Benché abbia vissuto buona parte della sua vita adulta nella "piatta" Livonia, Friedrich Parrot amava sopra ogni cosa le montagne: le misurava, ne disegnava le carte, le studiava come fisico e geologo, ma soprattutto le scalava. Le aveva scoperte giovanissimo durante una spedizione in Crimea e nel Caucaso; più tardi lo troviamo sulle Alpi, a tentare la scalata del Monte Rosa, e sui Pirenei. Ma il suo nome è soprattutto legato all'Ararat, la sacra montagna di Noè, che riuscì a conquistare nel 1829 al terzo tentativo. Ad accompagnarlo, l'armeno Khachatur Abovian, futuro padre della letteratura armena moderna. A ricordarlo due piccoli generi di piante, ovviamente montane: Parrotia e Parrotiopsis. Uno scienziato innamorato delle montagne Il monte Ararat, nell'Armenia storica (oggi, dopo tanti passaggi di mano, è in territorio turco), non è una montagna come le altre; sulla sua cima (posta a oltre 5100 metri) secondo il racconto biblico si posò l'arca di Noè; per questo motivo, la chiesa armena la ritenne sacra e vietò di avvicinarsi alla cima, dove si riteneva fosse ancora preservata l'augusta reliquia. Dal XVI secolo fino al 1828 la venerata montagna si trovava in territorio persiano, ma quell'anno, in seguito alla guerra russo-persiana del 1826-28, fu ceduta all'impero russo. Fu così che Friedrich Parrot, un giovane scienziato e appassionato alpinista dell'Università di Dorpat, propose allo zar di organizzare una spedizione per esplorarla e cercare di conquistarla. E' curioso che colui che è considerato il padre dell'alpinismo russo e armeno abbia trascorso gran parte della sua vita adulta in un paesaggio piatto e privo di montagne: Dorpat, oggi Tartu, all'epoca una delle principali città della Livonia, era sede di un'antica università che era rinata all'inizio dell'Ottocento, in gran parte grazie all'energica azione di Georg Friedrich Parrot, il padre di Friedrich, che ne divenne anche il primo rettore. Grande scienziato - era un fisico di fama europea - e amico personale dello zar Alessandro I, era riuscito a trasformare quella università periferica in un centro di studi all'avanguardia, che nel corso dell'Ottocento diede un importante contribuito all'esplorazione geografica, geologica e naturalistica di molti territori dell'Impero russo. Friedrich, che era nato in Germania, arrivò in Livonia bambino e, dopo gli studi liceali a Riga e a Dorpat, frequentò i corsi di medicina e scienze naturali all'Università di Dorpat. Era appena ventenne quando, nel 1811, il suo professore di mineralogia, Moritz von Engelhardt, lo invitò ad accompagnarlo in una spedizione scientifica incaricata di effettuare rilievi barometrici in Russia meridionale, Moldavia e Valacchia. Strada facendo, cambiarono itinerario, e si diressero verso la Crimea e il Caucaso. E fu così che Friedrich scoprì le montagne e se ne innamorò. Insieme a Engelhardt, cartografò l'idrografia della Crimea e ne scalò le montagne per stabilirne l'altezza con il metodo barometrico; si spostarono poi verso il Caucaso, seguendo il corso del fiume Terek dalla sorgente alla foce. Oltre a disegnare le mappe di altre montagne, i due scalarono il monte Kasbek, di cui Parrot studiò i piani di vegetazione. Quindi si divisero: mentre Engelhardt misurò il livello del Mar Nero, Parrot misurò quello del Mar Caspio. I risultati della spedizione furono pubblicati nel 1815 in Reise in die Krim und den Kaukasus; Parrot redasse tra l'altro la parte dedicata alla vegetazione del Caucaso. Nel 1812 Napoleone invase la Russia e Parrot, benché non ancora laureato (avrebbe conseguito la laurea nel 1814), lavorò come medico all'ospedale di Riga e poi come chirurgo militare fino alla fine della guerra. Tornata la pace, egli poteva finalmente coltivare la sua passione per la montagna. Nel 1816 tentò di scalare il Monte Rosa, ma raggiunse solo il limite delle nevi. Anche se non riuscì a scalarla, qualche anno dopo gli fu dedicata una delle cime del massiccio, la Punta Parrot. Nel 1817 visitò estesamente i Pirenei, compiendo la prima ascensione della Maladeta e del Pic de Perdiguère. Dopo aver esercitato per qualche anno la professione medica in Germania, nel 1821 tornò a Dorpat come professore di fisiologia e patologia; nel 1826 assunse la cattedra di fisica, lasciata dal padre che si era trasferito a San Pietrburgo. Nel 1828, in virtù del trattato di Turkmenchay, la Persia cedette all'Impero russo parte dell'Armenia e dell'Azerbaigian e il governo russo decise di inviare nella regione una missione esplorativa capeggiata da Parrot. Quest'ultimo pensò che era arrivato il momento di realizzare il suo grande sogno: scalare il monte sacro dell'arca, il grande Ararat. Sottopose il progetto allo zar Nicola I, che lo approvò e garantì una scorta militare. Fu così che nell'aprile del 1829, insieme a un gruppo di studenti di medicina e scienze naturali Parrot partì da Dorpat in direzione dell'Armenia russa. La difficile conquista dell'Ararat Dopo aver raggiunto la steppa calmucca, il gruppo si divise in due parti: mentre il grosso della spedizione si dirigeva direttamente a Mozdok in Ossezia, Parrot, insieme a Maximilian Behaghel von Adlerskron e alla guida militare Schütz, attraversò il fiume Manych e si dedicò a una serie di nuovi rilievi del livello del Mar Nero e del Mar Caspio. La spedizione riunita proseguì poi verso sud attraverso la Georgia; raggiunto il confine armeno, la notizia di un'epidemia di peste nei dintorni di Erevan la costrinse a tornare in Georgia, per esplorare la Chachezia e condurre diverse misurazioni. Solo alla fine di agosto, il gruppo poté raggiungere la città santa di Echmiadzin, sede del catholicos, il Capo della chiesa apostolica armena; benché in generale la chiesa armena considerasse la spedizione sacrilega, il catholicos Yeprem I permise che vi si aggregasse, come guida ed interprete, lo studente di teologia Khachatur Abovian. Insieme a lui, il gruppo attraversò il fiume Aras e si diresse verso il villaggio di Akhuri (oggi Yenidoğan, nella Turchia orientale), posto a circa 1200 metri di altitudine sul versante settentrionale dell'Ararat. Stabilirono poi il campo base presso il Monastero di San Giacobbe, a 1943 metri sul livello del mare. Tra il 12 e il 14 settembre, tentarono una prima volta di raggiungere la cima della montagna dal versante nord-est, ma il freddo e la mancanza di abiti adeguati li costrinsero a rinunciare. Sei giorni dopo, su consiglio del capo villaggio di Akhuri, tentarono la scalata dal versante nord-ovest. Tuttavia furono sorpresi dal tramonto a quota 4885 metri e dovettero nuovamente tornare indietro. Ma, proprio come succede nelle fiabe, il successo doveva arrivare al terzo tentativo: il 27 settembre 1829 Parrot, Abovian, due soldati russi e due guide armene raggiunsero finalmente la cima del grande Ararat; Abovian eresse una piccola croce e raccolse un pezzo di ghiaccio, la cui acqua, per lui sacra, portò poi con sé in una bottiglia. Il 27 ottobre Parrot e Abovian scalarono poi insieme anche l'altra cima della sacra montagna, il piccolo Ararat. Colpito dall'intelligenza, dalla cultura e dallo zelo di Abovian, Parrot istituì per lui una borsa di studio a Dorpat. I sei anni trascorsi dal giovane armeno nella città estone furono estremamente fruttuosi: egli seguì corsi di filosofia, letteratura, scienze sociali e scienze naturali, imparò il tedesco, il russo, il francese e il latino, strinse amicizie e entrò in corrispondenza con molti intellettuali europei. Autore di poesie e di un romanzo storico, è considerato il padre della letteratura armena moderna, oltre che una figura eminente del movimento per la modernizzazione del paese. Quanto al nostro Parrot, non era tipo da accontentarsi di una tranquilla carriera universitaria di professore di fisica, dividendo le sue giornate tra le lezioni, il laboratorio (tra l'altro, inventò un gasometro e un baro-termometro) e la famiglia. Nel 1837 partecipò a una spedizione a Capo Nord e in Lapponia studiò fenomeni connessi con il magnetismo e la rotazione dell'asse terrestre. Al ritorno, già ammalato, ne diede conto in Kurze Nachricht von meiner Reise zum Nordkap; morì a Dorpat nel gennaio 1841. Una sintesi della sua vita avventurosa nella sezione biografie. Parrotia persica & friends Come abbiamo visto, tra gli interessi di questo medico e scienziato polivalente, soprattutto fisico e geologo, rientrava anche la botanica. Durante la sua prima spedizione aveva studiato i piani di vegetazione del Caucaso, e risulta che anche successivamente abbia raccolto piante nell'area del Caspio. E' proprio qui, sui monti dell'Azerbaigian, che vive la pianta destinata a immortalarne il nome nella nomenclatura botanica. Nel 1831 Carl Anton Meyer, un botanico di origine tedesca che aveva studiato a Dorpat con Ledebour e Bunge, con i quali nel 1826 aveva preso parte a una spedizione negli Altai e nella steppa del Kazakistan, decise di dedicargli una delle piante raccolte durante la spedizione, Parrotia persica, un endemismo della catena dei monti Alborz. Appartenente alla famiglia Hamamelidaceae, è un alberello noto soprattutto per lo spettacolare fogliame autunnale: le grandi foglie prima di cadere si tingono di giallo, d'arancio e di rosso. Piuttosto interessante anche la fioritura, che avviene sui rami nudi prima dell'emissione delle foglie molto presto nella stagione, tra febbraio e marzo; i fiori, piccoli e privi di petali, si fabbo notare per i numerosi stami con le antere rosso brillante. A lungo si è pensato che Parrotia fosse un genere monospecifico; solo nel 1998, sulla base dell'esame del DNA, è stata riclassificata come P. subaequalis una specie cinese prima classificata come Hamamelis subaequalis, poi come Shaniodendron subaequalis. E' anch'essa un piccolo albero o un grande arbusto con infiorescenze globose di fiori circondati da brattee e vistoso fogliame autunnale, dapprima bruno, quindi rosso brillante e viola. Molto raro in natura, è stato recentemente introdotto nei giardini (dove la sua sorella più nota era arrivata fin dal 1848, sempre grazie a Meyer, che ne l'aveva riprodotta nell'Orto botanico di San Pietroburgo). Ma c'è anche una "cugina" più lontana, assegnata a un genere a parte, Parrotiopsis, dal botanico C.K. Schneider nel 1905. La sua unica specie è Parrotiopsis jacquemontiana, originaria dell'Himalaya occidentale, dall'Afghanistan al Kashmir, dove vive nelle foreste tra 1200 e 2800 metri, un delizioso arbusto con vistose fioriture primaverili, che appaiono sui rami nudi; a renderli speciali, sono le grandi brattee crema che circondano un fitto ciuffo di stami dorati. Scoperto negli anni '30 dell'Ottocento, fu inizialmente assegnato al genere Fothergilla, quindi a Parrotia, con i nomi Parrotia jacquemontana e Fothergilla involucrata. Per completezza, ricordiamo anche x Sycoparrotia semidecidua, un ibrido intergenerico tra Sycopsis sinensis e Parrotia persica, prodotto intorno al 1950 nell'Orto botanico di Basilea in Svizzera. E' un bellissimo alberello, notevole sia per i fiori, con stami gialli e antere rosse, sia per il fogliame autunnale.
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Tra le questioni scientifiche più dibattute dalla scienza del '700 c'era quella della forma e della dimensione della Terra: a Newton che, sulla base della teoria della gravità postulava che fosse schiacciata ai poli e rigonfia all'equatore, si opponeva Cartesio che, basandosi sulla propria teoria dei vortici, pensava piuttosto a una forma simile a un uovo, con un allungamento verso i poli. A sostegno di quest'ultima tesi, l'astronomo Cassini portava le misure da lui effettuate in Francia. Per dirimere la controversia, nel 1735 l'Accademia delle Scienze francese organizzò due spedizioni: una si sarebbe recata in Lapponia, la seconda nel vicereame del Perù. Le misure di un arco di meridiano prese rispettivamente al circolo polare artico e all'equatore avrebbero dovuto fornire la risposta. Per la durata, le personalità coinvolte, i risultati, la più importante fu indubbiamente la seconda, passata alla storia con tanti nomi: Missione geodetica in Perù, Missione geodetica all'equatore, Missione geodetica franco-spagnola o anche Spedizione La Condamine, da uno dei principali protagonisti. Anche se i suoi obiettivi principali erano geografici ed astronomici, coinvolse anche un botanico, Joseph de Jussieu, e portò a rilevanti scoperte su piante medicinali di grande importanza. Fu la prima grande spedizione scientifica internazionale, poiché vi presero parte anche due giovanissimi e perspicaci ufficiali della Marina spagnoli, destinati a un brillante avvenire: Jorge Juan e Antonio de Ulloa, i due dedicatari dello spettacolare genere Juanulloa. Dramatis personae: francesi e spagnoli L'idea che la Terra non fosse perfettamente sferica fu avanzata nel 1671 dal francese Jean Picard, l'astronomo che inventò il metodo della triangolazione geodetica. Qualche anno dopo Newton affermò che, se la Terra possedesse solo il moto di rivoluzione, sarebbe perfettamente sferica; ma a causa del movimento di rotazione assume la forma di uno sferoide schiacciato ai poli e dilatato all'equatore. A questa tesi si opponeva Cartesio, che, sulla base della teoria dei vortici, riteneva piuttosto che il pianeta avesse una forma simile a un uovo, con un allungamento lungo l'asse dei poli. A partire dal 1683, si passò alla verifica sperimentale; in Francia, gli astronomi Cassini, Maraldi e La Hire misurarono un meridiano dalla Manica ai Pirenei; le loro misure sembrarono confermare l'allungamento della Terra in senso longitudinale, secondo la tesi di Cartesio, ma furono respinte come erronee dai newtoniani . Per risolvere la questione una volta per tutte, l'Accademia delle Scienze decise di organizzare due spedizioni geodetiche (debitamente finanziate dalla Corona), che avrebbero dovuto misurare un arco di meridiano rispettivamente in prossimità del Polo nord e all'Equatore. La spedizione polare (1736-1737) fu guidata dal convinto newtoniano Pierre Louis Moreau de Maupertuis, accompagnato dal matematico Alexis Clairaut e dagli astronomi Charles-Étienne-Louis Camus e Pierre Charles Le Monnier; in Svezia fu inoltre accolta da Anders Celsius, l'inventore del termometro centigrado. La spedizione misurò un arco di meridiano tra Kittis e Tornea, constatando che era più lungo rispetto quello misurato da Cassini tra Amiens e Parigi; era la conferma che la Terra è appiattita ai poli. Maupertuis ritornò trionfante a Parigi e presentò i risultati con grande risonanza mediatica, tanto da guadagnarsi da parte dell'ironico Voltaire il soprannome di "schiacciatore della Terra". Ben più complessa si presentava la spedizione all'Equatore. Il primo problema era politico: la Francia decise di effettuare le misurazioni nell'attuale Ecuador, che all'epoca faceva parte del Vicereame del Perù, territorio sotto la giurisdizione spagnola. Fino ad allora, la Spagna aveva sempre negato l'autorizzazione a spedizioni straniere nelle proprie colonie; in virtù del patto di famiglia (tanto a Parigi quanto a Madrid regnava un Borbone) e del desiderio di partecipare a un'impresa tanto prestigiosa, la Spagna si convinse, ma a condizione che partecipassero anche due militari iberici, ufficialmente come collaboratori, ma in realtà come sorveglianti. Fu così che la Missione geodetica all'Equatore divenne la prima spedizione internazionale dell'età moderna. Per numero di partecipanti era decisamente imponente. L'équipe scientifica francese comprendeva dieci membri: tre accademici, l'astronomo Louis Godin (1704-1760), che era anche colui che aveva avuto l'idea della missione; il matematico, fisico e idrografo Pierre Bouguer (1698-1758); il chimico e geografo Charles de La Condamine (1701-1774); i disegnatori e cartografi Jean-Louis de Morainville e Jean-Joseph Verguin; l'orologiaio e "ingegnere agli strumenti matematici" Théodore Hugot; il chirurgo Jean Siniergue; gli aiutanti Couplet-Viguer e Godin des Odonnais (nipote di Louis Godin); il medico e botanico Joseph de Jussieu (1704-1779), fratello minore degli accademici Antoine e Bernard. Infatti, anche se l'obiettivo principale della missione era geodetico e astronomico, l'Accademia non volle perdere l'occasione di studiare la natura di quella contrada esotica, in particolare le sue reputate piante medicinali. Aggiungendo i servitori e i soldati di scorta, a lasciare La Rochelle il 16 maggio 1735 a bordo del mercantile Portefaix furono in ventitré. Dopo 37 giorni di navigazione, la prima tappa fu la Martinica, quindi Santo Domingo dove dovettero attendere tre mesi il vascello che li avrebbe condotti a Cartagena de las Indias (nell'attuale Colombia); durante il soggiorno forzato, secondo la loro specializzazione, gli scienziati si dedicarono alle osservazioni astronomiche o alla raccolta di piante e animali. Purtroppo ebbero anche il primo assaggio di febbri tropicali: ne soffrirono Jussieu e Godin des Odonnais in modo lieve, La Condamine in modo grave, due servitori e un soldato ne morirono. Per rimpiazzarli, furono acquistati alcuni schiavi neri, intaccando le non molto abbondanti risorse finanziarie, che vennero per altro dissennatamente sperperate da Godin per far colpo su una bellezza creola. I francesi arrivarono a Cartagena solo nel novembre 1735, dove ad attenderli c'erano i loro compagni spagnoli, arrivati da Cadice già a giugno: una squadra di sette uomini capeggiata dai tenenti di vascello Jorge Juan Satacilia (1713-1773) e Antonio de Ulloa de la Torre Giral (1716-1795). Entrambi giovanissimi (avevano rispettivamente 22 e 19 anni), erano i due migliori allievi dell'Accademia dei guardia marina di Cadice, un centro di formazione di élite dove i rampolli dell'aristocrazia venivano preparati a comandare le navi della flotta spagnola. Avevano già partecipato ad azioni militari, possedevano buone basi matematiche e nozioni elementari di astronomia, ma erano dei "ragazzini" (come li definirà sprezzantemente La Condamine), che da guardia marina erano stati promossi dalla sera alla mattina tenenti di vascello per non troppo sfigurare. Erano muniti di istruzioni molto precise, alcune ufficiali, altre segrete: in base alle prime, dovevano determinare le coordinate dei porti visitati, tracciare le carte delle città, ispezionare lo stato delle difese, raccogliere ogni possibile informazione su cantieri, risorse economiche, minerarie e naturali incluse le piante, suggerire riforme; in base alle seconde, dovevano sorvegliare strettamente i francesi che agli occhi di Madrid, più che scienziati, erano potenziali spie. Nell'attesa dei francesi, anche loro non avevano perso tempo, esplorando e cartografando la regione: tra le altre cose, in una miniera abbandonata nella selva del Chocó Ulloa osservò un metallo così duro da resistere alla calcinazione. Era la prima segnalazione del platino, di cui Ulloa è considerato lo scopritore. Un'impresa epica... e litigiosa Così riuniti, francesi e spagnoli si imbarcarono per Portobelo, da dove avrebbero raggiunto la costa del Pacifico addentrandosi a piedi nelle foreste dell'istmo di Panama, un cammino reso difficile dalla vegetazione impenetrabile, dalle punture di insetti e scorpioni, dagli incontri con animali selvatici di ogni tipo, ma soprattutto dalle dimensioni stesse della carovana, che comprendeva trenta muli carichi di abiti, tende, attrezzi da cucina, armi, acquavite e ovviamente strumenti astronomici, geodetici, topografici. Trovare un imbarco a prezzo accessibile per tanti bagagli e una quarantina di persone fu dunque tutt'altro che semplice; solo dopo quasi tre mesi gli esploratori poterono imbarcarsi sul San Cristobal, che li condusse a Manta, sulla costa dell'attuale Ecuador (marzo 1736). Bouguer e Godin incominciarono subito ad accapigliarsi: gli accordi tra Francia e Spagna prevedevano che venisse misurato l'arco di meridiano che passa per Quito (sull'altopiano, a circa 2850 metri sul livello del mare), ma Bouguer suggerì di misurarlo sulla costa, dove le operazioni sarebbero state più semplici e non sarebbe stato necessario trasporre i calcoli al livello del mare; Godin rifiutò, ben sapendo che i loro passaporti erano vincolati all'itinerario già stabilito e che le autorità locali li guardavano con sospetto. Concesse però a Bouguer e La Condamine di fermarsi qualche giorno sulla costa per determinare la posizione esatta dell'equatore. Fu così che per arrivare a Quito ognuno dei tre accademici fece gruppo a sé: Godin e gli spagnoli vi arrivarono per primi il 29 maggio 1736, seguiti a qualche giorno di distanza dagli altri. Per nessuna delle tre comitive fu una passeggiata: senza considerare seccature come il cibo troppo piccante o la mancanza di vino, ad accoglierli ci furono nuvole di moscerini, piogge torrenziali, foreste in cui bisognava aprirsi il cammino con le asce e orientarsi con la bussola, ponti di corda sospesi su abissi vertiginosi. Dopo diversi mesi dedicati alla preparazione logistica e alla verifica degli strumenti, le triangolazioni iniziano a ottobre nella pianura di Yaruqui e proseguono fino all'agosto 1738: viene misurato l'arco geodetico che da Quito arriva fino a Cuenca, per una lunghezza di oltre 300 chilometri. Come aveva previsto Bouguer, effettuare misure geodetiche in un territorio accidentato d'altura pone problemi non banali. In una regione in cui le cime superano i 5000 metri, capita che le basi di rilevazione coincidano con un burrone o una scarpata, gli strumenti devono essere spostati, smontati e rimontati rischiando di comprometterne il funzionamento. Per sistemare i punti di riferimento e osservare gli angoli, bisogna scalare montagne, sopportare il mal d'altura, il freddo, le piogge torrenziali, le nebbie, il vento che spazza via i segnali (senza contare quelli smantellati e rubati dagli indigeni), cui si aggiungono occasionali terremoti e eruzioni vulcaniche. Molto spesso le guide si rifiutano di proseguire; gli unici che non demordono, e condividono con scienziati e tecnici il merito del successo finale, sono gli schiavi neri, di cui non conosciamo né il numero né il nome. A tutte queste difficoltà, si aggiunse la situazione finanziaria sempre più drammatica: terminati i fondi inizialmente assegnati e mai giunti quelli richiesti a Parigi, i francesi furono costretti a chiedere prestiti al tesoro spagnolo o a commercianti locali, indebitandosi sempre più pesantemente; ogni tanto, bisognava interrompere i lavori per tornare a Quito per riparare gli strumenti e per cercare soldi, un'operazione solitamente affidata a La Condamine: figlio di un esattore delle imposte, sapeva come condurre le trattative e, soprattutto, godeva di un patrimonio personale da usare come garanzia. Così, ogni tanto partiva e si faceva centinaia e centinaia di chilometri per andare a Lima a battere cassa. Le intemperie, le difficoltà del cammino, le malattie e gli scontri con i locali diradarono le file della spedizione: nel 1736 l'aiutante geografo Couplet-Viguer morì di malaria; nel 1739 Siniergues, in seguito a un intrigo amoroso, venne assassinato durante una corrida a Cuenca. Anche due dei servitori morirono di morte violenta. A tutte queste difficoltà oggettive si aggiunsero i pessimi rapporti tra i tre accademici; Godin rifiutò di mostrare i suoi dati ai colleghi per un confronto. Quando, terminate le misure geodetiche nell'agosto 1738, passarono a quelle astronomiche, un errore di calcolo di Godin rilevato da Bouguer fece scoppiare una violenta lite. Per altro, la parte astronomica delle missione si rivelò anche più penosa e difficile di quella geodetica, con giorni e giorni persi ad attendere condizioni di perfetta visibilità, supporti resi instabili dai terremoti, la necessità di smontare, rimontare e rettificare continuamente gli strumenti, senza contare l'inesperienza di Bouguer e La Condamine che persero quasi due anni in un duro apprendistato. Le misure astronomiche, condotte dagli accademici divisi in tre équipes separate, richiederanno quasi cinque anni, fino al 1743. Terminato il loro compito, anziché rientrare insieme, i tre litigiosi scienziati francesi si divisero, a testimoniare il solco incolmabile che si era scavato tra loro. Pierre Bouguer ripercorse all'inverso la strada dell'andata, imbarcandosi per Panama e da qui per le Antille, quindi per Nantes. Nell'agosto 1744 era a Parigi, dove il suo ritorno quasi non fece notizia: che la Terra fosse appiattita l'aveva già dimostrato Maupertuis otto anni prima. In ogni caso, egli presentò all'Accademia una relazione in cui cercò di attribuirsi tutti i meriti, minimizzando i contributi di Godin e La Condamine. Quest'ultimo arrivò a Parigi solo alla fine del 1745, dopo un viaggio molto avventuroso che merita di essere raccontato in un post a parte, visto che coinvolge la botanica e gli ha guadagnato la dedica di un genere. Quanto a Godin, aveva deciso di ampliare la triangolazione, estendendola fino alla latitudine di Cuenca; continuò il suo lavoro con l'assistenza di Juan e Ulloa fino al maggio 1744. Oppresso da enormi debiti che non aveva modo di saldare, si trasferì poi a Lima dove lavorò come astronomo e professore; poté tornare in Europa solo quando la corona spagnola pagò i suoi debiti a condizione che si trasferisse a Cadice come professore dell'Accademia dei guardia marina (quella dove si erano formati Juan e Ulloa). Non sarebbe più tornato in Francia. Un botanico inquieto e sfortunato Godin non fu il solo membro della spedizione ad essere trattenuto nel Vicereame del Perù dai debiti o da nuovi affetti. Suo nipote Jean-Baptiste Godin des Odonais si sposò con una ragazza della buona società creola e tornò in Francia con la moglie solo nel 1773 dopo avventure a non finire; in una versione un po' romanzata, le ha raccontate Robert Whitaker in La moglie del cartografo. Il meccanico-orologiaio Théodore Hugot rimase a Quito, si sposò con una peruviana e morì nella selva, mentre era impegnato a sfruttare una miniera. L'ingegnere e disegnatore Jean Louis de Morainville divenne architetto e morì per la caduta di una trave mentre lavorava alla ricostruzione di una chiesa a Riobamba, nel 1764 o nel 1765. Un destino amaro attendeva anche il nostro botanico, Joseph de Jussieu. Prima di studiare medicina e botanica seguendo l'esempio dei fratelli, aveva studiato matematica con l'intenzione di diventare ingegnere. In vista del viaggio in Sudamerica si era preparato alla sua missione studiando l'erbario di Joseph Donat Surian, il compagno di viaggio di Plumier. Le soste in Maritinica, a Santo Domingo, Cartagena e Portobelo furono per lui altrettante occasioni di raccolta di specie esotiche. Una volta a Quito, dovette però limitare le sue escursioni botaniche sulla sierra (dove in genere era accompagnato dal disegnatore de Morainville) perché, grazie alle sue basi matematiche, fu attivamente coinvolto nelle misurazioni geodetiche. Ma soprattutto a sottrarlo alle ricerche botaniche fu la sua condizione di medico in una regione dove la presenza di personale sanitario preparato era inversamente proporzionale alla frequenza di epidemie. Nel 1736 e nel 1737, insieme a Siniergues, fu cooptato dal viceré del Perù per assistere la popolazione colpita da epidemie di vaiolo a Cuenca e a Guayaquil. Fu dunque solo nel 1739, quando terminarono le misurazioni geodetiche, che poté dedicarsi pienamente alle ricerche botaniche. Quell'anno si recò a Loja, dove scoprì diverse specie di Cinchona, di cui studiò le caratteristiche botaniche e farmaceutiche. Quando la spedizione si sciolse, pensò di unirsi a La Condamine, ma ne fu impedito da un attacco di febbre e dalla mancanza di mezzi, che lo costringevano a mantenersi esercitando la medicina. Nel 1745 aveva abbastanza soldi per pensare di partire, ma non poté farlo a causa di un decreto della Real Audiencia di Quito che vietava di lasciare la città. Nel 1747, ricevette l'ordine del ministro degli esteri francese Maurepas di raggiungere Godin a Lima per recuperare gli strumenti. Attraversò a piedi la provincia di Canelos dove studiò gli alberi di cannella (non si tratta della vera cannella, Cinnamomum verum, nativa dell'Asia, ma di una pianta della stessa famiglia oggi denominata Ocotea quixos); esplorò poi la valle del fiume Chambo, le pendici del vulcano Tunguragua e la valle centrale, dove fece importanti raccolte botaniche che inviò ai fratelli a Parigi, raggiungendo Lima nel 1748. Qui si unì a Godin e ad agosto si mosse con lui in direzione di Buenos Aires, visitando tra l'altro le sponde del lago Titicaca, dove raccolse molti esemplari di uccelli. Ma quando raggiunsero La Paz, dopo un viaggio di nove mesi, decise di separarsi del suo compagno per visitare le coltivazioni di coca a Yunga, continuando poi per Santa Cruz de la Sierra. Aveva intenzione di raggiungere Godin più tardi, ma ciò non avvenne mai. Infatti nel luglio 1750 l'inquieto botanico arrivò a Potosì, dove sorgevano le più importanti miniere d'argento dell'epoca, e vi si trattenne per cinque anni, esercitando la professione medica e interessandosi di opere idrauliche. Con la vista indebolita, depresso e debilitato dalle malattie e dall'esposizione ai vapori di mercurio, tornò a Lima nel 1755. La famiglia premeva perché tornasse a casa, ma gli mancarono sempre i mezzi per farlo. Solo nel 1771 poté tornare a Parigi: era ormai un vecchio dal corpo e dalle mente distrutti; lasciò dietro di sé a Lima erbari e manoscritti che Joseph Dombey fu incaricato di recuperare senza esito. Altri materiali erano andati perduti già in precedenza, rubati da un servo. Ammesso all'Accademia delle scienze per volontà degli influenti fratelli, Joseph de Jussieu non poté partecipare neppure a una seduta. Visse ancora otto anni, immemore e immerso nel suo mondo interiore. Tra le piante di cui gli viene attribuita l'introduzione Heliotropium arborescens. I suoi maggiori contributi riguardano la china (Cinchiona spp.), l'albero di cannella (egli la chiamò, in onore del suo re, Borbonia peruviana, oggi come abbiamo visto si chiama Ocotea quixos) e la coca (Erythroxylum coca). Marinai, scienziati, funzionari, spie... Ad eccezione di La Condamine, sul quale ritornerò, nessuno dei protagonisti francesi di questa spedizione (incluso il botanico Joseph de Jussieu) ha dato il suo nome a un genere botanico valido. Uno più che notevole celebra invece congiuntamente gli spagnoli Jorge Juan e Antonio de Ulloa. E' dunque ora di conoscerli meglio. I due "ragazzini" non solo si dimostrarono compagni di lavoro leali e affidabili, ma sfruttarono l'occasione per un apprendistato che fece di loro due esponenti di punta dell'illuminismo iberico. Come ho già accennato, al loro arrivo nel Vicereame si unirono a Godin, in quanto capo della missione, e solitamente fecero squadra con lui anche negli anni successivi. Condivisero i disagi, i pericoli e le malattie e furono determinanti per il completamento della missione, imparando ad usare strumenti che in Spagna non si erano mai visti, tanto da trasformarsi in provetti geodeti, cartografi ed astronomi. Come i francesi, erano ben accetti dagli ambienti colti e illuminati della colonia, e sospetti alle autorità, che li consideravano delle spie del governo centrale. Ritardi nell'atto di nomina e il rimborso del trasporto di alcuni bauli contenenti strumenti scatenarono una battaglia burocratica con il presidente dell'Audiencia di Quito e il suo tesoriere che si trascinò per anni. In tre occasioni, tra il 1740 e il 1744, in seguito alla ripresa delle ostilità con l'Inghilterra i due furono cooptati dal viceré del Perù per la difesa della costa. Per rispondere alla sua chiamata, nel 1740 essi percorsero in meno due mesi i 1800 km che separano Quito da Lima, guadando fiumi impetuosi, attraversando selve e deserti privi di acqua potabile, sempre accompagnati dai fedeli moscerini. Mentre attraversava un burrone, Ulloa cadde dal mulo, si ferì gravemente, viaggiando fino a Lima in condizioni molto difficili. Appena guarito, con il suo commilitone si occupò di organizzare la difesa dei porti più importanti della costa peruviana, di dirigere le costruzioni navali e disegnare le mappe delle principali città. Nel settembre 1741 erano di nuovo a Quito, ma ben presto furono richiamati dal viceré che, oltre a compiti simili a quelli già visti, affidò loro il comando di due brigantini mercantili trasformati in navi militari per contrastare la minaccia inglese (che, per loro fortuna, non si palesò). Quando tornarono a Quito per la terza volta, la spedizione era già in via di scioglimento. Come abbiamo già visto, affiancarono Godin nella triangolazione dell'area di Cuenca fino al maggio 1744. Poi partirono anch'essi per l'Europa, imbarcandosi su due diverse navi di una flotta francese che seguiva la rotta di Capo Horn. Nell'Atlantico, i vascelli si persero di vista ed ebbero sorte molto diversa: quello su cui viaggiava Juan ebbe una tranquilla navigazione e arrivò a Brest nell'ottobre 1745; l'ufficiale spagnolo proseguì per Parigi, dove espose le sue osservazioni astronomiche all'Accademia delle scienze (di cui divenne membro corrispondente), per poi rientrare a Madrid. Quello su cui era imbarcato Ulloa fu catturato dagli inglesi nei pressi di Terranova; Antonio gettò fuori bordo tutti i documenti, ad eccezione delle misure geodetiche. Imprigionato, fu condotto a Londra; ma appena si conobbe la sua identità, fu liberato e ammesso alla Royal Society per i suoi meriti scientifici. Una nave inglese lo ricondusse in patria, dove arrivò qualche mese dopo l'amico. Nominati capitani di vascello, Juan e Ulloa scrissero a quattro mani Observaciones astronómicas y físicas hechas en los Reinos del Perú e Relación histórica del viaje hecho de orden de su Majestad a la América Meridional, pubblicati nel 1748, debitamente epurati dalla censura, che fece cancellare tutte le beghe con le autorità coloniali, e dall'Inquisizione, che impose di presentare il sistema copernicano come un'ipotesi non provata. Entrambi ebbero poi carriere prestigiose e furono figure importanti della rinascita scientifica della Spagna del secondo Settecento. Ulloa, dopo un viaggio di studio in Europa, fondò lo Studio e Gabinetto di storia naturale, antenato dell'attuale Museo nazionale di scienze naturali e creò il primo laboratorio di metallurgia del paese. Divenne poi un importante funzionario coloniale, occupandosi tra l'altro del miglioramento del servizio postale tra America e madrepatria. Meno fortunato nella carriera militare, fu messo sotto processo quando fallì nel tentativo di riconquistare la Florida, ma terminò la sua carriera con il grado di ammiraglio e direttore generale dell'esercito spagnolo. Quanto a Juan, nel 1748 il ministro della marina lo mandò in Inghilterra a spiare i cantieri navali britannici per carpirne i segreti industriali. Riuscì a svolgere brillantemente l'incarico, convincendo anche ingegneri navali e operai qualificati a trasferirsi in Spagna con le famiglie; la polizia era sulle sue tracce e arrestò alcuni dei suoi contatti, ma egli riuscì a sfuggire di un soffio imbarcandosi clandestinamente su una nave diretta in Francia. Nel 1752, fu nominato direttore della Accademia dei Guardiamarina di Cadice, dove ritrovò il suo compagno di avventure Godin. Provetto matematico, applicò le sue conoscenze alle costruzioni navali, trasformò l'arsenale di Cadice in un laboratorio all'avanguardia. Fu tra i promotori della creazione dell'Accademia delle Scienze di Madrid, città dove fondò anche l'Osservatorio reale. Fu poi coinvolto nella creazione dell'arsenale di Ferreol e nella riorganizzazione della Scuola dei nobili. Fu autore di un importante compendio di navigazione e come astronomo elaborò un metodo di calcolo della parallasse solare. Liane epifite e grappoli aranciati Nel loro Florae Peruvianae, et Chilensis Prodromus del 1794 Ruiz e Pavon dedicarono molti nuovi generi a scienziati spagnoli, con il preciso intento di dimostrare che la scienza iberica aveva ormai raggiunto la maggiore età e la Spagna poteva competere alla pari con le altre nazioni europee anche in questo campo. In questo contesto, la dedica di un genere a Juan e Ulloa era obbligata: non solo erano due esponenti particolarmente brillanti del rinnovamento scientifico della Spagna, ma come esploratori del Vicereame del Perù e membri di una missione internazionale franco-iberica potevano essere considerati i diretti predecessori degli stessi Ruiz e Pavon. La pianta che scelsero per onorarli era singolare da diversi punti di vista: cresceva sui rami degli alberi della foresta pluviale peruviana e produceva fiori spettacolari di un caldo color arancio; credendo si trattasse di una pianta parassita, la chiamarono Juanulloa parasitica, unendo nel nome generico i nomi dei due dedicatari, in modo da sottolineare la loro stretta collaborazione e l'amicizia che li legò per tutta la vita. In realtà, le specie di questo piccolo genere della famiglia Solanaceae non sono parassite, ma semi epifite: possono crescere sia a terra, sia su alberi e rocce. Le sue nove-dieci specie sono distribuite tra il Messico e il Perù; la maggior parte sono liane, ma possono avere anche portamento arbustivo. Molte sono caratterizzate da vistose infiorescenze di fiori con corolle tubolari avvolte in calici pentagonali persistenti dai colori brillanti (rosso, giallo, arancio, viola). La specie più nota, disponibile anche da noi in vivai specializzati, è J. mexicana (spesso commercializzata con il sinonimo J. aurantiaca). E' una liana o un piccolo arbusto perenne sempreverde con foglie coriacee e racemi di fiori penduli con calice e corolla arancio brillante. In natura può essere epifita; proprio per questo si adatta molto bene alla coltivazione in vaso. Un cenno alle altre specie e alla loro distribuzione nella scheda. Gli spagnoli li chiamavano semplicemente amapola, "papavero" o copa de oro. Ogni anno, a milioni rivestono di un tappeto d'oro le praterie della California che li ha scelti come proprio simbolo floreale. A questi fiori così semplici, così campagnoli, è stato assegnato uno dei nomi botanici dalla grafia più terroristica, Eschscholzia californica. Eppure a ideare questa mostruosità è stato un poeta. La colpa, più che sua, è di una duplice trascrizione: dal tedesco al russo, quindi dal russo al latino della botanica. A farne le spese anche il buon dottor Eschscholtz (nato altrove, si sarebbe chiamato Escholz): lo abbiamo incontrato come membro della prima spedizione Kotzebue insieme all'amico Adelbert von Chamisso (il poeta in questione); ora ci farà da guida nella seconda. Scopriremo poi che Eschscholzia californica ha tante sorelle, bellissime e ardimentose foglie dei deserti. Un fiore semplice dal nome terroristico Nell'ottobre 1816, quando i russi gettarono l'ancora nella baia di San Francisco, Adelbert von Chamisso fu piuttosto deluso; in quella stagione ormai autunnale le fioriture erano ben poche e la maggior parte delle piante apparivano disseccate dal sole estivo; gli sembrava di vedere solo cadaveri vegetali, tanto che parlò di "botanica forense". A rallegrare lui e l'amico Eschscholtz, lo zoologo e medico di bordo della Rjurik, le ultime tardive fioriture di una papaveracea dai fiori d'oro, che Chamisso avrebbe poi battezzato Eschscholzia californica. Esuberanti e generose, in primavera fioriscono a milioni, ma le fioriture possono prolungarsi sporadicamente fino all'autunno. Fu così che a questo fiore dalla bellezza semplice fu associato un nome dalla grafia terroristica. Scopriamo perché. Johann Friedrich Gustav von Eschscholtz era un tedesco baltico, nato a Dorpat (oggi Tartu), di lingua tedesca ma suddito russo. La grafia originaria del suo cognome era Escholtz (o anche Escholz), che nella trascrizione in cirillico diventa Эшшольц, ripetendo due volte il carattere corrispondente al trigramma tedesco sch. Ritraducendo in alfabeto latino, il tutto produce appunto Eschscholtz, la forma adottata in tutte le sue opere a stampa dal nostro dottore. Chamisso si adeguò, denominando il genere che celebra l'amico Eschscholzia (se non altro, risparmiò una t). Eschscholtz aveva studiato medicina e chirurgia all'Università di Dorpat, divenendo il più promettente allievo e l'assistente di von Ledebour. Quando fu scelto come medico di bordo e zoologo della Rjurik aveva appena ventidue anni. Era un naturalista entusiasta, appassionato soprattutto di insetti, ma pronto a estendere le sue osservazioni a tutti i campi della natura. Tra l'altro, fu il primo a segnalare il fenomeno del ghiaccio fossile (o permafrost), che poté studiate nella penisola di Seward in Alaska. Come quelle di Chamisso, le sue collezioni botaniche furono pubblicate in diverse riviste e in appendice alla relazione di viaggio di Kotzebue, A voyage of discovery into the South Sea and Beering's Straits … undertaken in the years 1815-1818 … under the command of the Lieutenant … Otto von Kotzebue (1821). Al suo rientro a Dorpat, si sposò con la sorella del maestro e iniziò una promettente carriera accademica; nel 1819 fu nominato aggiunto di anatomia e nel 1822 direttore del gabinetto zoologico. Pubblicò anche le sue scoperte entomologiche in Entomographien (1822). Intanto in Russia si andava preparando una terza circumnavigazione del globo. Nuovamente affidata al comando di Kotzebue (che nel frattempo era stato promosso capitano), avrebbe dovuto riprendere gli obiettivi di quella precedente, ma con mezzi maggiori, a partire dalla nave, la Predpriatie, una fregata con un equipaggio di 145 persone (la Rjurik ne ospitava 32). A bordo ci sarebbe stata anche un'équipe scientifica, interamente formata da giovani studiosi dell'Università di Dorpat; a capeggiarla fu chiamato proprio il nostro Eschscholtz, che era anche il medico di bordo. Gli altri erano l'astronomo Ernst Wilhelm Preuss, il geologo Ernst Hoffmann e il chimico e fisico Emil Lenz. Come si vede, nessun botanico; evidentemente, l'ammiragliato condivideva il punto di vista di Kotzebue e di tanti capitani, a cominciare da Cook: in una spedizione oceanografica, i botanici non servivano a niente e creavano solo guai. La Predpriatie avrebbe anche dovuto scortare una flotta di rifornimenti per l'America russa. Ma all'ultimo momento gli obiettivi furono cambiati; vista la sempre più agguerrita concorrenza di cacciatori di pellicce di altre nazioni, avrebbe dovuto soprattutto proteggere gli interessi russi, scoraggiando la penetrazione altrui lungo la costa nordoccidentale dell'Alaska. La seconda spedizione Kotzebue La Predpriatie salpò da Kronstadt il 28 luglio 1823 e seguendo la rotta ormai consueta il 23 dicembre doppiava Capo Horn; dopo una breve sosta a Talcahuano in Cile, si diresse a Tahiti, passando per l'arcipelago delle Tuamotu, dove toccò diverse isole scoperte in spedizioni precedenti e ne scoprì una nuova, battezzata appunto Predpriatie. Kotzebue giunse a Tahiti il 14 marzo 1824 e, dopo aver incontrato diversi membri della London Missionary Society, ne ripartì il 24. Proseguendo verso nord, incontrò varie isole degli arcipelaghi della Società e delle Sottovento, scoprendo l'atollo di Motu Onu (ribattezzato Bellingshausen in onore del celebre esploratore russo). La rotta proseguì attraverso le Samoa, dove furono scambiati maiali e altre provviste con gli indigeni, la catena Radak e le Marshall, già toccate durante il primo viaggio. Dopo una breve sosta a Petropavlovsk in Kamčatka, i russi raggiunsero le Aleutine e l'avamposto di Novoarchangelsk (Sitka) in Alaska, dove trascorsero i mesi estivi, impegnati in operazioni di pattugliamento. Scendendo a sud per svernare, il 27 settembre gettavano l'ancora nella Baia di San Francisco; rispetto alla visita della Rjurik, la situazione politica era totalmente mutata. Ora sul forte sventolava la bandiera messicana (nel 1822 l'Alta California si era infatti resa indipendente dalla Spagna). Il soggiorno si protrasse fino alla fine di novembre; grazie all'ospitale comandante della piazza, Eschscholtz ebbe l'opportunità di viaggiare in battello fino a Santa Clara e soprattutto di visitare l'avamposto russo di Fort Ross, nei pressi di Sonora, che era stato creato nel 1812 dalla compagnia russo-americana. Fu un viaggio avventuroso nel corso del quale poté incrementare le sue raccolte di insetti e osservare molte specie di uccelli; emozionante il viaggio di ritorno con una flottiglia di baidarke, i kayak degli Aleutini al servizio della compagnia. A novembre, insieme al comandante (con cui cui si intendeva molto di più di Chamisso) risalì il fiume Sacramento in una piacevole gita di più giorni; osservarono molti animali selvatici e fecero una scorpacciata degli acini, piccoli ma dolcissimi, delle viti selvatiche che si arrampicavano sugli alberi lungo le rive, predicendo un sicuro futuro vinicolo alla California. Con molto sangue freddo, Eschscholz rese inoffensivo e catturò un piccolo serpente a sonagli; conseguenze più sgradevoli ebbe l'incontro con una puzzola. Il secondo soggiorno californiano di Eschscholtz fu molto più produttivo del primo: circa duecento specie di insetti, tutti ignoti alla scienza tranne uno; una vasta collezione di molluschi; numerosi uccelli e anfibi; una quarantina di specie di uccelli; in tutto, registrò circa 2400 animali. Raccolse anche qualche nuovo esemplare di pianta, anche se queste collezioni sono difficili da distinguere da quelle del 1816; le pubblicò infatti insieme in Descriptiones plantarum novae Californiae, adjectis florum exoticorum analysibus (1826) che è anche la prima pubblicazione scientifica nel cui titolo si menziona la California. Lasciata la quale, il 12 dicembre Kotzebue era di nuovo a Honolulu, dove fece omaggio al ministro Kalaimoku di una copia calcografica del ritratto del re Kamehameha dipinto da Choris. Alla fine di gennaio, lasciate le Hawaii, si tornò a nord, puntando direttamente sull'Alaska; i mesi da marzo a agosto 1825 vennero di nuovo trascorsi a Novoarchangelsk. Con la fine dell'estate, giunse il momento del ritorno; di nuovo a Honululu il 13 settembre, dopo una sosta di appena sei giorni, la Predpriatie, attraverso le Marshall e le Marianne, si diresse a Manila per le riparazioni necessarie ad affrontare l'Oceano aperto. Ne ripartì il 10 gennaio 1826 e, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza, era di ritorno a Kronstadt il 10 luglio. Rispetto alla spedizione della Rjurik, quella della Predpriatie, che si mosse in gran parte lungo rotte già percorse e si trattenne per molti mesi in Alaska, fu molto meno ricca di scoperte geografiche, limitate ad alcuni atolli nelle Tuamotu, nelle isole della Società e nelle Marshall; uno fu dedicato proprio al nostro Eschscholtz, ma noi siamo abituati a chiamarlo con il nome locale Bikini. Rilevanti furono invece i risultati oceanografici, in particolare le misure delle temperature delle acque oceaniche profonde condotte da Emil Lenz (destinato a diventare un importantissimo scienziato). Di grande importanza per la storia della zoologia anche il lavoro di Eschscholtz, che, oltre che in California, fece raccolte significative di insetti anche in Alaska e nelle Hawaii. Nel 1825 nelle Marshall scoprì il primo esemplare di Balanoglossus. Di ritorno a Dorpat, fu nominato professore di zoologia e contribuì per le parti naturalistiche alla relazione di Kotzebue, nell'edizione inglese A new voyage round the world in the years 1823, 24, 25, and 26. Cominciò a lavorare a un grande atlante illustrato delle specie da lui scoperte; per identificare e classificare le numerose specie nuove di insetti (soprattutto coleotteri e lepidotteri), andò a Parigi a consultare l'esperto di coleotteri Pierre François Dejean. Purtroppo, morì improvvisamente ad appena 37 anni e il suo Zoologischer Atlas (1829-1833) uscì parzialmente postumo. Molte delle specie da lui raccolte furono descritte da altri, tra cui lo stesso Dejean, lo svedese Carl Gustaf Mannerheim e il tedesco naturalizzato russo Gotthelf Fischer von Waldheim. Una sintesi della vita troppo breve di questo grande zoologo nella sezione biografie. Eschscholzia, sognando California Il genere Eschscholzia, creato da Chamisso nel 1820, è strettamente legato alla California. Eccetto due, tutte le sue quattordici specie vi sono presenti; le spettacolari fioriture di Eschscholzia californica, la specie di nota e diffusa, in primavera trasformano le praterie della penisola in tappeti d'oro. La distesa più impressionante è la riserva dell'Antelope Valley nel deserto del Mojave, dove i "papaveri della California" coprono 1.745 acri; altre fioriture notevoli si possono godere nella Bear Valley, nel Carrizo Plain e a Point Buchon. Niente da stupirsi che siano stati scelti come simbolo floreale dello Stato di California. Piante adattabili, sono presenti in diversi habitat, dal livello del mare fino a 2000 metri, lungo la costa come nei deserti interni; prediligono le praterie aperte, ma crescono anche lungo le strade e in luoghi sassosi e sabbiosi. La fioritura è lunghissima, con un periodo che varia di anno in anno in base al regime delle piogge; può iniziare a febbraio e protrarsi fino a settembre (o oltre: come abbiamo visto, Chamisso e Eschscholtz la raccolsero a ottobre). E' anche piuttosto variabile, con varietà annuali e perenni; varia anche il colore dei petali: oltre al giallo aranciato prevalente, ci sono varietà giallo più o meno chiaro, bianche, rosate o rossastre. Ne hanno approfittato i vivaisti per creare numerose cultivar, alcune delle quali a fiori doppi. Diffusa nelle aree temperate di tutto il mondo come pianta da giardino, è arrivata anche dove non avrebbe dovuto. Si dice che quando finì la corsa all'oro, i minatori che andarono a cercare fortuna in Cile, in Nuova Zelanda e in Australia portarono con sé involontariamente i semi di E. californica mescolati alla sabbia della California usata come zavorra delle navi. Sia come sia, oggi in Cile i papaveri della California formano distese ancora più grandi e vigorosi di quelle della loro terra natale, a scapito delle piante native. Ma non c'è solo E. californica. C'è almeno una dozzina di altre specie, molte delle quali sono annuali degli ambienti desertici della California e degli stati adiacenti. Per conoscerle più da vicino, leggete la scheda, dove troverete anche informazioni sulle più interessanti cultivar di E. californica. Con milioni di esemplari venduti ogni anno e sempre nuove varietà immesse sul mercato, Weigela va sicuramente annoverata tra gli arbusti da fiore più popolari, grazie alla facilità di coltivazione e al notevole impatto estetico. Questo genere, che talvolta qualcuno si ostina a chiamare Weigelia, è originario dell'Estremo oriente e fu creato da Carl Peter Thunberg che ne raccolse una specie durante il suo soggiorno in Giappone. Il nome è un omaggio a uno dei suoi corrispondenti, il medico e docente universitario Christian Ehrenfried Weigel, tedesco di lingua e cultura, ma suddito svedese, perché nato in quella parte di Pomerania che per due secoli fece parte del Regno di Svezia. L'Università di Greifswald, dove egli studiò e insegnò per molti anni e dove numerosissimi erano gli studenti svedesi, fu un vero ponte culturale tra i due paesi, nonché uno dei principali poli di diffusione del sistema linneano in Germania. Benché nella maturità Weigel si sia distinto soprattutto come chimico, negli anni giovanili, oltre a dirigere l'orto botanico di Greifswald, scrisse una flora della Pomerania svedese e alcune interessanti osservazioni botaniche. Una regione contesa e una brillante carriera accademica Per circa duecento anni, dal 1630 al 1805, c'è stata una enclave svedese in territorio tedesco: la Pomerania occidentale, occupata durante la Guerra dei Trent'anni da Gustavo Adolfo Vasa e poi trasformata prima in un feudo reale, quindi dal 1648 in un territorio del Regno di Svezia, retto da un governatore svedese. Per le città pomerane, alcune delle quali in passato erano state città libere appartenenti alla Lega anseatica, non fu certo un buon affare, perché significò una sequela di guerre e distruzioni. Per la sua posizione di confine con il regno di Polonia, quella che più ebbe a soffrirne fu sicuramente Greifswald. Nel Medioevo, quando la regione faceva parte del ducato di Pomerania, era un fiorente centro mercantile, con una borghesia di origine per lo più tedesca; nel 1456 vi fu fondata una prestigiosa università di lingua tedesca, la quarta nell'area germanica (dopo Heidelberg, Lipsia e Rostock), che fu anche all'avanguardia nella diffusione del protestantesimo, con un'influente facoltà di teologia luterana. Durante la guerra dei Trent'anni, Greifswald fu dapprima occupata dalle forze imperiali, quindi subì un lungo assedio svedese; nell'arco di pochi anni, perse così due terzi dei suoi abitanti. Seguirono bombardamenti da parte delle truppe del Brandeburgo nel 1659 e nel 1678; durante la Grande guerra del Nord fu trasformata in un accampamento militare; nel 1713 e nel 1736 fu in gran parte distrutta da due devastanti incendi. Nonostante il governo svedese avesse esonerato dalle tasse chi costruisse o ricostruisse una casa, divenne una città fantasma. In tanta distruzione, un faro di civiltà rimaneva l'Università che, soprattutto nella seconda metà dl Settecento, quando finalmente tornò la pace, pur mantenendo il suo carattere tedesco, risentì positivamente del clima di rinnovamento pedagogico della Svezia illuminista; divenne così un ponte culturale tra Germania e Svezia che attirava numerosi studenti svedesi (oltre 1500 nell'arco di un cinquantennio) e favoriva l'interscambio di idee tra le due aree. In questo contesto, giocò un ruolo importante nella diffusione del sistema di Linneo, che dapprima era stato accolto con ostilità in Germania, in particolare dai botanici luterani che consideravano "oscene" le sue basi sessuali (ne ho parlato in questo post). A cancellare questi pregiudizi diede un valido contributo il pastore Samuel Gustav Wilcke (1736-1791); allievo di Linneo a Uppsala, venne a Greifswald a completare gli studi di teologia, vi tenne conferenze di storia naturale e nel 1763 vi fondò l'orto botanico universitario. Divenuto l'anno successivo pastore della Altkirche della limitrofa isola di Rügen, dove visse fino alla morte, fu autore della prima flora dell'area pomerana, Flora gryphica, exibens plantas circa Gryphiam intra miliare sponte nascentes (1765), dedicata alle piante spontanee che crescevano nell'arco di un miglio nelle campagne attorno a Greifswald. Tra i più entusiasti seguaci di Wilke vi fu certamente un giovane studente di medicina, Christian Ehrenfried Weigel, nato a Stralsund, un'altra città della Pomerania svedese, e arrivato a Greifswald sedicenne nel 1764 per iniziare gli studi di medicina e scienze naturali; nel 1769, come tesi di baccalaureato, scrisse un saggio sulla flora locale, poi pubblicata a Berlino con il titolo Flora Pomerano-Rugica, Exibens plantas per Pomeraniam anteriorem svecicam et Rugiam sponte nascentes methodo linneana secundum systema sexuale digestas. Concepito come un supplemento all'opera di Wilke (il raggio si amplia dai dintorni di Greifswald all'intera Pomerania svedese, compresa l'isola di Rügen), il lavoro si segnala in primo luogo per l'ortodossia linneana, esibita orgogliosamente fin dal titolo che fa piazza pulita di ogni remora moralistica. Frutto di molte escursioni e dell'osservazione diretta della flora locale, è un'opera notevole per uno studente ventenne; di ciascuna pianta vengono indicati anche i nomi comuni, la localizzazione, il periodo di fioritura, gli eventuali usi medici. Al momento della stampa di Flora Pomerano-Rugica, Weigel si era già trasferito a Gottinga, dove seguì tra l'altro i corsi di botanica di un altro linneano, lo svedese Johan Andreas Murray, e conseguì il dottorato in medicina nel 1771. Anche se non aveva abbandonato lo studio delle piante, compiendo anche diverse escursioni botaniche in Sassonia e in Assia, il centro dei suoi interessi andava spostandosi verso altri soggetti, in particolare la mineralogia e la chimica. Visitò infatti le miniere dello Harz e come tesi di dottorato presentò una dissertazione di chimica mineralogica. Dopo la laurea, tornò brevemente a Stralsund, dove esercitò la professione medica e continuò le ricerche di chimica nel laboratorio del padre, un medico con forti interessi per la chimica farmaceutica. Nel 1772 tornò a Greifswald come lettore aggiunto e direttore dell'orto botanico fondato da Wilcke (incarico che mantenne fino al 1781); in questa occasione, tenne una prolusione che, stampata con il titolo Observatones botanicae, costituisce il suo maggiore contributo alla studio delle piante. Non si tratta di un'opera organica, ma di una sequenza di 31 capitoletti (observationes) da brevi a brevissimi in stile aforistico di argomento vario: la segnalazione della presenza in Pomerania di specie precedentemente non segnalate; annotazioni sulle variazioni morfologiche di alcune specie in natura e in coltivazione; analisi della letteratura e discussione di specie oggetto di controversia tra i botanici. Il capitolo più ampio (Observatio I), e sicuramente il più interessante, è costituito da una rassegna del genere linneano Bromus, di cui Weigel, sulla base di un'attenta analisi morfologica, propone undici specie; va però notato che la botanica successiva ha ricondotto molte di esse a quelle linneane e nessuna delle sue denominazioni per questo genere è ora accettata. Lo sono invece tra le spontanee Juncus capitatus e tra le esotiche Lantana x mutabilis. Nel decennio successivo, tuttavia, prese il sopravvento l'interesse per la chimica; in questo campo, l'opera maggiore di Weigel è Grundriss der reinen und angewandten Chemie (1777), in due volumi, una delle prime in Germania a rivolgersi a un pubblico anche non universitario, in cui si occupò di chimica sia pura sia applicata in campo medico e soprattutto agricolo. Molte furono anche le sue traduzioni di opere di chimica dal francese, dall'inglese e dallo svedese. Intanto egli continuava una carriera accademica di successo nell'Università di Greifswald: titolare della nuova cattedra di chimica e farmacia della facoltà di medicina dal 1784, rettore dall'Università dal 1787, direttore dell'istituto universitario di chimica dal 1796 alla morte. I rivolgimenti politici che coinvolsero la Pomerania svedese nel primo Ottocento non sembrano lasciare alcuna traccia in questo percorso. Perfettamente inserito nel mondo culturale svedese, si adeguò senza imbarazzo a quello tedesco quando in seguito alle guerre napoleoniche la Pomerania passò alla Prussia: membro dell'Accademia della Scienze svedese dal 1792; protomedico della casa reale di Svezia dal 1795; conte del Sacro Romano impero nel 1806 (aggiungendo al cognome il prefisso nobiliare von); contemporaneamente cavaliere dell'ordine svedese della Stella polare (1814) e cavaliere di terza classe dell'ordine prussiano dell'Aquila rossa (1821). Del resto i tedeschi di Pomerania come lui erano abituati a destreggiarsi tra i due mondi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Weigela, un arbusto dalle fioriture prorompenti Per gli amanti delle piante, più che come autore di due operine di botanica sostanzialmente dimenticate, Weigel è soprattutto il dedicatario del magnifico genere Weigela (che, per un errore diffuso, molti chiamano Weigelia). A crearlo nel 1780 (all'epoca Weigel era ancora direttore di orto botanico di Greifswald) fu un altro allievo di Linneo, Carl Peter Thunberg, che del medico pomerano fu corrispondente. Il genere Weigela (famiglia Caprifoliaceae) comprende una dozzina di specie arbusti nativi dell'estremo oriente (Siberia, Cina, Giappone, Corea), solitamente rustici e molto adatti ai climi dell'Europa temperata. Grazie alle scarse esigenze, alla resistenza alle malattie e alle fioriture copiose, da almeno 150 anni sono tra gli arbusti più amati e comuni nei nostri giardini. La prima specie ad essere descritta fu W. japonica, raccolta da Thunberg in Giappone e pubblicata appunto nel 1780, ma la prima ad arrivare in Europa fu W. florida, introdotta dalla Cina nel 1845 da Robert Fortune. Questa specie fu anche a lungo la più popolare, tanto che tendiamo ad associare il suo nome quasi automaticamente alle Weigelae dei nostri giardini, anche se in realtà oggi le piante coltivate e vendute a milioni ogni anno sono per lo più ibridi, a volte con genealogie complesse e inestricabili. In effetti, fin dalla seconda metà dell'Ottocento i vivaisti si misero al lavoro per produrre varietà sempre più belle e fiorifere; se nel XIX secolo si preferirono soprattutto grandi arbusti imponenti con cascate di fiori sui lunghi rami arcuati, il gusto odierno, condizionato dalla piccolezza dei nostri spazi verdi, preferisce piante compatte, magari con foglie colorate o variegate. Il colore dominante dei fiori di questo genere è il rosa in tutte le sue sfumature, ma esistono anche tre specie con fiori gialli; alcune specie, poi, hanno fiori che nell'arco della fioritura cambiano colore, in modo tale che su un singolo arbusto vediamo fiori di colori diversi. Insomma, una cascata di bellezza in technicolor. Qualche approfondimento sulle principali specie e sulla storia degli ibridi nella scheda. Se Martino per un punto perse la cappa, la Wisteria per una e piuttosto che una a scatena scontri w-isterici sia sul dedicatario sia sulla corretta grafia del nome botanico. E dubbi: perché da noi si chiama glicine, se il vero Glycine è la soia? dove si trova quello più grande del mondo, in Giappone o in California? qual è il senso di avvolgimento dei rami? Che lo si chiami Wisteria o glicine, nessun dubbio sulla sua bellezza. Wisteria o Wistaria? Se leggiamo la fonte primaria, sul perché il nome botanico del glicine sia Wisteria non dovrebbero proprio esserci dubbi. Nel 1818 morì a Filadelfia Caspar Wistar, anatomista eminente, proibizionista e amico personale di Jefferson; lo stesso anno, il botanico Thomas Nuttall pubblicò il primo volume di The genera of American Plants, in cui volle rendere omaggio all'illustre scomparso dedicandogli il nuovo genere Wisteria, che egli aveva stabilito separando Wisteria floribunda, il glicine americano, dal genere linneano Glycine, come dichiarò esplicitamente: "In memoria di Capar Wistar, dottore in medicina, professore di Anatomia all'Università di Pennsylvania". Tutto a posto, tranne un piccolo particolare: perché Wisteria e non Wistaria? A chi glielo chiese anni dopo, Nuttall rispose semplicemente che Wisteria gli sembrava più eufonico. Del resto Wistar o Wister era la stessa cosa, non era in fondo lo stessa famiglia? I Wistar / Wister di Filadelfia infatti discendevano da due fratelli, immigrati tedeschi che si chiamavano originariamente Wüster. Il primo ad arrivare in America fu Caspar Wüster, che nel 1717 si stabilì in Pennsylvania ed divenne un ricchissimo fabbricante di vetri. Divenuto suddito britannico, assunse il cognome Wistar; una decina di anni dopo fu raggiunto dal fratello Johannes, che invece adottò il nome inglese John Wister. I discendenti di Caspar erano dunque i Wistar (il nostro Caspar era suo nipote), quelli di John i Wister. Il nipote di John, Charles J. Wister senior, era un ottimo amico di Nuttall. A intorbidare le acque, quando Nuttall era ormai morto e non poteva replicare, intervenne proprio il figlio di Wister, Charles J. Wister junior, che sostenne - per altro senza prove - che il vero dedicatario della Wisteria era suo padre, naturalista dilettante. La sua pretesa non è mai stata presa troppo sul serio dai botanici, che piuttosto si sono accapigliati se bisognasse mantenere il nome (scorretto) Wisteria o sostituirlo con quello (corretto) Wistaria. Alla fine si concluse saggiamente, secondo le regole della nomenclatura botanica che, poiché l'errore era deliberato, andava mantenuto il nome originario. Ma la doppia grafia ha lasciato una traccia permanente nella lingua inglese (nella quale wisteria / wistaria è il nome comune del glicine); ancora oggi, dizionari ugualmente autorevoli preferiscono quale l'una, quale l'altra grafia. Nel 2009 la decisione della direzione del Times di adottare ufficialmente la forma wisteria suscitò la ribellione del giornalista Richard Dixon, che difese a spada tratta wistaria. Dal 1973 in California, all'ombra della pergola ricoperta da un glicine che pretende di essere il più grande del mondo (piantato nel 1894, copre un pergolato di un acro, circa 4000 metri quadrati, produce 1 milione e mezzo di grappoli e nel 1990 è entrato nel Guinness dei primati) si svolge un festival: il suo nome è Sierra Madre Wistaria Festival. Più antico, ma di gran lunga più piccolo l'esemplare piantato nel parco giapponese Asikaga nel 1866 (l'estensione dichiarata è di 600 tatami, ovvero "appena" 1900 metri quadrati). D'altra parte, ognuna detiene il record per la propria specie: quello che fiorisce in California è un esemplare del più vigoroso glicine cinese (Wisteria sinensis), quello che dà spettacolo in Giappone è ovviamente un esemplare del relativamente meno espansivo glicine giapponese (Wisteria floribunda). Un anatomista... salottiero Ma torniamo a Wistar che, nel firmamento della nascente scienza americana, fu una stella di prima grandezza. Rampollo di una influente famiglia di Filadelfia, a quanto pare egli decise di diventare medico quando a 16 anni aiutò a curare i feriti della sanguinosa battaglia di Germantown (1777). Dopo la laurea all'Università della Pennsylvania, andò a perfezionarsi a Londra e a Edinburgo. Al suo rientro in patria (1787) iniziò una brillante carriera medica e accademica; divenne membro della American Philosophical Society (di cui fu anche curatore dal 1787 e presidente dal 1815). Fu tra i primi a respingere le cure a base di purganti e salassi, imperanti all'epoca. I suoi contributi principali sono nel campo dell'anatomia (il suo A System of Anatomy for the Use of Students of Medicine, 1811-1814, fu il primo testo di anatomia scritto in America) e della paleontologia. Amico personale del presidente Thomas Jefferson, collaborò con lui all'identificazione delle ossa del Megalonyx (un gigantesco bradipo fossile), e intraprese il primo studio dell'anatomia comparata degli animali fossili americani. Nel 1803, quando Jefferson lanciò la spedizione di Lewis e Clark (la prima a raggiungere la costa pacifica via terra), chiese la consulenza di Wistar, che ebbe un colloquio con Lewis, quindi stese per conto del presidente una lista degli obiettivi della spedizione. Wistar era famoso anche per il suo salotto. Dopo il suo matrimonio con Elizabeth Muffin, a partire dal 1799 o dal 1800 ogni settimana, la domenica sera, invitava a casa sua i membri della American Pilosophical Society e gli stranieri eminenti che visitavano la città. Questi intrattenimenti, noti con il nome di Wistar Parties, sono stati descritti come "banchetti intellettuali" in cui, con tatto e bonomia, Wistar guidava la conservazione dei suoi ospiti, l'élite scientifica del paese, invitandoli a illustrare gli argomenti di cui erano esperti senza eccessivi tecnicismi. Uno di quegli ospiti fu proprio Thomas Nuttall, che nel 1812 intrattenne la dotta compagnia con il racconto della sua spedizione lungo il Missouri. Qualche approfondimento su Wistar nella biografia. Semi di soia e grappoli di glicine Mentre gli anglosassoni si accapigliavano su wisteria / wistaria, saggiamente olandesi e tedeschi adottarono, rispettivamente, come nome volgare i poetici Blauweregen e Blauregen, ovvero "pioggia azzura". Nelle lingue mediterranee (ma anche quelle slave) il nome comune deriva invece dal vecchio nome botanico Glycine, che al momento attuale designa tutt'altre piante (la più nota è la soia, Glycine max). Il genere Glycine venne creato da Linneo nel 1753; includeva tra l'altro una pianta tuberosa americana (Glycine apios, oggi Apios americana) dalle radici dolci (Glycine deriva dal greco glukus, che significa "dolce"). Per una serie di complesse vicende, neppure una delle specie inizialmente incluse da Linneo nel suo genere Glycine si chiama ancora così, tanto che il genere è stato ristabilito su diverse basi da Willdenow nel 1802 (e solo molto più tardi vi è stata inclusa la soia). Anche se quando il glicine cominciò a diffondersi nei giardini - le specie più note arrivarono infatti in Europa dalla Cina e dal Giappone nel corso dell'Ottocento - Nuttall lo aveva già denominato Wisteria, il vecchio nome botanico era ancora quello prevalente, tanto da imporsi come nome comune in molte lingue, generando anche una curiosa incongruenza: il vero Glycine dei botanici grazie ai semi commestibili è una delle piante alimentari più importanti del mondo; Wisteria, il falso glicine della lingua comune, ha semi velenosissimi. Wisteria (famiglia Fabaceae) comprende cinque-sette specie di rampicanti dalle fioriture estremamente decorative, originarie una dell'America settentrionale, le altre dell'Asia orientale. Le specie più note e coltivate sono quella cinese (W. chinensis) e quella giapponese (W. floribunda), caratterizzata dai grappoli molto lunghi; curiosamente, mentre le specie americana e cinese si avvolgono in senso antiorario, quelle giapponesi vanno contro corrente e si avvolgono in senso orario. In giapponese il glicine si chiama fuji o huji e ha un'enorme importanza culturale. Simbolo dell'amore e della longevità, ha anche ispirato un dramma del teatro Kabuki (Fuji Musume, "La fanciulla del glicine"). Inutile dire che proprio in Giappone si trovano i giardini più belli; a Kitakyushu gli è stato dedicato un intero giardino (Kawachi Fujien Gardens), con 150 glicini in 20 varietà; l'attrazione principale è un tunnell di 100 metri che sfuma dal bianco al blu, al lavanda, al viola, al rosa. Approfondimenti nella scheda. Matematico, astronomo, fondatore del calcolo delle probabilità, Pierre Simon de Laplace fu sicuramente una delle figure dominanti della scienza di primo Ottocento, con innumerevoli contributi nei campi dell'analisi matematica e dei più svariati settori della fisica, compresi la descrizione della meccanica celeste e la formulazione dell'ipotesi sulla formazione del sistema solare. Resta da scoprire perché Humboldt e suoi collaboratori Bompland e Kunth gli abbiano dedicato il genere Laplacea. Un grande scienziato opportunista All'epoca napoleonica, Parigi era indubbiamente la capitale della scienza mondiale, con le sue grandi istituzioni pubbliche come il Jardin des Plantes, l'Ecole polytechnique e l'Accademia delle scienze. Non mancavano anche i circoli privati, come la Societé d'Arcueil che tra il 1806 e il 1822 si riuniva la domenica nel villaggio di Arcueil, a sud di Parigi, ora a casa di Laplace, ora a casa di Berthollet. In occasione delle riunioni, i membri della società leggevano le loro memorie scientifiche; nel parco della casa di Laplace (che egli aveva acquistato da Rewbell, uno dei cinque membri del direttorio) c'era anche una piccola costruzione allestita come laboratorio per gli esperimenti di fisica e di chimica. Tra i partecipanti regolari alle riunioni, accanto ai "padroni di casa" Laplace e Berthollet, ricorrono molti grandi personaggi della scienza dell'epoca, come Biot, Gay-Lussac, Arago, Malus; erano soprattutto matematici, fisici e chimici, ma almeno un nome ci riporta alle scienze naturali e alla botanica: quello del grande tassonomista Augustin Pyramus de Candolle. Tra i più assidui, anche il viaggiatore e naturalista tedesco Alexander von Humboldt, che dal 1804, di ritorno dal suo viaggio in Sud America, decise di stabilirsi in Francia, dove visse per circa un ventennio, stringendo legami di amicizia e di collaborazione scientifica con diversi degli scienziati citati. Più ambigui i suoi rapporti con Laplace. Ufficialmente, tra i due ci fu sempre ammirazione reciproca: nel 1814, nel pubblicare il primo volume del suo monumentale Voyage aux régions equinoxiales du Nouveau Continent, insieme all'amico e compagno di viaggio Bonpland il tedesco dedicò l'opera al matematico francese: "All'illustre autore della Meccanica celeste, P. S. de Laplace, come debole omaggio di ammirazione e riconoscenza". Nel 1821, Laplace ricambiò il favore, dedicando a Humboldt la quinta parte dell'Exposition du système du monde pubblicata come libro indipendente sotto il titolo Précis de l’histoire de l’astronomie: "Al sig. Humboldt, come debole omaggio di stima e riconoscenza per i suoi importanti lavori nei diversi rami della filosofia naturale, e specialmente per il suo Viaggio nelle parti equinoziali del nuovo continente". Inoltre, Laplace aveva favorito l'ammissione di Humboldt all'Accademia delle scienze di Parigi, mentre il tedesco l'aveva ricambiato dandosi da fare perché egli fosse ammesso all'Accademia leopoldina di Berlino. Inoltre, quando nel 1821 per impulso di Humboldt nacque la Societé Geographique, che vide tra i soci fondatori oltre a molti degli scienziati già citati, illustri naturalisti come Cuvier, Lamarck, Antoine-Laurent de Jussieu, l'egittologo Champollion, lo scrittore Chateaubriand, Laplace venne scelto come presidente, a dimostrazione del suo prestigio negli ambienti scientifici d'oltralpe. Del resto, Humboldt riconobbe il suo debito scientifico con il grande matematico, citandolo ripetutamente nelle sue opere. Durante il suo viaggio in Sud America, e in particolare in occasione della celebre ascensione del Chimborazo, si avvalse della formula barometrica di Laplace per stabilire l'altitudine; fu molto influenzato dai suoi metodi statistici; soprattutto i due avevano in comune una visione scientifica che rifiutava ogni finalismo e cercava di scoprire le leggi dei processi naturali all'interno della natura stessa. Quanto all'uomo Laplace, le opinioni di Humboldt erano più sfumate: nel 1827, alla sua morte, egli scrisse infatti a Gauss: "Con lui scompare una grande - non devo dire l'ultima - gloria matematica della Francia perché riuniva al talento matematico (che forse aveva in comune con Poisson, Fourier e Cauchy) una conoscenza estremamente estesa e una cultura linguistica molto più nobile del suo carattere". In effetti, Laplace fu un grandissimo matematico e fisico, ma un uomo meschino. Con cinico opportunismo, questo grande camaleonte riuscì a rimanere a galla sotto tutti i regimi, proseguendo senza ostacoli una brillante carriera di scienziato e uomo dell'establishment, membro di innumerevoli commissioni: repubblicano ai tempi della rivoluzione, dopo il colpo di stato si schierò con Napoleone, tanto che nel 1799 il primo console lo nominò ministro degli interni (ma lo congedò dopo sei settimane; purtroppo Laplace si era rivelato pessimo amministratore e provetto "complicatore di questioni semplici"); divenne poi senatore, vicepresidente del Senato, membro della Legione d'onore e conte dell'Impero e dedicò all'imperatore il terzo volume della Meccanica celeste. Tuttavia nel 1814, vedendo il crollo di Bonaparte, si affrettò a votare la cessazione dell'Impero e offrì i suoi servigi a Luigi XVIII, che lo compensò nominandolo marchese. All'epoca di Carlo X si alienò definitivamente la stima dei democratici votando le leggi che inasprivano la censura. Sul piano personale, era caratterizzato da un'altissima opinione di sé ed è stato accusato di essersi appropriato del lavoro di altri studiosi, senza citarli. Forse tutte queste ragioni spiegano perché, al contrario di altri scienziati, come Lagrange, non sia stato sepolto al Panthéon di Parigi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Laplacea, forse che sì, forse che no Se anche aveva riserve sulla persona (questo voltagabbana non poteva piacere a un uomo come Humboldt che, benché fosse un barone prussiano, era affascinato dagli ideali della rivoluzione, cui rimase fedele anche durante l'impero di Napoleone, che lo detestava cordialmente e lo sottopose alla sorveglianza della polizia politica, temendo fosse una spia), oltre che nei modi che abbiamo già visto, lo studioso tedesco volle rendere omaggio al Laplace scienziato anche con la deduca di uno dei numerosissimi nuovi generi da lui scoperti durante il viaggio in Sud America. Al loro ritorno, infatti, Humboldt e Bonpland portavano con sé un enorme bottino di piante, di cui almeno 3600 specie o generi del tutto nuovi alla scienza. Con l'aiuto del tedesco Karl Sigismund Kunth tra il 1816 e 1826 esse vennero pubblicate nel monumentale Nova genera et specie plantarum. Una di esse, una Theacea raccolta sulle montagne colombiane, venne battezzata Laplacea speciosa. Tralasciando le ancor più complicate vicende di sinonimi concorrenti usciti presto dall'uso, la storia del nuovo genere appare tormentata. Per qualche tempo Laplacea fu mantenuto distinto dall'altro genere americano, Gordonia (rappresentato dalla nordamericana G. lasianthus), ma, mano a mano che si scoprivano nuove specie in Sud e Centro America, molti studiosi si convinsero che la distinzione fosse superflua; così Laplacea confluì in Gordonia, e persino la specie tipo, L. speciosa Kunth venne ribattezzata Gordonia fruticosa. Pochi anni fa (2001), il genere Laplacea è stato però resuscitato sulla base di studi filogenetici che ne hanno dimostrato l'affinità più con le Camelliae (entrambe apparterrebbero alla tribù Theeae) che con le Gordoniae (appartenenti alla tribù Gordonieae). Conclusioni accettate solo da alcuni studiosi; molto discusso è anche il numero delle specie che gli devono essere assegnate. Indiscutibile è invece la bellezza di questi alberi tropicali, comunque li si classifichi. La specie tipo, Laplacea fruticosa, è un magnifico albero colonnare della foresta pluviale e amazzonica, semideciduo, alto una trentina di metri, con spettacolari fiori bianchi profumati con numerosi stami gialli, di aspetto molto simile a quelli delle Camelliae, grandi foglie ovali con margine seghettato che prima di cadere diventano rosse, formando un bel contrasto con le foglie nuove, di un brillante verde profondo. Qualche notizia in più nella scheda. La storia della denominazione della Romneya sembra seguire le regole del gioco dell'oca: Harvey vorrebbe darle il nome dello scopritore, ma il dado cade sulla casella sbagliata. Secondo tiro, ma va male anche questa volta. Buona la terza! E in modo un po' contorto, il bel papaverone della California è diventato Romneya coulteri. Se non lo vieta de Candolle La storia della denominazione celebrativa delle piante a volte passa per vie inaspettate. Ne è un bell'esempio la Romneya coulteri, la cui fotografia campeggia questo mese sul calendario distribuito da una nota rivista di giardinaggio. Tra il 1824 e il 1824, Thomas Coulter, un medico e botanico irlandese, esplora la flora del Messico, dell'Arizona e dell'Alta California. Il bottino della sua spedizione è così importante che quando morirà nel 1843 molte piante sono ancora da identificare e pubblicare. Il compito viene ereditato dal suo successore nell'incarico di Conservatore dell'erbario del Trinity College di Dublino, il celebre botanico William Henry Harvey. Tra gli altri esemplari, c'è anche una magnifica papaveracea che, per diverse caratteristiche, non può essere inserita in alcun genere noto. Occasione ghiotta per Harvey per rendere omaggio al predecessore e conterraneo, nonché scopritore di quella bellezza botanica. Ma purtroppo chiamarla Coulteria non è possibile: a dedicare un genere celebrativo a Coulter - che tra l'altro era stato suo allievo - aveva già provveduto il grande tassonomista Augustin de Candolle. Allora Harvey pensa a un omaggio indiretto, attraverso la dedica a una personalità in qualche modo legata a Coulter. La sua scelta cade su John Thomas Romney Robinson, un eminente astronomo dublinese, direttore dell'osservatorio di Armagh, che di Coulter era stato intimo amico. Non si tratta di un botanico, questo è vero, ma sicuramente di un grande scienziato, uno delle glorie dell'Irlanda. Secondo tutte le regole, la nostra bella californiana, dunque, dovrebbe chiamarsi Robinsonia. Ma anche questo nome non è disponibile: sempre il solito de Candolle qualche anno prima aveva avuto la bella pensata di dedicare un genere di Asteraceae endemiche dell'arcipelago Juan Fernandez niente po' di meno che... a Robinson Crusoe. Infatti proprio in una di quelle isole era vissuto il naufrago Aleksander Selkirk, alle cui avventure si ispirò il capolavoro di Defoe. Anche un personaggio letterario, mai esistito, può dare il suo nome a una pianta! Per cavarsi d'impiccio, Harvey ripiegò sul secondo nome di Robinson, Romney. Com'è noto, nel mondo anglosassone alcune persone, oltre al primo nome (noi diremmo il nome di battesimo) e il cognome, portano un secondo nome (second name o middle name), che può essere il nome di una persona cara, il cognome della madre, il cognome di una persona che si vuole ricordare. E' proprio il caso del nostro John Thomas Romney Robinson (che di nomi ne aveva addirittura quattro): suo padre Thomas Robinson, un pittore di discreto livello, era stato allievo del celebre ritrattista George Romney e aveva voluto ricordare il maestro imponendo al figlio il middle name Romney. E così fu Romneya coulteri, che unisce nel nome specifico lo scopritore e in quello generico il suo ottimo amico. Da bambino prodigio a un cratere lunare John Thomas Romney Robinson non era un botanico, l'abbiamo già visto, ma certo ha meritato la sua dedica più dell'inesistente Robinson Crusoe. A leggere la pagina a lui dedicata dall'Osservatorio di Armagh, di cui fu il terzo direttore, scopriamo un personaggio tutt'altro che banale. Bambino prodigio (qui vedete il suo ritratto da bambino, dipinto ovviamente dal padre), a tre anni già leggeva poesie e a cinque le scriveva. A nove anni pubblicò un poema (The Triumph of Commerce), a sedici terminava la scuola superiore e a 21 era già laureato e membro del Trinity College. Dopo una brillante carriera accademica, a trentun'anni divenne direttore dell'Osservatore di Armagh e (finalmente tiriamo il fiato) mantenne l'incarico per ben 59 anni, un altro record. Collaborò al perfezionamento dei telescopi e lavorò spesso con quello che allora era il più grande telescopio del mondo (si trovava proprio in Irlanda ed è passato alla storia con il nome di Leviatano di Parsonstown). Oltre a compilare un catalogo stellare, inventò un nuovo modello di anemometro, per misurare la velocità del vento (anemometro di Robinson). Quasi coetanei, i due Thomas, Coulter e Robinson, si erano conosciuti intorno al 1812, quando entrambi - tutti e due studenti precoci affascinati dalle scienze naturali - frequentavano il Trinity College. Anche quando Coulter partì per il Messico, rimasero in contatto; ad esempio, nel 1825 egli inviò all'amico le sue osservazioni su un'eclissi di sole. Alla morte precoce di Coulter, Robinson ne fu anche l'esecutore testamentario. Oltre che dalla Romneya, è celebrato anche da uno dei crateri lunari, il cratere Robinson. Qualche notizia in più nella biografia. Romneya, una californiana irlandese Romneya è un piccolo genere della famiglia Papaveraceae, che comprende 1 o 2 specie. R. coulteri è un endemismo del Messico settentrionale e della California, dove cresce fino ai 1000 metri (il che la rende più rustica di quanto si potrebbe pensare). Il suo habitat sono i greti asciutti dei torrenti e in genere il chaparral (una formazione che può ricordare la macchia mediterranea). E' una pianta magnifica e imponente, più un arbusto che un'erbacea, che può arrivare a 1.8 d'altezza (uno dei suoi nomi inglesi è "tree poppy", papavero arboreo), resa spettacolare dagli enormi fiori bianchi - i più grandi in questa famiglia - a sei petali deliziosamente arricciati, con un vistoso piumino di stami dorati al centro. Le foglie glauche, profondamente divise, aggiungono un tocco d'eleganza. Una romantica leggenda è legata alla R. coulteri, conosciuta in California come Matilija, Matilija poppy. Matilija era il capo della tribù Chumash che all'inizio dell'800 viveva nelle valli della contea di Ventura. Sua figlia Amatil si innamorò di un giovane guerriero, ma fu rapita dagli Spagnoli e portata nella missione Buenaventura, lontanissima dalla sua tribù e dal suo amore. Quando riuscì a fuggire e tornare a casa, scoprì che l'uomo del suo cuore era morto in battaglia contro gli Spagnoli. I petali bianchi della Romneya simboleggiano le sue lacrime, i pistilli dorati il suo cuore generoso. Oltre alla duplice dedica a due scienziati irlandesi, c'è un secondo filo che lega la bella californiana all'Irlanda. Raccolta da Coulter nel 1833, fece la sua comparsa nei giardini europei qualche anno più tardi. E il primo luogo in cui fiorì "in cattività" fu proprio il Giardino Botanico di Glasnevin a Dublino, dove approdò nel 1876 e dopo due anni raggiunse l'altezza di 1.8 m e si esibì nella sua spettacolare fioritura. Altri dettagli nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
August 2024
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