Le avventure del grande botanico-esploratore Odoardo Beccari, celebre soprattutto per aver scoperto la pianta con l'infiorescenza più grande del mondo, Amorphophallus titanum, iniziano sotto il segno di lord Brooke, l'arcinemico di Sandokan, grazie alla cui protezione poté espolorare il Borneo sdettentrionale. I suoi viaggi lo portarono, nell'arco di un ventennio, anche in Malaysia, Indonesia e Corno d'Africa, dove fu coinvolto negli esordi del colonialismo italiano. Fu ancora un membro della famiglia Brooke, la rani Margareth, a convincerlo a scrivere il brillante Nelle foreste di Borneo, che, tradotto in inglese, gli assicurò fama europea. Tra i suoi più avidi lettori, anche Emilio Salgari, che ne trasse lo sfondo e molti particolari per il ciclo di Sandokan. Entusiasta e coraggioso viaggiatore in gioventù, nell'età matura Beccari si specializzò nello studio delle palme, di cui divenne uno dei massimi esperti mondiali. Lo ricordano decine di nomi specifici di piante e animali, e ben quattro nomi di generi botanici: Beccarianthus, Beccariella, Beccarinda, Beccariophoenix. Primo viaggio: nel regno di Sarawak La vocazione di esploratore e viaggiatore senza paura per Odoardo Beccari, giovane botanico fiorentino fresco di laurea, nasce dall'incontro con il marchese Giacomo Doria, presidente della Società geografica italiana, appena rientrato da un viaggio in Persia. Entrambi condividevano la passione per la natura (Doria era stato allievo del padre David, quando questi insegnava a Savona) e progettarono immediatamente una spedizione in qualche luogo inesplorato. Su consiglio di John Ball, celebre naturalista e alpinista, scelsero il regno di Sarawak, in Borneo. Per conoscere meglio la fauna e la flora del sud est asiatico, nel febbraio 1865 il ventiduenne Beccari si spostò a Londra, a studiare le collezioni indiane del British Museum e del giardino botanico di Kew. Qui, oltre a naturalisti come Hooker o Darwin, conobbe sir James Brooke, il leggendario rajah bianco di Sarawak. che, ormai anziano e malato (sarebbe morto tre anni dopo, nel 1868) era in patria per curarsi. Brooke prontamente scrisse lettere commendatizie in cui raccomandava i naturalisti italiani al suo reggente e futuro successore. All'inizio di aprile Beccari partì da Southampton alla volta di Alessandria d'Egitto, dove incontrò Doria e suo fratello Giovanni Battista, a sua volta diretto in Giappone. A giugno giunsero a Kuching, la capitale di Sarawak. All'inizio furono ospiti di Charles Brooke, il Tuan-muda (il"giovane principe"); poi si sistemarono in una piccola casa, con alcuni servitori, acquistando anche un sampan. Ben presto Doria e Beccari cominciarono a esplorare la foresta profonda che all'epoca circondava Kuching; intenzionato a conoscere da vicino quel nuovo mondo, Beccari si fece costruire una grande capanna nella foresta del Gunon Mattang, a circa 300 m sul livello del mare. Ma presto la salute di Doria cominciò a deteriorarsi, così che il geografo nel marzo 1866 fu costretto a rientare in Italia. Dopo aver accompagnato l'amico a Singapore, Beccari tornò a Sarawak e si stabilì nella capanna, ribattezzata "Vallombrosa", deciso a completare da solo il programma di esplorazione. Fino alla fine dell'anno fu il quartier generale da cui mosse per escursioni sulle montagne circostanti mettendo insieme una collezione straordinaria. Sul monte Poe scoprì una nuova specie di Rafflesia, che in onore del suo protettore battezzò R. tuan-mudae. Dedicò poi il 1867 all'esplorazione dell'interno, toccando anche aree mai visitate dai bianchi; si mosse in genere lungo i fiumi, ma anche a piedi, quando doveva superare rapide o penetrare nella foresta densa; corse più volte rischi mortali, come quando, persa la bussola, vagò per due giorni senza cibo in una foresta disabitata. Fino ad allora la sua salute era stata eccellente, ma verso la metà dell'anno contrasse la malaria e più tardi l'elefantiasi; perciò, benché avesse pianificato una nuova spedizione nell'interno, nel gennaio 1868 lasciò Kuching per rientrare in Italia. Qui aveva comunque il suo daffare a riordinare le enormi collezioni di esemplari naturalistici (oltre 4000 esemplari botanici, spesso costituiti da singole specie, molte delle quali ignote alla scienza) e etnografici, che in parte affidò al Civico museo di storia naturale di Genova, fondato e diretto da Doria. Nuova Guinea e dintorni Ma la vita del botanico da scrivania non si addiceva all'avventuroso Beccari. Nel 1870 fu contattato dalla Società geografica italiana e dalla compagnia di navigazione Rubattino, intenzionata ad acquistare la baia di Assab; venne così coinvolto negli esordi del colonialismo italiano, visitando insieme a Orazio Antinori e Arturo Issel la baia di Assab e il paese di Bogos, dove raccolse una notevole collezione di piante. Rientrato in Italia, incominciò a progettare una seconda spedizione malese, che prese avvio alla fine di novembre 1871. Il suo nuovo compagno era un altro ex allievo di David, il conte Luigi Maria d'Albertis. La prima tappa fu Giava, dove i due viaggiatori visitarono l'orto botanico di Bogor e il monte Gedeh. Ripartitono quindi alla volta della Nuova Guinea, che raggiunsero nel marzo 1872, dopo brevi soste a Flores, Timor, Banda e Ambon. Qui si ripeté in qualche modo quello che era avvenuto a Sarawak: dopo un inizio promettente, che li portò nell'isola di Sorong, quindi a Dorei e Andai, nella Guinea Occidentale, d'Albertis si ammalò gravemente e Beccari, in mezzo a mille difficoltà si ingegnò di riportarlo ad Ambon. Mentre il marchese rientrava in Italia a bordo della corvetta italiana Vettor Pisani, Beccari continuò il lavoro sul campo, visitando oltre ad Ambon le isole Aru (durante il viaggio contrasse il vaiolo) e Kei (qui il sampan su cui era imbarcato fece naufragio, ma per fortuna sia le attrezzature sia le collezioni si salvarono). La tappa successiva fu Celebes (oggi Sulawesi), di cui Beccari esplorò l'area sudoccidentale per tre mesi fino al febbraio 1874, spostandosi poi nell'area di Kendari nella costa sudorientale dove rimase circa sei mesi, dedicandosi soprattutto a rilievi topografici. Infatti la regione non solo era relativamente povera di piante, ma soprattutto infestata dai pirati sul mare e dai cacciatori di teste via terra. Ad agosto una nave olandese, che era stata inviata appositamente a cercarlo, essendosi sparsa la voce che la sua vita era in pericolo a causa dei pirati, lo portò a Makassar, dove ricevette una graditissima lettera dal marchese Doria, in cui lo informava che la città di Genova aveva accettato di contribuire a una seconda spedizione in Nuova Guinea con una sovvenzione di 15.000 lire. Dopo un breve soggiorno a Giava, a ottobre Beccari dava inizio al suo secondo viaggio in Nuova Guinea. Dapprima si fermò per circa tre settimane nell'isola di Ternate, nelle Molucche, dove raccolse ricche collezioni botaniche e zoologiche, nell'intenzione di farne la sua base per l'esplorazione della Nuova Guinea. Capito ben presto che era impossibile, tornò ad Ambon dove affittò un piccolo veliero, la Deli, con un equipaggio di 10 uomini, ingaggiando anche 8 portatori e un ragazzo come aiutante per la raccolta di piante e animali. La seconda spedizione in Nuova Guinea si protrasse da gennaio a agosto 1875. Usando come base la nave, l'esploratore visitò Sorong (dove scoprì anche un fiume non indicato nelle carte), l'isola di Wagei, quindi si mosse in direzione di Dorei lungo la costa occidentale della Baya di Geelvink; il resto della primavera fu dedicato all'esplorazione di altre isole della baia. All'inizio di giugno giunse a Dorei, dove incontrò la corvetta Vettor Pisani, cui affidò le sue collezioni, per partire verso i monti Arfak, stabilendo la sua base a Hatai, a 1500 m sul livello del male al centro della catena montuosa. Aveva progettato di dedicare almeno due mesi alla sua esplorazione, ma lo scoppio di un'epidemia di beri beri tra l'equipaggio (c'erano già stati due morti) lo costrinse a rinunciare. Quando ad agosto la Deli rientrò a Ternate, la malattia aveva ucciso buona parte dell'equipaggio. I risultati scientifici di questa seconda spedizione furono eccezionali soprattutto per le raccolte zoologiche (le sole specie di uccelli erano più di 2000) e le collezioni etnologiche, che includevano ogni tipo di oggetto usato dai nativi. Importanti furono anche i rilievi topografici che più tardi permisero al geografo Guido Cora di disegnare mappe di varie regioni. Il suo amore per la natura spicca nelle pagine che nelle lettere inviate dalla Nuova Guinea dedicò alla vita degli uccelli, in particolare al giardiniere bruno Amblyornis inornata, di cui descrisse con ammirazione e poesia le "capanne e giardini". Relativamente meno ricche le raccolte botaniche (al contrario di Borneo e Sumatra, dove Beccari opererà successivamente, in Nuova Guinea gli endemismi sono meno numerosi). Prima di lasciare la Nuova Guinea, Beccari ricevette il permesso di unirsi alla nave olandese Soerabaja che avrebbe effettuato ricerche barometriche e dal novembre 1875 alla fine di gennaio 1876 percorse la costa settentrionale della Nuova Guinea, esplorandone le baie e gli arcipelaghi, per poi raggiungere Ambon. Rientrato quindi a Ternate, a marzo si spostò a Giava, per imbarcarsi per l'Italia, dove rientrò dopo quattro anni e mezzo d'assenza, ricevendo molti onori. L'infiorescenza gigante di Sumatra Non bastarono certo a trattenerlo a casa. Dopo nemmeno un anno partì di nuovo, questa volta insieme a Enrico d'Albertis, cugino del suo precedente compagno. Concepita più come un viaggio di piacere che come spedizione scientifica, questa crociera iniziata nell'ottobre 1877 li portò in India, a Singapore, ancora a Kuching, quindi in Australia, Tasmania e Nuova Zelanda. Nel viaggio di ritorno, Beccari si separò da d'Albertis a Singapore per raggiungere Giacarta e Bogor, dove avrebbe preparato una spedizione a Sumatra. Lasciata Giava a maggio, all'inizio di giugno era a Padang, da dove, proprio come aveva fatto in Borneo e Nuova Guinea, si spostò nel cuore della foresta primaria del monte Singalong, un vulcano estinto alto quasi 2900 metri. Qui, al limite tra le coltivazioni e la foresta, all'altezza di 1700 m si fece costruire una capanna, che chiamò "Bellavista", dove visse tre mesi esplorando le pendici della montagna; esplorò poi la regione tra Padang e Bangok, dove giunse a novembre. Il bottino botanico raccolto soprattutto sul Singalang fu eccezionale (oltre 1000 esemplari); la scoperta più nota è quella di Amorphopallus titanum. Come egli stesso raccontò, ad agosto scoprì quello che inizialmente scambiò per il tronco di un albero ricoperto di licheni; avendo poi capito che si trattava del gambo di una foglia gigantesca di una Aracea, macchiettato di chiaro, promise un premio a chi gliene avrebbe portato un fiore. Dopo una mese la sua attesa fu premiata: per portarglielo, il mostruoso fiore fu legato a un palo e trasportato a spalle da due uomini. Come Rafflesia arnoldii è il fiore individuale più grande del mondo, Amorphophallus titanum è l'infiorescenza più grande, può raggiungere i 3 m e ricorda un gigantesco fallo (il nome significa "fallo privo di forma dei titani"); la foglia può raggiungere i 6 m e una superficie di 15 m di diametro. Beccari ne spedì fiori e tuberi al marchese Bardo Corsi Salviati che coltivava piante esotiche nelle serre della sua villa di Sesto Fiorentino; i bulbi però furono trattenuti alla dogana di Marsiglia e perirono; i semi invece raggiunsero il destinatario e germinarono. L'anno successivo il marchese spedì i piccoli tuberi a vari orti botanici europei, tra cui i Kew Botanical Gardens. Mentre le piante "fiorentine" morirono tutte, la pianta di Kew, coltivata in una serra e costantemente immersa in una vasca di acqua tiepida, riuscì a prosperare e dopo dieci anni giunse a fioritura (un evento ancora oggi eccezionale: A. titanum fiorisce ogni 7-10 anni, anche se alcuni esemplari fioriscono ogni 2-3 anni). Ma torniamo a Beccari che rientrò in Italia alla fine di dicembre 1878. La sua avventura malese era finita, ma lo attendeva ancora un viaggio in Africa; questa volta fu lo stesso ministro degli esteri a convocarlo e a inviarlo nuovamente nella baia di Assab (novembre 1879-gennaio 1880). Fu l'ultima tappa della sua ventennale carriera di naturalista-esploratore. Da allora fino alla morte, dopo una breve e burrascosa parentesi come direttore del giardino dei semplici di Firenze, dedicò le sue attività al riordino delle collezioni, agli affari di famiglia (fu tra i pionieri della produzione del Chianti) e allo studio delle piante tropicali, diventando un esperto di palme di fama mondiale. Su suggerimento dell'amica Margareth Brooke (la moglie del Tuan-muda Charles) che soggiornava spesso in Italia, a Bogliasco, e fu più volte ospite di Beccari in Toscana, raccontò le sue avventure malesi in un bellissimo libro di viaggio, Nelle foreste del Borneo (1902) che grazie alla traduzione inglese divenne poi un bestseller anche fuori d'Italia; molte delle fotografie che lo accompagnano erano state scattate dalla stessa rani Margareth. Tra i più avidi lettori dei resoconti di Beccari e di questo libro, anche Emilio Salgari, che ne trasse l'ispirazione e gli scenari per il ciclo di Sandokan (dove James Brooke, primo protettore di Beccari, diventa il cattivo per eccellenza). Altri particolari sulla avventurosa e intensa vita di Beccari nella sezione biografie. Dalle foreste asiatiche agli altipiani del Madagascar A quello che è considerato (insieme a Parlatore) il più grande botanico italiano del secondo Ottocento (e certo il più noto all'estero) furono dedicate numerose specie di piante e animali, a cominciare da quella Tulipa beccariana Bicchi (oggi T. saxatilis Siebold ex Spreng.) che il professor Bicchi, direttore dell'orto botanico di Lucca, gli dedicò quando era ancora adolescente. A ricordarlo sono i nomi di ben quattro generi botanici tuttora validi (altri tre sono invece ritenuti sinonimi): Beccarianthus, Beccariella, Beccarinda, Beccariophoenix. Il genere Baccarianthus, della famiglia Melastomataceae, fu creato nel 1890 dal botanico belga C.A. Cogniaux, in Handleiding tot de Kennis der Flora van Nederlandsch Indië, sulla base di B. pulchra, raccolta da Beccari a Sarawak. E' un genere di piccoli alberi poco noti distribuiti nelle foreste pluviali di Filippine e Papua-Nuova Guinea (oltre all'unica specie del Borneo). Hanno foglie coriacee, con venature molto evidenti, e fiori bisessuali relativamente vistosi raccolti in racemi apicali. Ben poche notizie sono riuscita a reperire, sintetizzate nella scheda. Il genere Beccariella, della famiglia Sapotaceae, fu creato sempre nel 1890 dal botanico francese J.B.L. Pierre, specialista di flora asiatica. Comprende una trentina di specie di alberi sempreverdi delle aree tropicali e subtropicali del Pacifico occidentale, soprattutto dall'Indonesia e la Malaysia all'Australia settentrionale. Hanno foglie coriacee, lucide, a volte cospicuamente tomentose; sia le foglie sia i fusti contengono un lattice che può risultare irritante; alcune hanno frutti relativamente grandi, come la curiosa Beccariella sebertii, originaria della Nuova Caledonia, i cui frutti dalla dimensione di grosse olive sono totalmente ricoperti da un fitto tomento vellutato color ruggine che ricorda la pelliccia di un animale. Qualche approfondimento nella scheda. Il genere Beccarinda, della famiglia Gesneriaceae, creato dal botanico tedesco C.E.O. Kuntze nella sua Revisio Generum plantarum (1891), comprende sette specie di erbacee perenni o suffrutici, litofite o terrestri, diffuse tra Cina, Myanmar e Vietnam. La specie più nota è la graziosa B. tonkinensis, con foglie ovate e irsute che ricordano quelle delle violette africane e fiori tubiformi e lobati lilla chiaro. Qualche notizia in più nella scheda. Se questi tre generi, tutti appartenenti alla flora del sudest asiatico, sono un omaggio all'attività di esploratore e ricercatore sul campo di Beccari che tanto contribuì a farla conoscere, l'ultimo genere è legato al suo contributo allo studio delle palme, in particolare con Palme del Madagascar (1912). E' infatti endemico proprio del Madagascar Beccariophoenix, creato dai francese Jumelle e Perrier de la Bathie nel 1915, che comprende due-tre specie, ormai rare in natura ma apprezzatissime in coltivazione; sono alte palme spettacolari, piuttosto simili nell'aspetto alla palma da cocco, che possono egregiamente sostituire per la maggiore rusticità. B. alfredii è stata scoperta solo di recente, nel 2002, quando Alfred Razafindratsira, osservando una fotografia di Beccariophoenix scattata sull'altopiano attorno a Andrembesoa, fu colpito dal fatto che esso crescesse in un'area così distante e così diversa sul piano ecologico dalla costa e dalle foreste litoranee in cui abitualmente crescono le altre specie; due anni dopo, una spedizione ritrovò questa e un'altra stazione, confermando che si trattava di una nuova specie, subito battezzata alfredii in onore dell'acume del suo "scopritore". Qualche approfondimento nella scheda.
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La Paulownia non è solo un albero di straordinaria bellezza, ma è carico di simboli. In Cina, la sua patria, propizia lunga vita e felicità, associato com'è alla fenice - che solo sui suoi rami potrà posarsi, e solo quando sarà al potere un governante giusto. Ancora più ricchi i valori culturali in Giappone dove non solo è l'albero della vita, piantato tradizionalmente alla nascita di ogni bambina, ma è anche stato scelto come distintivo dell'ufficio del Primo ministro, in ricordo di un antico eroe nipponico. Così Philipp van Siebold, che aveva conosciuto la spendida pianta in Giappone, l'aveva coltivata nel suo giardino a Deshima e aveva osservato stupefatto la sua rapida crescita, pensò che, per sdebitarsi con la principessa reale dei Paesi Bassi, non c'era omaggio migliore che dedicarle questa pianta tanto bella e tanto densa di simboli. Un botanico a caccia di finanziamenti Il grande botanico Philipp von Siebold ritornò dal suo primo soggiorno in Giappone nel momento peggiore possibile. D'altra parte, non aveva avuto scelta: quando i giapponesi avevano scoperto che si era procurato alcune carte del paese - cosa proibitissima agli stranieri - prima lo avevano posto agli arresti domiciliari, poi lo avevano espulso. Inoltre, quando nel luglio del 1830 arrivò nei Paesi Bassi non poteva sapere che nell'arco di poco più di un mese avrebbe corso il rischio di perdere le sue collezioni o di non potervi accedere per anni. Le aveva infatti portate a Bruxelles, che all'epoca era la capitale del regno nonché la residenza dell'erede al trono. Le piante vive le aveva invece affidate all'orto botanico di Gand. Il 25 agosto scoppiò la rivoluzione che avrebbe portato all'indipendenza del Belgio. Nei giorni successivi, Siebold riuscì fortunosamente a portare in salvo a Leida sia le proprie collezioni, sia quelle raccolte da Blume a Giava. Rimasero invece in Belgio le piante vive. Si poneva a questo punto il problema di studiare e pubblicare l'immenso materiale raccolto in Giappone (i soli esemplari botanici erano più di 12.000). Siebold progettò tre opere di grande impegno: Nippon, un colossale studio geografico e etnografico sul paese del Sol levante; Flora japonica (con la collaborazione di un altro botanico tedesco, J.G. Zuccarini); Fauna japonica (per quest'ultima, egli si sarebbe avvalso della collaborazione degli zoologi del Museo di storia naturale da Leida, coordinati dal prof. Temminck). Tutte magnificamente illustrate, richiedevano grandi capitali, che nei Paesi Bassi, impegnati in Europa contro la rivolta belga e in Indonesia nelle guerre coloniali, non c'erano. Siebold ottenne dal re soltanto una pensione annua, e la promessa dell'acquisto delle sue collezioni etnografiche, che tuttavia venne procrastinato proprio per il prosciugamento dei fondi statali. A chi battere cassa? Siebold decise di rivolgersi alla sposa dell'erede al trono, la granduchessa russa Anna Pavlovna. Era arrivata in Olanda con una dote favolosa (un milione di fiorini) e si diceva che i suoi gioielli, per valore, fossero secondi solo a quelli della cognata, l'imperatrice di Russia. Non potendo soccorrerlo personalmente (suo marito, il futuro Guglielmo II, aveva notoriamente le mani bucate) gli consigliò di rivolgersi a suo fratello, lo zar Nicola I, che in quel momento era sicuramente il monarca più ricco d'Europa. Fu così che nel 1834 Siebold partì per la Russia e, grazie all'intercessione di Anna, fu ricevuto dallo zar, che aprì i cordoni della borsa in cambio di un invio di dieci copie annue dei fascicoli successivi delle tre pubblicazioni (sarebbero state inviate in Russia per più di un ventennio). Più granduchessa russa che regina olandese L'anno successivo, quando uscì il primo volume di Flora japonica, Siebold poté sdebitarsi con la principessa sia dedicandole l'intera opera (nel frontespizio leggiamo: Omaggio a sua altezza imperiale e reale la signora principessa di Orange Anne Paulowna, granduchessa di Russia) sia battezzando con il suo nome una delle più belle piante descritte nell'opera, Paulownia imperialis. Dato che questa specie era gia stata descritta da Thunberg come Bignonia tomentosa, oggi il suo nome è P. tomentosa Steud. Tuttavia il nome specifico coniato da Siebold - sicuramente carissimo a Anna, tanto orgogliosa delle sue origini imperiali - ha fatto in tempo a incollarsi al bellissimo albero, che nei paesi anglofoni è noto come Royal Empress Tree ("albero della principessa imperiale"). Al di là del suo ruolo di mediazione in questa delicata occasione, non sembra che la nobildonna abbia altri meriti botanici. Divenuta regina d'Olanda nel 1840 quando Guglielmo II succedette al padre, è una figura verso la quale gli olandesi hanno un atteggiamento ambivalente. L'ha dimostrato, fin dal titolo, la grande mostra organizzata nel palazzo di Het Loo nel 2016, in occasione del duecentesimo anniversario del suo matrimonio con il principe Guglielmo, intitolata "Anna Pavlovna, la regina pittoresca". Dai ritratti, dai vestiti elegantissimi e raffinati (che si faceva confezionare esclusivamente a Pietroburgo), dagli oggetti di cui amava circondarsi emerge una figura piena di maestà e dignità, indubbiamente affascinante, ma anche aliena, esagerata, appunto pittoresca. Allevata nel palazzo imperiale di Carskoe Selo con una profonda coscienza della sua appartenenza a una stirpe imperiale, per tutta la vita fu più una granduchessa russa che una regina olandese. Pur avendo accettato di sposarlo, provava una certa condiscendenza verso il marito, che riteneva di rango molto inferiore al suo. Quando arrivò in Olanda, poi, provò un vero shock culturale: rispetto alla corte russa, basata su una rigida etichetta e su una distanza siderale tra famiglia imperiale e sudditi, la borghese corte olandese, con la sua mescolanza di classi sociali e lo scarso peso dell'etichetta, era agli antipodi. Gli olandesi le riconoscono, equanimi, molte virtù: era una donna colta e intelligente (imparò benissimo l'olandese, cosa che il marito, allevato all'esterno e di lingua madre francese, non fece mai); era la discrezione in persona e non cercò mai di influenzare le scelte politiche del marito, anzi seppe mediare tra lui e il suocero, quando sorsero profonde divergenze proprio sulla linea da tenere nei confronti dei Belgi; fu sempre leale allo sposo, nonostante i molteplici tradimenti di lui e le sue spese dissennate; fu una filantropa che fondò decine di scuole, ospedali, orfanatrofi. Tuttavia i suoi sudditi non la amarono mai: era troppo altera, troppo compresa della sua importanza, troppo attaccata all'etichetta, troppo fredda (ma anche troppo impulsiva: quando prendeva la calma, si abbandonava a scenate fin troppo russe), insomma troppo granduchessa russa e troppo poco regina olandese. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Tra Anna Pavlovna e i fiori c'è però un secondo legame, diciamo così, postumo. Nel 1846 fu completata la realizzazione di un polder nel nord del paese, battezzato Anna Paulownapolder in onore della regina. Inizialmente sotto la municipalità di Zijpe, nel 1870 divenne comune autonomo con il nome di Anna Paulowna. Il caso ha voluto che questa località si trovi in una delle zone dove si concentra la produzione di tulipani; proprio qui, ogni anno, tra la fine di aprile e l'inizio di maggio (qui i bulbi fioriscono circa due settimane dopo rispetto alle aree floricole dei dintorni di Lisse) vengono organizzati i "giorni dei fiori", con mosaici fioriti, opere d'arte, strade e ponti addobbati. C'è anche un giardino di bulbi che pretende di rivaleggiare (molto più in piccolo) con Keukenhof. Paulownia, albero della vita Il genere Paulownia, un tempo assegnato alla famiglia Scrofulariaceae ma oggi riclassificato in una famiglia propria, le Paulowniaceae, di cui è l'unico rappresentate, comprende sette specie di alberi dai magnifici fiori orginari per lo più della Cina, anche se alcune specie sono state introdotte da secoli in altri paesi dell'Asia orientale, in particolare in Corea e in Giappone, dove P. tomentosa arrivò a quanto pare intorno al 200 d.C. Fu proprio in Giappone che gli studiosi occidentali la incontrarono, a partire da Engelbert Kaempfer che nei suoi Amoenitatum Exoticarum fasciculi (1712) ne diede la prima descrizione, paragonandone i fiori a quelli della digitale e le foglie a quelle della bardana. A sua volta Thunberg la descrisse e la pubblicò in Flora japonica (1784) come Bignonia tomentosa. Philipp von Siebold la vide durante il suo primo soggiorno giapponese e la coltivò nel suo giardino di Deshima, rimanendo stupefatto dalla sua bellezza, del suo vigore e della rapidissima crescita. Al suo ritorno in Europa, portò con sé molti semi, di cui fece generosamente dono a molti amici; possiamo quindi considerarlo l'introduttore della specie in Europa, anche se la prima a fiorire, nel Jardin des Plantes di Parigi, dove era stata seminata nel 1834, sembra sia nata da semi donati a un certo visconte di Cussy, che li avrebbe avuti da un ignoto capitano inglese. Come ho già accennato, fu Siebold nel 1835 a comprendere che non si trattava di una Bignonia ma di un genere nuovo, battezzato Paulownia in onore di Anna Pavlovna Romanova. E' interessante leggere la motivazione della dedica: "Abbiamo preso la libertà di battezzare Paulownia il nuovo genere, che accoglie il Kiri, precedentemente ritenuto erroneamente una bignonia, per rendere omaggio al nome di sua Altezza Imperiale e Reale, la principessa ereditaria dei Paesi Bassi. A spingerci a questo non è stata solo la bellezza della pianta, ma ancora di più il fatto che la foglia del Kiri ornata di tre boccioli di fiori è stata utilizzata come insegna dal celebre eroe Taikosama e per questa ragione è ancora molto onorata in Giappone". La scelta di una pianta così significativa dal punto di vista culturale si inquadra nell'innovativo approccio di Siebold ai rapporti tra Occidente e Giappone, che egli auspicava si basassero non più sui meri interessi commerciali ma sulla comprensione e l'apprezzamento delle reciproche culture, come dimostrano anche le illustrazioni di Flora japonica, da lui fatte eseguire a artisti giapponesi e poi ridisegnate e adattate per la stampa da artisti occidentali. In Oriente, in effetti, P. tomentosa è molto di più di un albero apprezzato per la sua bellezza o per l'eccezionale valore economico dovuto alla rapida crescita e all'ottima qualità del suo legname, leggero, facile, da lavorare, ma allo stesso tempo durevole. E' l'albero della vita, legato al ciclo della vita e della morte. In Cina è coltivata da tempi immemorabile; si dice che il sarcofago di un re vissuto 2600 anni fa sia stato ricavato dal suo legname e le cronache del regno Qin (II sec. a.C.) documentano sue estese coltivazioni attorno alla città di Afang. Simbolo di longevità, nella tradizione cinese è ritenuto l'unico albero su cui si posa la fenice, per cui veniva piantata nei pressi delle case per attirarla, assicurandosi prosperità. In Giappone tradizionalmente veniva piantata alla nascita di una bambina e tagliata al momento del suo matrimonio, per ricavarne il cassone nuziale; era usata anche per amuleti destinati ai bambini e per le bare. Il suo legno, dotato di grandi capacità di risonanza, sia in Cina sia in Giappone è usato per costruire strumenti musicali tradizionali. Inoltre, come ricorda Siebold, è legato a un personaggio molto onorato della storia giapponese, Toyotomi Hideyoshi (Taiko Sama "l'onorevole ritirato" è il titolo onorifico con il quale è per lo più conosciuto nelle fonti cristiane). Egli fu il secondo dei tre unificatori del Giappone e alla fine del Cinquecento gettò le basi del sistema dello shogunato; la sua insegna formata da una foglia di kiri (questo il nome giapponese dell'albero) sormontato da tre boccioli è tuttora utilizzato come emblema dell'ufficio del Primo ministro. Giunta in Europa all'inizio degli anni '30 dell'Ottocento, P. tomentosa si diffuse rapidamente nei giardini del vecchio continente; dopo un decennio arrivò anche negli Stati Uniti (dove, per ragioni che vedremo meglio nella scheda, è anche diventata una temuta infestante). Solo alla fine del secolo, quando la Cina si aprì agli esploratori occidentali, incominciarono a essere note anche le altre specie, che tuttavia non sono mai diventate altrettanto popolari, anche perché meno rustiche e più esigenti; tuttavia da qualche decennio si assiste, soprattutto in Europa a un vero e proprio boom delle coltivazioni di Paulownia, per ricavarne legname e biomassa; e, più che P. tomentosa, a essere privilegiate sono altre specie e alcuni ibridi, di crescita più veloce e maggiore produttività. Qualche informazione su di esse nella scheda. In mezzo a tanti zoologi e a qualche geologo, Pieter Willem Korthals fu l'unico botanico di formazione tra i membri della Natuurkundige Commissie. Con all'attivo sei anni di esplorazioni a Giava, Sumatra e Borneo e una collezione di oltre 1000 specie, diede un contributo importantissimo alla conoscenza della flora dell'Indonesia che meriterebbe di essere più noto. Ma, egli stesso primo critico dei risultati raggiunti, a 35 anni preferì ritirasi a vita privata per dedicarsi alla "filosofia speculativa". A ricordarlo nelle denominazioni botaniche, i generi Korthalsia e Korthalsella. Il prototipo delle guerre coloniali Tra il 1825 e il 1830, a Giava gli olandesi dovettero affrontare una vera e propria guerra che, oltre a mettere a dura prova il loro controllo dell'isola, li spinse a mutare profondamente la loro politica nell'intera Indonesia, con conseguenze anche per le attività dei naturalisti della Natuurkundige Commissie. Il sistema di tassazione, introdotto dagli inglesi e mantenuto dal governo olandese, che aveva imposto il pagamento di tasse ai contadini (prima, la Compagnia delle Indie olandesi si limitava ad acquistare i prodotti dai signorotti locali, che li ottenevano dai contadini in cambio dell'uso delle terre, con un sistema analogo alla mezzadria), aveva infatti destato il malcontento tanto dei proprietari quanto dei contadini. Saldandosi con motivazioni dinastiche e religiose, sotto la guida del principe Diponegoro di Yogyakarta, nel 1825 nelle regioni centrali dell'isola scoppiò una rivolta generale che tenne a lungo in scacco l'esercito olandese e fu domata solo con tecniche di antiguerriglia e una politica della terra bruciata che costò ai giavanesi almeno 200.000 vittime (e tra 8000 e 15000 agli olandesi). Terminata la rivolta con la cattura di Diponegoro, il governo olandese cercò di consolidare il proprio potere eliminando le cause del malcontento; il sistema di tassazione fu soppresso, e ai contadini giavanesi fu imposto il sistema delle coltivazioni forzate (cultuurstelsel) che li obbligava a scegliere fra riservare un quarto delle proprie terre a coltivazioni destinate all'esportazione, versando i ricavi al governo olandese, oppure prestare lavoro gratuito per un quarto del loro tempo in piantagioni governative. Contemporaneamente, il sostegno delle aristocrazie locali venne recuperato, cooptandone i membri nell'amministrazione delle piantagioni. La generalizzazione del sistema delle coltivazioni forzate implicava un più capillare controllo del territorio (prima, gli olandesi si erano stabiliti essenzialmente nelle località costiere) e una migliore conoscenza delle risorse agricole locali. Inoltre, le enormi spese sostenute per sconfiggere i ribelli (il debito della colonia era raddoppiato, passando da 20 a 40 milioni di fiorini) inducevano il governo a completare la conquista delle aree della regione indonesiana (in particolare Sumatra e Borneo), la cui sovranità olandese era stata riconosciuta dal trattato anglo-olandese del 1824. Queste nuove circostanze spiegano perché, dopo un decennio in cui i membri della Natuurkundige Commissie, la commissione di scienziati inviata ad esplorare i territori delle Indie orientali olandesi, erano stati soprattutto zoologi (riflettendo gli interessi scientifici del direttore della Commissie, l'ornitologo C.J. Temminck), si decise di puntare nuovamente su un botanico, coinvolgendo nella scelta il neonato erbario nazionale di Leida. Il prescelto fu il giovane botanico Pieter Willem Korthals, che da qualche tempo lavorava proprio all'erbario. Il suo compito sarebbe stato triplice: esplorare la flora di Giava (e delle altre isole), inviando in Olanda le specie più rare; conoscere meglio il territorio e le sue risorse naturali e umane; ispezionare le piantagioni governative e individuare le strategie migliori per accrescerne la produttività. Dall'esplorazione dell'arcipelago alla filosofia Entrato a far parte della Commissie nel 1830, Korthals fu immediatamente inviato a Parigi, a visitare l'erbario nazionale, in che si facesse un'idea delle specie già note (per ragioni sia di prestigio sia di eventuale sfruttamento commerciale, si puntava soprattutto sulle novità). Si imbarcò poi per Giava, insieme ai preparatori D.H.T. van Gelder e B. N. Overdijk, chiamati a sostituire l'ottimo van Raalten morto in Borneo. Giunto a Giava nell'aprile 1831, a Buitenzorg incontrò i superstiti della Natuurkundige Commissie: Macklot, S. Müller e van Oort. Con loro, già a maggio prese parte a un giro lungo la costa nord, per poi rientrare dalla costa sud. Korthals sarebbe rimasto nelle Indie orientali olandesi per quasi sette anni, partecipando a numerose spedizioni, prima a Giava, poi a Sumatra e infine in Borneo. Grazie ai suoi puntigliosissimi diari di campagna (in cui annotava con scrupolo non solo le caratteristiche delle piante e del loro habitat, ma anche una massa di informazioni geografiche e etnografiche) conosciamo bene i suoi movimenti, anche se per noi non è facile seguirli visto che molti toponimi hanno cambiato nome. Tra la seconda metà del 1831 e la prima metà del 1833, accompagnato ora da questo ora da quel membro della Commissione, visitò estesamente Giava, alternando alle escursioni naturalistiche l'ispezione delle piantagioni; scalò molte montagne, che con le loro pendici ricoperte di foresta pluviale erano una fonte inesauribile di scoperte botaniche, esplorò crateri vulcanici, risalì fiumi e visitò fonti termali. Nel giugno 1833, con S. Müller, van Oort e van Gelder, si imbarcò per Sumatra. Se, dopo la fine della rivolta, Giava era relativamente pacificata e ormai sotto il controllo olandese, la situazione a Sumatra era ben diversa. Nel nord del paese c'era un potente stato indipendente, il sultanato di Aceh e la presenza olandese, limitata all'area centro-occidentale, era recentissima. Fin dal 1803 tra i Minangkabau, il principale gruppo etnico di Sumatra occidentale, era scoppiata una guerra civile tra la nobiltà Adat, la quale difendeva una concezione sincretica dell'Islam e il diritto consuetudinario che conservava elementi preislamici, e i Padri, musulmani integralisti che avrebbero voluto imporre la legge coranica; gli olandesi intervennero nel 1821, su richiesta degli Adat, iniziando una dura guerra che si sarebbe conclusa solo nel 1837 con la sottomissione dei Padri. Era dunque un paese in guerra quello che fu visitato dai nostri naturalisti tra la fine di giugno 1833 e il gennaio 1836; per forza di cose, si mossero principalmente tra i dintorni di Padang (il più importante centro della costa occidentale) e la catena di fortilizi che gli olandesi avevano costruito a partire dal 1825 per tenere sotto controllo i territori faticosamente strappati ai nemici- che spesso preferivano incendiare i propri villaggi piuttosto che arrendersi. Con l'eccezione delle escursioni di Jack nell'area di Bencoolen, erano i primi naturalisti ad esplorare la natura di Sumatra. Il bottino per il nostro Korthals fu particolarmente ricco di specie ignote alla scienza. La sua scoperta forse più importante fu probabilmente il kratom, una pianta largamente usata nella medicina tradizionale, con effetti calmanti in grado di sostituire l'oppio senza provocare dipendenza, da lui ribattezzato Mitragyna speciosa. Nel 1835, il gruppo dei naturalisti si arricchì di un nuovo arrivo, il geologo svizzero Ludwig Horner, che spesso accompagnò Korthals collaborando anche alla raccolta di esemplari botanici. Ma pochi mesi prima c'era stata anche una perdita dolorosa: quella del pittore Pieter van Oort che, quando già pensava di ritornare a casa, nel maledetto mese di settembre era morto anche lui di malaria, come tanti altri membri della Commissie. A gennaio 1836, dopo aver brevemente visitato l'Isola Rat (Pulau Tikus) e Bencoolen, il gruppo rientrò a Giava, dove si trattenne però pochi mesi. A luglio si reimbarcarono per il Borneo, di cui tra agosto e dicembre esplorarono le regioni sudoccidentali. Per Korthals e Müller, a parte una breve escursione, di nuovo a Giava, nei primi mesi del 1837, fu l'ultima avventura: ad aprile lasciarono definitivamente l'Indonesia, per rientrare in Olanda ad agosto. Korthals tornava a casa dopo quasi sette anni. Per Müller gli anni di lontananza erano stati dodici, ed era l'unico sopravvissuto del suo gruppo. Il loro destino successivo fu alquanto diverso: Müller, che aveva iniziato la sua carriera come tecnico tassidermista, sul campo era diventato un grande zoologo; ottenuta la cittadinanza olandese, lavorò assiduamente al Museo di storia naturale di Leida per classificare e pubblicare le imponenti collezioni zoologiche accumulate durante i suoi viaggi; nel 1850, quando la Commissione fu sciolta, si trasferì a Friburgo in Bresgovia, continuando a pubblicare libri sull'arcipelago indonesiano, di cui era riconosciuto come uno dei massimi esperti. Korthals avrebbe potuto fare lo stesso all'erbario nazionale, ma a soli 35 anni lasciò la botanica militante e rinunciò a pubblicare le sue scoperte per dedicarsi a quella che un contemporaneo definì "filosofia contemplativa". Ci ha lasciato solo alcuni articoli di taglio prevalentemente geografico su Giava e Sumatra e la monografia Over het geslacht Nepenthes (1839), di grande importanza storica per essere la prima dedicata alle Nepenthes tropicali; è un opuscolo di una quarantina di pagine, splendidamente illustrato, in cui si passano in rassegna nove specie, tre delle quali descritte per la prima volta. Una sintesi della sua vita, lunga ma molto oscura dopo il ritiro, nella sezione biografie. Palme rampicanti e formiche Anche se non pubblicato da lui (saranno altri studiosi, e in particolare Miquel, a cogliere i frutti delle sue fatiche sul campo) il contributo di Korthals alla conoscenza delle flora dell'Indonesia, in particolare di Sumatra, è immenso (oltre 1000 specie) e di grande qualità scientifica. Così, nonostante il suo gran rifiuto, non mancarono i riconoscimenti. Oltre a varie specie contrassegnate dallo specifico korthalsii, gli furono dedicati due generi tuttora validi, Korthalsia e Korthalsella. Korthalsia è un tardivo omaggio (siamo nel 1884 e da molti anni Korthals contempla filosoficamente il mondo) del suo ex principale, Carl Ludwig Blume, che lo determinò sulla base di esemplari raccolti da Korthals stesso in Indonesia. Questo genere della famiglia Arecaceae (un tempo Palmae) fa parte di un gruppo di palme rampicanti dal fusto molto sottile e flessibile, noto come rattan (sì, proprio quello con cui si fanno i mobili). Comprende una trentina di specie diffuse esclusivamente nelle foreste pluviali tropicali dei paesi che si affacciano sullo stretto della Sonda, con qualche propaggine in Indocina e nelle isole Andamane. Per le particolari esigenze climatiche è raramente coltivato; del resto presenta fusti molto spinosi e con nodi irregolari, poco adatti quindi alla fabbricazione di oggetti. La particolarità più curiosa delle Korthalsiae è l'associazione in simbiosi mutualistica con le formiche del genere Camponotus; queste ultime nidificano nelle guaine fibrose e rigonfie che si trovano lungo il tronco, soprattutto nella parte basale, e vi allevano delle cocciniglie che si nutrono della linfa delle palme, producendo a loro volta un fluido dolce di cui si cibano le formiche. Gli studi hanno dimostrato che anche le palme ne hanno un vantaggio, perché la presenza delle formiche le protegge dagli erbivori; questi insetti, molto aggressivi, hanno infatti sviluppato un sistema di allarme, una specie di vibrazione che producono battendo gli addomi contro la base delle foglie secche, che avverte che stanno per scatenare un doloroso attacco in massa, sufficiente a scoraggiare chi ne abbia già fatto l'esperienza. Non stupirà scoprire che tra le piante epifite associate alle Korthalsiae ci sono anche alcune Nepenthes, che a loro volta offrono alle formiche ottimi luoghi di nidificazione. Qualche informazione in più nella scheda. Piante parassite e uccelli oceanici Non meno curioso, sebbene per altri motivi, è il genere Korthalsella; a crearlo poco dopo la morte di Korthals (avvenuta in tarda età nel 1892) fu il botanico francese P.E.L. van Tieghem, che lo separò da Viscus. Come il vischio (entrambi i generi, un tempo classificati nella famiglia Viscaceae, sono oggi assegnati alle Santalaceae) le Korthalsellae sono piante parassite che germinano sui rami della pianta ospite e vi vivono a sue spese; in tutte le specie (da 7 a 30, secondo diversi autori) le foglie sono ridotte a scaglie e i fusti, definiti cladodi, sono rigonfi e appiattiti; in genere sono molto piccole (non più di una decina di centimetri) e possono essere scambiate per escrescenze dell'ospite. Singolare è anche la distribuzione geografica; da questo punto di vista, vengono divise in due grandi gruppi: il primo è distribuito in un'area continua che va dal Corno d'Africa alla Nuova Zelanda, passando per il subcontinente Indiano, la Cina, l'Indocina, l'Indonesia e l'Australia; il secondo comprende quasi esclusivamente isole separate tra loro da centinaia e migliaia di chilometri, dal Madascar a occidente fino alle isole del Pacifico comprese le Hawaii a oriente. Secondo gli studiosi, la dispersione dei semi di Korthalsella in entrambi i casi è effettuata da uccelli; i loro frutti sono infatti piccole bacche che si aprono in modo esplosivo, espellendo con violenza minutissimi semi appiccicosi che aderiscono alle piume e ai piedi dei pennuti. Gli agenti della dispersione però variano da un gruppo all'altro: per le specie a distribuzione continentale, uccelli delle comunità locali; per quelle a distribuzione oceanica, uccelli marini, che percorrono grandi distanze e nidificano prevalentemente sulle coste di piccole isole, visitando raramente le regioni interne. Altri approfondimenti nella scheda. Fioriscono insieme nei nostri giardini, a maggio, e insieme sono arrivati dall'Oriente nei bagagli di un ambasciatore: sono il lillà e il filadelfo, o fior d'angelo, che a lungo hanno persino condiviso il nome latino syringa. Ne è nato un equivoco che perdura nelle denominazioni del filadelfo in alcune lingue europee (ad esempio il francese seringa, seringat) o regionali (siringa, serenga, serena, in Piemonte, Toscana, Emilia Romagna). Ma gli equivoci devono essere iscritti nel destino del profumatissimo arbusto: altrove è assimilato al gelsomino (il toscano gelsomino della Madonna, il siciliano gesminu di Portugallu, i tedeschi falsche Jasmin o Sommerjasmin, nonché il bavarese Scheissamin, sorvoliamo su che tipo di gelsomino sia...) oppure ai fiori d'arancio (l'inglese mock orange, l'italiano fiore d'arancio e il siciliano zagara americana). Anche i botanici hanno contributo: prima Caspar Bauhin, che cercando di dissipare la confusione, l'ha ribattezzato con un nome che probabilmente designava tutt'altra pianta; poi Linneo, che ritenendolo un nome celebrativo, l'ha arbitrariamente dedicato al sovrano ellenistico Tolomeo II Filadelfo. Bene per me, che grazie alla distrazione del principe dei botanici posso parlare di questo splendido arbusto, forse oggi un po' meno di moda, ma pur sempre ammirato per la magnifica fioritura bianca e il delicato profumo. Del resto, i meriti scientifici di Tolomeo II sono tutt'altro che equivoci, e una piccola dedica la merita davvero. I doni dell'ambasciatore Dopo otto anni trascorsi alla corte di Solimano il Magnifico come ambasciatore imperiale, nel 1562 Ogier Ghislain de Busbecq, bibliofilo e appassionato collezionista di animali e piante esotiche, rientrò a Vienna, lasciandosi alle spalle lo zoo e i magnifici giardini che aveva creato nella sua residenza di Costantinopoli. Nei suoi bagagli, alcuni inestimabili tesori: in primo luogo, il magnifico codice miniato oggi noto come "Dioscoride di Vienna"; in secondo luogo, una collezione di bulbi e altre piante, tra cui due arbusti dai fiori profumati, novità assolute per i giardini europei. A Vienna li condivise con il curatore dei giardini imperiali, Carolus Clusius (che avrebbe poi portato con sé i bulbi di tulipano in Olanda, gettando le basi della tulipocoltura in quel paese). Avendo sentito dire che in Oriente i fusti cavi di entrambi gli arbusti venivano usati come cannelli delle pipe, il colto ambasciatore e l'amico Clusius li battezzarono entrambi syringa (espressione greco-latina che significa "tubo, cannuccia"): Syringa flore coeruleo quella a fiori violetti, Syringa flore albo quella a fiori bianchi. Queste denominazioni durarono a lungo, finché a correre ai ripari intervenne Caspar Bauhin che in Pinax theatri botanici (1623) conservò al primo Syringa caerulea e ribattezzò il secondo Philadelphus Athenaei, "filadelfo di Ateneo". Aveva pescato il nome in uno scrittore in lingua greca del II secolo d.C, Ateneo di Naucrati che, nel XV libro del suo Deipnosofisti, discute delle piante utilizzate per preparare le corone indossate durante i banchetti. A sua volta, Ateneo si rifaceva a uno scrittore precedente, Apollodoro di Artemita (I sec. a.C.). Il passo in questione è il seguente: "Apollodoro, nel quarto libro della storia del regno dei Parti, parla di un fiore chiamato philadelphum, che cresce nella terra dei persiani, e lo descrive così: «Ci sono molti tipi di mirto, il milax e quello che viene chiamato filadelfo, che ha ricevuto un nome che corrisponde alle sue caratteristiche naturali; perché quando i suoi rami, che si trovano distanti l'uno dall'altro, si mescolano insieme, si fondono in un abbraccio vigoroso e diventano uniti come se fossero sorti dalla stessa radice, e crescendo producono nuovi germogli; perciò, quando hanno rami ancora sottili, vengono piantati tutto attorni ai giardini intrecciandoli come una rete, e in tal modo queste piante creano una siepe impenetrabile»". In greco, infatti, philadelphos significa "amico fraterno" oppure "amico del fratello". Il filadelfo di Ateneo è davvero la pianta portata dall'Oriente dall'ambasciatore imperiale? Evidentemente no: non è un specie di mirto e non ha le caratteristiche descritte; probabilmente Bauhin si è lasciato suggestionare dalla citazione dotta e soprattutto dalla supposta origine persiana (anche se probabilmente, proprio come il lillà, nei giardini ottomani il filadelfo arrivò piuttosto dalla penisola balcanica). In ogni caso, la denominazione da lui proposta inizialmente venne ignorata: sia Gerard in Inghilterra sia Tournefort in Francia sia Vallisneri in Italia continuano a chiamare entrambe le piante Syringa. Finché arriviamo a Linneo, che in Hortus cliffortianus (confermerà poi questi nomi in Species plantarum), riprende la proposta di Bauhin denominando Syringa vulgaris il lillà e Philadelphus coronarius (filadelfo usato per fare corone, evidente allusione al passo di Ateneo) il nostro filadelfo. Sgombrato il terreno da un equivoco, ne crea subito un altro: sia che non abbia letto il testo di Ateneo (citandolo di seconda mano attraverso Bauhin) sia che sia stato suggestionato da altri passi dell'opera, in cui lo scrittore greco parla in termini elogiativi di questo sovrano, Linneo è convinto che il nome sia un omaggio a Tolomeo II Filadelfo, secondo re della dinastia Lagide. Un grande protettore delle arti e delle scienze Grazie alla svista di Linneo, per vie traverse anche questo illustre personaggio si aggiunge alla nostra lista dei dedicatari dei generi botanici, e, tutto sommato, in modo non del tutto immeritato. Tolomeo II (il soprannome Filadelfo si deve al matrimonio con la sorella Arsinoe II, secondo il costume degli antichi faraoni, ma soprattutto come operazione politico-propagandistica che assimilava la coppia regale ai fratelli-sposi divini Zeus e Era oppure Osiride e Iside) è ricordato non tanto per le innumerevoli guerre in cui fu impegnato ma come fondatore delle due più importanti istituzioni culturali dell'antichità, la Biblioteca e il Museo di Alessandria d'Egitto. Da tutto il mondo greco, per sua volontà vi affluirono poeti e studiosi, che formarono il cosiddetto "sinodo", un gruppo di 30-50 intellettuali da lui stipendiati perché portassero avanti i loro studi in campo letterario e scientifico. Oltre a letterati celebri come Callimaco, Teocrito o Apollonio Rodio o opere di grande importanza culturale, come l'edizione critica delle opere di Omero, la traduzione in greco della Bibbia (la cosiddetta Bibbia dei Settanta) o la storia dell'Egitto commissionata a Manetone, nei laboratori annessi al museo fervevano le ricerche matematiche, astronomiche, mediche, con importanti scoperte nei campi dell'anatomia, della fisiologia e della medicina. Tra gli scienziati che lavorarono al Museo durante il suo regno, ricordiamo in particolare il medico Erofilo, considerato il fondatore della medicina sperimentale. Presso il Museo c'era anche un serraglio dove il re collezionava animali esotici (proprio Ateneo descrive una processione in onore di Dioniso voluta da Tolomeo II nel 270 a.C., in cui sfilarono 24 carri trainati da elefanti e coppie di leoni, leopardi, pantere, cammelli, antilopi, onagri, struzzi, un orso, una giraffa e un rinoceronte). Sempre secondo la testimonianza di Ateneo, i cortili e i portici del Museo erano inoltre abbelliti da piante rare giunte da tutto il bacino del Mediterraneo, ma anche dalla lontana India, che prosperavano grazie al mite clima egizio. Altri scrittori antichi ricordano che il sovrano cercò di migliorare le rese agricole introducendo nuove varietà di sementi (tra cui una varietà siriana di grano, che fu però rifiutata dai contadini egizi). Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Una cascata di fiori bianchi a profusione Il genere Philadelphus, della famiglia Hydrangeaceae, comprende una sessantina di specie di arbusti, nativi dell'Europa sudorientale, dell'Asia e dell'America settentrionale e centrale. Dopo il suo arrivo grazie a Ghislain de Busbecq, per circa 200 anni P. coronarius fu l'unica specie conosciuta e coltivata in Europa. Quando Linneo la descrisse in Species Plantarum (1753), dall'America era da poco giunta una seconda specie non profumata che il botanico svedese battezzò per l'appunto P. inodorus. A scoprirlo (e a disegnarlo) lungo le rive del fiume Savannah intorno al 1720 era stato Mark Catesby. Si diffuse soprattutto nei giardini statunitensi (in Europa si continuava a preferire il fratello profumato); ad esempio, nel 1792 George Washington ne ordinò parecchi esemplari a Bartram. Un'altra splendida specie nordamericana, P. lewisii, fu invece raccolta per la prima volta da M. Lewis nel 1806, nel corso della sua famosa spedizione con Clark. L'esplorazione della flora cinese permise di arricchire la scelta con altre specie, come P. delavayi, scoperta nel 1887 nella Cina meridionale dal missionario e botanico padre Pierre Delavay. Ma soprattutto, a rivoluzionare la presenza del bell'arbusto nei nostri giardini, furono i vivaisti. A farne una specialità, inizialmente esclusiva, fu il francese Victor Lemoine, che nel 1884 creò P. x lemoinei, incrociando P. microphyllus (una specie messicana, particolarmente resistente alla siccità) con P. coronarius. Fu l'inizio di un prolifico e fortunato lavoro di ibridazioni, che nell'arco di quarant'anni portò i vivai Lemoine a creare non meno di 30 ibridi, incrociando P. x lemoinei con altre specie ancora, soprattutto americane. Molto di moda ai tempi delle nostre nonne, quando era immancabile in ogni giardino, il filadelfo oggi è forse considerato un po' troppo visto, un po' troppo banale. Eppure la bellezza e la generosità delle fioriture rimangono intatte; per variare e introdurre un po' di novità, basterebbe affiancare al solito P. coronarius qualcuna delle altre specie, oppure scegliere tra le innumerevoli varietà orticole che rivaleggiano per profusione di fioriture, candore, profumo e sfoggiano nomi evocativi come "Mont Blanc", "Boule de Neige", "Innocence", "Virginal"... Per chi vuole qualcosa di speciale, ci sono persino varietà a foglie variegate oppure con fiori toccati di porpora (un po' meno angelici, ma davvero affascinanti). Qualche informazione in più su alcune specie selezionate e sulla storia degli ibridi nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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