Forse nel vostro giardino coltivate la bella e robusta Euphorbia characias subsp. wulfenii, oppure, se amate le piante alpine, conoscete Primula wulfeniana o Androsace wulfeniana, o addirittura la rara e bellissima Wulfenia carinthiaca. Tutte ricordano il sacerdote austriaco Franz Xaver von Wulfen, ex gesuita di santa vita, che nella seconda metà del Settecento fu tra i pionieri dello studio delle piante alpine, che andava a cercare nel loro ambiente naturale, tra malghe e crode; nella sua lunga carriera di naturalista delle grandi cime, fece più di 60 scalate, scalando tra gli altri il Grintovec in Slovenia, la Croda Rossa di Braies nelle Dolomiti, l'Eisenhut e lo Schleinitz nelle Alpi austriache. Ultra settantenne, partecipò addirittura all'epica sfida che portò alla conquista del Grossglockner, la cima maggiore dell'Austria, anche se non fu tra quelli che raggiunsero la vetta. A ricordarlo non può che essere una pianta che egli stesso raccolse sulle sue montagne, appunto Wulfenia carinthiaca, specie tipo di un genere che non cessa di intrigare i botanici per la sua curiosa distribuzione disgiunta. Su montagne ancora più alte e lontane ci porta il secondo genere che lo celebra indirettamente, Wulfeniopsis. Entrambi appartengono alla famiglia Plantaginaceae. Sacerdote e scienziato A Klagenfurt, la capitale della Carinzia, in una piazza affacciata su un giardino, sorge un modesto monumento, un cippo piramidale su base quadrata sormontato da una sfera; su una delle facce, la scritta: "Franz X. barone von Wulfen, ugualmente grande come sacerdote, studioso ed essere umano 1728-1805". Eretto inizialmente come cippo funerario, il monumento riflette la gratitudine e l'affetto dei cittadini di Klagenfurt per questo gesuita che visse nella città carinziana per quarant'anni distinguendosi per il suo spirito di carità. Ripercorriamone la vita, soffermandoci per ora sulla sua figura di sacerdote. Wulfen nacque a Belgrado, dove il padre, un militare tedesco al servizio dell'impero, era di stanza in quegli anni; la madre era invece una nobildonna ungherese. Secondogenito, dopo aver completato gli studi presso il liceo classico di Kaschau (oggi Košice, Slovacchia), a diciassette anni entrò nella compagnia di Gesù; seguì i due anni di noviziato a Vienna e completò gli studi umanistici a Györ (attuale Ungheria). Gli studi superiori lo riportarono a Vienna, dove studiò per tre anni filosofia e per due matematica superiore; quindi lo troviamo a Graz dove studiò teologia per quattro anni e completò i primi due anni di prova. Il terzo e ultimo lo trascorse a Banska Bystrica (nell'odierna Slovacchia) dove pronunciò i voti solenni nel 1763. Intanto aveva incominciato ad insegnare nei collegi gesuitici di diverse città: grammatica (ovvero le materie umanistiche dei primi tre anni del ginnasio) nel 1755 al Collegio di Gorizia e nel 1756 al Theresianum di Vienna; matematica nuovamente a Gorizia nel 1761; logica e metafisica a Lubiana nel 1762 e fisica newtoniana sempre a Lubiana nel 1763. Infine nel 1764 fu trasferito a Klagenfurt, dove insegnò dapprima matematica poi tutte le materie degli studi filosofici (studia superiora) fino alla fine del 1768. Nel 1769 lasciò l'insegnamento per dedicarsi esclusivamente alla cura pastorale. Dal 1769 al 1773 fu confessore e catechista presso le Suore Orsoline. La sua più profonda aspirazione era essere inviato come missionario in Cina o nelle Indie, ma nel 1773 lo scioglimento della Compagnia dei Gesù mise fine a questa speranza. Gli fu assegnata una piccola pensione e un alloggio in una casa sulla Burggasse; disponeva così di un modesto reddito che devolveva in gran parte ai poveri, così come dedicava molto del suo tempo all'assistenza spirituale dei poveri, dei malati e di chiunque cercasse in lui consolazione e consiglio. Non c'è da stupirsi se alla sua morte fu salutato dai concittadini d'adozione come santo. Ma era anche uno stimato scienziato, membro di numerose società scientifiche e corrispondente di naturalisti di fama, compreso lo stesso Linneo. Su questo secondo aspetto della sua personalità ci illumina la lapide posta sulla casa della Burggasse: "In questa casa visse e studiò fino alla fine della sua vita Franz Xavier v. Wulfen 1728-1805. Prendono il nome da lui la wulfenia e la wulfenite". La wulfenite è un minerale (molibdato di piombo), la wulfenia una rara pianta montana (Wulfenia carinthiaca); è il simbolo vegetale della Carinzia ed è ritratta nella parte bassa della lapide. Entrambi sono strettamente collegati all'attività scientifica di questo sacerdote-naturalista. Alla scoperta della flora alpina Coltissimo, versato tanto nelle scienze umane quanto nelle matematiche, poliglotta che parlava e scriveva in quattro lingue (latino, tedesco, francese e italiano), come naturalista Wulfen era autodidatta; scoprì le scienze naturali, e in particolare la botanica, quando era novizio a Vienna, grazie a un amico medico Cominciò a tenere un erbario e ad esplorare le campagne in cerca di piante; come raccontò più tardi, per molto tempo il suo unico manuale fu Systema naturae di Linneo. Il primo terreno di ricerca furono ovviamente i dintorni di Vienna. Poi i continui spostamenti imposti dalla Compagnia di Gesù gli permisero di esplorare molte parti del variegato territorio asburgico, a cominciare dai paesaggi carsici dei dintorni di Gorizia, dove incominciò ad interessarsi anche di insetti e altri animali. Nel 1754 con un amico fece un viaggio a Venezia ed esplorò il Lido e Caorle. A Gratz ritrovò un amico d'infanzia, Leopold Biwald, che era entrato nella Compagnia qualche anno dopo di lui; gli diede lezioni di botanica e insieme batterono assiduamente le campagne. Forse durante il secondo soggiorno a Gorizia entrò in contatto con Scopoli, cui inviò esemplari sia per Entomologia Carniolica (1763) sia per la seconda edizione di Flora Carniolica (1772), in cui compaiono una sessantina di specie da lui raccolte; Scopoli così lo loda: "Grandissimi per la nostra flora sono i meriti del padre Francesco Saverio Wulfen della Compagnia di Gesù che benevolmente mi ha comunicato molte piante raccolte con indefessa industria nei dintorni di Gorizia". La passione per le ricerche naturalistiche si rinvigorì nei due anni trascorsi a Lubiana. Wulfen strinse amicizia con un confratello, padre Janez Jožef Erberg, anch'egli appassionato di botanica, che gli fece conoscere i dintorni della città; poiché nel mese di luglio le lezioni erano sospese e i professori erano in vacanza, Wulfen ne approfittò per esplorare i monti della Carniola; nacque probabilmente in questo periodo un'altra delle sue grandi passioni: l'alpinismo. Fu sul monte Nevoso nei pressi di Trieste e scalò il Grintovec, la cima maggiore della Carniola. Trasmise la sua passione per la montagna e la natura a uno dei suoi allievi, Sigmund Ernst von Hohenwart (1745-1825), che fu suo compagno in alcune escursioni nelle Alpi di Kamnik e della Savinja, grazie alle quali incominciò a interessarsi anche di mineralogia. Situata sul lago Wörthersee tra verdi colline, in una zona ricca di stazioni termali, al centro di uno splendido scenario alpino, benché periferica e lontana dalle grandi biblioteche, Klagenfurt si offrì a Wulfen come un perfetto terreno di studio; presto si propose di scrivere una Flora norica, progetto a cui si sarebbe assiduamente dedicato fino alla fine dei suoi giorni. A tale scopo esplorò a fondo non solo i dintorni della città, ma gran parte delle valli e delle catene montuose della Carinzia, estendendo le sue raccolte alle crittogame e ai licheni, che egli classificava tra le alghe e che divennero il suo soggetto preferito. D'estate non perdeva occasione per percorrere le montagne per cercare minerali e piante alpine; durante i 40 anni in cui visse a Klagenfurt, fece più di sessanta scalate (ma su questo aspetto torneremo più avanti). Anche se finora non aveva pubblicato nulla, il suo nome incominciava ad essere conosciuto. Nel 1772 iniziò a collaborare con von Jacquin per Florae austriacae [...] icones; la loro era una tipica relazione patrono-cliente: grazie a corrieri, amici comuni, viaggiatori, commercianti, librai, da Klagenfurt partivano per Vienna esemplari d'erbario, semi, piante alpine vive e descrizioni, mentre da Vienna arrivavano libri e pubblicazioni difficili da reperire nella periferica Klagenfurt, nonché contatti con altri studiosi, come il padre della briologia Johannes Hedwig, che in quegli anni stava lavorando al suo trattato sui muschi. Jacquin utilizzò materiali comunicati da Wulfen sia per il quinto volume di Florae austriacae icones sia per Icones plantarum rariorum; inoltre pubblicò la prima opera a stampa di Wulfen, Plantae rariores carinthiacae, in sei puntate: nel primo e nel secondo volume della sua Miscellanea austriaca ad botanicam, chemiam et historiam naturalem spectantia (rispettivamente 1778 e 1781); nei primi quattro volumi di Collectanea ad botanicam, chemiam et historiam naturalem (1786, 1788, 1789, 1790). Le specie più nuove ed interessanti erano anche corredate di immagini di eccellente qualità, eseguite dal valente pittore Joseph Menning e pagate di tasca propria da Wulfen; di particolare importanza storica le descrizioni e le immagini dei licheni, che per le prima volta ricevevano un'attenzione privilegiata. Le 364 specie di piante, funghi e licheni descritte in Plantae rariores carinthiacae erano il frutto di diversi viaggi nelle montagne della Carinzia e del Tirolo che Wulfen poté intraprendere grazie al finanziamento del consigliere imperiale Franz von Mygind. corrispondente di Linneo e amico di Jacquin. Nel 1781, con la dedica da parte di Jacquin del genere Wulfenia nel secondo volume di Miscellanea austriaca, si ebbe la sua consacrazione simbolica nell'empireo della botanica, anche se, nella sua infinita modestia, il buon sacerdote si schermì, scrivendo di non essere degno di tanto onore. Eppure la collaborazione con von Jacquin lo lasciava insoddisfatto. Era uno studioso scrupolosissimo e perfezionista. Le sue descrizioni erano un capolavoro di precisione: già sul posto, per ogni specie osservata dal vivo stendeva su un foglio a parte una prima versione, che poi inseriva nel quaderno che portava sempre con sé; a casa, consultava la bibliografia botanica e ricopiava ogni nota in bella copia, corredandola di sinonimi e note d'autorità, per poi inserirla al suo posto nell'erbario, classificato secondo il sistema linneano. In tal modo le sue descrizioni risultavano allo stesso tempo precise, fedeli e vivaci. Quanto alle identificazioni, aveva spesso dubbi, e avrebbe desiderato confrontarsi alla pari con altri botanici. A von Jacquin invece premeva pubblicare, ed era molto più sbrigativo; almeno tale pareva all'ipercritico e perfezionista Wulfen. Fu questo a provocare la rottura: quando espresse le sue perplessità a Thomas Host, che, in viaggio per la Dalmazia, gli aveva fatto visita nella sua casa di Klagenfurt, questi le prese come una critica personale e le riferì a von Jacquin; da quel momento ogni collaborazione si interruppe. Ma Wulfen nel frattempo aveva trovato altri mecenati. Come membro della Società di agricoltura di Klagenfurt, aveva stretto amicizia con l'imprenditore Johann (Jan) von Thys, di origine olandese, che aveva fondato una manifattura di tessuti a Klagenfurt ed era uno degli animatori della modernizzazione agricola della Carinzia; Thys e dopo la sua morte il figlio Rainer Franz finanziarono alcune spedizioni di Wulfen, che nel 1781 accompagnò Thys figlio in un memorabile viaggio in Olanda, nel corso del quale visitò tra l'altro gli orti botanici di Leida e Amsterdam e ne incontrò i prefetti David van Royen e Nicolaas Laurens Burman; la moglie di quest'ultimo gli donò una collezione di insetti sudafricani, che egli tre anni dopo pubblicò a Erlangen sotto il titolo Descriptiones Quorumdam Capensium Insectorum. Durante il viaggio, si era fermato a Erlangen per incontrare di persona Johann Christian von Schreber, con il quale già corrispondeva grazie a un altro naturalista ex gesuita, Franz von Paula Schrank. Allievo di Linneo e traduttore delle opere linneane in tedesco, professore di materia medica e direttore dell'orto botanico di Erlangen, dal 1791 presidente dell'Accademia leopoldina, Schreber, oltre che uno dei più importanti zoologi del suo tempo, era una figura di primo piano del mondo accademico tedesco; anche grazie alla sua amicizia, Wulfen fu via via ammesso a molte società scientifiche (oltre alla stessa Leopoldina, quelle di Erlangen, Jena, Berlino, Göttingen, nonché l'Accademia delle scienze di Stoccolma). Inoltre Schreber sostituì von Jacquin come curatore editoriale di Wulfen, che a partire dal 1786 pubblicò tutte le sue opere a Erlangen. In precedenza, fu ancora pubblicata a Vienna Abhandlung vom Kärntner Bleispate (1785), una monografia sui minerali di piombo di Bleiburg in Carinzia, magnificamente illustrata da Joseph Menning; tra di essi il minerale originariamente battezzato da Ignaz von Born che lo descrisse per primo nel 1772 plumbum spatosum flavo-rubrum, poi denominato da von Jacquin Kärntherischer bleispath, "spato di piombo di Carinzia"; nel 1845 venne infine ribattezzato wulfenite in onore del nostro. Oltre a Descriptiones Quorumdam Capensium Insectorum (1786), le opere uscite a Erlangen sono Plantae rariores descriptae (1803) e Cryptogama aquatica (1803). Di particolare interesse l'ultima, dedicata ad alghe e piante acquatiche, con la descrizione di oltre settanta specie; anch'essa fu resa possibile dal mecenatismo di Thys, che gli procurò un'amichevole accoglienza presso la filiale triestina della sua ditta; nel corso di due lunghi soggiorni, Wulfen poté così esplorare la fauna e la flora della costa adriatica, visitando anche l'Istria e le isole di Veglia, Cherso e Arbe. Gli si deve tra l'altro la prima descrizione di Ulva stellata, Fucus musciformis, Fucus filamentosus e Fucus simplex. Scalate e piante alpine A Klangefurt, Wulfen riunì attorno a sé un piccolo circolo di più giovani studiosi, molti dei quali ecclesiastici, cui trasmise la sua passione per le scienze naturali e la montagna. Tra di loro spicca l'antico allievo di Lubiana Sigismund Ernst von Hohenwart (1745-1825), che dal 1787 era vicario generale del principe-vescovo di Klangenfurt. Come il suo maestro era un grande appassionato di montagna e lo accompagnò in diversi viaggi ed escursioni. Insieme al barone Joseph von Seenus (che nel 1805 avrebbe pubblicato il resoconto di un viaggio botanico in Istria e Dalmazia), fu compagno di Wulfen in un secondo viaggio a Venezia; sulla via del ritorno visitarono varie località del Friuli e a Tolmezzo non mancarono di scalare La Mariana (Monte Amariana, 1906 s.l.m). In compagnia di un terzo ecclesiastico, il domenicano Ignaz von Eisentratten, scalarono l'Eisenhut (2441 m), la cima maggiore delle Alpi della Gurtal, e nel 1790 lo Schleinitz (2904 m) nel Gruppo dello Schober. Nel 1791, quando il botanico dilettante Carl von Zois venne apposta da Lubiana per incontrare Wulfen, venne organizzata per lui una grande escursione attraverso le catene della Carinzia superiore e del Tirolo, alla quale partecipò, oltre a Wulfen e Hohenwart, anche il goriziano Joseph Reiner, archivista e cappellano di corte prima a Gorizia poi a Klangenfurt. L'anno dopo Reiner e Hohenwarth raccontarono l'impresa in Botanische Reisen nach einigen Oberkärntnerischen und benachbarten Alpen unternommen [...], che contribuì grandemente a diffondere l'interesse per le montagne e l'alpinismo. Le testimonianze del tempo descrivono Wulfen come un uomo di alta statura, eretto anche in tarda età, forte ed agile, capace di camminare per mezza giornata senza stancarsi alla ricerca di una pianta rara e di lasciare indietro guide ed accompagnatori più giovani. Quando aveva superato la sessantina, tra il 1791 e il 1794, di passaggio da uno dei suoi viaggia a Trieste, esplorò le Dolomiti di Braies. scalando il Monte Lungo, il Picco di Vallandro e addirittura la Croda Rossa, la cima maggiore con i suoi 3.148 m. Vista la sua età, c'è chi ha messo in dubbio questa impresa; ma aveva più settant'anni quando prese parte alla più celebre impresa alpinistica austriaca dell'epoca, la conquista del Grossglockner, la cima maggiore dell'Austria (3718 metri). La spedizione fu organizzata dal principe-vescovo della Carinzia Xaver von Salm-Reifferscheidt-Krautheim, sull'onda della prima ascensione del monte Bianco del 1786. Wulfen e Hohenwart conoscevano benissimo la catena del Grossglockner, frequente terreno delle loro esplorazioni botaniche, ne furono gli ispiratori e nel 1795 furono incaricati di una prima ricognizione; nel 1798 l'area fu ispezionata dall'arcivescovo in persona, che non badò a spese per la spedizione dell'anno successivo. Furono ingaggiati due montanari (le relazioni li ricordano come "i Glokner" e ci sono incertezze sui loro nomi esatti), che predisposero sentieri e all'altezza di 2620 m costruirono un rifugio, chiamato Salmhütte in onore del principe-vescovo, sufficientemente grande da ospitare i 30 membri della spedizione, tra cui Wulfen e Hohenwart. Il 23 luglio 1799 le due guide giunsero poco sotto la vetta del Kleinglochner, ma il maltempo rallentò a lungo la spedizione dei "signori"; solo il 24 agosto Hohenwart e quattro guide riuscirono a raggiungere il Kleinglochner, una cima un poco più bassa divisa dalla vetta principale da una forcella molto esposta, ma dovettero rinunciare a scalare la cima maggiore. Si diffuse però la voce che l'impresa fosse riuscita, e che i cinque avessero addirittura eretto una croce sulla cima, avvalorata da una medaglia commemorativa fatta coniare dal vescovo, con il suo ritratto sul recto, e il profilo del Grossglockner sul verso, con la croce sulla cima e la data dell'ascesa 25 agosto 1799. In realtà fin da settembre fu pianificata una seconda spedizione per l'estate successiva. Era ancora più imponente della precedente, con ben 62 partecipanti, tra i quali di nuovo Hohenwart, Wulfen, il botanico David Heinrich Hoppe, il geologo Ulrich Schiegg e il suo allievo Valentin Stanič . Fu costruito un secondo rifugio più in alto del precedente sull'Adlesruhe (3454 m). La spedizione si servì di scale, corde e rudimentali ramponi e fu guidata dai quattro montanari che avevano già partecipato alla spedizione precedente. Furono proprio loro a raggiungere la cima maggiore il 28 luglio, mentre Hoppe, Hohenwart e il parroco Orrasch li attendevano sulla cima del Kleinglocker; quindi, ridiscesero e raggiunsero nuovamente la vetta insieme a un altro parroco, Mathias Hautzendorfer, l'unico dei primi scalatori di cui conosciamo con esattezza il nome. Il giorno successivo anche Schiegg e Stanič raggiunsero la vetta; fecero misurazioni della pressione barometrica dell'aria e misurarono l'altezza della cima, mentre le guide vi fissavano una croce. Nel 1802 e nel 1806 il vescovo finanziò altre due spedizioni; in quella del 1802, finalmente anche Hohenwart raggiunse la vetta principale. Invece, sia nel 1799 sia nel 1800, l'ormai anziano Wulfen dovette accontentarsi di assistere alla scalata insieme all'arcivescovo dal rifugio dell'Adlesruhe. Erano anni tempestosi e stupisce che il principe-vescovo avesse profuso tanto impegno (e tanto denaro) in questa impresa alpinistica e scientifica. Nel 1797 Klagenfurt era stata occupata dai francesi, che rubarono gran parte delle raccolte di Wulfen. Nonostante questo il vecchio sacerdote continuava a lavorare alla sua Flora norica, un work in progress che nel suo maniacale perfezionismo non gli pareva mai pronta per la pubblicazione, per la quale del resto gli mancavano i soldi. Rimase sano e attivo fino alla fine, quando una polmonite lo stroncò nell'arco di tre giorni nell'aprile 1805. Contava che avrebbe provveduto alla pubblicazione Schreber, al quale lasciò il manoscritto ormai completato, con le illustrazioni relative e esemplari d'erbario. Il resto delle collezioni passò invece a Hohenwart, che nel 1809 sarebbe diventato arcivescovo di Linz. Purtroppo Schreber non poté esaudire l'ultima volontà di Wulfen, sia per la situazione di guerra sia perché morì egli stesso pochi anni dopo, nel 1810. Così Flora norica rimase inedita fino al 1858, quando la Società botanico-zoologica di Vienna decise di finanziarne la pubblicazione, affidandola a Eduard Fenzl, professore di botanica dell'Università di Vienna, con l'assistenza di Rainer Graf, spiritualmente vicino a Wulfen come sacerdote originario di Lubiana; l'opera contiene anche una delle prime biografie di Wulfen. In mezzo secolo gli studi sulla flora austriaca avevano fatto molti progressi e l'opera conservava un valore quasi solo storico; in particolare, Fenzl e Graf considerarono obsoleta la parte dedicata alle crittogame e limitarono la pubblicazione alle angiosperme, sotto il titolo Flora Norica Phanerogama; benché tardiva, con le sue vivide descrizioni di 717 specie dell'Austria e delle Alpi orientali rimane una pietra miliare per la conoscenza soprattutto della flora alpina. Wulfenia, Wulfeniopsis e altre rarità montane A Wulfen si deve la prima pubblicazione di circa 120 taxa di vegetali. Tra di essi spiccano ovviamente molte piante alpine: Campanula zoysii (oggi Favratia zoysii), endemica dei monti della Carinzia e della Slovenia e dedicata al discepolo "a distanza" Karl von Zois che ne fu il primo raccoglitore; Primula glutinosa, un endemismo delle Alpi orientali presente anche in Italia tra Lombardia e Trentino; Saxifraga moschata, diffusa invece dai Pirenei al Caucaso; Androsace chamaejasme, presente oltre che sui monti europei, nella catena dell'Atlante in Marocco; la genzianella nana Gentiana nana (oggi Comastoma nanum), una specie di alta quota delle Alpi orientali. Lo ricordano nell'eponimo specie endemiche delle Alpi orientali di cui fu il primo raccoglitore: Primula wulfeniana, Alyssum wulfenianum, Sempervivum wulfenii, Androsace wulfeniana. E' invece originaria dei litorali mediterranei Euphorbia characias subsp. wulfenii, oggi molto coltivata nei giardini e ampiamente naturalizzata. Torniamo in montagna con Wulfenia carinthiaca, la specie tipo del genere Wulfenia (Plantaginaceae), scoperta da Wulfen nel luglio 1779 alla malga Kuehweger (1625 m.) sulle pendici del Gartnerkofel nelle alpi Carniche; von Jacquin gliela dedicò con queste parole: "Ho nominato questa bellissima pianta dal suo scopritore, uomo di grande merito botanico, cui dobbiamo tante belle e rarissime piante della Carinzia". Oltre che bellissima (speciosa, scrive von Jacquin) è anch'essa assai rara, come tutte le consorelle del genere Wulfenia, caratterizzato da una singolare distribuzione disgiunta in tre aree non contigue: le Alpi Carniche tra Austria e Italia, le Alpi Dinariche in Albania, i monti Nur nella Turchia meridionale. La stessa W. carinthiaca ha distribuzione disgiunta: nelle Alpi Carniche è presente in una ristretta area di appena 10 km² attorno al Passo Pramollo-Nassfeld Pass sia sul versante italiano sia su quello austriaco; più ampie le popolazioni dinariche, a cavallo tra Albania, Montenegro e Kosovo. Ha foglie a rosetta obovate, crenate e carnose dalle quali a metà estate, per pochi giorni, emergono alti racemi fitti di fiori campanulati blu-viola. Cresce su pietraie umide, nel sottobosco degli ontaneti e delle pinete di Pinus mugo (Alpi Carniche) e Pinus peuce (Alpi Dinariche) o nei pascoli ricchi di azoto nei pressi delle malghe appena al di sopra del limite degli alberi. W. baldaccii, simile alla specie precedente, ma di dimensioni minori, fu segnalata per la prima volta negli anni '30 del Novecento dal botanico italiano Antonio Baldacci. E' un endemismo dei Monti Prokletje nell'Albania settentrionale, dove cresce nelle fessure tra le rocce nei boschi di betulla o ai margini di essi. Le altre due specie, W. glanduligera e W. orientalis, crescono su monti più bassi e mesofili della Turchia sud-orientale, entrambe nelle fessure delle rocce, la prima nei boschi di Fagus orientalis, la seconda nelle foreste sempreverdi submediterranee. In passato erano assegnate al genere Wulfenia anche due specie himalayane. La distribuzione fortemente discontinua tra Mediterraneo e Himalaya, benché non unica, è piuttosto rara e negli anni '80 del Novecento ha spinto gli studiosi ad approfondire la questione. Paragonando esemplari di tutte le specie e i loro pollini, essi sono giunti alla conclusioni che le differenze sono tali da far assegnare quelle himalayane a un genere proprio, che è stato denominato Wulfeniopsis (simile a Wulfenia); si distingue da Wulfenia per il numero dei cromosomi, le caratteristiche del polline e i racemi molto più radi, con i fiori portati da un solo lato dell'asse, con corolla non bilabiata con quattro lobi anziché cinque. Gli sono assegnate due specie, W. amherstiana (Himalaya occidentale, dal Pakistan al Nepal centrale, da 1500 a 3000 metri di altitudine) e W. nepalensis (talvolta considerata una varietà della precedente, endemica del Nepal, tra 1500 e 2700 m). Dunque, di nuovo piante di alta montagna che non sarebbero spiaciute a padre Wulfen.
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Nel 1787, Ramond de Carbonnères, che all'epoca è il segretario del cardinale di Rohan, capita un po' per caso nei Pirenei. Da quel momento lo scopo della sua vita sarà scoprire i segreti della formazione geologica della catena, che all'epoca costituiva un enigma; per svelarli, ne esplora per decenni la sezione centrale, con un'ossessione: riuscire a scalare quella che al tempo se ne riteneva la massima cima, il Monte Perdido o Mont Perdu. Vero padre della scoperta scientifica dei Pirenei, Ramond era anche un appassionato botanico e uno specialista della flora di alta montagna. La dedica del bel genere Ramonda, che annovera un endemismo dei Pirenei e due specie balcaniche, è assolutamente perfetta. Da poeta a scienziato: un percorso di vita Nella primavera del 1787, quando per la prima volta arriva nei Pirenei, Louis Ramond (1755–1827) non sa ancora che quelle montagne diventeranno la sua passione, anzi la sua ossessione. Ha poco più di trent'anni, ma è come se avesse già vissuto almeno due vite. Nato a Strasburgo, una città-frontiera, è diviso tra due culture anche nell'identità personale, figlio com'è di un padre francese della Linguadoca e di una madre alsaziana di origine tedesca. Dunque, nulla di strano che sia tra i primi a scoprire il preromanticismo tedesco dello Sturm und Drang. Ha appena diciannove anni quando esce I dolori del giovane Werther di Goethe; la lettura di quel romanzo generazionale è una tale folgorazione che decide di diventare a sua volta scrittore e nel 1777 (ora ha ventidue anni) pubblica a sua volta Les Dernières aventures du jeune d'Olban, che, come il suo modello goethiano, si conclude con un colpo di pistola. Come Werther, anche Louis (che quell'anno si è anche laureato in legge) ha vissuto un amore impossibile, ma lascia che a suicidarsi per lui sia il suo eroe, e per consolarsi parte per la Svizzera; è alla ricerca di paesaggi che nutrano la sua ispirazione poetica e, come scrive in una lettera al padre, si mette in viaggio per "osservare e non per arrivare"; ci sono incontri con personalità importanti, come il patriarca dei naturalisti Albrecht von Haller, il biologo Charles Bonnet e il fondatore della fisiognomica Lavater, ma c'è soprattutto la scoperta delle alte montagne: scala diverse cime del Bernese, poi si sposta al San Gottardo e va all'esplorazione delle Alpi ticinesi. Poi, per tre anni, è soprattutto uno scrittore. Pubblica una raccolta di poesie, poi si trasferisce nella capitale dove dà alle stampe un dramma romantico e la traduzione di Sketches of Swisserland di William Coxe (Lettres de M. William Coxe à M. W. Melmoth sur l'état politique, civil et naturel de la Suisse), che infarcisce di note e osservazioni tratte dal suo viaggio svizzero al punto da irritare l'autore. Il successo letterario a cui aspira non arriva: ci vorranno anni perché il gusto romantico conquisti Parigi; per i milieu letterari, Ramond è uno scrittore appena mediocre, più tedesco che francese. Ma la contestata traduzione ha un merito: attira l'attenzione del vescovo di Strasburgo, il cardinale di Rohan, che nel 1781 lo assume come segretario; per sette anni ne sarà il più ascoltato consigliere e gli sarà fedelissimo; sbriga i suoi affari, organizza le sue feste, lo accompagna in tutti i viaggi, viaggia per suo conto quando il cardinale preferisce rimanere nella prediletta residenza di campagna di Saverne, ai piedi dei Vosgi. Alla colorita corte del cardinale, conosce Cagliostro, che lo inizia alla massoneria e ne fa il suo discepolo nelle sedute di magia e ipnosi. Per adeguarsi al nuovo ambiente, cambia anche nome: ora si fa chiamare Louis Ramond de Carbonnières, pretendendo che si tratti di un vecchio nome che da tre secoli distingue un ramo della sua famiglia . Quando il cardinale viene arrestato in seguito all'affare della collana, Ramond- uno dei pochi del suo entourage rimasto a piede libero - si incarica di far sparire le lettere compromettenti; poi va in Inghilterra a cercare le prove che la collana è stata venduta dai truffatori e il cardinale è stato ingannato; anche grazie ad esse, Rohan viene assolto, ma il re lo manda in esilio all'abbazia di Chaise-Dieu in Alvernia. Ramond è con lui e approfitta di quella che per il suo padrone è una orribile seccatura per immergersi nella natura e dedicarsi alle passeggiate botaniche. Quando arriva l'inverno, il cardinale e il suo seguito sono autorizzati a trasferirsi a Marmoutier, in Touraine. Poi, gli viene permesso di viaggiare per "passare le acque"; così nella primavera del 1787, sua Eminenza lo manda in avanscoperta nei Pirenei. La scelta cade su Barèges, un villaggio a circa 1200 metri d'altitudine, annidato nelle montagne, lungo la strada che conduce al Col Tourmalet, ai piedi del Pic du Midi; all'epoca reputata per le sue acque solforose, è la stazione termale più elevata dei Pirenei. La comitiva del cardinale vi arriva alla fine di luglio, e già il 2 agosto Ramond scala per la prima volta il Pic de Midi: ai suoi occhi si mostra una gran parte dei Pirenei centrali, fino alla vetta culminante, il Monte Perdido/ Mont Perdu. Diverse escursioni seguiranno nei giorni successivi; la maggiore, dal 16 al 24 agosto, lo porta a percorrere ben 250 km e un dislivello di 13 km, da Barèges al ghiacciaio della Maladeta e ritorno. Non sono solo la passione alpinistica e il gusto romantico a spingerlo a percorrere il massiccio, solo o accompagnato da pastori locali; in gioco c'è anche una disputa scientifica. L'idea dominante all'epoca, confermata dall'ascensione al Monte Bianco di Saussure, era che le montagne più alte ed antiche fossero granitiche, mentre quelle più recenti e basse calcaree; secondo Dolomieu (un uomo che destava i sistemi) la catena centrale dei Pirenei faceva eccezione, essendo calcarea. Per verificare se abbia ragione, Ramond si propone di raggiungere il centro della catena, ovvero quel Mont Perdu che ha visto come un miraggio fin dalla sua prima ascensione. Ma come arrivarci nessuno lo sa. Così, quando, venuto l'autunno, tocca ripartire, egli si rassegna a rimandare il problema alla prossima occasione, Nel dicembre 1788, lascia il servizio del cardinale e si trasferisce a Parigi, deciso a fare della scienza la sua nuova professione. Pubblica Observations faites dans les Pyrénées, pour servir de suite à des observations sur les Alpes e segue le lezioni di Antoine Laurent de Jussieu e René Desfontaines al Jardin des Plantes. Ma a imporre una momentanea battuta d'arresto è la politica: nel settembre 1791 è eletto deputato all'Assemblea legislativa; esponente di spicco dei Foglianti, è strettamente legato a La Fayette e avverso ai giacobini. Nell'estate del 1792, mentre la situazione politica precipita, Ramond si allontana prudentemente dalla capitale e torna a Barèges. L'8 agosto è di nuovo sul Pic du Midi. Durante la Convenzione, rimane nei Pirenei, fissando la sua residenza prima a Barèges poi a Gèdre; continua ad esplorare la catena, anche se le tensioni tra Francia e Spagna ostacolano i suoi movimenti. Finché nel gennaio 1794 viene arrestato come "elemento controrivoluzionario" e condotto nel carcere di Tarbes; rimarrà agli arresti per più di sette mesi, fino a novembre, rischiando anche la condanna capitale. Se ne salva grazie ad alcuni amici, tra cui l'illustre botanico Desfontaines. La difficile conquista del Mont Perdu Ora per Ramond de Carbonnières inizia una nuova vita, l'ennesima. Lasciatosi alle spalle l'ambizione politica, vuole essere solo scienziato. Così scrive a Philippe Picot de Lapeyrouse, colui che considera il suo maestro e la sua guida per la storia naturale dei Pirenei: "Non sono posseduto da alcuna ambizione [...]. Sono amico della natura e nient'altro. Non posso essere utile ai miei concittadini che sotto questa forma". Si stabilisce a Bagnères-de-Bigorre, ma Barèges, dove ora abita sua sorella che ha sposato il capo chirurgo del locale ospedale, continua ad essere il punto di partenza delle sue escursioni; arricchisce l'erbario, raccoglie campioni di rocce e fossili, disegna schizzi (è infatti anche un ottimo disegnatore), corrisponde con altri studiosi, tra cui Dominique Villars, grande esperto di flora alpina. Nel 1795, alla creazione della scuola centrale degli Alti-Pirenei a Tarbes, viene nominato professore di storia naturale, e si dedica al nuovo compito con grande serietà. Le sue lezioni entusiasmanti lo rendono presto popolare tra gli studenti, ai quali vuole trasmettere “non la scienza, ma il desiderio e il modo di apprendere”. Momento chiave di questo insegnamento sono le erborizzazioni e le escursioni in natura, anche di più giorni e anche in montagna. Non ha rinunciato al progetto di scalare il Mont Perdu; è convinto che l'unica via per raggiungere quella montagna proibita ("mai, da quando si dà un nome alle montagne, ce n'è stata una con un nome così appropriato") sia la valle d'Estaubé. Nell'estate del 1797 è pronto ad affrontare la sfida con due guide fidate e pochi allievi già esperti alpinisti, quando vede arrivare Picot de Lapeyrouse, che è venuto a Barèges a curarsi i reumatismi. Tra lui e Ramond c'è una disputa: entrambi concordano sulla natura calcarea della catena centrale dei Pirenei, ma mentre il primo pensa che non presenti tracce di fossili e dunque sia di orogenesi primitiva, il secondo ne dubita, convinto che l'ipotesi vada per lo meno verificata sul campo, e che la risposta la darà il Mont Perdu. Così l'11 agosto quello che parte da Barèges è un folto gruppo: Picot de Lapeyrouse, suo figlio Isidore, due allievi e il giardiniere della scuola centrale di Tolosa, due pastori che hanno già accompagnato Ramond in molte gite, Ramond stesso e quattro allievi della scuola centrale di Tarbes; uno di loro è Charles-François Brisseau de Mirbel, futuro padre della citologia vegetale. Da Gèdre il gruppo sale a Coumélie lungo un sentiero tortuoso; Ramond nota qui e là un fiore simile al colchico che annuncia già l'autunno. Lo ritiene un genere nuovo e lo battezza Merendera (oggi l'unico genere da lui creato non è accettato, ed è sinonimo di Colchicum); passano la notte in una grangia e Ramond ingaggia altre tre guide, due pastori di Coumélie e un cacciatore, che aveva fama di conoscere il Mont Perdu ("il fatto è che non ne sapeva niente più di noi"). All'alba del giorno successivo, procedendo lungo i pascoli, si dirigono verso la valle di Estaubé. In quel paesaggio imponente e severo, fioriscono in abbondanza i lunghi pennacchi di Saxifraga longifolia, di cui Lapeyrouse è stato il primo scopritore. Mano a mano che avanzano nella valle, il Mont Perdu sembra giocare a rimpiattino, sempre più nascosto da imponenti bastioni di roccia, fino a scomparire del tutto. Non si scoraggiano e continuano a salire, fino a giungere ai piedi del ghiacciaio mediano di Tuquerouye, dove incontrano un contrabbandiere che, finalmente, sembra saperne qualcosa, e consiglia loro di tornare indietro, ridiscendere e risalire da un'altra via; sono ore di marcia perdute, e Ramond propone ai suoi compagni una strada più diretta e audace: salire fino al ghiacciaio e attraversarlo. Il contrabbandiere approva, e presto si dilegua. Eccoli dunque risalire lungo la morena del ghiacciaio, fino a toccare la neve. La traversata è impegnativa, Lapeyrouse è sempre più in difficoltà, finché Ramond lo convince a fermarsi; lo lascia ad attenderli in compagnia della più fidata delle sue guide, mentre gli altri proseguono. Dopo un'ora di difficile marcia, ritrovano il contrabbandiere, caduto in un precipizio. Lo recuperano e lo uniscono a loro, anche se la disavventura nella quale ha perso, insieme alla piccozza, gran parte della sua sicurezza, semina la sconforto. Finché, superato il punto di massima inclinazione del ghiacciaio, la pendenza si addolcisce visibilmente e riprendono fiducia e slancio. Un grido di gioia annuncia il cambiamento di scena: la montagna, cinta da nubi, avvolta di ghiacci, separata da loro da abissi, si è degnata di mostrarsi, come "un Dio la cui presenza è sentita più che vista e che si manifesta in tutto ciò che lo circonda prima di rivelarsi". La cima è davanti a loro, ma è anche chiaramente irraggiungibile. Ramond e i suoi compagni decidono di esplorare il lago ghiacciato che si occupa una valletta ai piedi della montagna. Lo attraversano e sondano le rocce che lo circondano; dappertutto, trovano "vestigia di abitanti del mare. Sostanzialmente ostriche e una moltitudine di madrepore costituiscono la parte più appariscente di questi venerabili resti". Ormai è mezzogiorno, ed è tempo di ritornare. Pensare di trascorrere lì la notte, al freddo e senza viveri, per tentare la scalata il giorno dopo, sarebbe follia. Ramond, preoccupato per i suoi compagni, provati dalla salita, decide di scendere per la strada inizialmente indicata dal contrabbandiere, che nel frattempo si è ecclissato di nuovo. E' poco meno difficile e pericolosa. Ore dopo, più in basso, al Port de Pinède, ritrovano Lapeyrouse, che Ramond ha fatto avvertire del cambio di programma da una delle guide; gli mostra le sue scoperte che provano l'indubbia natura secondaria dell'asse dei Pirenei. Il vecchio scienziato è amareggiato e deluso e, anche se non cesseranno di corrispondere, continuerà a nutrire rancore verso il più giovane collega, cercando di sminuirne le scoperte. L'8 settembre, ancora con i suoi allievi e le due guide più fidate, Ramond ritorna al lago glaciale per tentare la scalata alla cima; devono di nuovo rinunciare, ma raccolgono altri fossili. Negli anni successivi, è impegnato in molte ascensioni lungo il massiccio, talvolta da solo, talvolta con Mirbel e altri allievi, o amici come Jean-Florimond Boudon de Saint-Amans, professore di storia naturale alla scuola centrale di Agen. Nel 1801, racconta le sue ascensioni ed espone la sua teoria generale sulla formazione dei Pirenei in Voyages au Mont-Perdu et dans la partie adjacente des Hautes-Pyrénées, un libro di grande precisione scientifica ma anche di lettura appassionante, in cui dietro lo scienziato si avverte la mano del poeta romantico. Il Mont Perdu è ancora inviolato. Lo rimane fino al 6 agosto 1802, quando le due fidate guide di Barèges, Rondo e Laurens, inviati in avanscoperta da Ramond, riescono a raggiungere la cima. Tre giorni più tardi vi guidano Ramond, che poi racconterà l'impresa in Voyage au sommet du Mont-Perdu in uno stile che Henri Beraldi ha definito "molto veni, vidi, vici". Lo stesso anno la sua fama di scienziato è consacrata dall'ammissione all'Institut de France (la vecchia Accademia delle scienze) nella classe di scienze fisiche e matematiche. Piante d'alta quota Dopo il colpo di stato di Napoleone, Ramond, molto stimato dal primo console, ha anche ripreso a fare politica. Dal 1800 al 1806 è deputato del corpo legislativo. Nei cinque mesi in cui avvengono le sedute, vive a Parigi; il resto dell'anno è ospite della sorella e del cognato a Barèges. Alle ricerche geologiche e botaniche, si sono aggiunti anche i rilievi barometrici, cui è stato iniziato dall'amico Bon-Joseph Dacier, conservatore della biblioteca imperiale. Nel 1806 Bonaparte lo nomina prefetto del Puy-de-Dome. Come funzionario, è serio ed efficiente come lo è stato come professore. Ma è ancora soprattutto uno scienziato, che fa rilievi barometrici dal balcone della prefettura, esplora i monti Dores, i monts Dômes e il massiccio del Sancy. Frutto di queste ricerche è Nivellement des Monts Dores et des Monts Dômes disposé par ordre de terrains (1815). Nel 1809 l'imperatore premia la sua fedeltà facendolo barone dell'Impero. Nel 1810, torna ancora una volta nei Pirenei e il 28 settembre scala per la 33 e ultima volta il Pic du Mid. La morte della sorella nel 1812, poi del cognato nel 1815, chiude definitivamente il capitolo Pirenei. Nel 1813 lascia la funzione di prefetto, e si stabilisce definitivamente a Parigi, con la giovane moglie, figlia dell'amico Dacier. Anche se durante i Cento giorni è nuovamente deputato, questo volta per il dipartimento di Puy-de-Dome, la Restaurazione lo lascia indenne, tanto che nel 1818 è nominato al Consiglio di Stato. Nell'estate nel 1821, torna in Alvernia e inizia alla geologia e alla botanica del massiccio centrale due giovani naturalisti parigini, Victor Jacquemont e Hippolte Jaubert. Ma è ancora dedicata ai Pirenei l'ultima memoria, Sur l’état de la végétation au sommet du Pic du Midi (1825). Muore a Parigi nel 1827. Anche se i suoi contributi più decisivi sono nel campo della geologia, Ramond è stato un appassionato botanico, fin dai tempi in cui ancora al servizio del cardinale di Rohan erborizzava a Saverne. Le narrazioni delle sue escursioni sono costellate di puntuali riferimenti alla flora; persino nei momenti più difficili, quando ciascuno di noi baderebbe più che altro a dove mette i piedi, non manca di osservare ed elencare le piante che si offrono al suo sguardo attento e innamorato. Il suo contributo principale alla botanica è ovviamente nello studio della flora di alta quota, là dove pochi erano andati ad erborizzare prima di lui. Gli si deve la scoperta di nove specie, sette delle quali endemiche dei Pirenei: Arenaria purpurascens, Asperula hirta (oggi Hexaphylla hirta), Festuca eskia, Leucanthemum maximum, Medicago suffruticosa, Scorzonera aristata, Pinguicola longifolia, scoperta durante una delle sue ascensioni al Mont Perdu. Le altre due sono Potentilla micrantha e Viola pirenaica, presenti rispettivamente nell'Europa centrale e meridionale e nelle montagne europee. Ad eccezione di Asperula hirta, pubblicata dallo stesso Ramond, furono tutte pubblicate da de Candolle, a cui egli aveva affidato le sue osservazioni e i fogli d'erbario. Ramond considerava il suo erbario l'oggetto più prezioso, il custode della memoria della sua vita: "Ora sono vecchio e mi riposo [...]. Diminuisco la mia biblioteca, e conservo solo ciò che è necessario per me e mio figlio, soprattutto il mio erbario, perché è la storia di mezzo secolo della mia vita. Adesso vivo con il mio erbario e i ricordi che lo accompagnano; al di fuori di questo, tutto mi è superfluo". Conservato in 68 sacchi di tela e donato dagli eredi alla Societé Ramond (creata nel 1866 per promuovere la scoperta naturalistica, storica, etnologica e sportiva dei Pirenei), dal 2003 è stato affidato al Conservatoire botanique nationale des Pyrénées et de Midi-Pyrénées, che ne ha curato la pubblicazione on line a questo indirizzo. Gioielli vegetali dai Pirenei e dai Balcani A celebrare il padre degli studi pirenaici non poteva che essere una pianta di quelle montagne. Nel 1805 Louis Claude Richard, nell'assegnare a un nuovo genere una pianta che Linneo aveva descritto come Verbascum myconi, la rinominò Ramonda pyrenaica, "così chiamata in memoria del celebre Ramond per i suoi meriti nell'osservazione delle piante pirenaiche". Qualche anno dopo Lapeyrouse nel suo Histoire Abrégée des Plantes des Pyrénées, forse memore dello sgarbo di Ramond, la ribattezzò Myconia borraginea. Troppo tardi. Il nome valido è quello di Richard, anche se ovviamente la specie ha recuperato il più antico eponimo linneano e oggi si chiama Ramonda myconi. E' una delle tre (o quattro) specie di questo genere della famiglia Gesneriaceae, diffusa soprattutto ai tropici, di cui, insieme a Haberlea e eventualmente Jancaea, è l'unico rappresentante europeo. Vestigio dell'epoca terziaria, quando il nostro continente godeva di un clima subtropicale, più caldo e umido, queste piante all'arrivo delle glaciazioni si sono rifugiate in enclave montane. R. myconi è stata a lungo l'unica specie conosciuta; è ristretta ai Prepirenei, ai Pirenei e alla catena costiera catalana, dove vive nelle gole calcaree e nelle valli umide di montagna. La sua scoperta risale addirittura al Cinquecento, quando venne raccolta nella montagna di Montserrat dal farmacista e botanico catalano Francisco Micó, che la comunicò a Jacques Dalechamps che a sua volta la pubblicò in Historia generalis plantarum sotto il nome Auricula ursi myconi. E' una piccola è graziosissima semoreverde rupicola, con foglie a rosetta e fiori viola che ricordano da vicino quelli della Saintpaulia. Verso la fine dell'Ottocento si aggiunsero altre due specie, scoperte in Serbia da Joseph Pančić, R. serbica e R. nathaliae. Entrambe vivono in habitat calcarei, ma hanno distribuzione diversa. R. serbica, scoperta da Pančić nel 1874 sul monte Rtanj, appartiene al bacino idrografico adriatico ed ha areale più ampio (Serbia, Albania; Montenegro, Macedonia, Grecia settentrionale, tra 200 e 1950 metri sul livello del mare); R. nathaliae, scoperta nel 1884 nella gola di Jelašnica presso Niš dallo stesso Pančić e dal medico di corte Sava Petrović, che la dedicarono alla regina di Serbia Natalija Obrenović, è ristretta alla Macedonia e ad aree adiacenti di Grecia, Serbia e Kosovo ed appartiene al bacino idrografico egeo. Le due specie sono molto simili, ma R. serbica ha foglie più romboidali con margini vistiosamente dentati o incisi, fiori più piccoli e meno numerosi portati su lunghi scapi, R. nathaliae foglie più arrotondate, fiori più grandi e scapi più brevi. Nel 1928 il botanico russo Pavel Černjavskij stava riordinando il suo erbario quando casualmente vi rovesciò sopra un bicchiere d'acqua; per rimediare al disastro, lasciò asciugare le carte e le piante per tutta la notte; al mattino dopo, scoprì che un esemplare di R. nataliae, che faceva parte della sua collezione da un anno e mezzo ed era totalmente disseccato, si era reidratato ed appariva vivo e vegeto. Pubblicò subito la scoperta sulla rivista della società botanica russa, con una conseguenza politica; da allora R. nataliae è stata scelta come simbolo della "resurrezione" della Serbia e del suo esercito dopo la Prima guerra mondiale. La rara particolarità di potersi disseccare completamente e di riprendersi alla prima pioggia, diffusa tra licheni, epatiche e muschi, ma rarissima tra le Angiosperme, è condivisa da tutte le specie del genere, anzi da tutte le Gesneriaceae europee; hanno sviluppato questa capacità per poter sopravvivere, nonostante la loro origine tropicale, in aree montane con estati secche e temperature invernali che scendono di molto sotto zero. Nel 1851, Theodor von Heldreich, all'epoca direttore dell'orto botanico di Atene, scoprì sulle pendici del monte Olimpo un'altra gesneriacea, di cui però non vide i fiori. Inizialmente Boissier la classificò come Haberlea heldreichii, poi, dopo la raccolta di esemplari fioriti, la trasferì a un genere proprio, Jancaea, in onore di Viktor Janka, curatore dell'erbario di Budapest ed esploratore della flora dei Balcani. Non tutti erano d'accordo: Alphonse e Casimir de Candolle la collocarono nel genere Ramonda, come R. heldreichii. Recentemente, l'appartenenza a Ramonda è stata supportata da dati molecolari; Plant of the World on line ne prende atto, riducendo Jancaea a sinonimo. Ma poiché la maggioranza dei repertori, inclusi il sito della Gesneriad Society e Flora of Greece on line, lo trattano ancora come genere a sé, così farò anch'io, soprattutto per poter dedicare un post a Janka. E' con una pianta delle Alpi, Saussurea alpina, che nel 1810 de Candolle volle ricordare i suoi illustri compatrioti Horace-Bénédict e Nicolas Théodore de Saussure. Il primo dedicò tutta la sua passione di naturalista all'esplorazione di quella catena di montagne, contribuendo anche a lanciarla come meta turistica con la sua celebre ascensione del Monte Bianco; il secondo scoprì il ruolo dell'anidride carbonica e dell'acqua nel processo di fotosintesi. Ma le specie di questo vasto genere di Asteraceae non vivono solo sulle Alpi: il nucleo più consistente si trova in Cina, con oltre 250 specie. Uno scienziato innamorato delle montagne Il Monte Bianco, il "Gigante delle Alpi" che domina l'anfiteatro di montagne che circonda Ginevra, fin da bambino per Horace-Bénédict de Saussure (1744-1799) fu una presenza familiare, destinata a trasformarsi in ossessione. Nato in una famiglia patrizia ginevrina, nell'infanzia trascorsa per lo più in campagna acquisì il gusto per le libere scorribande nella natura e ben presto scoprì le montagne e l'alpinismo. Come racconta egli stesso nella sua opera maggiore Voyages dans les Alpes, all'età di diciotto anni aveva già percorso più volte tutte le montagne dei dintorni di Ginevra e a 19 trascorse due settimane nella "più alta baita" del Giura per visitarne le maggiori cime. Si era appena diplomato all'Académie di Ginevra con una tesi sulla trasmissione del calore. Da quel momento si dedicò con passione agli studi naturalistici; nel 1762, a soli 22 anni, ottenne la cattedra di filosofia (che includeva la fisica e le scienze naturali) alla stessa Académie, mantenendo l'incarico per 24 anni. Saussure aveva in un certo senso ereditato la passione per lo studio della natura dallo zio materno (marito della sorella della madre) Charles Bonnet, filosofo, entomologo, botanico, psicologo, seguace della teoria delle catastrofi, che gli trasmise tanto l'approccio sperimentale quanto una spiccata tendenza all'ecclettismo. Inizialmente, infatti, gli interessi del giovane Saussure andavano soprattutto alle piante, che amava raccogliere fin da bambino; alla fisiologia vegetale dedicò il suo primo saggio, Obsérvations sur l'écorce des feuilles et des petales, che contiene importanti osservazioni sulla funzione dei pori delle foglie. Tuttavia, anche se continuò ad erborizzare per tutta la vita e a pubblicare occasionalmente articoli di botanica e addirittura un'opera di sistematica (Systema plantarum secundum classes, ordines, genera, species, cum characteribus differentis, 1779) a partire dal 1764 il suo interesse dominante divenne la geologia, "chiave della storia del nostro pianeta". Determinante nella scoperta di questa vocazione fu l'incontro ravvicinato con il Monte Bianco. Nel 1760 egli si recò per la prima volta nel villaggio di Chamonix per visitare il ghiacciaio della Mer de Glace e forse per cercare piante per conto di un altro dei suoi mentori, Albrecht von Haller. Profondamente affascinato, promise a se stesso che un giorno avrebbe raggiunto la cima della grande montagna. Quell'anno, e ancora l'anno dopo, quando tornò a Chamonix, fece affiggere in tutte le parrocchie della valle un manifesto in cui prometteva "una considerevole ricompensa" a chi riuscisse a trovarne la strada. L'appello non ebbe alcun esito, ma ormai le montagne erano diventate il terreno di ricerca privilegiato di Saussure: da quel momento "non lasciai trascorrere un solo anno senza fare lunghe escursioni quando non dei viaggi per studiare le montagne". Nei decenni successivi, egli attraverserà le Alpi quattrodici volte attraverso otto diversi passaggi e farà sedici escursioni fino al centro della catena; percorrerà il Giura, le montagne della Svizzera, dell'Inghilterra, della Germania, dell'Italia, i vulcani attivi della Sicilia e delle isole adiacenti e quelli estinti dei Vosgi, sempre con "il martello da geologo in mano [...] scalando tutte le cime accessibili che promettessero qualche osservazione interessante e prelevando sempre campioni di minerali e rocce". Queste ricerche, non di rado difficili e sempre faticose, basate sull'osservazione diretta e sulla misurazione dei fenomeni, condotta anche attraverso una serie di strumenti di sua invenzione (il più celebre è l'igrometro a capello) dovevano fornire le basi per una Teoria della Terra, che purtroppo Saussure non giunse mai formulare compiutamente, affidandola a molti manoscritti e alle osservazioni contenute nei quattro volumi della sua opera più nota,Voyages dans les Alpes (1779-1799). Nelle esplorazione delle montagne si congiungevano una passione esistenziale e un'intuizione scientifica: "Le pianure sono uniformi, è possibile vedere la stratificazione delle terre e i loro diversi letti solo grazie a scavi, opera dell'uomo o delle acque; mezzi per altro insufficienti [...]. Al contrario, le alte montagne, infinitamente variate nella loro materia e nella loro forma, presentano tagli naturali, di grandissima estensione, dove si possono osservare con estrema chiarezza e abbracciare a colpo d'occhio l'ordine, la posizione, la direzione, lo spessore e persino la natura degli strati di cui sono composte". Di quel sistema di montagne, il Monte Bianco, per la sua grandissima mole e la sua posizione centrale, è la chiave di volta: "Il Monte Bianco è una delle montagne d'Europa la cui conoscenza pare poter fornire un maggior numero di informazioni sulla Teoria della Terra. Questa enorme roccia di granito, situata al centro delle Alpi, collegata a montagne di diverse altezze e diversa natura, sembra essere la chiave di un grande sistema". Scalare quella montagna, giungere su quella cima, per Saussure non era un exploit sportivo, ma un imperativo scientifico. Ma per vedere realizzata la promessa del 1760 dovette attendere ventisette anni. Un tentativo venne effettuato da quattro guide di Chamonix nel 1775, e un secondo da altre tre nel 1783, finché l'anno successivo due cacciatori di camosci si avvicinarono tanto alla cima da fare sembrare possibile la conquista della montagna. Nel 1785, Saussure stesso tentò la scalata dall'Aiguille du Goûter , insieme a numerose guide, allo scrittore e pittore Marc-Thédore Bourrit e al giovane figlio di quest'ultimo, ma dovette tornare indietro a causa dell'alta neve fresca. Finalmente, l'8 agosto del 1786, la cima fu raggiunta da una della guide che aveva partecipato a quel tentativo, il cacciatore di camosci e cercatore di cristalli Jacques Balmat, e dal medico Michel Gabriel Paccard. Subito avvertito da Balmat che andò a riscuotere la ricompensa, Saussure avrebbe voluto a sua volta ripetere subito l'impresa, ma il maltempo lo costrinse ad attendere un altro anno. L'otto luglio 1787 lo troviamo a Chamonix insieme alla moglie; ma deve ancora portare pazienza e aspettare che il tempo si rimetta, mentre controlla e ricontrolla la sua attrezzatura scientifica. Finalmente il 31 luglio torna il bel tempo e il mattino dopo, alla presenza di tutto il villaggio, la grande carovana (Saussure, un servitore e diciotto guide) si mette in cammino. La scalata, seguita dal basso con i cannocchiali puntati, richiede due giorni. La prima notte il gruppo bivacca al Mur de la Côte; il giorno dopo, superando punti difficili e crepacci con l'aiuto di scale, raggiunge il Gran Plateau dove si trascorre la notte in tenda e Saussure effettua alcune osservazioni. La fame, la sete, la stanchezza e il mal di montagna si fanno sentire. La mattina dopo l'ultimo tratto sarà faticosissimo. Saussure cammina preceduto e seguito da una guida che impugna una lunga pertica, cui si aggrappa per non cadere; tuttavia, esausto, rischia di svenire. Dopo una sosta e un ultimo sforzo, la cima è infine raggiunta alle 11.05. Qui, per quattro ore e mezza, Saussure può finalmente realizzare almeno una parte del suo programma scientifico: misura l'altitudine (con un errore di appena settanta metri, una precisione notevole per l'epoca), la temperatura a cui bolle l'acqua, l'igrometria dell'aria, la natura della neve, l'intensità del colore del cielo (per misurare la quale ha inventato l'ennesimo strumento, il cianometro); vorrebbe fare ben di più, ma il tempo incalza. Alle 15,30 dà ordine di iniziare la discesa, combattuto tra la gioia per la vista superba e la delusione: "Me ne andai con il cuore pesante per non aver potuto ricavare tutto ciò che desideravo. Perché, benché avessi cominciato dalle osservazioni più importanti, quello che avevo fatto mi sembrava poco rispetto a quello che avevo sperato". Dopo una terza notte trascorsa presso la "roccia del felice ritorno", poco dopo mezzogiorno Saussure e compagni raggiungono Chamonix accolti da una folla delirante. Mentre l'impresa di Balmat e Paccard si era svolta quasi in modo clandestino (per il timore della guida di vedersi soffiare la ricompensa), quella di Saussure suscita grande clamore durante e dopo. La sua Relation abregée circola in tutta Europa, l'epica scalata è ritratta dai pittori e raccontata nelle gazzette. Grazie a Saussure, tutti conoscono Chamonix e la sua montagna; è nato l'alpinismo come sport. Il che, ovviamente, era quanto di più lontano dalle intenzioni del naturalista ginevrino: come scienziato, probabilmente lo soddisfecero molto di più i sedici giorni che l'anno successivo trascorse a fare osservazioni sulla cresta del Colle del Gigante (in effetti, un'impresa scientifica straordinaria, la prima campagna di osservazioni continuate in alta quota, che gettò le basi della meteorologia alpina). Negli anni successivi, almeno finché la salute glielo permise, Saussure continuò a scalare e studiare le montagne, a fare rilievi geologici, a inventare strumenti. Scrisse gli ultimi volumi di Voyages dans les Alpes (il racconto dell'ascensione al Monte Bianco è contenuto nel quarto tomo, uscito nel 1799). Dopo un primo colpo apoplettico nel 1794, gli ultimi anni furono penosi, resi difficili anche dai rivolgimenti politici causati dalla rivoluzione francese. Un pioniere della ricerca sulla fotosintesi Nel 1765, Horace-Bénédict de Saussure sposò Albertine Amélie Boissier, una delle più ricche ereditiere della città. Dal matrimonio, straordinariamente felice, nacquero tre figli: la maggiore Albertine (1766-1841), sposata con il matematico Louis Necker, fu una importante scrittrice e pedagogista, fautrice dell'educazione femminile; il minore Alphonse Jean François non si distinse particolarmente, mentre il vero erede scientifico del padre fu il secondogenito Nicolas-Théodore (1767-1845). Il padre, che non credeva nell'educazione impartita dalle scuole pubbliche (tra le sue tante attività c'è anche un progetto di riforma mai approvato) lo fece educare in casa, fino a quando il ragazo si iscrisse all'Università. Dal 1786 divenne l'assistente e il compagno di viaggio del padre, da cui apprese l'approccio sperimentale e la centralità della descrizione quantitativa dei fenomeni. Nel 1790, in occasione del prelievo di esemplari di aria a diverse altitudini tramite palloni di vetro, pensò di pesarli e scoprì che le differenze di peso erano esattamente proporzionali alle differenze di pressione barometrica, portando una conferma sperimentale alla legge di Boyle-Mariotte. Nel 1792 fu lui a dare il nome di dolomite (in onore di Déodat de Dolomieu) alla roccia di cui aveva ricevuto alcuni campioni dalla Carniola e di cui fece l'analisi chimica. Nicolas-Thédore si stava infatti ormai orientando verso questa disciplina, che, insieme alla fisiologia vegetale, divenne il suo campo d'elezione. Proprio per approfondire le sue conoscenze chimiche, nell'estate del 1793 andò in Inghilterra, ma una lettera della madre, preoccupata per la salute del marito e anche per alcune perdite finanziarie, lo richiamò in Svizzera. Tra il 1794 e il 1795, insieme al fratello minore, a causa delle tensioni politiche che scuotevano Ginevra. fu costretto a rifugiarsi a Rolle nel Vaud, dove curò l'edizione dell'ultimo volume dei Voyages dans les Alpes. Al suo ritorno a Ginevra, iniziò gli studi originali. Dal 1802 venne nominato professore di mineralogia e geologia dell'Università di Ginevra, un incarico onorario che mantenne fino al 1835, facendosi però supplire dal nipote Louis-Albert Necker, figlio di sua sorella Albertine. Poté così dedicarsi soprattutto a ricerche di laboratorio su questioni all'incrocio tra chimica e fisiologia vegetale: l'assimilazione del carbonio da parte delle piante (1797), l'influenza del suolo sulla loro nutrizione (1799), il ruolo dei sali minerali (1804). Questi studi fanno da preludio a Recherches chimiques sur la végétation (1804), in cui il processo di nutrizione delle piante è studiato con un approccio sperimentale e quantitativo. La teoria prevalente all'epoca era che le piante ricavassero dal suolo il carbonio che va a formare i loro tessuti. Coltivando le piante in acqua e chiudendole in contenitori di vetro con atmosfera controllata con aggiunta di anidride carbonica, Saussure dimostrò invece che le piante assorbono anidride carbonica dall'aria ed emettono ossigeno. Misurando i due gas all'inizio e alla fine dell'esperimento, poté provare che il peso del diossido di carbonio assorbito è approssimativamente uguale al volume dell'ossigeno consumato. Ne dedusse che l'aumento di massa delle piante durante la loro crescita non è dovuto unicamente all'assorbimento di anidride carbonica, ma anche di acqua. Studiò poi il consumo dell'ossigeno durante la germinazione e nelle piante coltivate al buio, concludendone che l'uso dell'ossigeno da parte delle piante è simile a quello degli animali durante la respirazione. Sulla base delle sue ricerche, Saussure giuse a formulare una prima sommaria equazione chimica del processo di fotosintesi (un nome al di là da venire). Altre ricerche, condotte sull'analisi qualitativa e quantitativa delle ceneri di varie piante, dimostrarono che per il loro nutrimento sono necessari, sebbene in piccolissime quantità, diversi sali minerali, che esse traggono dal suolo. Ma poiché la composizione chimica delle piante è diversa da quella del terreno dove vivono, Saussure ne concluse che le piante assorbono i nutrienti in modo selettivo. Notò anche l'importanza dell'azoto, ma non poté spiegare come le piante se lo procurino. Come si vede, si tratta di ricerche importanti non solo sul piano teorico, ma anche per le loro applicazioni in agricoltura. Eppure la loro importanza sfuggì ai contemporanei, finché non furono riscoperte e approfondite da Liebig, che dimostrò che le piante ricavano anche l'azoto dall'atmosfera. Un'accoglienza migliore ricevettero i suoi successivi studi sui processi biochimici, apprezzati fra gli altri da Pasteur. Qualche informazione in più su padre e figlio nella sezione biografie. Diversi altri membri di questa famiglia furono illustri scienziati, ma il più famoso di tutti fu ugualmente geniale e innovativo in tutt'altro campo; si tratta di Ferdinand de Saussure (1857-1913), pioniere della linguistica strutturale, bisnipote di Horace-Bénédict da parte del figlio minore Alphonse. Un grande genere montano Nel 1810, il grande botanico Augustin Pyramus de Candolle volle celebrare i due illustri concittadini dedicando loro un nuovo genere di Asteraceae montane: "Ho dato a questo genere il nome Saussurea, in onore dei miei celebri concittadini i signori de Saussure padre e figlio, che hanno potentemente contribuito al progresso della fisica e della chimica e sono stati utili anche alla botanica, il primo con le sue osservazione sui pori della superficie delle foglie e sulla risalita della linfa, il secondo con le sue ricerche chimiche sulla vegetazione; desidero che il nome delle saussuree alpine ricordi a tutti i botanici che percorreranno le Alpi il nome di colui che ha descritto nel modo migliore questa vasta catena di montagne, mentre quelle delle steppe salate della Siberia ricorderanno gli esperimenti di Théodore de Saussure sull'assorbimento delle materie saline da parte dei vegetali". L'uno come gli altri membri di importanti famiglie del patriziato ginevrino, de Candolle e i Saussure appartenevano al medesimo ambiente sociale e soprattutto Horace-Bénédict non aveva mancato di far sentire la sua influenza sul giovane Augustin, anche se cercò di dissuaderlo dal dedicare il suo tempo alla botanica. Come sappiamo, anch'egli ne era stato appassionato in gioventù, quando percorreva le dolci montagne del Giura e le Prealpi svizzere tanto ricche di fiori, ma quando il suo terreno di ricerca erano diventate le alte cime, quella passione aveva finito per raffreddarsi: "Nella vegetazione di questo cantone [di Chamonix] c'è una monotonia insopportabile. Non so se la causa risieda nella struttura del paese, oppure nella natura del suolo, oppure nel freddo di questi ghiacci eterni, ma è sempre la stessa cosa". E così, come racconta de Candolle nelle sue memorie, cercò con accanimento di "arruolarlo" nelle scienze che più amava e di disgustarlo della botanica: "Ogni volta che lo vedevo mi ripeteva che questo studio non prometteva nessun successo, e non valeva la pena di occuparsene se non come passatempo". Ovviamente de Candolle non si lasciò convincere, ma neppure se ne ebbe a male. Come è attualmente inteso, Saussurea (Asteraceae) è un vasto genere soprattutto di perenni cespitose con una distribuzione molto ampia (America, Europa, Asia, più una specie australiana) per lo più in ambienti montani o steppici; l'area di maggiore diversità sono le alte montagne temperate dell'Asia (Asia centrale, Siberia, Himalaya, Tibet, Cina). Il centro di diversità si trova proprio in Cina, nella zona dei monti Hengduan con oltre cento specie, in gran parte endemiche. Con 289 specie, di cui 191 endemiche, è uno dei generi più ricchi di specie della flora cinese. Nella flora italiana abbiamo quattro specie, tutte alpine e piuttosto rare: S. alpina (tutto l'arco alpino, eccetto la Liguria); S. depressa (Alpi occidentali, dal San Bernardo al Rocciamelone); S. discolor (tutto l'arco alpino, salvo la Liguria, e l'Appennino settentrionale); S. pygmaea (Alpi carniche orientali e Alpi Giulie). S. alpina dà il nome al Giardino botanico alpino Saussurea, che sorge a 2173 metri d'altitudine nei pressi della stazione intermedia della funivia del Monte Bianco, sopra Courmayeur. Vuole anche essere un omaggio indiretto a Horace-Bénédict de Saussure, che non mancò di visitare (e descrivere in Voyages dans les Alpes) la località valdostana e questo versante della grande montagna. Le specie himalayane, molte delle quali a rischio per l'eccessiva raccolta in qualità di piante medicinali, hanno spesso infiorescenze totalmente avvolte da una candida peluria che le fa assomigliare a palle di neve. Molte sono ricercate dai collezionisti, ma di difficile coltivazione: in natura vivono ad altitudini comprese tra 3000 e 5500 metri, vegetano solo nella breve stagione estiva e richiedono estati fresche e terreni perfettamente drenati, senza dimenticare che spesso sono di lenta crescita e fioriscono una volta sola, per poi morire. Ne troverete alcune nella scheda. Le testimonianze d’epoca descrivono il protagonista della nostra storia, il barone austro-tedesco Ludwig von Welden, come un militare tutto d’un pezzo, integerrimo e poco incline ai compromessi. Era un uomo d'ordine, fedele cane da guardia della Restaurazione, che nella sua carriera sembra essersi specializzato nella repressione dei moti liberali, da quello piemontese del ’21 alle rivoluzioni del ’48, fino agli anni in cui governò Vienna con il pugno di ferro. Eppure era anche un uomo di profonda cultura, un conversatore affabile, uno scrittore prolifico dalla penna facile e dallo sguardo indagatore, un alpinista appassionato, innamorato delle montagne e dei loro fiori. Tra gli episodi più sorprendenti della sua vita di repressore duro e puro, una romantica storia d'amore con una patriota italiana. Come botanico, fu qualcosa di più di un dilettante, in corrispondenza con importanti studiosi europei; a questo amante della flora alpina è giustamente dedicata una specie montana, non figlia delle Alpi ma dei vulcani del Centro America: Weldenia candida. Tra repressione, montagne, fiori e amori improbabili Il 25 agosto 1825, giorno in cui si festeggia san Luigi, un gruppo di alpinisti capeggiato dal colonnello tedesco Ludwig von Welden raggiunge per la prima volta una delle cime minori del gruppo del Rosa, a quota 4342 metri sul livello del mare. In onore del santo del giorno (ma un po’ anche di se stesso) Welden la battezza Ludwigshöhe, “corno (o cima) di Ludovico”. È solo una delle otto vette del massiccio cui dà il nome nella monografia Il Monte Rosa. Schizzo topografico e naturalistico, pubblicata a proprie spese a Vienna nel 1824. Una di esse è Parrot Spitze, la punta di Parrot, che abbiamo già incontrato parlando dello scalatore dell’Ararat. Come Parrot, anche Welden era un appassionato alpinista. Nato nel Ducato del Württemberg, fin da giovanissimo partecipò alle guerre contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica, a partire dal 1802 nell’esercito austriaco, aggregato allo stato maggiore e al servizio topografico, distinguendosi per il coraggio e lo spirito d’iniziativa; nelle fasi finali del conflitto servì proprio nel settore alpino, anche con funzioni di spionaggio. Nel 1815 fu inviato in Svizzera a osservare i movimenti delle truppe francesi in ritirata e gli furono affidate la ricognizione topografica delle ardue montagne del Giura e l’occupazione di alcuni valichi. Nel 1816 fu promosso colonnello e capo dell’ufficio topografico. Nel corso della carriera militare, oltre che dei panorami delle Alpi si era appassionato anche della loro flora. Ad iniziarlo alla botanica, quando era capitano di stato maggiore a Salisburgo, fu Franz Anton Braune; a Vienna, completò poi la sua formazione alla scuola di Jacquin. Nel marzo 1821, allo scoppio dei moti in Piemonte, fu nominato capo di stato maggiore dei reparti inviati a reprimere l’insurrezione. Fu così che in un salotto torinese incontrò un’affascinante nobildonna lombarda, Teresa Sopransa. Vedova da un ufficiale napoleonico, il conte Ignazio Agazzini, essa faceva la spola tra Milano e Torino per seguire i tre figli, che studiavano in un collegio militare della capitale sabauda. O per lo meno, questa era la copertura. In realtà, all’insaputa del colonnello austriaco, Teresa era una “giardiniera”, ovvero un membro della Carboneria, intima di Federico Confalonieri, e il suo ruolo era proprio assicurare i collegamenti tra i carbonari lombardi e quelli piemontesi. Nonostante dal punto di vista politico militassero in campo opposto, tra i due si accese una scintilla e la contessa invitò Welden a farle visita nella sua villa di Ameno, sul lago d’Orta. Il colonnello raccolse l’invito qualche mese dopo, nel giugno 1821; e nella bella villa di Ameno, oltre che della affascinante contessa, si innamorò del Monte Rosa, di cui poteva godere la splendida vista panoramica. Intanto la rete della polizia si stringeva attorno ai carbonari milanesi; nel dicembre 1821 Federico Confalonieri fu arrestato; nella sua corrispondenza si trovarono diverse lettere di Teresa, compromessa anche dalla confessione dello stesso Confaloneri. La contessa fu arrestata e interrogata; fu molto più ferma dell’amico nel respingere ogni accusa, giustificando quelle lettere con una relazione intima. Dopo poche domande, venne rilasciata, probabilmente proprio grazie all’intervento di Welden. La storia d’amore tra il colonnello austriaco e la “giardiniera lombarda” continuò e i due improbabili innamorati nel 1829 si sposarono a Trieste. Purtroppo, fu un legame di breve durata, perché Teresa morì appena due anni dopo. La passione di Welden per la montagna e i suoi fiori lo accompagnò invece per tutta la vita. Incaricato di dirigere una ricognizione topografica del tratto alpino compreso tra il Monte Bianco e il Monte Rosa, nel 1822 si stabilì a Macugnaga, raccogliendo anche informazioni etnografiche, zoologiche e botaniche, che pubblicò nella già citata monografia sul Monte Rosa, che include una rassegna della flora del massiccio. Nel 1824 visitò Napoli e la Sicilia, entrando in contatto con Tenore, con il quale scambiò esemplari botanici; lo stesso anno, finanziò la pubblicazione sulle piante dalmate raccolte da Portenschlag, Enumeratio plantarum in Dalmatia lectarum. L’anno successivo intraprese una spedizione botanica nelle Alpi attraverso Stiria, Tirolo e Svizzera. Nel 1828 venne trasferito in Dalmazia come aiutante generale; con una flora ricca di endemismi ancora relativamente poco conosciuta, la regione suscitò l’entusiasmo di Welden, che la percorse in molte escursioni, riferite in diversi contributi sulla rivista Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. Come governatore militare di Zara, intorno alla cittadella fece costruire un parco aperto non solo ai militari, ma anche ai civili, il primo parco pubblico del paese (ancora esistente, oggi si chiama Parco Regina Elena Madijevka). Nei tre anni in cui sostenne questo incaricò, estese l'esplorazione anche ad altre zone della penisola balcanica, comprese l’Albania e il Montenegro. Tra il 1832 e il 1838 fu delegato alla commissione militare centrale della Confederazione germanica a Francoforte; continuò a collaborare con la società botanica di Regensburg e con Reichenbach, cui inviò diversi contributi per la sua Flora germanica. Nel 1838, promosso maresciallo di campo, venne nominato comandante della divisione di Graz, e ne approfittò per creare un giardino di gusto romantico con sentieri serpeggianti e piante esotiche lungo le pendici del Monte del Castello (Grazer Schloßberg). Nel 1843, con il grado di generale, divenne governatore del Tirolo; come tale, nel 1848 assicurò i collegamenti tra il generale Radetzky e l’Austria, quindi partecipò a diverse azioni militari in Italia, tra cui il blocco di Venezia e la repressione delle città emiliane insorte. La sua azione decisa e spietata gli guadagnò la stima dell'Imperatore, che in quell’anno difficile lo inviò a controllare l'ordine pubblico prima in Dalmazia, poi a Vienna, quindi in Ungheria, dove si dimostrò tanto inflessibile e più realista del re da essere rimosso dopo pochi mesi. Tornato a Vienna come governatore della città, ripristinò l’ordine con il pugno di ferro, facendo internare migliaia di cittadini e imponendo un pervasivo regime poliziesco, basato sullo spionaggio e la delazione. In cambio, fu promosso Feldzeugmeister, il secondo più alto grado dell’esercito austriaco. Al contrario dei cittadini di Zara e Graz, che gli erano grati per i giardini che aveva fatto costruire per loro, quelli di Vienna, ovviamente, lo odiarono profondamente, a quanto pare ricambiati. Così nel 1851, quando, per ragioni di salute, Welden diede le dimissioni, decise di tornare a Graz, dove morì due anni dopo. Qui, per se stesso, aveva creato un giardino alpino in cui ogni pianta era coltivata nelle condizioni ottimali, che egli aveva studiato dal vivo nei suoi viaggi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Weldenia candida, figlia dei vulcani Come esploratore della flora delle Alpi e della penisola balcanica, Welden segnalò alcune entità ancora sconosciute; tra i nomi di cui ha la paternità, l’unico oggi ancora valido è Anthyllis aurea Welden ex Holst, una bella Fabacea a cuscinetto diffusa in ampia parte della penisola balcanica. Lo ricordano nell’epiteto Plantago weldenii Rchb., la piantaggine di Welden, un’erbacea di diffusione euro-mediterranea; il bellissimo Crocus weldenii Hoppe & Fürnr., lo zafferano di Welden, una specie illirica distribuita dai confini albanesi del Montenegro al Carso triestino e goriziano; Primula x weldeniana (A.Kern.) Dalla Torre & Sarnth., un ibrido naturale tra P. hirsuta e P. spectabilis, raro endemismo delle Alpi meridionali; Centaurea jacea subsp. weldeniana (Rchb.) Greuter, il fiordaliso di Welden, anch’esso un’entità illirica, presente in alcune stazioni delle nostre Alpi orientali. Ma a Welden è stato dedicato anche un genere, che ci porta molto lontano dalle Alpi o dalla penisola balcanica. Il primo esemplare fu raccolto nel cono vulcanico del messicano Nevado de Toluca verso la fine degli anni ’20 dell’Ottocento da Karwinsy e nel 1829 Julius Schultes - figlio di uno dei botanici viennesi amici di Welden - lo denominò Weldenia candida, pubblicandone la descrizione proprio in Flora oder Botanische Zeitung di Regensburg. È l’unica rappresentante di questo genere monotipico della famiglia Commelinaceae, che vive sulle pareti e i crateri dei vulcani di Messico e Guatemala, tra 2400 e 4000 metri. Nel 1893 alcuni esemplari raccolti nel Vulcano de Agua in Guatemala furono introdotti a Kew, dove questa deliziosa piccola specie è ancora coltivata nel giardino roccioso e nel giardino boschivo, dove fiorisce a fine primavera. Ha radici carnose, foglie lineari lanceolate, e cime compatte di fiori candidi con una lunga corolla tubolare trilobata, che ricordano singolarmente un croco. Ciascun fiore dura solo un giorno, ma nelle piante accestite molti fiori vengono prodotti in successione nell’arco di varie settimane. Qualche approfondimento nella scheda. Benché abbia vissuto buona parte della sua vita adulta nella "piatta" Livonia, Friedrich Parrot amava sopra ogni cosa le montagne: le misurava, ne disegnava le carte, le studiava come fisico e geologo, ma soprattutto le scalava. Le aveva scoperte giovanissimo durante una spedizione in Crimea e nel Caucaso; più tardi lo troviamo sulle Alpi, a tentare la scalata del Monte Rosa, e sui Pirenei. Ma il suo nome è soprattutto legato all'Ararat, la sacra montagna di Noè, che riuscì a conquistare nel 1829 al terzo tentativo. Ad accompagnarlo, l'armeno Khachatur Abovian, futuro padre della letteratura armena moderna. A ricordarlo due piccoli generi di piante, ovviamente montane: Parrotia e Parrotiopsis. Uno scienziato innamorato delle montagne Il monte Ararat, nell'Armenia storica (oggi, dopo tanti passaggi di mano, è in territorio turco), non è una montagna come le altre; sulla sua cima (posta a oltre 5100 metri) secondo il racconto biblico si posò l'arca di Noè; per questo motivo, la chiesa armena la ritenne sacra e vietò di avvicinarsi alla cima, dove si riteneva fosse ancora preservata l'augusta reliquia. Dal XVI secolo fino al 1828 la venerata montagna si trovava in territorio persiano, ma quell'anno, in seguito alla guerra russo-persiana del 1826-28, fu ceduta all'impero russo. Fu così che Friedrich Parrot, un giovane scienziato e appassionato alpinista dell'Università di Dorpat, propose allo zar di organizzare una spedizione per esplorarla e cercare di conquistarla. E' curioso che colui che è considerato il padre dell'alpinismo russo e armeno abbia trascorso gran parte della sua vita adulta in un paesaggio piatto e privo di montagne: Dorpat, oggi Tartu, all'epoca una delle principali città della Livonia, era sede di un'antica università che era rinata all'inizio dell'Ottocento, in gran parte grazie all'energica azione di Georg Friedrich Parrot, il padre di Friedrich, che ne divenne anche il primo rettore. Grande scienziato - era un fisico di fama europea - e amico personale dello zar Alessandro I, era riuscito a trasformare quella università periferica in un centro di studi all'avanguardia, che nel corso dell'Ottocento diede un importante contribuito all'esplorazione geografica, geologica e naturalistica di molti territori dell'Impero russo. Friedrich, che era nato in Germania, arrivò in Livonia bambino e, dopo gli studi liceali a Riga e a Dorpat, frequentò i corsi di medicina e scienze naturali all'Università di Dorpat. Era appena ventenne quando, nel 1811, il suo professore di mineralogia, Moritz von Engelhardt, lo invitò ad accompagnarlo in una spedizione scientifica incaricata di effettuare rilievi barometrici in Russia meridionale, Moldavia e Valacchia. Strada facendo, cambiarono itinerario, e si diressero verso la Crimea e il Caucaso. E fu così che Friedrich scoprì le montagne e se ne innamorò. Insieme a Engelhardt, cartografò l'idrografia della Crimea e ne scalò le montagne per stabilirne l'altezza con il metodo barometrico; si spostarono poi verso il Caucaso, seguendo il corso del fiume Terek dalla sorgente alla foce. Oltre a disegnare le mappe di altre montagne, i due scalarono il monte Kasbek, di cui Parrot studiò i piani di vegetazione. Quindi si divisero: mentre Engelhardt misurò il livello del Mar Nero, Parrot misurò quello del Mar Caspio. I risultati della spedizione furono pubblicati nel 1815 in Reise in die Krim und den Kaukasus; Parrot redasse tra l'altro la parte dedicata alla vegetazione del Caucaso. Nel 1812 Napoleone invase la Russia e Parrot, benché non ancora laureato (avrebbe conseguito la laurea nel 1814), lavorò come medico all'ospedale di Riga e poi come chirurgo militare fino alla fine della guerra. Tornata la pace, egli poteva finalmente coltivare la sua passione per la montagna. Nel 1816 tentò di scalare il Monte Rosa, ma raggiunse solo il limite delle nevi. Anche se non riuscì a scalarla, qualche anno dopo gli fu dedicata una delle cime del massiccio, la Punta Parrot. Nel 1817 visitò estesamente i Pirenei, compiendo la prima ascensione della Maladeta e del Pic de Perdiguère. Dopo aver esercitato per qualche anno la professione medica in Germania, nel 1821 tornò a Dorpat come professore di fisiologia e patologia; nel 1826 assunse la cattedra di fisica, lasciata dal padre che si era trasferito a San Pietrburgo. Nel 1828, in virtù del trattato di Turkmenchay, la Persia cedette all'Impero russo parte dell'Armenia e dell'Azerbaigian e il governo russo decise di inviare nella regione una missione esplorativa capeggiata da Parrot. Quest'ultimo pensò che era arrivato il momento di realizzare il suo grande sogno: scalare il monte sacro dell'arca, il grande Ararat. Sottopose il progetto allo zar Nicola I, che lo approvò e garantì una scorta militare. Fu così che nell'aprile del 1829, insieme a un gruppo di studenti di medicina e scienze naturali Parrot partì da Dorpat in direzione dell'Armenia russa. La difficile conquista dell'Ararat Dopo aver raggiunto la steppa calmucca, il gruppo si divise in due parti: mentre il grosso della spedizione si dirigeva direttamente a Mozdok in Ossezia, Parrot, insieme a Maximilian Behaghel von Adlerskron e alla guida militare Schütz, attraversò il fiume Manych e si dedicò a una serie di nuovi rilievi del livello del Mar Nero e del Mar Caspio. La spedizione riunita proseguì poi verso sud attraverso la Georgia; raggiunto il confine armeno, la notizia di un'epidemia di peste nei dintorni di Erevan la costrinse a tornare in Georgia, per esplorare la Chachezia e condurre diverse misurazioni. Solo alla fine di agosto, il gruppo poté raggiungere la città santa di Echmiadzin, sede del catholicos, il Capo della chiesa apostolica armena; benché in generale la chiesa armena considerasse la spedizione sacrilega, il catholicos Yeprem I permise che vi si aggregasse, come guida ed interprete, lo studente di teologia Khachatur Abovian. Insieme a lui, il gruppo attraversò il fiume Aras e si diresse verso il villaggio di Akhuri (oggi Yenidoğan, nella Turchia orientale), posto a circa 1200 metri di altitudine sul versante settentrionale dell'Ararat. Stabilirono poi il campo base presso il Monastero di San Giacobbe, a 1943 metri sul livello del mare. Tra il 12 e il 14 settembre, tentarono una prima volta di raggiungere la cima della montagna dal versante nord-est, ma il freddo e la mancanza di abiti adeguati li costrinsero a rinunciare. Sei giorni dopo, su consiglio del capo villaggio di Akhuri, tentarono la scalata dal versante nord-ovest. Tuttavia furono sorpresi dal tramonto a quota 4885 metri e dovettero nuovamente tornare indietro. Ma, proprio come succede nelle fiabe, il successo doveva arrivare al terzo tentativo: il 27 settembre 1829 Parrot, Abovian, due soldati russi e due guide armene raggiunsero finalmente la cima del grande Ararat; Abovian eresse una piccola croce e raccolse un pezzo di ghiaccio, la cui acqua, per lui sacra, portò poi con sé in una bottiglia. Il 27 ottobre Parrot e Abovian scalarono poi insieme anche l'altra cima della sacra montagna, il piccolo Ararat. Colpito dall'intelligenza, dalla cultura e dallo zelo di Abovian, Parrot istituì per lui una borsa di studio a Dorpat. I sei anni trascorsi dal giovane armeno nella città estone furono estremamente fruttuosi: egli seguì corsi di filosofia, letteratura, scienze sociali e scienze naturali, imparò il tedesco, il russo, il francese e il latino, strinse amicizie e entrò in corrispondenza con molti intellettuali europei. Autore di poesie e di un romanzo storico, è considerato il padre della letteratura armena moderna, oltre che una figura eminente del movimento per la modernizzazione del paese. Quanto al nostro Parrot, non era tipo da accontentarsi di una tranquilla carriera universitaria di professore di fisica, dividendo le sue giornate tra le lezioni, il laboratorio (tra l'altro, inventò un gasometro e un baro-termometro) e la famiglia. Nel 1837 partecipò a una spedizione a Capo Nord e in Lapponia studiò fenomeni connessi con il magnetismo e la rotazione dell'asse terrestre. Al ritorno, già ammalato, ne diede conto in Kurze Nachricht von meiner Reise zum Nordkap; morì a Dorpat nel gennaio 1841. Una sintesi della sua vita avventurosa nella sezione biografie. Parrotia persica & friends Come abbiamo visto, tra gli interessi di questo medico e scienziato polivalente, soprattutto fisico e geologo, rientrava anche la botanica. Durante la sua prima spedizione aveva studiato i piani di vegetazione del Caucaso, e risulta che anche successivamente abbia raccolto piante nell'area del Caspio. E' proprio qui, sui monti dell'Azerbaigian, che vive la pianta destinata a immortalarne il nome nella nomenclatura botanica. Nel 1831 Carl Anton Meyer, un botanico di origine tedesca che aveva studiato a Dorpat con Ledebour e Bunge, con i quali nel 1826 aveva preso parte a una spedizione negli Altai e nella steppa del Kazakistan, decise di dedicargli una delle piante raccolte durante la spedizione, Parrotia persica, un endemismo della catena dei monti Alborz. Appartenente alla famiglia Hamamelidaceae, è un alberello noto soprattutto per lo spettacolare fogliame autunnale: le grandi foglie prima di cadere si tingono di giallo, d'arancio e di rosso. Piuttosto interessante anche la fioritura, che avviene sui rami nudi prima dell'emissione delle foglie molto presto nella stagione, tra febbraio e marzo; i fiori, piccoli e privi di petali, si fabbo notare per i numerosi stami con le antere rosso brillante. A lungo si è pensato che Parrotia fosse un genere monospecifico; solo nel 1998, sulla base dell'esame del DNA, è stata riclassificata come P. subaequalis una specie cinese prima classificata come Hamamelis subaequalis, poi come Shaniodendron subaequalis. E' anch'essa un piccolo albero o un grande arbusto con infiorescenze globose di fiori circondati da brattee e vistoso fogliame autunnale, dapprima bruno, quindi rosso brillante e viola. Molto raro in natura, è stato recentemente introdotto nei giardini (dove la sua sorella più nota era arrivata fin dal 1848, sempre grazie a Meyer, che ne l'aveva riprodotta nell'Orto botanico di San Pietroburgo). Ma c'è anche una "cugina" più lontana, assegnata a un genere a parte, Parrotiopsis, dal botanico C.K. Schneider nel 1905. La sua unica specie è Parrotiopsis jacquemontiana, originaria dell'Himalaya occidentale, dall'Afghanistan al Kashmir, dove vive nelle foreste tra 1200 e 2800 metri, un delizioso arbusto con vistose fioriture primaverili, che appaiono sui rami nudi; a renderli speciali, sono le grandi brattee crema che circondano un fitto ciuffo di stami dorati. Scoperto negli anni '30 dell'Ottocento, fu inizialmente assegnato al genere Fothergilla, quindi a Parrotia, con i nomi Parrotia jacquemontana e Fothergilla involucrata. Per completezza, ricordiamo anche x Sycoparrotia semidecidua, un ibrido intergenerico tra Sycopsis sinensis e Parrotia persica, prodotto intorno al 1950 nell'Orto botanico di Basilea in Svizzera. E' un bellissimo alberello, notevole sia per i fiori, con stami gialli e antere rosse, sia per il fogliame autunnale. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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