Le vie della botanica sono infinite. Per una curiosa combinazione il dottissimo Jan Bode, alla latina Stapelius, mentre sta curando la sua monumentale edizione bilingue di Teofrasto, riceve le note e i disegni di alcune piante raccolte in Sud Africa dal fratello di un amico. Decide di includere anche quelle: saranno le prime piante sudafricane mai comparse in un testo a stampa. Se ne ricorderà Linneo, dedicandogli il genere Stapelia. Teofrasto, ovvero una botanica per botanici Grazie alla pubblicazione a stampa della traduzione di Gaza e dell'originale greco, le opere botaniche di Teofrasto entrarono tra i testi canonici. Tuttavia non furono mai popolari come De materia medica di Dioscoride; mentre il testo dioscorideo forniva il nome e i contenuti alla botanica applicata (materia medica) insegnata ai futuri medici, diveniva il libro di testo obbligato di tutte le facoltà di medicina europee, era chiosato e commentato da decine di studiosi, De historia plantarum e (anche di più) De causis plantarum erano più riveriti e citati di terza mano che letti e conosciuti. La ragione è proprio quella che oggi ce li fa apprezzare: l'interesse di Teofrasto per la morfologia e la fisiologia delle piante non li rendeva immediatamente fruibili per gli studenti di medicina. Nel Cinquecento si conosce un solo esempio di corso universitario focalizzato su Teofrasto: quello tenuto a Bologna nel 1560 da Ulisse Aldrovandi, quando però insegnava filosofia; quando due anni dopo passò a insegnare materia medica, ripiegò anche lui su Dioscoride. A leggere Teofrasto e a trarne stimolo per le proprie ricerche erano i pochi studiosi che coltivavano la botanica come scienza in sè, non come ancella della medicina com'era ancora prevalentemente considerata. Insomma, erano testi di botanica per botanici. Non a caso tra i loro estimatori troviamo in primo luogo Cesalpino (che tentò una classificazione delle piante su basi aristoteliche), Rondelet, che gettò le basi della scuola botanica francese (caratterizzata da una spiccata vocazione tassonomica) e i Bauhin. I pochi lavori cinquecenteschi direttamente dedicati a Teofrasto, più che di botanici, furono opera di filologi, che discettavano di problemi di critica testuale e criticavano la traduzione troppo libera di Gaza. Bisogna quindi attendere il Seicento perché uno studioso che era allo stesso tempo un medico, un filologo e un botanico si accingesse a fare per Teofrasto quello che Mattioli aveva fatto con i suoi Commentarii per Dioscoride. Un'edizione monumentale A tentare l'impresa fu un giovane medico di Amsterdam, Jan Bode à Stapel o van Stapel (di solito è noto con il nome latinizzato Johannes Badaeus Stapelius). Coltissimo, dotato di una profonda conoscenza delle lingue classiche, si propose di curare un'edizione completissima delle due opere di Teofrasto: in primo luogo, il testo greco messo a confronto con la traduzione latina di Gaza, su due colonne affiancate; a margine, le notazioni filologiche e testuali; a seguire, per ogni capitolo, le note di alcuni commentatori che lo avevano preceduto (Giulio Cesare Scaligero, Robert Constantin, Claudius Salmasius); infine i commenti di sua mano. L'interesse di quest'opera non è solo filologico. Profondo conoscitore delle piante (lui e suo padre possedevano un giardino ricco di piante esotiche), Stapelius infarcì i suoi commenti di informazioni di ogni genere sul mondo vegetale, comprese notizie sulle piante che giungevano dall'Asia e dal Nuovo mondo (sono per lo più di seconda mano, attinte da opere di altri botanici, in particolare Clusius e l'Obel). Volle inoltre arricchire la sua opera con numerose xilografie; anche se poche sono originali, si tratta in ogni caso della prima edizione illustrata di Teofrasto. Stapelius, che iniziò a lavorare all'opera intorno al 1625, subito dopo essersi laureato, morì nel 1636, a poco più di trent'anni; riuscì quindi solo affrontare solo la prima opera di Teofrasto, De Historia Plantarum. Qualche notizia sulla sua breve vita nella sezione biografie. Il padre, Engelbert Stapel, a sua volta medico di fama, completò il lavoro del figlio e lo pubblicò nel 1644, dopo altri otto anni di lavoro. Questa edizione monumentale (è uno splendido in folio di oltre 1200 pagine), molto accurata anche nella veste tipografica, riserva ancora una piccola sorpresa: quattro pagine sono dedicate alle primissime specie sudafricane mai descritte dalla scienza. Nel 1624, un missionario olandese, Justus Heurnius, mentre la sua nave, diretta a Giava, faceva rifornimento al Capo di Buona Speranza, ne approfittò per disegnare e descrivere alcune piante. Inviò questi materiali in Olanda a suo fratello Otto, amico e compagno di studi di Stapelius, a cui li passò; Stapelius colse a volo l'occasione, includendo disegni e descrizioni nella sua opera. Quella strana fritillaria... la chiamerò Stapelia Torneremo sulla storia di Heurnius, anche lui dedicatario di un genere. Per ora rimaniamo in compagnia di Stapelius e della pianta che lo celebra. Linneo era un grande ammiratore del suo commento, di cui apprezzava la competenza e la chiarezza espositiva. Non gli sfuggirono quelle quattro pagine che contenevano una preziosa primizia della flora sudafricana e scelse proprio una di quelle nuove piante per onorare lo studioso olandese, ribattezzando Stapelia quella che Heurnius aveva denominato Fritillaria crassa caput Bone Spei ("Fritillaria grassa del Capo di Buona Speranza"). In Species Plantarum, 1753, Linneo pubblicò due specie di Stapeliae: S. variegata (che è appunto la "fritillaria crassa" di Heurnius) e S. hirsuta; oggi la prima è stata trasferita a un altro genere e si chiama Orbea variegata. Ma il vero "padre delle stapelie" può essere considerato il botanico scozzese Francis Masson, che esplorò il Sud Africa da solo e insieme a Thunberg, uno dei più importanti allievi di Linneo, e poi visse per qualche anno nella Colonia del Capo, coltivando un giardino di acclimatazione. Egli aveva una vera passione per queste piante, cui dedicò il suo unico libro, Stapeliae novae, la prima monografia sul genere Stapelia (1796), in cui ne descrisse una quarantina; diede anche un grande contributo alla loro introduzione in Europa, dove iniziarono ad essere molto apprezzate dai collezionisti. A partire dall'Ottocento, diverse specie vennero trasferite in altri generi, i più noti dei quali sono Duvalia, Huernia, Caralluma, Hoodia. Oggi ammontano a una quarantina, raccolti nella sottotribù Stapeliinae; gli inglesi, con il loro senso pratico, chiamano tutto il gruppo Stapeliad. Il genere Stapelia comprende una cinquantina di specie di succulente degli ambienti aridi dell'Africa tropicale e australe (Angola, Mozambico, Malawi, Tanzania, Bostwana, Zimbawe, ma soprattutto Namibia e Sud Africa, dove si concentra la maggior parte delle specie). Appartenenti alla famiglia Apocynaceae (un tempo Asclepiadaceae), sono note soprattutto per i curiosi fiori a forma di stella che emanano odore di carogna. Questo odore, avvertibile in alcune specie anche a una certa distanza, è una strategia per attirare gli impollinatori, che sono soprattutto mosche carnarie; allo stesso fine mirano i peli, i colori e la tessitura dei petali che mimano un animale in decomposizione. Ma ci sono anche rare eccezioni: S. erectiflora e S. flavopurpurea sono gradevolmente profumate. Nonostante questa proprietà poco edificante, le Stapeliae sono ricercatissime dai collezionisti di piante succulente. Altri due membri del gruppo rendono indirettamente omaggio a Stapelius: Stapelianthus ("con fiori simili alla Stapelia"), un piccolo genere endemico del Madagascar, con fiori minuti dalle forme varie e sorprendenti; Stapeliopsis ("con aspetto simile alla Stapelia"), un piccolo genere originario della Namibia e del Sud Africa, i cui piccoli fiori sono per lo più piacevolmente profumati di miele e frutta. Per approfondimenti su Stapelia, Stapelianthus, Stapeliopsis si rimanda alle rispettive schede.
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Per volontà di un papa umanista e grazie alla traduzione di un rifugiato greco in fuga di fronte all'avanzata turca, le opere botaniche di Teofrasto escono dall'oblio. Al benemerito - anche se a volta fantasioso - traduttore, Teodoro Gaza, verrà più tardi (forse) dedicato un tesoro vegetale: la prorompente Gazania. Una traduzione libera, ma meritoria Condividendo il destino di Omero e Platone, nell'Occidente medievale Teofrasto fu completamente dimenticato. I più informati sapevano che si era occupato anche di botanica, e qualcuno pensava avesse scritto De Plantis, un trattatello comunemente attribuito a Aristotele (oggi si ritiene sia stato scritto da un altro peripatetico molto più tardo, Nicola di Damasco, vissuto nel I sec. a. C.). La situazione iniziò a cambiare nel Quattrocento, quando gli umanisti riscoprirono la cultura greca. Nel 1423 Giovanni Aurispa, che fu anche tra i primi a insegnare il greco, ritornò da un viaggio a Costantinopoli con 238 volumi di testi greci. Tra di essi c'era anche un manoscritto con De historia plantarum e De causis plantarum di Teofrasto. A metà secolo, una copia del manoscritto si trovava nella biblioteca papale. Sul soglio pontifico sedeva un papa umanista, Niccolò V, che creò una vasta raccolta di codici di autori classici (ne contava 1200 al momento della sua morte), primo nucleo della futura Biblioteca apostolica vaticana. Poiché all'epoca lo studio del greco era appena agli inizi, il papa varò un vasto programma di traduzioni incaricando numerosi studiosi di tradurre integralmente dal greco in latino significative opere greche, sia pagane sia cristiane. In questo contesto, nel 1449 alla corte pontificia approdò Teodoro Gaza, un sapiente greco che oggi definiremmo un rifugiato. Nativo di Salonicco, nel 1440 era giunto in Italia per sfuggire all'avanzata turca (com'è noto, la caduta di Costantinopoli avverrà qualche anno dopo, nel 1453). Di lingua madre greca, aveva appreso il latino e aveva anche una certa cultura scientifica, avendo seguito studi di medicina presso lo Studio ferrarese. Autore fra l'altro di una grammatica greca, era un umanista molto noto e apprezzato. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Teodoro si presentava come il candidato ideale per tradurre le opere scientifiche di Aristotele e della sua scuola. Il papa gli affidò dunque sia la traduzione delle due opere botaniche di Teofrasto, sia di quelle zoologiche di Aristotele (De historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium). Un lavoro molto complesso che impegnò il greco per almeno cinque anni e si protrasse anche dopo al morte di Niccolò V. Un aneddoto, probabilmente apocrifo, vuole che, insoddisfatto del misero pagamento ricevuto dal successore Callisto III, abbia gettato platealmente il compenso ricevuto nel Tevere. Il grande lavoro di traduzione iniziò proprio con le opere di Teofrasto: prima De historia plantarum (che risulta terminata all'inizio del 1451), quindi De causis plantarum. Delle difficoltà incontrate da Teodoro ci informa la lettera dedicataria premessa alla splendida edizione manoscritta approntata per il pontefice. In primo luogo, lo stile di Teofrasto è difficile di per sé: le sue opere non erano state pensate per la pubblicazione, erano piuttosto materiali di lavoro, continuamente rivisti, di cui il filosofo si serviva per i suoi corsi; ne risulta uno stile sintetico e ellittico. In secondo luogo, il manoscritto di cui servì Teodoro (l'unico di cui disponesse) era pesantemente corrotto. In terzo luogo, egli non era un esperto di piante e sia la terminologia botanica sia l'identificazione delle specie descritte ponevano molti problemi. Per risolverli, Teodoro studiò attentamente la Naturalis historia di Plinio, che a sua volta dipendeva in parte dalle opere di Teofrasto e ne attinse la terminologia, la chiave per l'identificazione delle specie, le informazioni per interpretare i passi corrotti o colmare le lacune. Dunque la sua traduzione, all'epoca molto ammirata anche per l'eleganza formale, è molto libera e in molti passi errata. In ogni caso, fu decisiva per rimettere in circolazione Teofrasto. Nel 1483 uscì la prima edizione a stampa della traduzione di Gaza, seguita tra il 1495 e il 1498 dalla prima edizione a stampa dell'originale greco, nell'ambito della grande edizione delle opere di Aristotele per i tipi di Aldo Manuzio. Teofrasto ritornava a circolare, nel momento più opportuno per fecondare la rinascita della botanica. Gazania, un tesoro vegetale Nel 1791 Joseph Gaertner, nella sua importante De Fructibus et Seminibus Plantarum (una delle prime opere in cui nello studio delle piante è stato usato estesamente il microscopio) riclassificò una specie sudafricana già nota a Linneo come Gorteria rigens, creando il nuovo genere Gazania. Poiché l'autore non lasciò spiegazioni, sull'etimologia del nome ci sono due scuole di pensiero: secondo alcuni deriva dal sostantivo greco gaza, che significa "tesoro reale"; secondo la maggioranza degli studiosi, è un omaggio al nostro Teodoro Gaza; Gaertner fu un grande tassonomista e un pioniere degli incroci e della genetica, ed è credibile che apprezzasse colui che riportò in auge Teofrasto. Ovviamente, mi schiero con la seconda ipotesi, che permette al blog di ospitare la bellissima Gazania, forse (insieme a Gerbera) il più noto tra i numerosi generi di margherite sudafricane. L'altra possibile etimologia ha lasciato però traccia nella lingua inglese, in cui la Gazania è chiamata anche treasure flower, probabilmente in riferimento all'esplosiva e prorompente fioritura di molte specie e forse anche ai caldi e brillanti colori. Gazania raggruppa erbacee annuali e perenni originarie dell'Africa australe, in particolare del Sud Africa; il numero delle specie è altamente incerto perché (la cosa non sarebbe piaciuta a Teodoro Gaza, ma avrebbe sommamente divertito Teofrasto) alcune specie sono così variabili da aver mandato in tilt generazioni e generazioni di tassonomisti. Chi fosse interessato a scoprire perché, troverà un approfondimento nella scheda. E' certo invece che, soprattutto sotto forma dei numerosissimi ibridi, è una delle più popolari piante da giardino, celebre per la facilità di coltivazione, la resistenza alla siccità, la prolungata fioritura. La gamma dei colori offerti è ricchissima: giallo, bronzo, arancio, rosa, salmone, rosso aranciato, bianco, talvolta con strisce e macchie di colore contrastante. Nessuna esigenza se non il sole; come il girasole, sono eliotropiche (il capolino si orienta seguendo il corso del sole) e i fiori si chiudono nelle giornate nuvolose e dopo il tramonto. Teofrasto è stato il primo botanico della storia; a lui le piante interessavano in sé, non solo per l'utilità che ne potevano trarre gli uomini. Ne studiò la morfologia, la riproduzione, la fisiologia, il rapporto con l'ambiente; colse molte loro peculiarità e creò una terminologia. Ne propose una prima sia pur generalissima classificazione. Ma in epoca romana e medioevale fu via via dimenticato, per essere riscoperto solo nel Rinascimento. In fondo, per questo gigante della botanica il minuscolo e oscuro genere Theophrasta non è una scelta così inadeguata. Una metodica indagine sulle piante Linneo l'ha proclamato "padre della botanica". Anna Pavord, nel suo brillante The naming of names, ne ha fatto l'eroe fondatore della tassonomia e l'ha immaginato mentre, una foglia di platano in una mano, una foglia di vite nell'altra, guida gli allievi del Liceo a riflettere su somiglianze e differenze per cercare un senso, un ordine sotto le molteplici forme della natura. Teofrasto, amico, allievo e successore di Aristotele alla guida della scuola peripatetica, è stato in effetti il primo (anzi l'unico, per oltre 1500 anni) a non accontentarsi di considerare le piante solo dal punto di vista utilitario, per osservarle con occhio di scienziato. Autore di centinaia di opere, di cui ben poche ci sono giunte, alla botanica dedicò Perì phutòn istoria, noto con il titolo latino Historia plantarum (che, più che storia delle piante significa "Indagini sulle piante") e Perì phutòn aitòn, noto con il titolo latino De causis plantarum (ovvero "Spiegazione delle piante"); la prima si occupa soprattutto della morfologia e della classificazione delle piante, la seconda della loro riproduzione e fisiologia. Insieme all'aristotelica Historia animalium, rappresentano le opere maggiori della scienza biologica antica: i due amici si erano divisi i compiti: Aristotele si occupò di studiare gli animali, Teofrasto le piante. Per la sua vita, si rimanda alla sezione biografie. L'oggetto dell'indagine di Teofrasto è esposto chiaramente all'inizio di Historia plantarum: "Per individuare i caratteri distintivi delle piante e la loro natura generale dobbiamo considerare le loro parti, le loro qualità, i modi in cui si origina la loro vita e l'intero corso della loro esistenza". Anche il metodo è chiaramente dichiarato: "Il compito generale della scienza è distinguere ciò che è identico in una pluralità di cose". In altre parole, come per Aristotele, conoscere significa paragonare, scoprire ciò che è comune a cose a diverse (arrivando così a definire categorie, gruppi generali), e ciò che differenzia cose uguali (riconoscendo le caratteristiche distintive dei membri di una categoria). Sebbene nelle sue opere non manchino nozioni ereditate dalla tradizione dei rizotomi, gli erboristi-raccoglitori di piante (molte delle quali, dal nostro punto di vista, sono pure e semplici superstizioni; Teofrasto, pensatore cauto e prudente, in genere prende parzialmente le distanze con formule come "si dice", "su questo sono necessarie altre indagini"), moltissimo è dovuto all'osservazione diretta e rivela una profonda conoscenza della morfologia, della fisiologia e della vita delle piante. Respingendo lo zoocentrismo di Aristotele (che descriveva le piante come animali con la bocca sotto terra e l'apparato riproduttivo e escretorio per aria), Teofrasto pensa in primo luogo che le piante vadano studiate con categorie che sono loro proprie. In primo luogo, nota che è persino difficile capire quali sono le loro parti perché, al contrario delle membra degli animali, molte di esse non sono permanenti: le foglie, i frutti, i semi, l'intera parte area delle erbacee perenni cadono o periscono senza che la pianta cessi di esistere come tale. In secondo luogo, il mondo vegetale è caratterizzato da un'enorme varietà; proprio in quegli anni, l'arrivo delle informazioni raccolte nei paesi esotici da soldati, mercanti e studiosi al seguito di Alessandro, complicava ulteriormente le cose. Teofrasto sottolinea che, mentre gli animali sono liberi di muoversi, le piante sono ancorate al terreno da cui ricevono il nutrimento; ecco perché è importante studiare i luoghi "propri", cioè quelli in cui ciascuna pianta trova le condizioni più favorevoli (noi diremmo, la nicchia ecologica; si capisce perché il filosofo greco sia considerato anche il padre dell'ecologia) e capire quali fattori esterni ne influenzino la crescita. il vigore, la fruttificazione. I suoi studi posero le basi della futura botanica, in alcuni casi anticipando di secoli conoscenze di là da venire; in primo luogo, ci ha lasciato alcuni termini (in assenza di ogni terminologia botanica, Teofrasto dovette inventarla dal nulla), ad esempio la distinzione tra il frutto, carpos, e l'involucro dei semi, pericarpon; il nome di molte piante che usiamo ancora oggi (ad esempio, tra quelle che iniziano con la lettera a: Aconitum, Agrostis, Althaea, Anemone, Aristolochia, Arum). Distinse le piante dicotiledoni e monocotiledoni (derivò questo gruppo dall'osservazione dei cereali e di altre Poaceae), le piante da fiore (angiosperme) e le gimnosperme (per lui, le piante che portavano pigne), le piante sempreverdi e quelle decidue, ma colse anche distinzioni più minute, ad esempio esaminando la struttura dei fiori distinse petali liberi e petali fusi, ovario supero e ovario infero. Comprese almeno nelle linee generali il funzionamento della fecondazione delle piante (in particolare nelle piante dioche, come le palme) e colse la relazione tra la struttura di alcuni fiori e quella dei frutti che ne derivano. Fu anche il primo tassonomista e propose una classificazione molto generale delle piante, sulla base della loro struttura, distinguendole in quattro gruppi: alberi, arbusti, suffrutici, erbe; sulla base della durata della vita, le distinse poi in annuali, biennali, perenni. Tutte queste acquisizioni erano destinate a non avere seguito. La botanica, appena nata, morì sul nascere e per secoli divenne un'ancella della farmacia e della medicina. Dopo Teofrasto, la scuola peripatetica si disperse; la maggior parte delle opere sue e del maestro andò perduta. Le due opere di botanica superstiti erano note in età romana, ma vennero fraintese o ignorate: Plinio saccheggiò Historia plantarum per quel bric a brac che è la Naturalis Historia, dove le puntuali notazioni scientifiche di Teofrasto convivono con leggende e racconti superstiziosi; ma soprattutto si impose Dioscoride, un medico che non era interessato alle piante in sé, ma al loro uso medicinale. Questa fu la via maestra per tutto il Medioevo. I testi di Teofrasto furono dimenticati; si salvò fortunosamente solo una manciata di manoscritti nelle biblioteche bizantine. Perché venissero riscoperti e i semi del loro insegnamento incominciassero a germogliare, bisognò attendere il Rinascimento. Ma questa è appunto la prossima storia. Un supplemento d'indagine per Theophrasta Dopo che il Rinascimento lo ebbe sdoganato, Teofrasto recuperò il suo ruolo di padre fondatore della botanica; a rendergli omaggio pensò in primo luogo padre Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani (1703). Ma con un pizzico di snobismo lo denominò Eresia, dal luogo natale di Teofrasto (il filosofo era noto come Teofrasto di Ereso, o alla latina Theophrastus Eresius). Una dedica un po' troppo per iniziati, secondo Linneo, che corresse il tiro adottando il più trasparente Theophrasta (in Species Plantarum, 1753). Si tratta di un piccolissimo genere di arbusti o piccoli alberi endemici dell'isola di Hispaniola, che comprende due sole specie; Theophrasta americana e T. jussieui. L'aspetto è davvero curioso, e non avrebbe mancato di incuriosire il dedicatario, un vero scienziato senza preconcetti che era ben consapevole della provvisorietà delle proprie categorie conoscitive, e non mancò di segnalare i casi della natura che le contraddicevano. Come gli alberi hanno solitamente un unico fusto, tuttavia non legnoso, ma piuttosto fibroso (che ricorda quello delle palme) con un ciuffo di lunghe foglie all'apice, coriacee, spinose e molto seghettate. Fino a qualche anno fa erano assegnate, insieme a una manciata di altri generi, tutti endemici delle Antille, a una famiglia propria, Theophrastaceae. Ma, come sapeva già Teofrasto, le conoscenze scientifiche vengono messe in discussione da nuovi studi, nascono nuovi paradigmi; e grazie alle ricerche basate sulla storia evolutiva, oggi fa parte delle Primulaceae, in cui sono state incluse non solo le ben note erbacee del vecchio mondo, ma anche alcune piante legnose del nuovo mondo. Una scelta che non convince tutti (occorre un supplemento d'indagine, direbbe Teofrasto) anche se i fiori a cinque petali delle Theophrastae che si addensano numerosissimi al centro del ciuffo di foglie hanno indubbiamente un'aria... primulesca. Qualche notizia in più nella scheda. Teofrasto è ricordato anche dal nome specifico di alcune piante; la più nota è probabilmente Abutilon teophrasti, volgarmente detta "cencio molle", un'infestante delle culture. Sicuramente più apprezzata è Phoenix theophrasti, la palma di Creta, una delle due uniche specie di palme endemiche dell'Europa. Mentre Napoleone combatte le battaglie disperate della "Campagna di Francia", i medici parigini affrontano un nemico ancora più devastante dei temuti cosacchi: l'ennesima epidemia di tifo. Al contrario dell'imperatore, vinceranno la loro battaglia. Ma non senza qualche vittima; tra loro il giovane medico e botanico Henri Auguste Duval, che sarebbe del tutto dimenticato senza uno scambio di favori con un collega che gli dedica il genere Duvalia. Da medico e botanico a caso clinico Nella memoria dei Belgi e dei Francesi, quello del 1813-1814 è passato alla storia come "inverno dei cosacchi". In quella stagione freddissima, una delle più inclementi del secolo, si combatté la "Campagna di Francia" che si concluse con la sconfitta di Napoleone, la sua abdicazione e l'ingresso degli eserciti della coalizione (proprio loro, i famosi cosacchi) a Parigi. Dopo la battaglia di Lipsia (16-19 ottobre 1813), gli alleati decisero infatti di non lasciare all'imperatore il tempo di riorganizzarsi e lanciarono una campagnia invernale. Inutilmente Napoleone cercò di impedire agli eserciti nemici di congiungersi e di convergere verso Parigi. Proprio il giorno di Natale, le frontiere francesi furono violate e iniziò l'invasione. La guerra portava con sé fame, furti e violenze di ogni tipo; ingigantito ad arte dalla propaganda napoleonica, si diffondeva il mito dei cosacchi, barbari e bestiali. E mentre dilagava la paura, i medici di Parigi dovevano fronteggiare un altro, immediato, concreto e terribile spettro: l'epidemia. Gli studiosi che si sono occupati delle guerre napoleoniche hanno dimostrato che, più delle battaglie, a mietere vittime tra i soldati dell'Armée furono le pessime condizioni sanitarie, e in particolare le epidemie. Tra i morbi più devastanti, il tifo, un'etichetta generica per diverse malattie infettive; le forme più comuni nella Francia ottocentesca erano il tifo petecchiale o esantematico, provocato da un batterio trasmesso dal morso delle pulci, e la febbre tifoide, causata da un batterio del genere Salmonella. Entrambi imperversavano tra i soldati, favoriti dalle loro condizioni di vita: denutrizione, fatica e prostrazione, scarsissima igiene, promiscuità e concentrazione in ambienti sovraffolati e malsani. Dopo ogni campagna, i reduci portavano con sè i germi e anche tra la popolazione civile si scatenavano ondate epidemiche, contro le quali la medicina del tempo aveva ben pochi strumenti. Allora non si sapeva nulla di batteri e virus. Si era capitò però che la sporcizia e la cattiva igiene avevano molto a che fare con il diffondersi delle malattie contagiose. Così, in quell'inverno terribile, mentre l'imperatore vinceva qualche battaglia e perdeva la guerra e il trono, i medici parigini riuscirono, con la prevenzione e l'attenzione alle misure igieniche, a limitare i danni. Quell'anno, almeno a Parigi, l'epidemia fu fermata; i morti non si contarono a centinaia o a migliaia, ma a poche decine. Uno di essi fu un medico, che, non potendo servire il suo paese in altro modo, aveva voluto combattere in prima linea almeno contro l'epidemia: Henri-Auguste Duval. Della sua vita non sappiamo quasi nulla: era normanno, nato a Alençon, oltre che medico era un botanico stimato e appassionato. Il suo maggior contributo alla botanica è una breve opera, il catalogo di una collezione di succulente appartenente a un giardiniere-collezionista della sua città natale, Plantae succulentae in horto Alenconio (1809); in essa Duval riconobbe per la prima volta i generi Haworthia e Gasteria, separandoli da Aloe. Sappiamo invece quasi tutto della sua morte, perché è stata esposta come caso clinico dal medico che lo curò e non poté far nulla per salvarlo; grazie a B. Pellérin (Considération sur les maladies qui ont regné à l'hospice de la Salpetrière dans 1814) sappiamo ad esempio che Duval era da tempo molto angosciato dalla situazione politica; era agitato, aveva perso l'appetito, era dimagrito e dormiva male. Nonostante chi lo sconsigliava, probabilmente per senso civico aveva chiesto di essere trasferito nel reparto infettivi dell'ospedale parigino della Salpêtrière e prima di essere contagiato si era prodigato senza risparmio e con qualche imprudenza. Fu così che dopo circa quindici giorni dalla comparsa dei primi sintomi, si spense il 14 marzo 1814. Aveva 36 anni. Due settimane dopo i cosacchi entravano a Parigi e si accampavano (alimentando altre leggende) nel Bois de Boulogne. Una sintesi delle poche notizie che abbiamo su Duval nella biografia. Io dedico una succulenta a te, tu una a me... Benché per noi sia quasi uno sconosciuto, il promettente botanico ai suoi tempi dovette godere di una certa fama. Infatti, poco prima della sua morte, ben due colleghi gli dedicarono un genere: l'inglese Haworth nel 1812 e il francese Bonpland nel 1813. Per la legge della priorità, ad essere valido è il primo (Duvalia Haw.). I due generi validi creati da Duval, Gasteria e Haworthia, comprendono piante succulente endemiche del Sud Africa che prima di lui erano assegnate al genere Aloe. Oggi sono tra le più popolari e note "piante grasse" dei nostri appartamenti. Un esperto di succulente era anche il dedicatario del secondo genere, Adrian Hardy Haworth, che ricambiò il favore battezzando Duvalia uno dei generi descritti nel suo Synopsis Plantarum Succulentarum. Evidentemente, anche se in quegli anni francesi e inglesi si scambiavano fucilate e cannonate sui campi di battaglia, nel mondo della botanica prevalevano la cortesia e il savoir faire... Duvalia è un genere molto affine a Stapelia (sottotribù Stapeliinae della sottofamiglia Asclepiadoideae, in base alla nuova classficazione che ha fatto confluire le Asclepiadaceae nelle Apocynaceae), di cui condivide parecchie caratteristiche. Comprende piccole succulente tappezzanti, con fusti angolati che radicano alla base formando densi tappeti; anche se tendiamo ad associare le succulente ai deserti, vivono in zone aride ma non amano il sole diretto; crescono infatti preferibilemente in mezzo all'erba o alle macchie di arbusti. Sebbene le più note arrivino dal Sud Africa, un piccolo gruppo di specie è nativo del Corno d'Africa. A essere straordinari sono soprattutto i fiori che a me ricordano decisamente stelle di mare, con i loro cinque lobi a volte molto stretti e appuntiti, strani colori che includono il porpora e il marrone cioccolato e in alcune specie marezzature e macchie degne di un tappeto orientale. Ma guai ad avvicinare il naso per annusarle! Le Stapeliinae si sono evolute in aree desertiche dove non ci sono né api né farfalle, ma solo coleotteri e mosche che non si nutrono di polline, ma di carogne e materiali in decomposizione. Quegli strani colori, quelle marezzature, talvolta quei peli serici e soprattutto quell'odore (di formaggio andato a male, di calzino sporco, di carne putrefatta) sono lì apposta per confonderli e attirarli! Per fortuna sono piccole piante con piccoli fiori, e, al contrario delle mosche carnarie, noi umani ne avvertiamo l'odore solo da vicino. Qualche notizia in più su questo intrigante genere nella scheda. A ricordare lo sfortunato Duval, alla Duvalia si affianca anche un secondo genere, costituito da un'unica specie: la rarissima Duvaliandra dioscoridis, un endemismo di Socotra, un'altra parente delle Stapeliae che deve il nome generico alla somiglianza con la Duvalia. E' una specie fortemente a rischio: in natura se ne conosce una sola popolazione, con una cinquantina di esemplari in tutto. Anche in questo caso, qualche approfondimento nella scheda. Se Martino per un punto perse la cappa, la Wisteria per una e piuttosto che una a scatena scontri w-isterici sia sul dedicatario sia sulla corretta grafia del nome botanico. E dubbi: perché da noi si chiama glicine, se il vero Glycine è la soia? dove si trova quello più grande del mondo, in Giappone o in California? qual è il senso di avvolgimento dei rami? Che lo si chiami Wisteria o glicine, nessun dubbio sulla sua bellezza. Wisteria o Wistaria? Se leggiamo la fonte primaria, sul perché il nome botanico del glicine sia Wisteria non dovrebbero proprio esserci dubbi. Nel 1818 morì a Filadelfia Caspar Wistar, anatomista eminente, proibizionista e amico personale di Jefferson; lo stesso anno, il botanico Thomas Nuttall pubblicò il primo volume di The genera of American Plants, in cui volle rendere omaggio all'illustre scomparso dedicandogli il nuovo genere Wisteria, che egli aveva stabilito separando Wisteria floribunda, il glicine americano, dal genere linneano Glycine, come dichiarò esplicitamente: "In memoria di Capar Wistar, dottore in medicina, professore di Anatomia all'Università di Pennsylvania". Tutto a posto, tranne un piccolo particolare: perché Wisteria e non Wistaria? A chi glielo chiese anni dopo, Nuttall rispose semplicemente che Wisteria gli sembrava più eufonico. Del resto Wistar o Wister era la stessa cosa, non era in fondo lo stessa famiglia? I Wistar / Wister di Filadelfia infatti discendevano da due fratelli, immigrati tedeschi che si chiamavano originariamente Wüster. Il primo ad arrivare in America fu Caspar Wüster, che nel 1717 si stabilì in Pennsylvania ed divenne un ricchissimo fabbricante di vetri. Divenuto suddito britannico, assunse il cognome Wistar; una decina di anni dopo fu raggiunto dal fratello Johannes, che invece adottò il nome inglese John Wister. I discendenti di Caspar erano dunque i Wistar (il nostro Caspar era suo nipote), quelli di John i Wister. Il nipote di John, Charles J. Wister senior, era un ottimo amico di Nuttall. A intorbidare le acque, quando Nuttall era ormai morto e non poteva replicare, intervenne proprio il figlio di Wister, Charles J. Wister junior, che sostenne - per altro senza prove - che il vero dedicatario della Wisteria era suo padre, naturalista dilettante. La sua pretesa non è mai stata presa troppo sul serio dai botanici, che piuttosto si sono accapigliati se bisognasse mantenere il nome (scorretto) Wisteria o sostituirlo con quello (corretto) Wistaria. Alla fine si concluse saggiamente, secondo le regole della nomenclatura botanica che, poiché l'errore era deliberato, andava mantenuto il nome originario. Ma la doppia grafia ha lasciato una traccia permanente nella lingua inglese (nella quale wisteria / wistaria è il nome comune del glicine); ancora oggi, dizionari ugualmente autorevoli preferiscono quale l'una, quale l'altra grafia. Nel 2009 la decisione della direzione del Times di adottare ufficialmente la forma wisteria suscitò la ribellione del giornalista Richard Dixon, che difese a spada tratta wistaria. Dal 1973 in California, all'ombra della pergola ricoperta da un glicine che pretende di essere il più grande del mondo (piantato nel 1894, copre un pergolato di un acro, circa 4000 metri quadrati, produce 1 milione e mezzo di grappoli e nel 1990 è entrato nel Guinness dei primati) si svolge un festival: il suo nome è Sierra Madre Wistaria Festival. Più antico, ma di gran lunga più piccolo l'esemplare piantato nel parco giapponese Asikaga nel 1866 (l'estensione dichiarata è di 600 tatami, ovvero "appena" 1900 metri quadrati). D'altra parte, ognuna detiene il record per la propria specie: quello che fiorisce in California è un esemplare del più vigoroso glicine cinese (Wisteria sinensis), quello che dà spettacolo in Giappone è ovviamente un esemplare del relativamente meno espansivo glicine giapponese (Wisteria floribunda). Un anatomista... salottiero Ma torniamo a Wistar che, nel firmamento della nascente scienza americana, fu una stella di prima grandezza. Rampollo di una influente famiglia di Filadelfia, a quanto pare egli decise di diventare medico quando a 16 anni aiutò a curare i feriti della sanguinosa battaglia di Germantown (1777). Dopo la laurea all'Università della Pennsylvania, andò a perfezionarsi a Londra e a Edinburgo. Al suo rientro in patria (1787) iniziò una brillante carriera medica e accademica; divenne membro della American Philosophical Society (di cui fu anche curatore dal 1787 e presidente dal 1815). Fu tra i primi a respingere le cure a base di purganti e salassi, imperanti all'epoca. I suoi contributi principali sono nel campo dell'anatomia (il suo A System of Anatomy for the Use of Students of Medicine, 1811-1814, fu il primo testo di anatomia scritto in America) e della paleontologia. Amico personale del presidente Thomas Jefferson, collaborò con lui all'identificazione delle ossa del Megalonyx (un gigantesco bradipo fossile), e intraprese il primo studio dell'anatomia comparata degli animali fossili americani. Nel 1803, quando Jefferson lanciò la spedizione di Lewis e Clark (la prima a raggiungere la costa pacifica via terra), chiese la consulenza di Wistar, che ebbe un colloquio con Lewis, quindi stese per conto del presidente una lista degli obiettivi della spedizione. Wistar era famoso anche per il suo salotto. Dopo il suo matrimonio con Elizabeth Muffin, a partire dal 1799 o dal 1800 ogni settimana, la domenica sera, invitava a casa sua i membri della American Pilosophical Society e gli stranieri eminenti che visitavano la città. Questi intrattenimenti, noti con il nome di Wistar Parties, sono stati descritti come "banchetti intellettuali" in cui, con tatto e bonomia, Wistar guidava la conservazione dei suoi ospiti, l'élite scientifica del paese, invitandoli a illustrare gli argomenti di cui erano esperti senza eccessivi tecnicismi. Uno di quegli ospiti fu proprio Thomas Nuttall, che nel 1812 intrattenne la dotta compagnia con il racconto della sua spedizione lungo il Missouri. Qualche approfondimento su Wistar nella biografia. Semi di soia e grappoli di glicine Mentre gli anglosassoni si accapigliavano su wisteria / wistaria, saggiamente olandesi e tedeschi adottarono, rispettivamente, come nome volgare i poetici Blauweregen e Blauregen, ovvero "pioggia azzura". Nelle lingue mediterranee (ma anche quelle slave) il nome comune deriva invece dal vecchio nome botanico Glycine, che al momento attuale designa tutt'altre piante (la più nota è la soia, Glycine max). Il genere Glycine venne creato da Linneo nel 1753; includeva tra l'altro una pianta tuberosa americana (Glycine apios, oggi Apios americana) dalle radici dolci (Glycine deriva dal greco glukus, che significa "dolce"). Per una serie di complesse vicende, neppure una delle specie inizialmente incluse da Linneo nel suo genere Glycine si chiama ancora così, tanto che il genere è stato ristabilito su diverse basi da Willdenow nel 1802 (e solo molto più tardi vi è stata inclusa la soia). Anche se quando il glicine cominciò a diffondersi nei giardini - le specie più note arrivarono infatti in Europa dalla Cina e dal Giappone nel corso dell'Ottocento - Nuttall lo aveva già denominato Wisteria, il vecchio nome botanico era ancora quello prevalente, tanto da imporsi come nome comune in molte lingue, generando anche una curiosa incongruenza: il vero Glycine dei botanici grazie ai semi commestibili è una delle piante alimentari più importanti del mondo; Wisteria, il falso glicine della lingua comune, ha semi velenosissimi. Wisteria (famiglia Fabaceae) comprende cinque-sette specie di rampicanti dalle fioriture estremamente decorative, originarie una dell'America settentrionale, le altre dell'Asia orientale. Le specie più note e coltivate sono quella cinese (W. chinensis) e quella giapponese (W. floribunda), caratterizzata dai grappoli molto lunghi; curiosamente, mentre le specie americana e cinese si avvolgono in senso antiorario, quelle giapponesi vanno contro corrente e si avvolgono in senso orario. In giapponese il glicine si chiama fuji o huji e ha un'enorme importanza culturale. Simbolo dell'amore e della longevità, ha anche ispirato un dramma del teatro Kabuki (Fuji Musume, "La fanciulla del glicine"). Inutile dire che proprio in Giappone si trovano i giardini più belli; a Kitakyushu gli è stato dedicato un intero giardino (Kawachi Fujien Gardens), con 150 glicini in 20 varietà; l'attrazione principale è un tunnell di 100 metri che sfuma dal bianco al blu, al lavanda, al viola, al rosa. Approfondimenti nella scheda. Arrivato in Cina per insegnare scienze agli studenti cinesi del Collegio fondato dai padri lazzaristi, il sacerdote Armand David si trasforma in un leggendario esploratore naturalista. Percorre per lo più a piedi 11.000 chilometri, affronta la fame, un tentativo di avvelenamento, un naufragio e ogni genere di malattie, salva dall'estinzione il cervo che porta il suo nome, individua il panda e centinaia di animali e piante. Ma anche l'albero che lo ricorda, Davidia involucrata, è protagonista di una storia molto avventurosa. Da missionario a esploratore naturalista Al termine della seconda guerra dell'Oppio, la Cina è costretta a firmare la Convenzione di Pechino (1860) che, tra l'altro, concede ai missionari cristiani di muoversi liberamente nel paese. Ad approfittarne per primi, i missionari francesi, da tempo presenti in Cina: dopo la soppressione dei gesuiti (come padre d'Incarville, primo diffusore della flora cinese in Europa), dal 1783 a Pechino si sono installati i lazzaristi (nome con cui è comunemente conosciuta la Congregazione della missione). Come i loro predecessori, sono riusciti a rimanere in Cina e ad ottenere un sia pur minimo radicamento utilizzando come copertura le competenze tecniche e scientifiche. Nel corso degli anni, soprattutto dopo il trattato di Nanchino, hanno creato piccole missioni in diverse parti del paese. La nuova situazione apre favorevoli prospettive; con l'appoggio del ministero degli esteri francese (che vede nei lazzaristi uno strumento per estendere la sfera d'influenza della Francia in Cina), l'ordine decide di aprire a Pechino un grande Collegio, destinato alla formazione dei proseliti cinesi. E' così che nell'estate del 1862 arriva a Pechino, con il compito di insegnare scienze naturali nel Collegio appena fondato, un giovane sacerdote lazzarista, Armand David. Ha una notevole esperienza in campo educativo (per dieci anni ha insegnato scienze al Collegio di Savona), ed è un naturalista le cui competenze spaziano a 360° dalla zoologia alla botanica alla mineralogia. Fin da subito, inizia ad affiancare all'intenso lavoro didattico e all'attività sacerdotale brevi escursioni naturalistiche nei dintorni della capitale per raccogliere materiali, destinati in parte al museo didattico del Collegio, in parte ad alcuni professori dell'Accademia delle Scienze e del Museo di storia naturale di Parigi, cui li ha promessi prima di partire. Sia nel 1862 sia nel 1863, fa anche due viaggi più lunghi (a Kalgan, a nord ovest di Pechino, a piedi della grande muraglia, e a Jehol, a nord est) che, se hanno lo scopo principale di apprendere meglio la lingua, gli permettono anche di incrementare le sue collezioni. In entrambi i casi, invia a Parigi alcune casse di semi e esemplari di animali e piante, lasciando stupefatti i professori parigini, certamente per la loro quantità e qualità, ma soprattutto dell'eccezionale valore delle note di David. E' un'occasione da non perdere! Su loro richiesta, il ministro della Pubblica Istruzione chiede al superiore generale dei lazzaristi di liberare padre David dal lavoro del collegio, in modo che possa dedicare tutto il suo tempo all'esplorazione naturalistica. Il superiore accetta, e il missionario naturalista si trasforma in un esploratore a tempo pieno, le cui spese saranno da questo momento a carico del Ministero della pubblica istruzione e del Museo di Scienze Naturali di Parigi. La rete missionaria fornirà invece l'appoggio logistico, sia fornendo servitori e aiutanti, sia soprattutto mettendo a disposizione di David i locali delle missioni distaccate, dove il sacerdote naturalista farà tappa o creerà le proprie basi operative. Avrà così inizio una delle più straordinarie epopee della ricerca naturalistica, destinata a gettare le basi della conoscenza scientifica del territorio cinese, e - per quanto ci riguarda - ad arricchire i nostri giardini di decine e decine di nuove piante. Il primo eccezionale risultato venne raggiunto mentre ancora David si preparava alla prima spedizione. Arrampicandosi sul muro che circondava il vietatissimo parco imperiale di Nanhaizi, a una lega a sud di Pechino, egli scorse in lontananza un branco di cervo di curiosissimo aspetto. Corrompendo i guardiani, riuscì a procurarsi dapprima alcune pelli, poi le ossia di quella che risultò una specie del tutto sconosciuta (oggi si chiama Elaphurus davidianus, ovvero cervo di padre David); come, proprio grazie all'intraprendenza del sacerdote, questi rari cervidi siano riusciti di misura a scampare all'estinzione lo potete leggere in questo articolo. Tre spedizioni a nord, a sud e al centro della Cina Tra il 1866 e il 1874, padre David fu impegnato in tre spedizioni. La prima durò sette mesi e mezzo (marzo-ottobre 1866) ed ebbe per meta la Mongolia meridionale (regione dell'Urato); il sacerdote viaggiò insieme a un cinese convertito, Ouang Thomas, e, nella fase centrale dell'esplorazione, della famosa guida di origine mongola Samdadchiemba e del confratello laico Chevrier. Il gruppo dovette affrontare la fatica di una strada spesso impercorribile, il clima rigido, la scarsità d'acqua e di cibo, il pericolo dei lupi (che li costringeva a dormire nelle tende insieme ai loro muli), dei banditi e dei drappelli di soldati tatari. Ogni sera padre David annotava scrupolosamente sul diario di viaggio ciò che aveva osservato durante la giornata: la natura del suolo, la flora e la fauna, i gruppi umani con la loro cultura materiale e le loro credenze. Nonostante si trattasse di una regione aspra e semidesertica, dove la penetrazione cinese stava distruggendo quanto rimaneva sia della cultura mongola sia del fragile manto forestale, alla fine il risultato non fu disprezzabile: 176 uccelli, 59 mammiferi, 150 piante e 680 insetti. Ma David ne fu molto deluso, come scrisse ai corrispondenti parigini: "Forse sapete che l'anno scorso ho passato otto mesi nell'Urato. Vi ho speso molto denaro, perso il mio tempo e le mie fatiche, perché è un paese poverissimo, anche se a Pechino mi aveano fatto credere il contrario". Per il secondo viaggio (che durerà circa due anni, maggio 1868-giugno 1870), David sceglie dunque la Cina sudoccidentale e il Tibet orientale, alla ricerca delle foreste primitive segnalate da altri missionari. E questa volta farà centro: la regione di Ya'an (nell'attuale Sichuan) è ancora oggi una delle più ricche di biodiversità. Raggiunta Shangai, la piccola spedizione (David ha sempre con sè Ouang Thomas, altri compagni di viaggio si aggiungono nei diversi tratti) dapprima risale il Fiume Azzurro in nave, ma a causa delle piene rimane per quattro mesi a Jiujiang (una zona modesta agli occhi di padre David, che tuttavia gli frutta la scoperta di una nuova specie di rana, Rana latrans). Il 13 ottobre riparte; il viaggio è reso difficile dalle rapide, dall'ostilità della popolazione, e padre David si ammala gravemente, forse vittima di un avvelenamento (era un metodo consueto in Cina per liberarsi dei "cani stranieri"). Ultima tappa del viaggio in nave è Chongquing, nella provincia di Sichuan; da qui, in portantina (gli è stato raccomandato di mostrarsi il meno possibile: l'ostilità contro gli stranieri, in una Cina frustrata dagli accordi diseguali imposti dalle potenze occidentali, è generale) raggiunge il principato semi indipendente di Muping (oggi Baoxing), dove i lazzaristi avevano fondato un collegio; è una regione di etnia tibeto-birmana (Mantze), di religione buddista, situata a più di 2000 m di altitudine. Al centro di un'area ricchissima di biodiversità, nel Tibet orientale, questa sarà la base di padre David per i successivi nove mesi. Nelle casse che da Muping spedisce a Parigi (nonostante le enormi difficoltà, in mancanza di tutto, per conservare e imballare il materiale) prenderanno posto 676 piante, 441 uccelli, 145 mammiferi; tra questi ultimi, le acquisizioni più note, il rinopiteco dorato ma soprattutto il panda (che sarà identificato e descritto scientificamente nel 1870 da Milne-Edwards). Le acquisizioni botaniche non sono meno significative: moltissime delle piante che associamo a padre David grazie agli specifici davidii, davidianus, armandii vengono da qui, come pure - lo vedremo meglio tra poco - la Davidia involucrata; altre ricordano la loro provenienza con lo specifico moupinensis. A novembre David lascia Muping (dove ha sofferto ogni tipo di privazioni e varie gravissime malattie); prima di rientrare fa una lunga deviazione sull'altopiano del Quingai (dicembre 1869-marzo 1870) dove scopre molte nuove specie di uccelli e la salamandra cinese, la più grande del mondo (Andrias davidianus). Da qui raggiunge Chengdu, dove si imbarca nuovamente sul Fiume azzurro alla volta di Shangai. Lungo la strada conta di fermarsi alla missione francese di Tientsin; ma al suo arrivo scopre che appena una settimana prima l'intera missione è stata massacrata in una rivolta. La terza e ultima spedizione (ottobre 1872-marzo 1874) ebbe per terreno la Cina centrale, dai monti Quinling allo Jiangxi. Poiché il suo fisico era ormai provato dalle tante malattie, accompagnato da due servitori cristiani ora il sacerdote si muoveva in carretta; ricadute e episodi di prostrazione fisica lo costrinsero più volte a soste prolungate. Dopo aver rinunciato alla meta che si era proposto, il Gansu (inaccessibile per una ribellione musulmana), decise di esplorare i monti Qinling, una barriera montana che fa da spartiacque tra i bacini del Fiume giallo e del Fiume azzurro e segna il confine tra il clima temperato del nord e quello subtropicale del sud (proprio per questo è un'altra area particolarmente ricca di animali e piante). Quando raggiunse la valle dello Han, un affluente del Fiume azzurro, decise di ridiscenderlo in barca fino alla confluenza a Hankou (dove sorgevano alcune concessioni straniere). Fu una decisione catastrofica: durante l'attraversamento di una rapida, l'imbarcazione naufragò e almeno metà delle preziose casse con gli esemplari raccolti andò perduta. Raggiunta fortunosamente Hankou, padre David si riposò presso la missione italiana. Nel marzo 1873, ripartì verso sud (questa volta in portantina), fino a raggiungere Fǔzhōu nello Jiagxi, fissando la sua nuova base nel collegio Tsitou, a sud-est della città. Era un'area particolarmente insalubre; alla lunga lista di malattie già sperimentate, si aggiunse la malaria che colpì tanto padre David quanto i suoi portatori. A settembre, appena si fu ripreso, si trasferì sulle montagne del Fujian, in cerca di un clima più gradevole e di alcune rare scimmie; le sue condizioni di salute precipitarono, tanto che ricevette l'estrema unzione. La sua forte fibra lo salvò ancora una volta; ma ormai era ora di mettere fine alle esplorazioni, e di rientrare in Francia, come gli ingiunse a malincuore il suo stesso superiore. Altre informazioni su questo straordinario naturalista nella biografia. L'epopea della Davidia I viaggi di padre David (si calcola che abbia percorso non meno di 7000 miglia, ovvero più di 1100 km, per lo più a piedi) segnarono una tappa fondamentale per la conoscenza scientifica della natura cinese. Al di là delle celeberrime "scoperte" del cervo e del panda, per rimanere alla botanica, raccolse non meno di 1500 piante, con 250 nuove specie e 11 generi. Tra di essi troviamo 12 specie di rododendri, diverse specie di aceri, gigli, primule, genziane, Astilbe chinensis, Buddleja davidii. Si calcola che siano circa 75 le specie che lo ricordano nel nome specifico (davidii, davidianus, armandii). Tra le tante piante scoperte a Muping, c'era anche un albero molto raro, di cui padre David vide un solo esemplare. Sulla base dei materiali spediti a Parigi, nel 1870 Henri Baillon stabilì che si trattava di un genere e di una specie nuovi e lo battezzò Davidia involucrata. Come oggi sappiamo, è l'unica specie di questo genere (appartenente alla famiglia Cornaceae, un tempo Nyssaceae). E' un albero molto raro, e la sua storia è sorprendente. Dopo la segnalazione di padre David, nel 1888 di nuovo un singolo albero fu visto nelle gole dello Yangtze Ichang nell'Hubei da Augustine Henry, che ne inviò fiori e frutti a Kew, suscitando l'interesse del celebre vivaista Veitch. Quest'ultimo nel 1899 finanziò una spedizione apposita per ritrovare la preziosissima pianta, affidandola a Ernest Wilson, allora un giovane di 22 anni (era destinato a diventare a sua volta un leggendario cacciatore di piante, noto come "Chinese Wilson", Wilson il cinese); questi, giunto sul luogo segnalato da Henry dopo infinite peripezie aiutandosi con una carta disegnata a mano, scoprì che l'albero era stato abbattuto per costruire una casa; per fortuna, più tardi ne trovò un boschetto e raccolse molti semi. Durante il viaggio di ritorno, anche la sua imbarcazione fece naufragio, ma Wilson riuscì a salvare i preziosi semi. Indipendentemente, un altro botanico missionario che esplorò la Cina, Farges, nel 1897 ne inviò 37 semi all'arboretum di Vilmorin, il più agguerrito concorrente francese di Veitch. Solo uno riuscì a germinare e giunse a fioritura nel 1906. Per doppia ironia nella sorte, non solo Farges gli strappò il primato, ma i discendenti dell'unica pianta ottenuta da Vilmorin si rivelarono molto più adatti al clima europeo dei molti discendenti nati dal grosso invio di semi di Wilson. In patria, anche se era considerata una pianta da proteggere, la Davidia non destò particolare attenzione fino al 1954, quando Zhou Enlai, primo ministro della Repubblica popolare cinese, in visita a Ginevra, fu colpito dalla bellezza delle Davidiae in fiore in alcuni parchi ginevrini e scoprì che si trattava di un albero cinese; la stessa scena si ripeté all'inizio degli anni '70, quando i leader cinesi ne videro le alcuni esemplari in fioritura di fronte alla Casa Bianca. In effetti lo spettacolo di una Davidia involucrata in fiore è davvero incantevole; da noi è nota con il nome di "albero dei fazzoletti" per le due grandi brattee bianche che circondano l'infiorescenza e cadono a terra con la delicatezza di un fazzoletto. Ancora più poetico uno dei nomi inglesi, dove-tree, "albero delle colombe". Qualche notizia in più nella scheda. Il medico, filosofo e botanico rinascimentale Andrea Cesalpino è il primo a tentare una classificazione delle piante. Anche se a noi può sembrare bizzarra, è perfettamente coerente con la logica aristotelica e con le conoscenze del tempo, tanto che il suo De plantis è considerato il libro più importante della botanica prima di Linneo. A ricordarlo Caesalpina, un genere che per ironia è un vero rebus tassonomico. Strumenti per organizzare il caos Nel Cinquecento, l'afflusso sempre crescente di piante dall'Oriente e soprattutto delle Americhe aveva scompigliato le file della botanica: ormai essa assomigliava a un campo di battaglia in cui i soldati non sapevano più in quale ruolo dovevano combattere, tanto che qualcuno finiva nel posto sbagliato. L'immagine non è mia: si deve a Andrea Cesalpino, colui che per primo cercò di portare ordine in questo caos. Fin dal vecchio Dioscoride, due erano stati criteri seguiti per organizzare le piante negli Herbaria, i libri di botanica: il più comune era l'ordine alfabetico (in genere sulla base dei nomi greci, come in Mattioli e Fuchs); più raramente, le piante potevano essere raggruppate sulla base di criteri empirici privi di ogni rigore, per lo più connessi alle proprietà terapeutiche vere o presunte. Analogamente i vegetali erano disposti nelle aiuole dei nascenti orti botanici: ancora nel Seicento, in quello di Montpellier le troveremo schierate in ordine alfabetico, con tanto di etichetta con il nome greco. Cesalpino decise di seguire una strada del tutto innovativa: classificare le piante sulla base delle loro caratteristiche intrinseche. Lo fece armato di due strumenti interpretativi non sempre in accordo tra loro: la logica aristotelica e l'osservazione diretta del mondo vegetale, che aveva appreso dal maestro, il grande Luca Ghini. Da Aristotele - e dal suo allievo Teofrasto, l'unico che nell'antichità avesse già tentato questa strada - trasse il metodo, i procedimenti logici e molti concetti fondamentali: per classificare i componenti di un insieme, bisogna procedere per somiglianze e differenze, e per farlo in modo corretto occorre distinguere tra somiglianze sostanziali e accidentali (sono i concetti aristotelici di "sostanza" e "accidente"). Quali sono le proprietà sostanziali di una pianta? Quelle che permettono alla pianta di essere pianta, ovvero di esplicare le proprie funzioni vitali. Poiché le piante sono vive, esse sono dotate di ciò che Aristotele chiamava "anima vegetativa": il principio che governa ogni essere vivente e fa sì che si nutra, cresca, si riproduca. Per Cesalpino, due sono le funzioni essenziali delle piante: il nutrimento e la riproduzione; dunque, saranno gli organi che presiedono a queste funzioni a fornire i criteri di classificazione. La pianta attraverso le radici assorbe il nutrimento, che attraverso il fusto (in base a qualcosa di analogo alla circolazione del sangue, di cui come medico Cesalpino fu uno dei primi brillanti studiosi) giunge agli organi riproduttivi che grazie ad esso potranno esplicare la funzione più importante di ogni essere vivente: riprodursi. Poiché, come tutti i suoi contemporanei, Cesalpino ignorava del tutto la riproduzione sessuale delle piante, ne consegue che gli organi da osservare saranno non tanto i fiori, quanto i frutti e i semi. Degli altri organi della pianta (come le radici e le foglie) si terrà sì conto, ma solo per le classificazioni più minute, in particolare per distinguere specie affini. Saranno invece meri accidenti, da scartare come criteri di classificazione, non solo il gusto, l'odore, il colore (che variano in base al luogo in cui cresce la pianta, o addirittura tra piante selvatiche e coltivate), ma anche gli usi che ne fa l'uomo, comprese le proprietà farmaceutiche, che per secoli erano state il criterio di classificazione fondamentale. Ma prima di procedere alla classificazione, bisogna definire gli enti da classificare. Ancora una volta Cesalpino ricorre ad Aristotele, da cui riprende i concetti di specie (il singolo oggetto) e genere (il raggruppamento di oggetti che condividono caratteristiche simili). Mentre non usa ancora la parola genere nel significato attuale (i suoi generi sono gruppi molto più vaghi, che piuttosto corrispondono a famiglie o gruppi anche più ampi), egli fu il primo a definire la specie nel significato moderno, fornendo anche un criterio di verifica sperimentale: appartengono alla stessa specie piante che si assomigliano nella totalità delle loro parti (al di là delle piccole differenze accidentali) e queste caratteristiche rimangono invariate nelle piante nate dai semi. Il sistema di Cesalpino Come si sarà notato, il ragionamento di Cesalpino è totalmente deduttivo; procede cioè dall'alto verso il basso, dal generale al particolare (all'opposto del metodo induttivo, che procede dall'osservazione di casi particolari per giungere a conclusioni generali). Ciò significa anche che la sua classificazione ingabbia il mutevole mondo vegetale in una serie di categorie del tutto artificiali, che raramente corrispondono alla realtà (è stato notato che, tra i suoi gruppi, l'unico ad avere una corrispondenza con la realtà, confermato dalle ricerche successive, è quello delle Ombrellifere). Ma questo non annulla il valore pionieristico della sua opera: anche la classificazione di Linneo è del tutto artificiale; bisognerà attendere l'Ottocento perché le conoscenze dei botanici siano sufficienti per procedere a una credibile classificazione naturale. D'altra parte, misuriamo la strada intercorsa tra i due nel fatto che Cesalpino credeva che la sua classificazione fosse naturale e corrispondesse all'ordine dato da Dio all'Universo, mentre Linneo era ben consapevole dell'artificiosità della propria. Torniamo a Cesalpino, che espose i propri criteri di classificazione nei primi due libri del suo capolavoro botanico, De plantis, in sedici volumi (1583), cui segue la trattazione di 1500 specie, organizzate per gruppi sistematici. Il procedimento di Cesalpino segue la logica binaria (fu anche il primo a fornire delle chiavi di classificazione basate sull'opposizione dicotomica). In primo luogo i vegetali sono divisi in due grandi categorie, basate sull'organo che trasporta il nutrimento dalle radici ai frutti: piante legnose (questa categoria raggruppa gli alberi e gli arbusti); piante non legnose (questa categoria raggruppa i suffrutici e le erbacee). All'interno di ciascuno dei raggruppamenti principali, Cesalpino distingue poi cinque sottocategorie, in base al rapporto tra frutto e seme: frutto con un solo seme; semi ripartiti in due loculi; semi ripartiti in tre loculi; semi ripartiti in quatto loculi; semi ripartiti in più di quattro loculi. Ciascuna sottocategoria può a sua volta suddividersi in raggruppamenti minori, in base all'osservazione di caratteristiche particolari dei frutti e talvolta anche dei fiori (Cesalpino fu tra i primi a osservare la posizione dell'ovario, al di sopra o al di sotto degli altri organi fiorali); in totale, i gruppi sono 32, comprendendone anche uno riservato alle piante senza semi, in cui Cesalpino inserisce funghi, muschi e alghe. Ancora una volta mescolando intuizioni moderne e i limiti della scienza del suo tempo, egli era convinto che gli appartenenti a questo gruppo si riproducessero per generazione spontanea. Non diede invece alcuna importanza alle foglie (per la scoperta della fotosintesi bisogna attendere la fine del Settecento), cui attribuiva una semplice funzione di protezione dei frutti e dei semi. Il capolavoro di Cesalpino non ottenne il successo che meritava. Anche se un certo interesse per una classificazione sistematica delle piante si ritrova in alcuni sui contemporanei, la strada maestra percorsa dalla botanica del Rinascimento fu quella dei commenti a Dioscoride e degli erbari, destinati a medici e farmacisti, visto che la botanica continuava ad essere ancella della medicina. Oltre a questa situazione oggettiva, contribuì il fatto che il libro era stato stampato senza illustrazioni (erano state preparate le xilografie, ma, lo sponsor, il granduca di Toscana Cosimo era morto prima della pubblicazione e il figlio Francesco era meno disponibile a sostenere l'impresa); inoltre il linguaggio filosofico di Cesalpino risulta spesso oscuro e ostico. Esercitò tuttavia un notevole influsso su coloro che dopo di lui ne ripresero la strada (Caspar Bauhin, Ray, Pitton de Tournefort e lo stesso Linneo, che considerava Cesalpino il primo di tutti i botanici e annotò fittamente la sua copia di De Plantis). A Cesalpino (che nonostante la profonda cultura filosofica non era uno studioso libresco e aveva una notevole famigliarità con le piante) si deve anche uno dei primi e più importanti erbari, quello che approntò tra il 1555 e il 1563 per il cardinale Tornabuoni, il primo in cui le piante sono organizzate secondo criteri sistematici. Nella biografia altre notizie su questo importantissimo studioso. Il rebus di Caesalpinia E' davvero ironico che al pioniere della classificazione delle piante sia stato dedicato uno dei generi dalla storia tassonomica più travagliata. La creazione del genere Caesalpinia (che riprende la grafia latina del cognome Caesalpinus) si deve a Plumier e fu ufficializzata da Linneo nel 1753. Da allora si sono sussesseguite le dispute sui confini e la consistenza di questo genere, che nel corso di 250 anni si allargato e ristretto come una fisarmonica, tanto che alcune specie nel frattempo hanno cambiato nome più di trenta volte. Il gruppo Caesalpinia (una designazione informale proposta nel 1981 da Polhill e Vidal, per comprendere tutte le varie specie affini ora incluse, ora escluse dal genere) comprende alberi, arbusti, rampicanti e qualche erbacea della famiglia Fabaceae (ma si è anche proposto di inserirlo in una famiglia a sé, Caesalpinaceae) presenti nella zona tropicale di tutti i continenti. E' anzi proprio questa estensione, insieme alla difficoltà di individuare caratteristiche morfologiche distintive, ad aver determinato questo rebus. Nel senso più ampio, il genere è arrivato a comprendere fino 250 specie. Nell'ultimo trentennio, gli studi basati sempre di più sulla ricostruzione della storia evolutiva (filogenesi) attraverso le analisi del DNA, hanno ristretto sempre di più queste cifre. Il primo studio che va in questa direzione è proprio quello di Polhill e Vidal, i quali, nell'ambito di una revisione della tribù Caesalpineae, assegnarono al gruppo informale Caesalpinia 140 specie, distribuite in 16 generi. Vari studi che si sono susseguiti tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, hanno via via ristretto i confini del genere, fino a giungere alla drastica riduzione dello studio più recente (Gagnon et alii), che, partendo dall'esame dell'84% delle specie, giunge a conclusioni ben supportate e estremamente convincenti: il gruppo viene spezzettato in 26 generi certi e un ventisettesimo probabile; a Cesalpinia in senso stretto rimangono solo nove specie, tutte americane. E c'è anche una piccola rivincita di Cesalpino, che volle classificare le piante sulla base dei frutti: Gagnon e soci affermano infatti: "A livello di genere, i frutti sono altamente variabili e molto più utili dei fiori a fini tassonomici. Molti dei generi che abbiamo determinato qui possono essere differenziati basandosi sulle caratteristiche dei frutti". Tra le specie più note del vecchio genere Caesalpinia, probabilmente l'unica a conservare il suo nome è Caesalpinia pulcherrima, un arbusto originario delle Antille con spettacolari fioriture dal caldo colore aranciato. Diventa invece Erythrostemon gilliesii (= C. gilliesii), uno splendido arbusto coltivato anche da noi che molti si ostinano a chiamara Poinciana (un genere obsoleto che, diversamente da altri, non è stato resuscitato dall'équipe di Gagnon). Il pernambuco o pau brasil, l'albero che ha dato il proprio nome al Brasile, viene assegnato a un proprio genere monospecifico con il nome Paubrasilia echinata. Un'altra pianta tintoria abbastanza nota, C. spinosa, diventa Tara spinosa. Qualche notizia in più su Caesalpinia (o su quanto ne rimane) nella scheda. Fonte: E, Gagnon, A. Bruneau, C. E. Hughes, L. Paganucci de Queiroz, G. P. Lewis, A new generic system for the pantropical Caesalpinia group (Leguminosae), PhytoKeys 71: 1-160 (12 Oct 2016), http://phytokeys.pensoft.net/articles.php?id=9203 A rallegrare le feste natalizie arrivano puntuali le ricche fioriture del cactus di Natale, Schlumbergera. E questa volta il dedicatario non è né un cattedratico, né un avventuroso cacciatore di piante, ma un ricco collezionista della Francia del Secondo impero con il pallino delle piante grasse. Gloria e decadenza di una grande collezione Il genere Schlumbergera è stato creato nel 1858 da Charles Lemaire, un esperto di Cactaceae, sulla base di una cactacea epifita di ricente scoperta. Rinvenuta in Brasile dal naturalista George Gardner nel 1837, era stata inizialmente assegnata al genere Epyphillum da W. J. Hooker con il nome di E. russeliana, in onore di John Russell, duca di Bedford, che aveva finanziato la spedizione di Gardner in Brasile. Con questa dedica, Lemaire volle onorare Frédéric Schlumberger, un collezionista celebre al suo tempo, ricco botanico dilettante oggi quasi del tutto dimenticato. Per il poco che sono riuscita a ricostruirla, la storia degli Schlumberger ricorda - anche se molto alla lontana - quella della manniana famiglia Buddenbrook. Anche qui all'inizio c'è un fondatore, Emile Schlumberger, un alsaziano di Mulhouse che si era trasferito a Rouen, aveva creato un cotonificio e aveva sposato la ricca ereditiera di un altro industriale cotoniero, Godefroy Rouff. La seconda generazione è quella del nostro Frédéric, il cui interesse, più che all'azienda di famiglia, era rivolto alla botanica e al collezionismo. Grazie ai notevoli mezzi finanziari ereditati dai genitori, acquistò un castello, la Haye des Authieux, precedentemente appartenuto a una nobile famiglia, dove allestì una o più serre per la sua ricchissima collezione di piante esotiche. Possiamo gettare uno sguardo su ciò che vi coltivava grazie alla Revue Horticole del 1858 che contiene la recensione della mostra annuale della Societé d'Horticulture du Département de Seine Inférieure (di cui Schlumberger era membro): quell'anno l'industriale si aggiudicò la medaglia d'oro per la sua collezione di orchidee, Begoniae, ma soprattuto Cactaceae rare. Il suo giardiniere Delarue ottenne quella d'argento; al momento, era al servizio di Schlumberger da 17 anni: se ne deduce che quest'ultimo impiantò il giardino e/o iniziò la collezione all'età di diciotto anni, appena divenne maggiorenne e poté disporre liberamente del proprio patrimonio. Egli era un membro attivo della Societé d'Horticulture e collaborava alla rivista sociale Revue orticole, sulla quale comparvero almeno quattro suoi articoli, tra il 1854 e il 1858, tutti dedicati alle Cactaceae. Se quest'ultime erano la sua passione principale, era un reputato collezionista anche di altre esotiche, in particolare di Bromeliaceae, tanto che nel 1878 il botanico belga Charles Edouard Morren volle dedicargli il genere Schlumbergeria (per nostra fortuna, questo nome non è valido, trattandosi di un sinonimo di Guzmania). Una sintesi delle (scarse) notizie biografiche sul personaggio nella sezione biografie. Che fine avrà fatto, la collezione del nostro Frédéric? Non ne sappiamo nulla, è stata inghiottita dalla storia. Nel sito del paesino (oggi ha meno di 1000 abitanti) dove sorgevano il castello, il giardino e le serre non c'è una parola a riguardo. Uno dei figli (la terza generazione) fu sindaco di quel comune tra le due guerre mondiali; a un certo punto il castello fu venduto, e ogni traccia di quella favolosa collezione è andata perduta. A ricordare Schlumberger rimane solo il genere Schlumbergera. Una storia intricata Nel creare il nuovo genere, Lemaire fece riferimento alla sola Schlumbergera russelliana (da lui denominata S. epiphylloides). Per un'altra specie con caratteristiche simili, inizialmente anch'essa assegnata al genere Epiphyllum (E. truncata), nel 1890 Karl Moritz Schumann creò il genere Zygocactus, ribattezzando la specie Zygocactus truncatus. In 1913, Nathaniel Britton e Joseph Rose, nel loro importante lavoro dedicato alla revisione delle Cactaceae, lasciarono le cose come stavano, anzi aumentarono la confusione includendo nel genere Schlumbergera S. gaertneri, il cosiddetto "cactus di Pasqua" (oggi Hatiora gaertneri). Solo nel 1953, Moran rimise le cose a posto inserendo Zygocactus truncatus in Schlumbergera, cui qualche anno dopo Hunt aggiunse altre specie precedentemente assegnate a Epiphyllanthus; dunque sia Zygocactus sia Epiphyllanthus sono oggi sinonimi di Schlumbergera. Schlumbergera oggi comprende sei specie, tutte originarie di un'area abbastanza circoscritta delle montagne costiere del Brasile sud-orientale, tra i 700 e i 2800 metri. Il suo habitat è la foresta pluviale, umida, relativamente fresca e ombrosa, che gode dell'umidità costante prodotta dalla condensazione del vapore acqueo portato dai venti oceanici. Alcune specie sono litofite che crescono sulle rocce, altre sono epifite che ricadono dai rami degli alberi, spesso con le radici in piccole tasche di terriccio formato dalla decomposizione delle foglie; infatti, sono molto più esigenti in fatto di terriccio rispetto alle frugali Cactaceae dei deserti. I fiori tubolari, con nettare abbondante, e colori che si collocano nella banda terminale dello spettro del rosso, sono impollinati dai colibrì. Sebbene siano spesso commercializzati con il nome di S. truncata, gli esemplari in vendita nei nostri negozi raramente appartengono a questa specie, ma sono per lo più ibridi. Quelli venduti in occasione di Natale hanno in effetti tra i loro genitori S. truncata, una specie brevidiurna che fiorisce tra autunno e inverno. Si rimanda alla scheda per una rassegna delle specie e dei gruppi di ibridi. Quanti nomi per la stessa pianta! cedrina, limoncina, limonaria, ma anche erba Luigia, Maria Luisa... Ma chi è questa Maria Luisa? Niente meno che Maria Luisa di Borbone Parma, prima amata principessa delle Asturie, poi chiacchieratissima regina di Spagna. E andiamo a conoscere anche il marito Carlo IV e tre generi tre: Aloysia, Carludovica, Ludovia. Una principessa tra i fiori Dalla cornice di un quadro di Raffaello Mengs ci guarda con un tenue sorriso una graziosa damina del Settecento; alle sue spalle un'urna fiorita e alberi verdi; nella mano destra due garofani; addosso un vestito costellato di fiori. Questa principessa dei fiori è Maria Luisa di Borbone Parma, all'epoca (aveva solo sedici anni) principessa delle Asturie, ovvero moglie dell'erede al trono di Spagna. Quasi non si può credere che, divenuta adulta e regina, sia esattamente l'altera megera di tanti quadri di Goya che le hanno guadagnato la fama di essere la più brutta regina di Spagna (e, come scopriremo, forse la più odiata). Non ci guarda invece il marito Carlo delle Asturie, futuro Carlo IV, quasi assorto in sé, che ha voluto essere ritratto dal celebre pittore tedesco in vesti di cacciatore, appoggiato a un fucile e accompagnato da un cane da caccia. Lo sfondo è lo stesso: un verdissimo paesaggio di alberi e acque, ovvero il parco reale d'Aranjuez che in quegli anni il giovane principe stava profondamente ristrutturando. Un parco per il principe Alla rigida etichetta di corte, i principi delle Asturie preferivano i più liberi soggiorni in dimore di campagna, le casitas; la più amata di tutte era nella residenza reale di Aranjuez, dove fin dalla fondazione della dinastia Borbone la corte trascorreva i mesi primaverili. Carlo volle trasformare una grande area del parco secondo la moda del giardino paesaggistico all'inglese seguendo personalmente i lavori dalla Casita del Labrador. Il risultato fu l'immenso Jardìn del Principe (in realtà, un insieme di otto giardini con un diametro di 7 km e 150 ettari di estensione), ricco di essenze vegetali pregiate, fontane, viali alberati, un stagno con un padiglione cinese, rocce artificiali e cascatelle, una "montagna russa" artificiale e numerosi piccoli edifici (fabricas) secondo la moda del tempo. Iniziati nel 1775, i lavori si protrassero fino al 1793, quando Carlo era orami asceso al trono. Insomma, valeva la pena per i botanici spagnoli ingraziarsi un mecenate che, oltre a essere erede al trono, aveva dimostrato un certo interesse per le cose naturali (fin da ragazzo aveva una grande collezione di volatili, sia vivi nelle uccelliere sia impagliati); la strada più diretta per arrivare a Carlo era l'amata moglie Maria Luisa. Fu così che nel 1779 (ma la specie sarà pubblicata ufficialmente solo nel 1784) Antoni Palau y Verdera, titolare della seconda cattedra di botanica all'orto botanico di Madid, onorò la principessa denominando Aloysia (corrispettivo latino di Luisa) una profumatissima pianta da poco introdotta dal Sud America. Di conseguenza, essa cominciò ad essere chiamata hierba de la princesa, "erba della pincipessa" o semplicemente Maria Luisa. All'epoca, la principessa era ancora popolare tra gli spagnoli: educata in Italia, disinvolta e, seppur non bella, dotata di un certo charme, aveva interrotto la secolare reclusione delle principesse e delle sovrane spagnole che non lasciavano mai le residenze reali per mostrarsi frequentemente in pubblico, divenendo così una figura nota e amata. Spedizioni botaniche e un genere di coppia Erano anni di grande dinamismo per la scienza spagnola. Nel 1774, il re Carlo III aveva ordinato il trasferimento dell'Orto botanico dalla vecchia, limitata area di Migas Calientes, al Paseo del Prado, nell'ambito di una vera e propria cittadella della scienza (costituita dal giardino botanico stesso, da un osservatorio e da un museo, che diverrà il Museo del Prado). A dirigerlo era Casimiro Gómez Ortega, di cui Palau era il suo braccio destro; i lavori, lunghi e impegnativi, si protrassero fino al 1781; in questo contesto, è chiara l'importanza del favore dell'erede al trono e della sua consorte. Gli anni finali del regno di Carlo III si segnalarono anche per il vigore con il quale furono intraprese grandi spedizioni botaniche in Sud America, intese sia alla conoscenza della flora latinoamericana, con tutto il suo potenziale economico, sia all'arricchimento delle collezioni del Real Jardin Botanico del Prado (sull'esempio dei Kew Gardens). Se ne susseguirono ben tre: la Real Expedición Botánica al virreinato de Perú (che comprendeva anche il Cile), protrattasi dal 1778 al 1788; la Real Expedición Botánica a Nueva Granada (ovvero in Colombia), dal 1782 al 1808; la Real Expedición Botánica a Nueva España (ovvero in Messico), dal 1787 al 1803. Come si vede, a parte la prima, le spedizioni si prolungarono nel corso del regno di Carlo IV, che divenne re nel dicembre del 1788, otto mesi prima della Rivoluzione francese che ne condizionò pesantemente le vicende, fino a portare nel 1808 alla sua abdicazione, alla prigionia in Francia e all'esilio. Vittima di queste avverse circostanze fu anche la fama di Maria Luisa: accusata di dominare totalmente l'imbelle marito, odiata per il suo supposto orientamento filofrancese, le venne cucita addosso una tenace leggenda nera; le si attribuì come amante il detestato ministro Godoy (che sarebbe giunto al potere passando attraverso il suo letto) e addirittura l'avvelenamento di una nuora con cui non andava troppo d'accordo. Ma lasciamo queste miserie (gli storici sono divisi, ma oggi la maggioranza ritiene che queste accuse siano menzogne costruite a bella posta dalla variegata opposizione all'ondivaga politica filofrancese di Godoy) per tornare alla botanica. Nel 1788, al rientro dalla spedizione in Perù, Hipólito Ruiz e José Pavón si accinsero a pubblicare l'enorme massa di nuove piante raccolte nel viaggio; avevano tanti nuovi generi da battezzare, e ne elargirono a destra e a manca a studiosi, benefattori, politici del momento. Potevano forse mancare il re e la regina? Ed ecco che nel 1794, in Prodromos de la Flora de Perù y Chile, battezzarono in onore di entrambi il genere Carludovica. Del resto, gli sfortunati sovrani spagnoli, almeno dal punto di vista della protezione della scienza (e delle arti: è noto che furono i mecenati di Goya) dimostrarono che l'omaggio non era mal riposto: nonostante le enormi difficoltà dei tempi, durante il loro regno proseguirono le spedizioni scientifiche già in corso e altre ne vennero varate: la Expedición Malaspina (1789-1804) lungo le rotte del Pacifico, la Real Expedición Filantrópica de la Vacuna (1803-1805), che si proponeva di diffondere la vaccinazione antivaiolosa in ogni area dell'impero spagnolo. Inoltre Carlo e Maria Luisa nel 1799 ricevettero (proprio a Aranjuez, la loro residenza preferita) Humboldt e gli concessero i permessi per la sua spedizione scientifica in Sud America (fino ad allora vietata agli studiosi stranieri, a meno che fossero al servizio della corona spagnola). Una sintesi della vita di Maria Luisa e di Carlo IV nella sezione biografie. Aloysia, Carludovica e... Ludovia Ma c'è ancora una storia da raccontare. Ruiz e Pavon avevano stabilito il genere Carlodovica sulla base di quattro specie raccolte in Perù, che avevano assegnato alla famiglia delle palme. Il botanico Persoon fece notare che il nome era un po' troppo lungo e propose di abbreviarlo, adottando la forma Ludovia. Kunth, nella sistemazione delle specie sudamericane frutto della spedizione di Humboldt, respinse l'idea, rilevando che non si trattava di Palmae, ma piuttosto di Araceae. A metà Ottocento, P.A. Poteau ne scoprì due nuove specie in Guyana; su questa base, unendole a una delle specie di Ruiz e Pavon, nel 1861 Brongniart creò un nuovo genere, battezzato Ludovia recuperando quella vecchia proposta. Così, anche se in modo indiretto, anche esso è venuto ad aggiungersi ai generi battezzati in onore di Maria Luisa e Carlo. I tre generi hanno un punto in comune: si tratta di piante americane, per lo più sudamericane (tranne quattro specie di Aloysia, che vivono nel Sud degli Stati Uniti e in Messico; gli altri due generi hanno come limite settentrionale il sud del Messico). Aloysia appartiene alla famiglia Verbenaceae ed è un genere chiacchierato quasi come la sua dedicataria. Nel corso della sua storia ormai più che bicentenaria è stato ora cancellato, ora ripristinato, in particolare facendolo rientrare in Lippia, tanto che la specie più conosciuta, Aloysia citriodora è forse più nota con il vecchio sinonimo Lippia citriodora. Tuttavia le revisioni più recenti delle Verbenaceae, supportate dalle indagini filogenetiche, confermano la sua indipendenza. Il genere comprende una trentina di specie, tutte americane, distribuite dalla fascia temperata a quella subtropicale; sono arbusti aromatici con fiori non aggregati in infiorescenze capitate compatte come in Lippia, ma in racemi allungati con gruppi di fiori ben spaziati tra di loro. La più nota è ovviamente la profumatissima cedrina, la maria luisa da cui siamo partiti. Qualche informazione in più nella scheda. Dopo una pianta a tutti familiare, veniamo ai due interessantissimi generi Carludovica e Ludovia. Entrambi appartengono alla piccola famiglia delle Cyclantaceae, un gruppo di Monocotiledoni con qualche affinità con il pandano, diffuse nelle foreste pluviali centro e sudamericane. Come dimostrano le loro vicissitudini tassonomiche, a prima vista possono essere confuse con le palme (questo vale in particolare per Carludovica), ma hanno fiori a spadice che assomigliano a quelli delle Araceae, da cui si distinguono per i lunghi filamenti sterili che in alcune specie sembrano quasi una massa di spaghetti. Carludovica è il genere più noto della famiglia; comprende quattro specie, distribuite tra il Messico meridionale e la Bolivia. Sono grandi piante erbacee con imponenti ciuffi di foglie a ventaglio profondamente incise che a uno sguardo distratto richiamano la kenzia. La specie più comune è C. palmata; le sue foglie giovani vengono utilizzate per fabbricare i cappelli di panama. Di grande valore decorativo, sono talvolta commercializzate da vivai specializzate in palme. Cenni alle quattro specie, all'habitat e alla distribuzione nella scheda. Ludovia comprende invece tre specie di distribuzione più meridionale (dal Messico fino al Brasile), che si arrampicano anche a diversi metri d'altezza sugli alberi della foresta pluviale grazie alle radici aeree; sono semi-liane epifite con lamina fogliare intera e spadice più o meno cilindrico, avvolto in una brattea. Rimando alla scheda per le poche informazioni che sono riuscita a reperire su questo genere ancora poco noto. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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