Tra gli avventurosi cacciatori di piante di inizio Ottocento c'è anche un botanico piemontese, Carlo Giuseppe Bertero. Formatosi alla scuola di Balbis, di fronte all'onda nera della Restaurazione decise di lasciare l'Europa e di dedicare la sua vita all'esplorazione della flora di paesi lontani, possibilmente poco battuti. Il primo viaggio, tra il 1816 e il 1821, lo portò nelle Antille e in Colombia; dopo un breve rientro in patria, nel 1827 ripartì nuovamente per le Americhe, scegliendo una meta quasi vergine per la scienza: il Cile. Fu poi la volta delle Juan Fernandez, uno straordinario arcipelago oceanico che per qualche aspetto anticipa le darwiniane Galapagos, quindi di Tahiti; ma era l'ultimo viaggio: mentre faceva ritorno in Cile, la nave su cui era imbarcato si inabissò nell'Oceano Pacifico. Privo di sostegno da parte di sovrani o altre istituzioni pubbliche, finanziò le sue ricerche mantenendosi con la sua professione di medico. Anche se non pubblicò quasi nulla, il suo contributo alla conoscenza della flora del Nuovo mondo fu inestimabile. De Candolle, che gli fu amico e mentore, già al suo ritorno dalle Antille aveva voluto dedicargli Berteroa, un piccolo genere di Brassicaceae affine ad Alyssum che non ha nulla di esotico, essendo diffuso soprattutto nel Mediterraneo e nell'Asia occidentale. Primo viaggio: Antille Fu forse l'indignazione per un gesto politico che calpestava un uomo che considerava un secondo padre e con lui le ragioni della scienza a spingere Carlo Giuseppe Bertero a trasformarsi in un cacciatore di piante. Nato a Santa Vittoria d'Alba nel fatidico 1789, era venuto a studiare medicina a Torino ed era divenuto uno dei più brillanti allievi di Giovanni Battista Balbis, cui lo legava un affetto quasi filiale. Nel 1814, quando il suo maestro fu cacciato dall'università e l'intera facolta di medicina fu epurata degli "infranciosati" (con il licenziamento di otto docenti su nove), Bertero decise di dare le dimissioni da segretario del Grand Jury (l'organismo che faceva le veci del Tribunale di Protomedicato) e di non continuare gli studi nel collegio medico dell'Università. Anche la monotona e soffocante provincia albese non sembrava offrirgli alcuna prospettiva. Tornato a casa, come l'eroe stendhaliano Fabrizio del Dongo, si trovò immerso in atmosfera stagnante, senza alcuna prospettiva. A soddisfare la sua sete di conoscenza non bastavano le escursioni botaniche sulle Alpi e nelle campagne di casa. Era ora di lasciare l'Italia per cercare altrove fama e conoscenza. Unico cordone ombelicale con una patria matrigna, la corrispondenza con gli amici, primi tra tutti il maestro Balbis e il colto botanico dilettante Luigi Colla che, come vedremo, furono poi i principali destinatari anche dei suoi invii di piante e semi. La prima tappa, quasi ovviamente, fu Parigi, dove poté sfruttare le relazioni di Balbis con i maggior botanici francesi per avere accesso al Jardin des Plantes e a erbari ricchi di piante esotiche; importante fu l'incontro con C.H. Persoon, grazie al quale trovò un imbarco per le Antille come medico di bordo. Si era preparato al viaggio con scrupolo, non solo studiando negli erbari la flora di quell'area, ma anche l'inglese e lo spagnolo. Imbarcatosi nell'agosto 1816 a Le Havre, a fine anno giunse in Guadalupa, salutato quasi come un eroe per aver salvato se stesso e molti compagni di viaggio da un'epidemia di febbre gialla scoppiata a bordo. Nell'isola esercitò con successo la professione medica e divenne una figura nota e riconosciuta, tanto che il governatore gli offrì la direzione dell'orto botanico e di un laboratorio di storia naturale. Nonostante la proposta fosse allettante anche sul piano economico, Bertero rifiutò per non legarsi a un singolo luogo e estendere la sua esplorazione ad altre isole dell'arcipelago. Privo di ogni sostegno ufficiale a causa della cecità dei Savoia, egli dovette dunque dividere il suo tempo tra la professione medica, che amava e esercitava con il tipico spirito umanitario della tradizione illuminista-giacobina, e le ricerche sul campo; altra difficoltà, la mancanza di testi di consultazione (all'epoca, non erano ancora state pubblicate i grandi repertori di de Candolle e Sprengel, che per le piante americane in modo diverso tanto dovettero proprio alle ricerche del nostro). Così, la sua avventura americana fu costellata di progetti e ripensamenti: in una lettera a Colla, annuncia che intende visitare sistematicamente tutto l'arco delle Piccole Antille (Marie-Galante, Dominica, Martinica, St. Lucia, St. Vincent, Barbados, Grenada, Tobago, Trinidad), per poi raggiungere il delta dell'Orinoco. Il percorso reale fu tutt'altro: lasciata Guadalupe nel luglio 1818, visitò due isole all'epoca sotto dominio danese, St. Thomas e St. Croix; passò poi a Porto Rico, lussureggiante per la flora, ma deludente per il dispotismo e l'arretratezza civile. Tra 1819 e 1820 visitò le due parti di Hispaniola, quella orientale ancora colonia spagnola, e quella occidentale, divenuta nel 1804 repubblica indipendente con il nome di Haiti. Da qui, tra 1820 e 1821, si spostò verso le coste dell’attuale Colombia. La guerra civile che imperversava nel paese lo spinse a lasciare quell'area di per sé promettente; dopo aver toccato ancora la Giamaica, a ottobre era di nuovo in Europa. Il viaggio continua: Cile, Juan Fernandez, Tahiti Desiderava soprattutto incontrare Balbis (che ormai si era trasferito stabilmente a Lione) e riordinare le proprie collezioni. Probabilmente, pur non manifestando apertamente la sua delusione per rispetto del maestro, non fu soddisfatto nello scoprire che Balbis, invece di tenere riuniti gli esemplari che egli gli aveva inviato tra tante difficoltà, li aveva distribuiti, generosamente ma altrettanto sconsideratamente, agli studiosi interessati, disperdendo una collezione che solo chi l'aveva raccolta avrebbe potuto ordinare e catalogare in modo completo. Rientrato ad Alba alla fine dell'anno, erborizzò ancora intensamente in Piemonte, ma crescevano la frustrazione e il desiderio di ripartire. Nel 1825 collaborò con Moris che stava esplorando la flora sarda, ma pasticci burocratici trasformarono anche questa opportunità in un fallimento, nonostante gli ottimi rapporti personali con il collega. Quando, all'inizio del 1827, la morte della amata madre sciolse l'ultimo legame con il Piemonte, capì che era ora di mettersi di nuovo in viaggio. Cercava una meta poco battuta dai botanici, e su suggerimento di de Candolle, che incontrò a Parigi, scelse il Cile. In effetti quell'angolo del Sud America, se si escludono il viaggio di Feuillé all'inizio del Settecento e il capitolo sulla vegetazione nel Saggio sulla storia naturale del Cile dell'abate Molina, era quasi sfuggito ai botanici. Ancora una volta, Bertero dovette muoversi in modo individuale; è vero che a Parigi molti colleghi lo avevano blandito e corteggiato, ma egli dovette amaramente constatare che in realtà speravano di sfruttarlo per ottenere l'invio di qualche pianta rara; lo stesso de Candolle gli offrì del denaro per raccogliere piante per lui, proposta che egli respinse con sdegno, nonostante l'amicizia personale che lo legava allo svizzero. Accettò invece che pubblicasse le sue specie e le sue descrizione nel Prodromus, come male minore, prima che lo facesse qualcun altro. Strinse anche un accordo con il barone Delessert: dal Cile avrebbe inviato i suoi esemplari a lui, che avrebbe custodito le collezioni fino al ritorno di Bertero, distribuendo una copia ciascuno a Balbis, Colla, de Candolle e trattenendone una per sé. Tuttavia il pur ricco barone non finanziò il viaggio, che Bertero ancora una volta si pagò con la sua attività di medico. Anche in questo caso si imbarcò come medico di bordo; partito da Le Havre nella seconda metà di ottobre 1827, sbarcò a Valparaiso nel febbraio dell'anno successivo. Anche in Cile alternò all'attività di ricerca la professione medica, in condizioni tuttavia ben più difficili di quelle già complesse che aveva incontrato nelle Antille. Nel paese era difficile spostarsi per l'assenza di strade, il territorio battuto da banditi, la resistenza endemica degli indios mapuche; il livello culturale era basso (da un medico ci si aspettava che ti guarisse subito, altrimenti meglio gli intrugli tradizionali) e la natura ostile, con piogge incessanti e frequenti terremoti. In quegli anni, il territorio del Cile, ancora oggi un lungo petalo stretto tra le Ande e l'Oceano Pacifico, come ebbe a definirlo Neruda, aveva un territorio di circa un terzo di quello attuale, che rispetto alla capotale si estendeva per circa 500 km a Nord (fino a La Serena, ultima città prima del deserto di Atacama) e altrettanti a Sud (fino a Concepción, sulla foce del fiume Bío-Bío). Di fatto, i viaggi di Bertero dovettero limitarsi alla valle centrale; dopo essere vissuto per qualche tempo nei villaggi di Rancagua e San Fernando, si stabilì essenzialmente tra la capitale Santiago e il porto di Valparaiso, da dove partivano i suoi periodici invii di piante essiccate e semi per l'Europa. Per qualche tempo, a quanto pare, insegnò anche disegno naturalistico all'Instituto National e tra il 1828 e il 1829 pubblicò sulla rivista Mercurio cileno la sua unica opera edita, Lista de las plantas que han sido observadas en Chile por el Dr. Bertero en 1828, in cui passa in rassegna le piante da lui osservate nel paese, indicate con il nome latino e quello locale (prive di descrizione, non sono tuttavia valide ai fini dell'attribuzione del nome botanico). Tra le escursioni più ricche di scoperte quella che lo portò a risalire la valle andina del fiume Aconcagua, fino a Quillota. Nel 1829 o nel 1830 Bertero conobbe il viaggiatore inglese Alexander Caldcleugh, appassionato di mineralogia e di botanica. Costui, di ritorno da un viaggio in Brasile e Argentina, aveva visitato brevemente Más a Tierra, l’isola principale dell'arcipelago Juan Fernández, oltre 600 km al largo di fronte a Valparaiso. Nacque così l'idea di recarsi in quel luogo remoto e singolare, che insieme al nuovo amico il piemontese esplorò dal marzo al maggio 1830. Era la prima spedizione di un botanico professionista in una terra ricca di endemismi, dove egli raccolse 330 specie, di fatto quasi l'intero catalogo della flora dell'isola. Ma sulle Juan Fernández, oggi riserva della biosfera, vorrei tornare in un altro post, visto che non mancano le storie da raccontare. Si trattava di un'impresa di grande valore che forse avrebbe potuto aprire a Bertero le porte di un incarico prestigioso, come la direzione del Museo nazionale cileno. Tuttavia, proprio mentre il piemontese era a Más a Tierra, il governo liberale con il quale probabilmente aveva avuto contatti, come dimostrerebbe la sua collaborazione al Mercurio cileno, venne rovesciato e si impose un regime autoritario. Furono forse queste circostanze a spingere Bertero, privo di appoggi e credenziali internazionali, a partire per una meta ancora più remota: Tahiti. A proporglielo fu il belga Jacques Antoine Morenhout, che aveva stabilito un proficuo commercio di madreperla, legname, olio di cocco tra Cile e isole del Pacifico, con centro a Tahiti, dove aveva una casa. Poco sappiamo del soggiorno di Bertero a Tahiti, che dovette durare sei mesi; nell'aprile 1831, essendo venuto a sapere (con dieci mesi di ritardo) della rivoluzione di luglio in Francia, si imbarcò alla volta di Valparaiso, dove aveva lasciato i suoi materiali e da dove intendeva tornare in Europa. Ma la nave su cui si era imbarcato, appartenente a Morenhout, non arrivò mai in porto. Il belga ne concluse che doveva aver fatto naufragio dopo aver lasciato Raiatea, un'isola a 290 km a nord-ovest di Tahiti, da dove Bertero gli aveva inviato la sua ultima lettera il 15 aprile 1831. In ricordo, battezzò Bertero Reef, scogliera di Bertero, un gruppo di isolotti e scogli corallini della Polinesia francese dove verosimilmente potrebbe essere avvenuto il naufragio. Una sintesi della vita avventurosa del botanico piemontese nella sezione biografie. La dispersione delle collezioni Vicende altrettanto sfortunate ebbero le sue collezioni. Come ho già accennato, molti degli invii ricevuti dalle Antille da Balbis, furono da quest'ultimp dispersi tra numerosi colleghi; inoltre Balbis consegnò (prestò?) a de Candolle il diario di campo del viaggio che Bertero gli aveva donato, perché se ne servisse per la stesura del Prodromus (lo svizzero vi attinse a piene mani, talvolta anche riproducendo le descrizioni di Bertero parola per parola). Per fortuna, nel 1857, grazie a suo figlio Alphonse il prezioso manoscritto tornò a Torino; si tratta di 14 quaderni di campo, per un totale di oltre 1000 pagine, dove Bertero annotò 1746 raccolte, con una descrizione minuziosa, habitat, luogo di raccolta, nomi comuni, usi officiali locali, accompagnati talvolta da una discussione sistematica e tassonomica e da precisi disegni di dettagli morfologici. Le piante essiccate raccolte nelle Antille sono in parte confluite negli erbari di Colla e Balbis, ora presso l'Orto botanico di Torino, in parte disperse in dozzine di erbari sparsi per l'Europa. Non possediamo purtroppo i diari di campo relativi a Cile, Juan Fernandez e Tahiti. Dopo la morte del congiunto, gli eredi di Bertero misero all'asta i materiali conservati presso il barone Delessert (circa 15000 esemplari) e, benché i botanici torinesi fossero riusciti a raccogliere la somma necessaria tramite una sottoscrizione, ad aggiudicarseli fu una ditta tedesca che a sua volta li vendette tanto a istituzioni scientifiche quanto a collezionisti privati, disperdendo anche questa collezione. Un piccolo erbario di circa 400 esemplari rimase in Cile, dove costituisce la collezione più antica dell'erbario del Museo Nacional de Historia Natural di Santiago. A questo punto, il più importante depositario della memoria di Bertero rimase Colla, che sulla base degli invii dell'amico ne aveva pubblicato un parziale catalogo già nel 1829 in Plantae rariores ex regionibus chilensibus a clarissimo C. G. Bertero nuper detectae et ab. L. Colla in lucem editae. Ma anche su Colla tornerò in un altro post. La modesta Berteroa Benché queste sfortunate vicende abbiano privato Bertero della gloria che sognava e ben meritava, il valore del suo lavoro non sfuggì ai botanici contemporanei, come dimostrano le varie dediche che ricevette in vita e dopo la morte. Intanto l'imponente numero di piante contrassegnate dagli specifici bereteroi, berteroanus (oltre 300) sta a dimostrare l'importanza del suo contributo alla conoscenza della flora delle Americhe. Tre sono i nomi specifici che gli sono stati dedicati (cui si aggiunge il fungo Berteromyces Ciferri). Il più antico (e unico oggi valido) è Berteroa, creato da de Candolle nel 1821, separando B. incana dal linneano Alyssum. Seguì nel 1854 E. G. von Steudel che, anagrammando la denominazione, creò Terobera (oggi sinonimo di Machaerina Vahl); infine nel 1919 O.E. Schulz assegnò una Brassicacea affine a Berteroa al nuovo genere Berteroella (oggi sinonimo di Stevenia). Il genere Berteroa, della famiglia Brassicaceae, comprende cinque specie di erbacee annuali, biennali o perenni di breve vita distribuite tra Mediterraneo e Asia occidentale, dall'Italia alla Turchia, con massima concentrazione nella penisola balcanica. La più nota è B. incana, un'erbacea abbastanza invasiva che si è infatti diffusa al di fuori dell'area originaria, per altro difficile da determinare, ed ora è presente dall'Europa occidentale fino alla Siberia; si è anche ampiamente naturalizzata negli Stati Uniti dove è considerata un'infestante. In Italia sono presenti tre specie, appunto B. incana (Italia settentrionale e forse centro-settentrionale, Basilicata), B. mutabilis (solo in Calabria), B. obliqua (Italia centro meridionale, a partire dal Lazio). Tendono a crescere in ambienti disturbati caldi e aridi; i fiori generalmente bianchi, portati su lunghi racemi, hanno quattro petali profondamente divisi e sono seguiti da silique ovoidali. Qualche informazione in più nella scheda.
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Due passioni si intrecciano nella vita di Giovanni Battista Balbis, botanico piemontese che fu il quinto curatore dell'orto di Torino: le piante e la politica. E se la seconda lo deluse e gli costò ben tre esili, mai venne meno l'amore per le prime. Nella sua vita non ci sono viaggi in paesi lontani e flore esotiche, ma brevi percorsi a zigzag che lo portano ora al di qua ora al di là delle Alpi, trascinato dalle onde della storia; ci sono le flore locali che, instancabile camminatore, esplora appassionatamente in tanti teatri: le Alpi marittime dell'adolescenza e della prima giovinezza; le campagne e le colline torinesi della maturità; le sponde del Ticino del momento più buio della sua esistenza; il lionese della vecchiaia. Senza dimenticare i due orti botanici che fece rinascere, prima a Torino poi a Lione. Botanico di fama europea, fu onorato da colleghi del calibro di Willdenow, de Candolle e Cavanilles con la dedica di un genere. L'unico valido oggi è il piccolo genere Balbisia Cav., che ammanta delle sue spettacolari fioriture le più aride praterie d'altura del versante occidentale delle Ande tra Perù e Cile. Primo tempo: il giacobino Chi conosce la Vita di Alfieri, sa quanto provinciale, chiusa, bigotta e oppressiva fosse l'atmosfera politica e culturale degli Stati sardi di fine Settecento. Possiamo dunque immaginare con quanto entusiasmo gli intellettuali piemontesi accogliessero le notizie che arrivavano da Parigi, tanto più che i legami culturali con la Francia erano fortissimi (basti pensare che le classi colte sabaude parlavano correntemente il francese, e non l'italiano). A Torino nacquero immediatamente diversi circoli giacobini; uno dei più accesi si riuniva a casa del medico Ferdinando Barolo; i suoi membri, repubblicani, sognavano di abbattere casa Savoia e di unirsi alla Francia rivoluzionaria. Nel 1793, in stretto contatto con il rappresentante francese a Genova, Jean Tilly, i diversi gruppi si unificarono e elaborarono un piano di insurrezione, che avrebbe dovuto scattare nella primavera del 1794, in concomitanza con l'offensiva francese; tuttavia, notizie della congiura giunsero alla polizia sabauda, che arrestò il Barolo il quale crollò immediatamente denunciando i suoi compagni. Molti furono arrestati, ma altri riuscirono a salvarsi riparando in Francia. Tra loro anche il giovane botanico Giovanni Battista Balbis, che iniziava così il primo dei suoi tre esili. Balbis (1765-1831) era nato a Moretta, nel circondario di Saluzzo, da dove si era spostato a Torino per studiare presso il prestigioso Collegio delle Province - dove fece amicizia con il medico e storico Carlo Botta, un altro dei congiurati del 1794; studiò poi medicina all'Università di Torino, divenendo l'allievo prediletto di Carlo Allioni. Si innamorò così della botanica, accompagnando lo stesso Allioni, Bellardi e Dana in molte escursioni. Studiò poi le specie vegetali che crescono nei pressi delle Terme di Valdieri, oggetto della sua prima pubblicazione; nel 1792, un lungo viaggio lo portò - munito delle lettere di raccomandazione del maestro - in giro per l'Italia a visitare molte personalità della scienza del tempo, tra cui Volta e il botanico napoletano Domenico Cirillo. Nel 1793, tornato a Torino, entrò appunto a far parte del gruppo giacobino guidato da Barolo. Nel maggio del 1794 fu uno dei numerosi fuorusciti piemontesi che andavano radunandosi in Francia. Balbis, che si era laureato in medicina nel 1785 e fin dal 1788 aveva ottenuto l'aggregazione all'ordine dei medici, si arruolò nell'esercito francese come medico militare. Nel 1796 lo troviamo nelle file dell'armata d'Italia, comandata dal giovane generale Bonaparte. Poté tornare a Torino solo verso la fine del 1798, quando i francesi costrinsero Carlo Emanuele IV alla fuga e occuparono la capitale, proclamando la Repubblica piemontese. Insieme all'amico Botta e all'avvocato Luigi Colla, fu uno dei venti membri del governo provvisorio. L'esperienza fu brevissima (già ad aprile dell'anno successivo, di fronte alla ripresa della guerra, il direttorio lo sciolse, affidando i pieni potere all'ambasciatore Musset), ma è significativa dell'adesione di Balbis agli ideali rivoluzionari, in nome dei quali, insieme ai suoi compagni, il 12 dicembre 1798 aveva giurato “odio eterno alla tirannide, amore eterno alla libertà, all'eguaglianza e alla virtù”. Ma nuvole nere si addensavano sulla giovane repubblica; assente Napoleone, che era in Egitto, le cose si misero male per l'esercito francese; travolto dagli austro-russi, nel maggio 1799 dovette sgombrare la regione. I Savoia ritornarono sul trono e Balbis prese una seconda volta la via dell'esilio, ancora speso nei ranghi dell'armata d'Italia con il grado di vice capo-medico. Questa volta l'esilio fu molto breve: già nel giugno 1800, con la gloriosa battaglia di Marengo, Napoleone ripristinò il potere francese e venne proclamata la Repubblica subalpina. Nei primi anni repubblicani, Balbis fece parte della cosiddetta "cabale des médicins", un influente gruppo di intellettuali e scienziati di tendenza repubblicana che cercò di sfruttare la militanza politica e le relazioni personali con i vertici dell'amministrazione francesi per rinnovare l'insegnamento e le istituzioni scientifiche non solo in campo medico. Fu in questo contesto che nel 1801 egli fu chiamato a succedere a P.M. Dana come direttore dell'orto botanico torinese. Sul piano politico, presto subentrò la disillusione: la Repubblica subalpina si rivelava sempre più un fragile paravento dell'occupazione francese; nel 1801 l'esercito piemontese venne incorporato in quello francese, quindi passò in mani francesi anche l'amministrazione, mentre il francese sostituiva l'italiano negli atti pubblici e il franco diveniva la moneta ufficiale. Infine, l'11 settembre del 1802 il Piemonte cessava di esistere come stato e veniva annesso alla Francia. D'altronde, il potere sempre più autocratico di Napoleone rendeva chimerici gli ideali giacobini cui Balbis aveva giurato fedeltà nel 1798. Secondo tempo: il botanico della flore locali Rimanevano le piante. Lasciata da parte la politica, Balbis dovette rimboccarsi le maniche per rilanciare l'orto botanico che aveva trovato in uno stato deplorevole, soprattutto per la mancanza di denaro, Sfruttando i suoi trascorsi di medico militare dell'Armée riuscì a ottenere aiuti e finanziamenti dal generale Menou, amministratore capo del dipartimento del Po. Sulla scia del suo maestro Allioni, egli operò efficacemente per reinserire l'istituzione piemontese nella rete degli orti botanici europei, con un fitto programma di scambi, grazie al quale, alla fine del suo mandato, il giardino era giunto a comprendere 1900 specie. All'attività gestionale, affiancò un'intensa esplorazione della flora piemontese; l'amico Colla racconta come ai torinesi fosse diventata familiare la figura di Balbis che percorreva i dintorni della città, attorniato a volte da un centinaio di studenti, che facevano a gara per presentargli la pianta più rara; a tutte sapeva dare un nome e a guisa d'oracolo rivelare proprietà botaniche e virtù curative. Teatro delle sue scorribande furono anche le Alpi piemontesi, che perlustrò in compagnia del giardiniere capo Molineri. In corrispondenza con molti dei maggiori botanici europei, fu ammesso come membro corrispondente di diverse società scientifiche; fu membro dell'Accademia delle Scienze di Torino e dal 1811 presidente della Società Agraria di Torino. Alla flora delle campagne torinesi dedicò Elenco delle piante crescenti nei dintorni di Torino (1801), cui seguì Miscellanea botanica (1805-1808), dedicata soprattutto alla flora alpina; altri contributi sulla flora piemontese comparvero negli atti dell'Accademia delle scienze. Per i suoi studenti, nel 1808 pubblico anche Flora torinese, un agile manualetto in cui presenta succintamente 1234 specie; antenato di un tascabile, Colla ebbe a definirlo "flora portabile". Molte furono le piante alpine da lui segnalate per la prima volta; vorrei ricordare almeno la più rara e preziosa, Phyteuma cordatum Balbis, un endemismo delle Alpi marittime presente sia sul versante italiano sia su quello francese. In Italia si trova in poche stazioni a cavallo tra le province di Cuneo e Imperia. Ma se Balbis si era ormai estraniato dalla politica, quest'ultima non aveva ancora finito di fare i conti con Balbis, Caduto Napoleone, i Savoia tornavano sul trono. E il re Vittorio Emanuele I non poteva tollerare che i vecchi giacobini che avevano cospirato contro la sua famiglia mantenessero onori e posizioni di potere, fossero pure scienziati di fama internazionale. Nel 1814 Balbis venne privato della cattedra di botanica, della direzione dell'orto e persino cacciato dall'Accademia delle scienze. A soccorrerlo fu il chimico Evasio Borsarelli, direttore dell'Orto Sperimentale della Reale Società di Orticoltura, che lo ospitò nella sua piccola casa della Crocetta, allora in aperta campagna. Qui Balbis divise il suo tempo tra la coltivazione di piante rare, la sistemazione del suo immenso erbario (che conta oltre 18.000 esemplari) e le cure mediche prestate agli indigenti. Fu anche l'occasione per leggere con attenzione (lui linneano ortodosso formatosi alla scuola di Allioni) le opere di Jussieu, de Candolle, Robert Brown; e se prima respingeva il "sistema naturale", ne comprese le ragioni, tanto da tenerne conto nelle opere successiva. Poco dopo Domenico Nocca, professore di botanica all'Università di Pavia e direttore del locale orto botanico, gli chiese di aiutarlo a classificare la flora del territorio patavino. Il risultato della loro collaborazione fu Flora Ticinensis, un'opera in due volumi usciti rispettivamente nel 1816 e nel 1821. Nel 1819 Balbis fu chiamato a dirigere l'orto botanico di Lione; era il suo terzo esilio, questa volta volontario. Nella città francese, proprio come aveva fatto a Torino, riorganizzò quel giardino e seppe circondarsi di altri appassionati, con i quali nel 1822 diede vita alla Societé linnéenne de Lyon, di cui divenne il primo presidente. Anche a Lione continuò la sua indagine della flora locale, pubblicando Flore Lyonnaise (in due volumi, 1827-1828, con un supplemento 1835). Ormai lontano dalla politica attiva, continuava a seguire gli eventi italiani attraverso la corrispondenza con gli amici (in particolare Colla, cui lo univano i trascorsi giacobini e la passione per le piante); dopo il fallimento dei moti del 1821, prestò generosamente aiuto a molti fuoriusciti. Negli anni lionesi, fecondo fu anche il rapporto con l'allievo prediletto Carlo Giuseppe Bertero, che gli inviò molte piante dalle Antille. Ormai malato, nel 1830 chiese l'esonero da ogni incarico e rientrò a Torino, dove morì l'anno successivo. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Balbisia, quando fioriscono i deserti La fama europea di Balbis è testimoniata dalle molteplici dediche che ricevette da prestigiosi botanici europei. Furono ben tre quelli che crearono in suo onore un genere Balbisia. Il primo fu Willdenow, direttore dell'orto botanico di Berlino e celebre tassonomista, nel 1803, con Balbisia elongata (famiglia Asteraceae). Il nome oggi non è più valido, trattandosi di un doppione per una specie già descritta da Linneo, Tridax procumbens (L.) L.; ma la dedica dovette essere cara a Balbis, probabilmente in ragione del prestigio del creatore, se nel monumento funebre che gli venne eretto nel Cimitero di Torino venne ritratta proprio questa pianta. Nel 1804 fu la volta di Cavanilles, direttore dell'orto botanico di Madrid. Questo è il genere Balbisia valido anche oggi, ne parlo sotto. Infine, poco dopo la morte di Balbis, anche de Candolle (corrispondente e amico personale) volle ricordarlo con Balbisia berteroi (famiglia Asteraceae), oggi Robinsonia berteroi; un nome non valido per la regola della priorità, ma interessante perché associa il nome di Balbis a quello dell'allievo Bertero, che esplorò dapprima le Antille, quindi il Cile. E proprio dal Cono Sur viene Balbisia Cav., appartenente alla piccola famiglia sudamericana delle Vivianiaceae (un tempo, Ledocarpaceae; nella classificazione AGP IV è invece assegnato a Francoaceae). Questo genere comprende una decina di specie di arbustini o erbacee perenni semilegnose assai ramificate con foglie minute e grandi fiori terminali molto vistosi con cinque petali lievemente imbricati, solitamente di un brillante colore giallo. Distribuito lungo il versante occidentale delle Ande dal Perù al Cile vive in praterie aride d'altura al di sopra di 2000 m. Fa eccezione B. peduncularis, un endemismo delle montagne costiere del Cile settentrionale che si spinge fino alla costa e con le sue fioriture spettacolari trasforma in un tappeto dorato i margini del deserto di Atacama. Qualche approfondimento nella scheda. Anche se andino e non alpino, sarebbe sicuramente piaciuto a Balbis, grande esploratore della flora delle Alpi, come ci ricordano lo specifico del delizioso Dianthus balbisii (il garofanino di Balbis) e la sottospecie di Primula auricola subsp. balbisii. E' una vita sempre in viaggio quella di Vitaliano Donati, nato a Padova e morto in mare prima di toccare le sponde dell'India. Studioso eclettico e poliedrico, con interessi che spaziavano dalla fisica alla mineralogia alla botanica all'archeologia, oltre ad essere stato il secondo curatore dell'Orto botanico di Torino, gli si deve il primo nucleo di quello che diventerà il Museo egizio di quella città. Nel campo delle scienze naturali, nel suo importante trattato sulla storia naturale dell'Adriatico, fu tra i primi a postulare che i coralli non sono piante, come generalmente si credeva, ma animali. Nelle numerose spezioni che costellano la sua carriera di scienziato ricercatore, unì la capacità di analizzare l'ambiente naturale in modo scientifico e integrato con un'originalità di pensiero che ne fece un innovatore. Due generi lo ricordano: Vitaliana Sisler, oggi - ma dopo molte discussioni - non più valido, e Donatia Forster. In comune l'appartenenza alle piante "a pulvino", capaci di vivere in habitat estremi formando densi cuscinetti di fusticini a raggiera. Un giovane naturalista amante dei viaggi Il 20 febbraio 1761, insieme a centinaia di altri reperti, lasciano il porto di Alessandria d'Egitto per iniziare il lungo viaggio verso Torino tre sculture che raffigurano la dea Iside-Hator, la dea Sekhmet e il faraone Ramses II. A spedirle nella capitale sabauda è l'eclettico Vitaliano Donati, direttore dell'orto botanico di Torino, ma anche appassionato egittologo che le ha scoperte nel tempio della dea Mut presso Karnak. Insieme agli altri oggetti, le tre statue andranno a costituire il primo nucleo del futuro Museo Egizio di Torino. Quando Donati fu spedito in Egitto ad “acquistare qualche antichità e Mumia delle più conservate”, aveva già alle spalle una lunga carriera di ricercatore sul campo che non lasciava accumulare la polvere sulle scarpe. Nato nel 1717 a Padova, dove si era laureato in medicina, manifestando però una vocazione più per la storia naturale che per l'arte medica, iniziò i suoi viaggi ancora studente, quando percorse l'Italia settentionale per esplorarne la geologia e la flora e visitò l'Istria insieme al conte Gian Rinaldo Carli, unendo già lo studio delle piante a quello dei monumenti antichi. Nel 1743 accompagnò a Roma il suo maestro, il fisico G. Poleni, membro della commissione per il consolidamento della cupola di San Pietro; nella speranza di ottenere una cattedra universitaria, Donati accettò di partire per il Regno di Napoli e di Sicilia per raccogliere esemplari per un istituendo museo pontificio di storia naturale alla Sapienza; ma, saputo che a Messina infuriava la peste, cercò una destinazione più salubre. Memore delle scorribande giovanili in Istria, scelse la costa orientale adriatica e tra il 1743 e il 1749 nel corso di cinque viaggi visitò nuovamente l'Istria, quindi Morlacchia, Dalmazia, Bosnia, Erzegovina, Albania settentrionale, alternando i soggiorni nelle principali città costiere (Spalato, Zara, Sebenico) all'esplorazione delle regioni interne. Fu il primo scienziato a erborizzare sul monte Velebit. Il rapporto scientifico che nel dicembre 1745 inviò a Roma dalla croata Knin (o Tenin) fu pubblicato nel 1750 a spese del conte Carli con il titolo Della storia naturale marina dell'Adriatico. Importante è la parte dedicata ai coralli nei quali secondo Donati "la natura fa passaggio dalle piante agli animali". Mentre i suoi contemporanei li consideravano piante (e tra le piante saranno ancora annoverati a fine secolo in Flora Danica), egli comprese che i "rami" avevano una funzione fondamentalmente di supporto, mentre la forma di vita specifica era costituita da una miriade di polipi, esseri di natura animale. Altrettanto innovativi furono i suoi studi sui meccanismi riproduttivi del genere Fucus, in cui studiò tutte le fasi, dimostrando che la riproduzione delle piante marine non differiva da quella delle specie terrestri. Furono soprattutto le pagine sui coralli a dare fama europea a Donati, tanto da venire tradotte in inglese già nel 1751 nelle Philosophical transactions con il titolo New discoveries relating to the history of coral e nel 1752 in tedesco. Nel 1758 seguì in Olanda una traduzione francese dell'intera opera, Essai sur l'histoire naturelle de la mer Adriatique. Fu probabilmente questa risonanza a spingere Carlo Emanuele III a chiamare Donati a Torino; nel 1750 fu nominato professore di botanica e storia naturale, nonché direttore dell'Orto botanico (il secondo, dopo Bartolomeo Giuseppe Caccia). Da botanico-naturalista a archeologo La carriera universitaria e gli altri impegni istituzionali (era membro del Tribunale del protomedicato), non spensero la passione di Donati per i viaggi e la ricerca sul campo. Nel 1751 il re lo mandò in Val d'Aosta e in Savoia a valutarne le potenzialità minerarie e a redigere una mappatura dei giacimenti e degli impianti di estrazione. Il suo itinerario toccò la Valle di Susa, il Moncenisio, la Val d'Isère, la Valle d’Aosta, il Piccolo San Bernardo, il Faucigny e il lago di Ginevra. Le sue note non si limitano alla mineralogia, ma integrano anche la botanica, il clima, le strutture geomorfologiche, l'attenzione agli aspetti umani. L'anno successivo fu inviato nel Faucigny per individuare le cause di una frana. Nel 1755 visitò le montagne e le coste dell'area di Genova, raggiungendo la Sardegna; nel 1757 tornò nuovamente a studiare le cave di marmo in Val di Susa. In queste attività di ricerca, Donati si avvale sempre della strumentazione migliore disponibile all'epoca e si dimostra uno scienziato acuto, originale, e capace di integrare tra loro le scienze naturali e umane; costante rimane anche l'interesse per l'archeologia. Come direttore dell'Orto botanico di Torino, da una parte ampliò le collezioni, portandole a circa 1200 specie; dall'altra, fu probabilmente su sua iniziativa che incominciarono ad essere stampati e riuniti in volume i disegni e acquerelli con i quali il giardiniere e valente disegnatore F. Peyrolery andava documentando le specie dell'orto, primo nucleo di quella che diverrà l'Iconographia Taurinensis. Nel 1759, quando probabilmente già pensava di tornare a Padova ad assumervi una più prestigiosa cattedra universitaria, il re di Sardegna gli fece la proposta dei sogni: dirigere un viaggio di scoperta e esplorazione in Oriente, alla ricerca di esemplari per due futuri musei reali, uno di storia naturale, l'altro di antichità. Nel corso del viaggio Donati avrebbe dovuto esplorare Egitto, Arabia, Palestina, quindi spostarsi in India e fare ritorno circumnavigando l'Africa, rientrando poi nel Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra. Con la sua passione per i viaggi, Donati non poteva certo rifiutare, tanto più che anche i finanziamenti furono generosi. Oltre a Donati, il gruppo comprendeva inizialmente il naturalista Gioanni Battista Ronco, il disegnatore Christian Wehrlin, il giardiniere Paolo Cornaglia: insomma, una spedizione scientifica di tutto rispetto, una delle più ambiziose dell'epoca. Ma i guai iniziarono quasi subito. Il giardiniere giunse a Venezia, dove avrebbero dovuto imbarcarsi per il Levante, già gravemente malato (morirà poco dopo) e fu sostituito da un giovane collega veneto di cui non conosciamo il nome; inoltre Ronco impose la presenza della sorella Marianna, di cui vantava l'abilità di disegnatrice. Il gruppo giunse a Alessandra d'Egitto presumibilmente il 18 luglio. Poco dopo Ronco, nel tentativo di prendere il comando della spedizione e di impadronirsi delle risorse finanziarie, fece imprigionare Donati nella casa consolare olandese, da cui venne liberato grazie all'intervento di vari membri del corpo diplomatico. Giunta la notizia a Torino, la spedizione così come era stata concepita si sciolse: Wehrlin e probabilmente il giardiniere rientrarono a Venezia, mentre i Ronco facevano perdere le loro tracce e riuscivano ad espatriare in Francia. Donati rimase da solo in Egitto, proseguendo le sue ricerche con l'aiuto di collaboratori indigeni, tra cui spicca Stefano Aspahan, apprendista medico, interprete e guida che lo seguì fedelmente fino alla morte. Partito da Alessandria d'Egitto nel gennaio 1760, Donati visitò il Cairo, Giza e Farsut, risalì il Nilo e fece scavi a Karnak, dove scoprì le tre statue da cui è iniziato il nostro raccolto. Il suo viaggio lungo il fiume proseguì fino alla cataratta di Assuan, di cui tracciò la topografia. Rientrato al Cairo per Natale, ne ripartì subito per il monte Sinai, dove visitò i monasteri copti e studiò le antiche iscrizioni. Nel 1761 visitò Palestina e Siria; nel febbraio 1762 si imbarcò a Masqat su una nave turca che doveva condurlo sulle coste del Malabar; ma durante la traversata si ammalò e morì. Grazie soprattutto alla dedizione di Aspahan, si salvarono almeno una parte delle collezioni e il prezioso Giornale di viaggio, che giunge fino all'arrivo a Masqat, ricco di osservazioni archeologiche e naturalistiche. Una sintesi di questa vita intensa nella sezione biografie. Vitaliana, la primula d'oro L'edizione olandese del saggio di Donati (Essai sur l'histoire naturelle de la mer Adriatique, 1758) include una lettera di Lionardo Sesler, medico e botanico dell'orto di Padova che era stato compagno di Donati in alcuni dei suoi viaggi nell'alto Adriatico. Qui non solo Sesler elogia e sostiene le teorie dell'amico sulla natura animale e sulla "fruttificazione" del Fucus, ma gli rende omaggio dedicandogli una nuova specie da lui recentemente scoperta sulle falde del monte San Pellegrino nel Bellunese. La chiama Vitaliana "seguendo l'orme dell'incomparabile Carlo Linneo, omnium naturalium rerum lumen fulgentissimum". In effetti, Linneo in Species plantarum 1753 aveva reso omaggio a Donati battezzando questa stessa specie Primula vitaliana. Il nuovo genere di Sesler avrà vita travagliatissima. Nel 1835 Bertoloni in Flora italiaca provvide a assegnare alla sua unica specie il nome binomio Vitaliana primulaeflora; ma già nel 1827 Lidl ne aveva negato l'indipendenza, assegnandolo a Douglasia. Da allora, è stato ora considerato indipendente, ora inserito in Primula, Douglasia, Gregoria, Androsace. I più recenti studi molecolari hanno dimostrato che tanto l'europea Vitaliana quanto l'americana Douglasia sono annidati nel genere Androsace. Quindi oggi la nostra vitaliana (nome comune) è ufficialmente Androsace vitaliana (L.) Lapeyr. E' una bellissima perenne rupicola a cuscinetto dai fiori dorati che in Italia possiamo ammirare sia sulle Alpi sia sull'Appennino; è presente anche nei Pirenei e nel Massiccio centrale e in poche stazioni dei Balcani. Donatia, dalla tundra magellanica alla Nuova Zelanda Queste vicissitudini non hanno privato Donati del giusto riconoscimento di un genere botanico. Oltre ad aver lasciato il suo nome di battesimo come nome comune e nome specifico a Androsace vitaliana, a ricordarlo è anche il genere Donatia J.R. Forst. & G. Forst. Anche le due specie che ne fanno parte sono piante a cuscinetto, o per dirla alla latina a pulvino, con profonde radici che riescono a abbarbicarsi alle rocce e sottili rametti che si irradiano a raggiera, formando densi cuscini che trattengono l'umidità e gli elementi nutritivi formati dalla decomposizioni dei residui di foglie e fiori degli anni precedenti, assicurando alla pianta un substrato nutritivo autoprodotto; come la vitaliana vivono in climi estremi, ma per trovarle dobbiamo andare letteralmente alla fine del mondo. Al ritorno dal secondo viaggio di Cook, Johann Reinold Forster esaminò e classificò una specie raccolta da Banks e Solander lungo le coste dello stretto di Magellano in occasione del primo viaggio, denominandola Donatia fascicularis. Non conosciamo i motivi della dedica a Donati, ma come si è detto era figura ben nota e apprezzata in Europa. Assegnato da alcuni a una famiglia propria (Donatiaceae) è generalmente annoverato nella piccola e interessante famiglia delle Stylidiaceae, diffusa tra il Sud Amrica meridionale e l'Australia. Comprende due sole specie. La prima è D. fascicularis, un endemismo cileno, una minuscola perenne a pulvino delle tundre magellaniche, dove si è adattata alle temperature estreme, al forte vento e alle abbondantissime precipitazioni (fino a 5000 mm annui); dai cuscinetti di foglie coriacee, simili a muschio, sbocciano piccoli fiori stellati bianchi a sei petali. Benché ciascuna pianta sia relativamente piccola, si raggruppano in vaste formazioni che ricoprono ampie aree, formando densi tappeti. La seconda, D. novae-zelandiae, vive nelle regioni alpine e subalpine della Nuova Zelanda e della Tasmania. Qui forma cuscini di minute foglioline verdi i quali possono raggiungere un metro di diametro, punteggiati di minuscoli fiori bianchi. Qualche notizia in più nella scheda. Entrambe le specie sono assai graziose, ma purtroppo di difficile coltivazione, dato il particolarissimo ambiente in cui vivono; talvolta possibile vederle nei giardini botanici alpini. Quando ero bambina, ho sentito vecchie signore chiamare le dalie "giorgine". Oggi forse non si sente più, tranne che in tedesco dove queste bellissime piante si chiamano indifferentemente Georgina o Dahlie. E' quanto rimane di una vecchia diatriba che nei primi decenni dell'Ottocento divise i botanici, mentre quei fiori stupendi, passati inosservati per qualche secolo, andavano rapidamente alla conquista delle aiuole e le varietà si moltiplicavano vertiginosamente. Partiamo dunque per un viaggio nel mondo del genere Dahlia, dove a farci compagnia saranno coltivatori messicani affamati, conquistadores distratti, lo sfortunato botanico svedese Anders Dahl e il tedesco russizzato Johann Gottlieb Georgi, l'abate Cavanilles e il professor Willdenow l'un contro l'altro armati, con un cameo di Alexander von Humboldt. Prima tappa: Messico-Madrid A differenza delle loro cugine zinnie, che dovettero avere un ruolo marginale nelle culture indigene e passarono inosservate agli occhi degli spagnoli, le dalie hanno alle spalle una storia secolare. La loro coltivazione è documentata almeno dal XIV secolo presso diversi popoli precolombiani; gli aztechi le chiamavano acocotle e cocoxochitl, che dovrebbero significare "cannuccia " e "fiore della cannuccia", in riferimento ai fusti cavi. Anche se la loro bellezza era apprezzata, l'uso fondamentale era quello alimentare (si consumavano i tuberi). Non sfuggirono all'attenzione del primo importante studioso della flora messicana, Francisco Hernández, che ne descrisse due specie, poi riprese e raffigurate nel Tesoro messicano dell'Accademia dei Lincei, senza tuttavia suscitare entusiasmo; mentre già dopo pochi anni i giardini e gli orti di Siviglia si riempiavano di tageti e peperoncini, le dalie erano ignorate tanto come alimento quanto come pianta ornamentale. A sottrarle all'oblio fu ancora una volta la Spedizione botanica di Sessé e Mociño, nel corso della quale furono raccolti esemplari poi coltivati nell'Orto botanico di Città del Messico da Vicente Cervantes. Quest'ultimo nel 1789 inviò dei semi - etichettati erroneamente come Coreopsis - all'abate Antonio José Cavanilles, membro anziano dello staff del Real Jardin Botanico di Madrid (di cui più tardi divenne direttore). A quanto sembra, una pianta fiorì già l'anno successivo e nel 1791 Cavanilles la pubblicò nel primo volume di Icones et Descriptiones Plantarum come Dahlia pinnata; il nome specifico fa riferimento alle foglie pennate, quello generico è un omaggio commemorativo al botanico svedese Anders Dahl (1751-1789). Dahl, allievo di Linneo, era un botanico eccezionalmente dotato e echi della sua fama dovettero giungere in Spagna, forse attraverso Thunberg. Ripercorriamone velocemente la carriera scientifica: figlio, come tanti altri linneani, di un pastore di provincia, fin da bambino aveva sviluppato un forte interesse per le scienze naturali che lo aveva portato, adolescente, a fondare con alcuni amici la Società topografica svedese di Skara, che si proponeva di descrivere l'ambiente naturale e umano del Västergötland; Dahl vi contribuì con diversi saggi, tra cui una flora locale. Nel 1770 approdò all'Università di Uppsala, dove fu allievo di Linneo; la morte del padre, l'anno successivo, rovinò finanziariamente la famiglia e lo costrinse a interrompere gli studi. Grazie alla raccomandazione di Linneo fu assunto da Alströmer, con l'incarico di organizzare il suo giardino botanico a Kristinedal, nei pressi di Göteborg; quando il suo protettore fece fallimento, Dahl lo seguì nella nuova residenza di Gåsevadsholm, dove si occupò della catalogazione del "piccolo erbario" ceduto a Alströmer da Linneo figlio. Dahl fu tra i pionieri degli studi sull'inquinamento ambientale: nel 1784 su un giornale di Stoccolma pubblicò uno studio sugli effetti inquinanti degli scarti di produzione dell'olio di aringa; grazie alla sua denuncia, furono introdotte alcune restrizioni sugli scarichi industriali (forse la prima legge di questo tipo al mondo). Alla morte del figlio di Linneo, con altri si impegnò per creare una cordata che acquistasse le collezioni linneane, ma senza successo (ad aggiudicarsele su l'inglese James Edward Smith). Nel 1786 si recò brevemente in Danimarca, dove l'università di Kiel gli assegnò la laurea honoris causa in medicina; l'anno successivo divenne professore associato di medicina e dimostratore di botanica all'Università di Turku; tuttavia poco dopo morì precocemente di polmonite. Poco prima, aveva pubblicato la sua opera più importante, Observationes botanicae circa systema vegetabilium divi a Linne Gottingae 1784 editum. Molte delle sue carte e delle sue collezioni andarono perdute nell'incendio che distrusse il centro della città nel 1827. Qualche notizia in più sulla sua vita nella sezione biografie. Non esiste alcun rapporto diretto tra Cavanilles e Dahl, ma probabilmente lo spagnolo ne conosceva l'operato attraverso Thunberg (che di Dahl fu amico), suo corrispondente; inoltre poté essere impressionato dalla sua morte precoce, preceduta di pochissimo dalla pubblicazione di un'opera di qualche valore. In ogni caso, accompagnò la dedica con la laconica indicazione "In honorem D. Andreae Dahl, sueci botanici”. Che Dahl fosse l'assistente di Cavanilles e che insieme avessero seminato le prime dalie è una delle tante leggende metropolitane che fioriscono anche nel mondo della botanica. Seconda tappa: alla conquista dell'Europa Intanto le dalie continuavano la loro marcia di conquista. Altre due specie nate dai semi messicani erano giunte a fioritura e Cavanilles, in base al colore dei fiori, le battezzò rispettivamente D. rosea e D. coccinea. Dall'orto botanico di Madrid, i semi arrivarono a Kew (la prima a portarveli fu la marchesa di Bute, la stessa che introdusse la zinnia in Inghilterra), Parma, Berlino, Dresda, Torino, Thiene. Tuberi di tutte e tre le specie raggiunsero il Jardin des Plantes di Parigi, dove per impulso di André Thouin - sotto gli auspici dell'imperatrice Giuseppina - iniziarono anche i primi esperimenti di ibridazione. Anche Redouté non mancò di immortalare la nuova favorita dei giardini. A complicare le cose si inserì Alexander von Humboldt che dal Messico, ultima tappa del suo memorabile viaggio sudamericano, nel 1803 spedì semi a Willdenow a Berlino, a Thouin a Parigi, a Aiton a Kew. Incominciarono ad essere disponibili altri colori e gli sforzi degli ibridatori vennero premiati dalle prime forme semidoppie. Carl Ludwig Willdenow, direttore dell'orto botanico di Berlino, decise che era ora di fare ordine, e come spesso capita ottenne l'effetto opposto. In quella che è la prima revisione del genere, sostituì il nome Dahlia con Georgina, in onore di un altro botanico tedesco, Johann Gottlieb Georgi, anch'egli morto di recente (nel 1802). In effetti, Willdenow considerò invalido il nome Dahlia sulla base del fatto che Thunberg nel 1792 aveva chiamato Dahlia crinita un'Amamelidacea sudafricana (a quanto pare, lo specifico era uno spiritoso riferimento all'aspetto lanoso dei fiori di questa specie, che gli ricordavano i capelli crespi di Dahl). All'epoca la regola della priorità (nella tassonomia botanica, in caso di conflitto, il nome valido è il più antico) non era ancora stata stabilita definitivamente; Willdenow ritenne che la denominazione di Thunberg, in quanto più diffusa, fosse quella da mantenere. Grazie alla sua autorità, il nome si impose nelle pubblicazioni scientifiche e negli orti botanici. Inoltre, nel 1809, riesaminando vari esemplari, giunse alla conclusione che due delle tre specie di Cavanilles fossero sostanzialmente simili, e le ribattezzò Georgina variabilis; mantenne separata solo G. coccinea, cui aggiunse le nuove introduzioni di Humboldt, G. lilacina e G. pallida. Anche de Candolle ci mise del suo: nel 1810 nella sua Note sur les Georginas sostenne la validità delle conclusioni di Willdenow, mentre i curatori (l'articolo fu pubblicato negli Annali del Museo di Storia naturale di Parigi) prendevano le distanze pubblicando contestualmente una nota in cui si affermava la validità di Dahlia; d'altra parte, nel 1836, nella sua revisione del genere, de Candolle ritornò sui suoi passi, riaffermando Dahlia. Insomma, un affaire internazionale: mentre in Spagna e in Francia prevaleva Dahlia, per quasi un secolo nell'Europa centrale e orientale continuò ad essere usato Georgina. Che arrivò anche in Italia: Georgina è il nome adottato tanto dalle Istituzioni botaniche di Torgioni Tozzetti (1813) quando dal Dizionario delle scienze naturali (1842), che lo italianizza anche in giorgina, nome che fino a qualche decennio fa capitava ancora di sentire e forse sopravvive ancora come denominazione locale. In tedesco è rimasto come nome volgare, e viene usato soprattutto per designare i vecchi ibridi. A chi poi fosse interessato a saperne di più su Georgi, ricordo che è una vecchia conoscenza di questo blog: lo abbiamo già incontrato come membro della spedizione dei Pallas e testimone delle tragiche vicende di Peter Falck. Rimasto in Russia, divenne un eminente studioso, autore di importanti opere etnografiche nonché di una flora della regione di San Pietroburgo. Mentre infuriava questa battaglia nominalistico-diplomatica, le nostre dalie-giorgine diventavano un fiore di culto e invadevano le aiuole in centinaia e centinaia di varietà. Dopo le prime forme semidoppie del primo decennio dell'Ottocento, nel 1829 fu la volta di quelle a fiore d'anemone, nel 1850 delle pompon, nel 1872 delle cactus, nel 1880 di quelle a collaretto. E la storia continua. Dahlia la multiforme Dahlia è un genere della famiglia Asteraceae originario degli altopiani e delle montagne del Messico (tra 1500 e 3700 metri), con qualche presenza sporadica nelle aree adiacenti, come il Guatemala e altri paesi del Cento America e Sud America settentrionale. Sono piante di montagna, con radici perenni (tuberose) e una densa vegetazione in genere decidua, una strategia per superare la stagione fredda. La loro caratteristica più evidente è la grande varietà, che ha anche dato parecchi grattacapi ai tassonomisti; delle più di cento denominazioni specifiche che le sono state attribuite, oggi si riconosce la validità di circa 42 specie. Quanto alle varietà coltivate, superano le 20.000, differenti tra loro per colori, forma dei fiori, dimensioni. Eppure la maggior parte di esse derivano da due sole specie, D. x pinnata e D. coccinea (le due specie di Cavanilles, dato che i posteri almeno su questo hanno dato ragione a Willdenow, considerando D. rosea sinonimo di D. pinnata). Come si spiega tanta prodigiosa varietà? La ragione sta nel fatto che le dalie sono ottoploidi, ovvero hanno otto serie di cromosomi (la maggior parte delle piante è diploide, con due serie di cromosomi); ciò significa che le possibili combinazioni si moltiplicano esponenzialmente, rendendo possibile una diversità forse senza pari nel mondo vegetale. Una varietà che emerse evidente fin dalle piante nate dai semi coltivati a Madrid da Cavanilles e dai loro discendenti, che aveva così generosamente distribuito agli orti botanici europei, tanto da spingere un disorientato Willdenow a proporre per le sue giorgine lo specifico variabilis. Studiandone accuratamente la storia e le caratteristiche, nel 1996 Hansen e Hierting dimostrarono che D. pinnata, coltivata già da secoli quando Cervantes ne spedì i semi a Madrid, è a sua volta un ibrido, e sarebbe meglio correggerne il nome in D. x pinnata. Essi ipotizzano che si trattasse di un variante di D. soerensenii che già aveva acquisito caratteri di ibrido prima di essere introdotta in Europa, probabilmente incrociandosi con D. coccinea. Oggi è solo una pianta orticola e non esiste più in natura. Qualche informazioni in più sulla classificazione delle dalie, e soprattutto link selezionati a risorse on-line nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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