Perché mai un botanico scozzese dell'Ottocento dedicò un genere che vive solo in America settentrionale a una regina di Siria del III secolo (che non sembra aver coltivato alcun rapporto con le piante)? Sarà stata una reminiscenza degli studi classici, o la semplice suggestione di un nome sonoro? Per capirlo, facciamo un passo indietro e ci addentriamo nelle paludi lapponi in compagnia di Linneo. ![]() Il colpo di fulmine di Linneo e i nomi classici di Don Un nome botanico può anche nascere da un colpo di fulmine. Almeno è quel che accadde a Linneo nel corso della spedizione lappone del 1732, di fronte all'irresistibile charme di un piccolo arbusto di palude. Lasciamoglielo raccontare con le sue parole: "Ho notato che prima di fiorire è rosso sangue, ma non appena fiorisce i petali diventano color carne. Dubito che qualsiasi artista possa riuscire a riprodurre questo incarnato nel ritratto di una giovane donna, o ad adornarne le guance con le sue bellezze che nessun belletto potrebbero prestarle. Appena l'ho vista mi sono ricordato di Andromeda come viene descritta dai poeti, e più ci rifletto più trovo somiglianze con la pianta. Se Ovidio avesse voluto descrivere la pianta simbolicamente non avrebbe potuto trovare maggiore affinità. E' ancorata lontana nell'acqua, come se fosse incatenata a una roccia in mezzo al mare. L'acqua le arriva alle ginocchia, sopra le radici; ed è sempre circondata da mostri velenosi - rospi e rane - che in primavera, quando si accoppiano, la inzuppano d'acqua. Lei sta in piedi e inchina il capo per il dolore. Poi i suoi piccoli grappoli di fiori con le loro guance rosa cadono e lei diventa sempre più pallida". Decise così di chiamare quella pianticella Andromeda e, per rendere ancora più evidente l'analogia che lo aveva tanto colpito, volle accompagnare quelle note con un disegno (non certo un capolavoro artistico): sulla sinistra una fanciulla nuda, incatenata a una roccia, assediata da un drago (ovvero la principessa Andromeda del mito, offerta in pasto a un drago inviato da Nettuno); dall'altra l'Andromeda della botanica, con la corolla graziosamente reclinata, assediata da un più prosaico tritone. La scritta recita: "Andromeda fittizia e vera; mistica e genuina; immaginata e ritratta". Questa storia non avrebbe diritto di cittadinanza in questo blog (qui i nomi sono sempre tratti da persone vere, non da figure immaginarie) se non fosse per il botanico scozzese David Don, a lungo curatore dell'Orto botanico di Edimburgo. Nel 1834 egli pubblicò A New Arrangement of the Ericaceae, in cui tra l'altro rivide il genere Andromeda separandone diversi nuovi generi, che naturalmente avevano bisogno di un nome. Per assegnarglielo, seguì da vicino le orme di Linneo, ripescando alcuni nomi femminili dalla mitologia classica: in primo luogo Cassiope (ovvero la madre di Andromeda); Leucothoe (figlia di un re di Babilonia che fu trasformata da Apollo in un arbusto profumato), Cassandra (la figlia di Priamo inascoltata profetessa di sciagure; inascoltata anche nella botanica, visto che oggi è sinonimo di Chamaedaphne). Ma in un caso fece eccezione: per il genere Zenobia non scelse una figura mitologica, ma storica, niente meno che la celebre regina Zenobia di Palmira, capace di tenere testa all'esercito romano. Una figura che in quegli anni doveva essere abbastanza nota, se pensiamo che nel 1813 andava in scena l'opera rossiniana Aureliano in Palmira, di cui Zenobia è la protagonista femminile. Le ragioni della scelta di Don rimangono misteriose. La motivazione non dice molto: "Da Zenobia, l'onoratissima regina di Palmira, che si distinse per la sua virtù, il suo valore e la sua sapienza, e fu celebre per le sue sventure". Forse, nonostante si sia ormai nel pieno del Romanticismo, la suggestione dell'antichità rimaneva forte; oppure nella scelta il botanico scozzese si è fatto guidare dal puro piacere del suono, assegnando alle sue piante bei nomi evocativi, senza alcun legame razionale con ciò che designano; o forse, un legame sottile c'è. Tutte queste figure, sia le quattro immaginarie - Andromeda, Cassiope, Leucothoe, Cassandra - sia l'unica storica, Zenobia, sono fanciulle e donne infelici, sventurate; adatte, quindi, come aveva suggerito Linneo, a prestare il loro nome a questi gentili arbusti che piegano le loro corolle in basso, come un capo reclinato in segno di dolore. Naturalmente è solo un'ipotesi. Il dato certo, l'unico, è che grazie a Don una donna interessante e eroica è entrata nella storia della botanica. Vissuta nel III secolo, in uno dei momenti di maggior decadenza dell'Impero romano, minacciato a est dai Parti e a ovest dai barbari germani, Zenobia ne approfittò per ritagliarsi un regno indipendente, estendendo le sue conquiste alla Siria, alla penisola anatolica, al Libano, alla Palestina e all'Egitto. Donna colta e raffinata, fece della sua corte un centro di incontro tra le diverse culture che convivevano in Oriente; chissà se tra le scienze coltivate a Palmira non ci fosse anche la botanica? Non ne sappiamo nulla; sappiamo solo che, dopo aver fatto tremare Roma, fu sconfitta dall'Imperatore Aureliano che la umiliò portandola nella capitale e ostentandola nel suo trionfo (e saranno queste, insieme alla morte del marito e del figlio, le "sventure" cui allude Don). Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Zenobia, bellezza delle paludi Il genere Zenobia, come Andromeda e le sue sorelle Cassiope e Leucothoe, appartiene alla famiglia Ericaceae; comprende da una a tre specie di arbusti originari delle zone sabbiose umide e delle paludi degli Stati Uniti sudorientali. Stando a Plant List, comprende tre specie (Z. cassinefolia, Z. pulverulenta, Z. speciosa), ma il più aggiornato Plants of World ne riconosce una sola (gli altri sono sinonimi), Z. pulverulenta, una specie abbastanza polimorfa, il che spiega queste incertezze tassonomiche. Nativa delle pianure costiere degli Stati Uniti sudorientali (North Carolina, South Carolina e Virginia), fu "scoperta" a fine Settecento nelle paludi della Florida dal celebre raccoglitore William Bartram, che la ritrasse dal vivo; sul suo disegno si basa la prima descrizione scientifica, sotto il nome di Andromeda pulverulenta, da parte di Willdenow (1799). E' un arbustino eretto con piccoli fiori campanulati, reclinati, delicatamente profumati; come si è accennato, presenta diverse forme. Nelle dune costiere (Sandhills) delle due Caroline, le foglie e i ramoscelli sono glauchi; più a est sono invece verdi; alcune varietà hanno foglie particolarmente decorative in autunno. Per il dolce profumo dei fiori, che alcuni accostano a quello dell'anice, altri a quello dei fiori degli agrumi, negli Stati Uniti è detta Honeycup, "coppa di miele". Qualche approfondimento nella scheda.
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Ecco un genere familiare a tutti: con le sue numerosissime specie, è a suo agio sui bordi delle strade e nei terreni incolti, sulle morene alpine, nell'orto delle aromatiche e nelle bordure di foglie argentee. Presta il suo aroma a raffinati piatti della cucina francese e dona piacevoli note amare a uno degli aperitivi più celebri e al liquore più amato dai poeti maledetti. E' il genere Artemisia, e forse, ma solo forse, deve il suo nome a un'antica regina, che i pittori barocchi amarono rappresentare mentre sorseggia una bevanda amara (ma era ben altro che assenzio l'ingrediente che la rendeva tale). ![]() Una regina tra storia e leggenda Nel 1573, l'inglese Henry Lyte pubblica A niewe Herball, traduzione del Cruydeboeck di Rembert Dodoens, che è anche uno dei primissimi erbari inglesi. Al piedi dell'affollato frontespizio, il giardino delle Esperidi; in alto il dio Apollo e suo figlio Esculapio (dio della medicina); a sinistra e a destra della scritta, quattro figure storiche, altrettanti sovrani vissuti tra il IV e il I sec. a.C: Genzio, Mitridate, Lisimaco e Artemisia. La fonte dell'immagine è Plinio il vecchio, che nel 25° libro della Naturalis historia riferisce di una serie di personaggi (alcuni mitici, altri realmente vissuti) che si sarebbero interessati di erbe e medicina e sarebbero stati onorati dal nome a una pianta; tra loro appunto Genzio, re degli Illiri, scopritore e dedicatario della genziana; Mitridate VI, re del Ponto, famoso per le sue ricerche sui veleni e gli antiveleni, eponimo dell'eupatoria; Lisimaco - da identificare con uno dei successori di Alessandro Magno - che scoprì le virtù della lisimachia; e Artemisia II, regina di Caria, unica donna ad aver avuto tanto onore. La nota di Plinio su Artemisia è brevissima: si limita a riferire che mise in uso un'erba che prima di lei si chiamava partheni, e poi le fu dedicata. Ma si affetta ad aggiungere che questa etimologia non è condivisa da tutti: altri affermano che il nome derivi da Artemide Ilizia (una divinità associata al parto, qui assimilata a Artemide) poiché si tratta di un'erba specifica contro i malanni femminili. Alle due etimologie pliniane, i moderni ne hanno aggiunta una terza: secondo quest'ultima ipotesi, Artemisia andrebbe invece collegato all'aggettivo artemes, "sano", con riferimento alle virtù officinali di molte specie del genere. Ma prendiamo per buona la prima ipotesi di Plinio, visto che ci permette di parlare di una donna fuori dal comune. Artemisia, figlia del satrapo di Caria Ecatomno, secondo l'uso della sua dinastia, sposò il fratello maggiore Mausolo e regnò con lui. Alla morte del marito, il suo dolore fu così grande che volle dedicare tutta se stessa al ricordo dell'amatissimo fratello-sposo. Istituì splendidi giochi funebri, che comprendevano anche una gara di retorica cui parteciparono i più celebri oratori del tempo; ma soprattutto fece costruire e ornare di splendide statue un monumento funebre così bello da essere annoverato tra le sette meraviglie del mondo e da dare il nome a tutte le costruzioni di quel tipo: ancora oggi le chiamiamo infatti "mausoleo". Non solo: ritenendo che nessuna urna, nessun vaso fosse così prezioso da custodire le ceneri del marito perduto, le raccolse e le fece mescolare con vino aromatizzato; divenne la sua unica bevanda, che con la sua amarezza le ricordava il suo dolore. Un dolore devastante che l'avrebbe portata a morire meno di tre anni dopo il marito (350 a.C.). A metà tra storia e leggenda, le fonti antiche le attribuiscono doti di energia, astuzia e coraggio. Il contemporaneo Demostene mise in guardia i suoi concittadini contro questa pericolosa "donna e barbara", che soprattutto era una rivale della politica ateniese per il controllo dell'isola di Rodi, assoggettata appunto da Mausolo. E proprio contro i Rodiesi, secondo Vitruvio, Artemisia dimostrò grande abilità strategica. Quando gli abitanti di Rodi seppero che Mausolo, morendo, aveva lasciato il potere alla moglie, considerando un'umiliazione essere governati da una donna, si ribellarono e inviarono una flotta ad attaccare Alicarnasso, la capitale della Caria. Artemisia, appena ne ebbe notizia, fece spostare la propria flotta in un ancoraggio segreto e vi imbarcò metà delle sue truppe; ordinò all'altra metà di difendere le mura della città, fingendo però ben presto di arrendersi. Quando i Rodiesi, felici di conquistare la città quasi senza combattere, sbarcarono, mentre gli abitanti di Alicarnasso fingevano di accoglierli come liberatori, la flotta caria, navigando lungo un canale che metteva in comunicazione i due porti, prese le navi di Rodi alle spalle e le catturò, mentre quelli che erano sbarcati venivano presi e uccisi. I marinai di Artemisia si imbarcarono sulle navi di Rodi e fecero immediatamente vela per l'isola; i Rodiesi, credendo che fosse la loro flotta che rientrava vittoriosa, le lasciarono entrare in porto; i soldati di Artemisia presero la città e la sovrana, eliminati i capi della rivolta, poté riprendere il controllo su quell'importantissima base commerciale e strategica. Per celebrare la sua vittoria, vi fece costruire un secondo splendido monumento. Altre fonti ci riferiscono di una seconda astuzia di Artemisia: poiché gli abitanti di Latmo, che avrebbero dovuto fornire il marmo per la costruzione del Mausoleo, si erano ribellati, Artemisia, fece appostare le sue truppe nei pressi della città; quindi, con uno splendido seguito di donne e eunuchi che cantavano e danzavano, si recò a visitare un santuario di Cibele, a qualche miglia da Latmo. Incuriositi dall'inusitato spettacolo, gli abitanti della città accorsero per ammirarlo; gli uomini di Artemisia uscirono dai nascondigli e si impadronirono facilmente della città (questo aneddoto è spesso riferito a Artemisia I, che combatté dalla parte dei persiani a Salamina, ma è più probabile che si tratti proprio della nostra Artemisia II). Quanto ai suoi meriti botanici, a parte la breve notizia di Plinio, sappiamo da Strabone che fu esperta in medicina e conoscitrice delle erbe medicinali, qualità per le quali fu stimata dal contemporaneo Teofrasto. Come simbolo dell'amore coniugale, Artemisia è figura nota alla letteratura medievale (ne parlano, tra gli altri, Boccaccio nel De mulieribus claris ("Le donne famose") e Christine de Pizan nella Città delle donne. Come abbiamo visto, a fine Cinquecento Lyte la accomuna a Genzio, Lisimaco e Mitridate come patrona della scienza delle erbe. A partire dal tardo Rinascimento e fino al Settecento, soprattutto nell'ambiente olandese, la regina di Caria, raffigurata come una donna bella ma dolente che beve una coppa con le ceneri del marito, divenne un soggetto popolare della pittura, trattato tra gli altri da Rembrandt. Una sintesi della sua vita, come sempre, nella sezione biografie. ![]() Fate verdi e foglie d'argento Il genere Artemisia - famiglia Asteraceae - venne istituito da Linneo (1753), rifacendosi a Plinio; la specie tipo è Artemisia vulgaris, una pianta officinale nota fin dall'antichità che con le sue proprietà emmenagoghe potrebbe corrispondere alla partheni della regina Artemisia. E' un vasto genere, quasi cosmopolita (lo troviamo in Europa, Africa settentrionale e Sud Africa, Asia, Australia, Americhe), che comprende circa 400 specie. Arbusti, perenni o annuali, in genere sempreverdi, spesso con foglie argentate e aromatiche, molte specie sono di notevole interesse per le proprietà officinali, aromatiche, culinarie e decorative. Artemisia absinthium, l'assenzio vero, le cui proprietà amaricanti sono citate già dalla Bibbia, nell'Ottocento era l'ingrediente principale del liquore omonimo, la "fata verde" tanto amata da poeti e pittori decadenti, il cui abuso generò una piaga sociale nota come absintismo, tanto che a inizio '900 ne fu vietato il commercio; è anche la principale componente aromatica del vermut. La rara e ricercata A. umbelliformis, il genepì bianco, dona le sue note profumate a un altro celebre liquore, appunto il genepì. Il gusto delicato di A. dracunculus, il dragoncello o estragone, ne fa una delle erbe tipiche dalla cucina francese. Nei giardini assolati e mediterranei, tanto più in epoca di cambiamento climatico, le artemisie sono insostituibili per l'adattabilità ai terreni poveri e aridi; più che per i fiori, solitamente insignificanti, sono le foglie grigie o argentate ad attirare l'attenzione; tra le più apprezzate, A. arborescens, A. lactiflora, A. ludoviciana, A. schimidtiana, l'ibrido A. 'Powis Castle'. Qualche informazione in più nella scheda. |
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Dal 1 dicembre, si può sfogliare il Calendario dell'Avvento 2024 "Spezie di Natale"
https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
February 2025
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