e pubblicò la collezione raccolta da Edith Cole e Louisa Lort- Phillipps durante quel "piacevole viaggio" in Somalia. Qualche approfondimento nella scheda. Situato all'estrema periferia occidentale dell'Impero russo, l'orto botanico di Tartu, in Estonia, nell'Ottocento giocò un sorprendente ruolo di primo piano nella conoscenza della flora russa e asiatica. Il merito di aver fondato quella importante scuola botanica fu di un baltico di lingua tedesca, Carl Friedrich von Ledebour. A celebrarne il ricordo, il genere africano Ledebouria. Rinasce un'Università, nasce un Giardino botanico Tartu, all'epoca meglio nota con il nome tedesco Dorpat, vantava una prestigiosa università di lingua tedesca e confessione luterana, fondata nel 1632 dal re di Svezia Gustavo Adolfo come baluardo conto il controriformismo polacco. Dopo diverse vicissitudini, già prima del passaggio dell'Estonia sotto il dominio russo, nel 1721, aveva cessato di esistere. Sotto l'impulso degli intellettuali baltici di lingua tedesca venne rifondata nel 1798 e consolidata nel 1802; dal punto di vista amministrativo e finanziario, dipendeva dalla corona russa, ma sul piano culturale era un'istituzione tedesca; in tedesco venivano impartite le lezioni e tedeschi, spesso balto-tedeschi, erano gli insegnanti. Nel 1803, ad affiancare l'insegnamento della medicina, delle scienze naturali e della farmacia, venne creato un orto botanico, inizialmente collocato in via Vanemuise, sotto la direzione di Gottfried Albrecht Germann; nel 1806 lo stesso Germann, con l'aiuto del capo giardiniere J. A. Weinmann, curò il trasferimento in una sede più idonea, sull'antico bastione di via Lai (dove il giardino si trova tuttora). Il duplice legame - da una parte con la Russia, protagonista in quegli anni di molte spedizioni scientifiche, con il suo immenso territorio in gran parte ancora inesplorato, dall'altra con la Germania e più un generale con la rete degli studiosi, degli orti botanici e delle università europee - fece dell'Università di Tartu/Dorpat un importante luogo di interscambio culturale e permise all'orto di crescere rapidamente. Un primo catalogo indica un patrimonio di 4300 specie. Germann era uno studioso polivalente, interessato soprattutto alla botanica e all'ornitologia. All'Università di Dorpat insegnava storia naturale, botanica, zoologia, mineralogia, entomologia e ornitologia. Come strumento didattico, creò anche un gabinetto di storia naturale, con collezioni di insetti, minerali e un erbario. Anche Weinmann era un personaggio notevole: prima di arrivare a Tartu aveva lavorato a Würzburg e Vienna, dopo Tartu lavorerà a San Pietroburgo e sarà ammesso all'Accademia delle scienze. Dalle rive del Baltico ai monti dell'Asia centrale Ma la vera svolta fu impressa dal secondo curatore dell'orto ( e secondo professore di botanica dell'Università). Morto Germann nel 1809, per qualche tempo i due incarichi rimasero vacanti, finché venne nominato a sostituirlo il giovane e dinamico Carl Friedrich Ledebour; nato a Stralsund, da parte di madre era anche lui un tedesco del Baltico, ma da parte di padre era svedese. E in Svezia era entrato in contatto con la scuola linneana nella persona di Carl Peter Thunberg. Arrivato a Tartu nel 1811, in piene guerre napoleoniche, dopo un avventuroso viaggio da Berlino, dimostrò subito la sua intraprendenza, riuscendo a ottenere dalle autorità russe la costruzione di una nuova serra, un notevole aumento dei fondi e l'ampliamento del giardino, che sotto la sua gestione raggiunse le dimensioni attuali di circa tre ettari. Ottimo didatta, riuscì a creare intorno a sé una prestigiosa scuola botanica, introducendo di fatto in Russia l'insegnamento della botanica sistematica; tra gli esponenti più noti, Johann Friedrich von Eschscholtz, che ritroveremo in questo blog come naturalista della spedizione Kotzebue; e i suoi stretti collaboratori Carl Anton von Meyer e Alexander Bunge. Era un eccellente tassonomista, ma non disdegnava la ricerca sul campo. Nel 1815 avrebbe desiderato partecipare come naturalista alla spedizione di Kotzebue nel mar Glaciale Artico e nel Pacifico, insieme al suo allievo Eschscholtz, ma dovette rinunciare per motivi di salute. Nel 1818 visitò brevemente la Crimea insieme a un altro allievo, Carl Anton von Meyer. Ma la grande avventura di Ledebour iniziò nel 1826, quando diresse una grande spedizione nei monti Altai e nelle steppe del Kirghizistan, questa volta con Meyer e Bunge. Per due anni, muovendosi separatamente, i tre botanici esplorarono a fondo una regione ancora poco nota, raccogliendo oltre 1600 specie di fanerogame; se la botanica costituiva il loro interesse principale, non mancarono raccolte di minerali e animali. Ledebour riservò a se stesso la parte orientale della catena; visitò Ridder, Zyryanovsk, esplorò la valle dell'Irtysh e raggiunse e sorgenti dei fiumi Uby, Charysh e Yeni. Quindi visitò Katun e si spinse fino ai confini con la Cina. Una relazione del viaggio è contenuta in Reise durch die Altaigebirghe und die Soongorische Kirgisen-Steppe ("Viaggio nei monti Altai e nella steppa del Kirgizistan), pubbicato in tedesco a Berlino tra il 1829 e il 1830. Al loro rientro a Tartu, i tre naturalisti scrissero insieme l'importante Flora Altaica, in quattro volumi, uscita tra il 1829 e il 1833, considerata la prima flora regionale del secolo. Tra le specie descritte per la prima volta Malus sieversii (con il nome di Pyrus sieversii) e Larix sibirica. Dei risultati della spedizione usufruì anche l'orto di Dorpat, che si arricchì di molte specie di piante siberiane e centro-asiatiche, divenendo anche il principale tramite per la loro conoscenza e diffusione in Europa, grazie agli scambi con la rete europea degli orti botanici. In tal modo furono gettate le besi della particolare vocazione dei botanici dell'Università di Dorpat, che in un certo senso si specializzarono nello studio della flora della Russia orientale e dell'Asia. Insieme ai due collaboratori e ad altri allievi, Ledebour iniziò quindi a studiare i materiali botanici raccolti da Chamisso, Wormskjold e Eschscholtz durante le spedizioni di Kotzebue (1815–1818 e 1823–1826), nonché i materiali raccolti nella Russia meridionale da Carl Eduard Eichwald (1825–1826) e da von Nordmanne e Th. Döllinger nel 1836. Su questa base, Ledebour iniziò a scrivere un'opera complessiva sulla flora russa: un' impresa impegnativa, che lo spinse nel 1836 a lasciare l'incarico universitario (lo sostituì Bunge) per dedicarsi ad essa a tempo pieno. Il risultato fu Flora Rossica, in quattro volumi, uscita tra il 1841 e 1853, la prima che copre l'intero territorio dell'Impero russo (Russia europea, Asia, Caucaso, Alaska), per un totale di circa 6500 specie; nonostante sia priva di immagini, questa prima descrizione completa della flora russa rimase per decenni un'opera di riferimento. Pur avvalendosi ancora una volta della collaborazione di diversi altri studiosi, Ledebour realizzò il grosso del lavoro, che completò letteralmente pochi giorni prima della morte. Qualche approfondimento sulla sua vita nella sezione biografie. Ledebouria, minuscoli gigli tigrati A ricordare Ledebour sono in primo luogo numerose piante da lui descritte per la prima volta (Lilium ledebourii, Trollius ledebourii, Lonicera ledebouri, Rhododendron ledebourii, Artemisia ledebouriana, ecc). Ma soprattutto, a questo grande esperto della flora siberiana e asiatica, è toccato di essere celebrato da un genere soprattutto africano. Fu Albrecht Wilhelm Roth nel 1821 (quando Ledebour era un apprezzato studioso dell'Università di Dorpat, ma non aveva ancora affrontato né la grande spedizione negli Altai né scritto le sue due opere principali) a dedicargli il genere Ledebouria, descrivendo la specie tipo, l'indiana L. hyacinthina. Il genere Ledebouria, della famiglia Asparagaceae, sottofamiglia Scilloideae (un tempo Hyacinthaceae) ha avuto una storia tassonomica complessa, venendo assegnata da botanici diversi successivamente ad altri generi affini (Hyacinthus, Lachenalia, Drimia, Scilla); nel 1970 è stato ristabilito da Jessop. Ancora incerto rimane il numero di specie assegnate (da circa 40 a 60); sono bulbose soprattutto sudafricane (almeno una trentina di specie), con qualche rappresentante anche in Madagascar e in India. Di dimensioni molto variabili, da minuscole a relativamente grandi, sono spesso caratterizzate da foglie più o meno carnose vistosamente macchiettate. Probabilmente la specie più nota da noi, spesso offerta da Garden center e specialisti di succulente, è la graziosa L. socialis (spesso commercializzata con il vecchio nome di Scilla socialis o S. violacea), originaria di aree sabbiose ma ricche di humus della zona di transizione tra il Capo orientale il Capo Occidentale in Sud Africa. E' caratterizzata da bulbi che crescono sopra il livello del suolo, protetti da tuniche di consistenza cartacea, da cui spuntano ciuffi di foglie oblunghe da verde a argentee, spesso densamente macchiettate, che le hanno guadagnato il nome inglese di Tiger lily, "Giglio tigre". Un'altra specie abbastanza diffusa in coltivazione è L. cooperi, con foglie lineari, lucide, erette, rigate, e graziose spighe di fiori rosa brillante. Per qualche informazione in più su qualche altra specie meno nota si rimanda alla scheda. Più che gli esseri umani - rappresentati dallo sfortunato farmacista e botanico Johann Sievers che, al servizio di Caterina II, negli ultimi anni del Settecento visitò la Siberia, la Mongola, il Kirghizistan e il Kazakhstan - le protagoniste di questa storia sono le piante. Una cercata appassionatamente e non trovata, il rabarbaro cinese; l'altra scoperta quasi per caso: il Malus siversii, ovvero il "papà delle mele". Ovviamente c'è anche il genere Sieversia e l'ormai obsoleto Novosieversia. Dal re dei lassativi... Come sa ogni spettatore del Malato immaginario di Molière, due erano le cure fondamentali della medicina del Sei-Settecento: i salassi e le purghe. Il purgante più ricercato, perché allo stesso tempo efficace e non drastico, privo di sgradevoli effetti collaterali, era il rabarbaro. Importato dalla lontana Cina, era apprezzatissimo e costosissimo: nell'Inghilterra del Seicento era tre volte più caro dell'oppio. Per giungere in Occidente, infatti, doveva fare una lunga strada; parte giungeva dall'impero Ottomano attraverso l'India, ma il migliore di tutti era il "rabarbaro russo", che in realtà era cinese. Il commercio del rabarbaro cinese attraverso le steppe russe datava fin dall'antichità, tanto che il nome stesso della pianta, in greco e latino Rheum, deriva da Rha, l'antico nome del fiume Volga, lungo le cui rive si trovavano i punti di smistamento delle vie carovaniere. Ma a farne una voce decisiva del bilancio russo fu Pietro il Grande. Nel 1696 impose su di esso il monopolio statale; dal 1727, come tutte le transazioni commerciali sino-russe, il suo commercio fu regolato dal trattato di Kiakhta. Dal 1730 l'importazione fu assegnata in esclusiva a una famiglia di Bukhari, che trasportavano fino a Kiakhta il rabarbaro acquistato in Cina; qui veniva esaminato da un farmacista russo: tutto quello di cattiva qualità era immediatamente bruciato, mentre quello che aveva passato la selezione veniva avviato a Mosca e a San Pietroburgo, dove era ulteriormente esaminato prima di essere esportato in Occidente. Grazie a questa trafila il rabarbaro "russo" si impose sul mercato come il migliore, sebbene gli alti prezzi ne facessero una medicina solo per ricchi. I profitti erano così alti che il ricavo di una sola transazione permetteva di mantenere l'esercito russo per un anno. Ai tempi di Caterina II - lei stessa fu curata con efficacia con il rabarbaro in seguito a una grave costipazione causata da una scorpacciata di ostriche - la situazione cominciò a mutare. Intorno al 1745, Olandesi e Inglesi invasero il mercato vendendo a prezzi stracciati il rabarbaro "indiano", certamente di qualità inferiore ma molto più abbordabile. Inoltre le relazioni con la Cina erano soggette ai malumori e alle scelte spesso xenofobe del Celeste impero; così, in seguito a incidenti di frontiera, tra 1764 e il 1768 la Cina ruppe le relazioni diplomatiche e proibì le esportazioni verso la Russia. Negli stessi anni, la grande spedizione dell'Accademia, guidata da Pallas, aprì nuove prospettive. Nel 1772 lo stesso Pallas visitò Kiakhta, ricavandone l'impressione negativa che, nel gioco commerciale, i soli a guadagnarci fossero i cinesi, che potevano imporre i loro prezzi a piacimento. Nella sua esplorazione delle regioni siberiane, inoltre, il naturalista tedesco scoprì diverse specie di Rheum; egli era convinto che il rabarbaro cinese fosse ottenuto da varie specie e che non fosse né diverso né superiore rispetto a quello reperibile sul territorio russo, che era di cattiva qualità solo perché coltivato e conservato con metodi sbagliati. Propose dunque un ambizioso piano di raccolta di semi, da coltivare negli orti botanici di Mosca, San Pietroburgo e eventualmente Irkutsk, selezionando le varietà migliori da ridistribuire per creare un'industria russa del rabarbaro. ... al papà delle mele Nel 1781 Caterina II eliminò un monopolio ormai in declino, liberalizzando il commercio del rabarbaro e puntando sulla sua coltivazione nel territorio nazionale. Ma prima bisognava scoprire se aveva ragione Pallas, e quale specie convenisse coltivare. L'imperatrice stabilì un premio per chi avesse scoperto la pianta del "vero" rabarbaro e nel 1790 l'Accademia delle Scienze russa inviò alla sua ricerca il botanico e farmacista di origine tedesca Johann Erasmus (August Carl) Sievers. Egli doveva anche individuare le aree più adatte a un'eventuale coltivazione. La spedizione durò cinque anni. Nel 1791 Sievers esplorò i monti Yablonoi, una catena montuosa del sud-est della Siberia, situata tra la Mongolia e il lago Baikhal. Individuò le specie di rabarbaro segnalate da Pallas (oggi Rheum rhabarbarum e R. nanum), provò a seminarle, ma con risultati che lo convinsero che non si trattava del vero rabarbaro, a suo parere una specie esclusivamente cinese di cui al momento non erano note le caratteristiche. Nel 1792 proseguì le sue ricerche più a occidente, al di là del fiume Irtys, esplorando i monti Altai e la valle del fiume Bukhtarma. Nel 1793 fu il primo botanico a visitare i monti Tarbagatai, dove rischiò di morire di inedia; a salvarlo fu l'incontro con i membri di alcune tribù turco-mongole che lo ospitarono e lo guidarono alla scoperta delle valli e degli impervi versanti della catena; qui Sievers scoprì boschetti di alberi di mele, che all'assaggio si rivelarono dolcissime. Ne scrisse entusiasta a Pallas, che informava puntigliosamente delle sue scoperte botaniche e etnologiche. Raggiunto il lago Alakol, nel 1794 Sievers riuscì a passare in Cina, ma, presto rimandato indietro, non poté trovare l'oggetto delle sue ricerche. Nel 1795, a soli 33 anni, morì improvvisamente. Una sintesi della sua breve vita nella sezione biografie. Dopo la sua morte, Pallas pubblicò le sue lettere sotto il titolo Briefe auf Sibiren, "Lettere dalla Sibera", importanti sia per le notizie etnografiche, sia per il contributo alla conoscenza dalla flora di aree largamente inesplorate prima della spedizione di Sievers. Sulla base dell'erbario e delle note del naturalista defunto, più tardi Pallas pubblicò Plantae novae ex herbario et schedis defuncti Botanici Ioanni Sievers, Hannoverani, descriptae, "Nuove piante descritte sulla base dell'erbario e delle note del defunto botanico hannoveriano Johann Sievers". Sono numerose le specie raccolte o descritte per la prima volta: tra le altre, Ribes fragrans, Rheum nanum, Picea schrenkiana, Asclepias rubra, Bassia (=Kochia) scoparia, Artemisia sieversiana, e soprattutto Malus sieversii, il melo che Sievers aveva incontrato sulle pendici dei monti Tarbagatai. Questa particolare specie di melo ha acquisito grande notorietà qualche anno fa quando, in seguito alla descrizione completa del genoma delle mele coltivate e allo studio comparativo di tutte le specie del genere Malus, si è scoperto che proprio M. sieversii è il progenitore della maggior parte delle cultivar domestiche. Il "papà" delle mele (del resto, Alma-Ata, il nome sovietico della capitale del Kazakhstan, significa "padre delle mele") ha frutti particolarmente gustosi e grandi (diametro fino a 7 cm). All'origine delle mele, potrebbe anche essere il loro futuro: la ricchezza genetica e l'eccezionale resistenza alle malattie potrà essere utile per produrre nuove cultivar che non necessitino di pesticidi. Le aree del Kazakhstan, dove si trovano le foreste di meli di Sievers, gravemente minacciate dalla deforestazione, sono state proposte come patrimonio dell'umanità Unesco. La Sieversia, bellezza glaciale Per onorare lo sfortunato botanico, che quanto meno le pubblicazioni di Pallas avevano salvato dall'oblio, nel 1811 Willdenow creò il genere Sieversia, della famiglia Rosaceae, molto affine a Geum, da cui lo distingue lo stilo deciduo piumoso e privo di uncino. Per duecento anni, i botanici si sono divertiti ora a considerarlo un genere autonomo, ora un sottogenere o una sezione di Geum; a questo pingpong ha messo fine nel 2002 uno studio che, sulla base di dati genetici, ha stabilito l'indipendenza di Sieversia, ridotto tuttavia a due sole specie. Del resto lo stesso Geum è un gruppo geneticamente eterogeneo, un complex, che raggruppa presumibilmente più generi e deve essere indagato da studi più approfonditi. Le specie superstiti sono Sieversia pentapetala e S. pusilla. La prima è una graziosa perenne erbacea della tundra e degli ambienti montani, presente nella Siberia orientale, in Giappone e in Alaska, con cinque petali candidi che contrastano con gli stami giallo brillante; può essere una specie dominante che forma dense colonie. La seconda è un endemismo della Siberia orientale e della Kamchatka, simile alle precedente ma di dimensioni minori. Con le sue origini siberiane e montane, Sieversia è un omaggio quanto mai adatto a Sievers, esploratore della flora siberiana e tra i primi descrittori di Sieversia pentapetala (allora Dryas anemonoides). Qualche approfondimento nella scheda. Nel 1933 F. Bolle sottopose a revisione il genere Geum e ne distaccò diversi generi, tra cui Novosieversia, che includeva una sola specie, N. glacialis, una specie circumboreale con fiori gialli e stili piumosi. Oggi è per lo più considerato sinonimo di Geum glaciale. Ma, come si è detto, lo stesso genere Geum è tutt'altro che compatto, e non sappiamo quale svolta terminologica ci riserverà il futuro. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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