Trasportati dalle correnti dell'Oceano Indiano, i giganteschi semi del cocco di mare, o coco de mer, una rara palma endemica delle Seychelles, approdano talvolta su rive lontane, dove le loro curiose forme anatomiche, del tutto simili a un bacino femminile, insieme all'origine misteriosa, non hanno mancato di alimentare leggende. Rari ed ambiti, divennero anche un ricercatissimo oggetto di collezione. Il mistero della loro provenienza fu svelato solo nella seconda metà del Settecento quando i francesi esplorarono e colonizzarono l'arcipelago. Commerson, che poté studiare alcuni semi portati a Mauritius, fu il primo ad assegnarla ad un genere proprio, Lodoicea, cui accoppiò l'inconsueto epiteto callypige, "dalle belle natiche". Tuttavia i più pudibondi botanici ottocenteschi lo abbandonarono, preferendo, per una serie di circostanze, una denominazione geografica derivata non dal luogo dove cresce, ma da uno dei tanti approdi dei suoi semi, le Maldive. La palma delle Seychelles porta dunque il nome fallace Lodoicea maldivica. Resta da chiarire l'etimologia del generico Lodoicea; in mancanza delle note di Commerson, andate perdute, non resta che affidarsi alle ipotesi. La più probabile è che si tratti di una dedica al re Luigi XV che di Commerson, in quanto botanico del re, era anche il datore di lavoro. Sarebbe la più banale delle dediche encomiastiche, se non fosse proprio quell'epiteto imbarazzante. Che, però, vista la scandalosa vita privata del sovrano, forse non è per nulla fuori posto. Una pianta leggendaria Lodoicea maldivica è una rara palma endemica delle Seychelles, nota come cocco di mare, o anche coco de mer, una denominazione che riflette antiche credenze sulla sua origine. Quando i frutti delle piante che crescono sulla riva del mare cadono in acqua, molto pesanti e densi (pesano tra i 15 e i 20 kg) affondano e si adagiano sul fondale; dopo parecchio tempo, il guscio cade e l'enorme seme (il più grande del regno vegetale) incomincia a decomporsi producendo gas che lo fanno affiorare. Ora può galleggiare e, trasportato dalle correnti dell'Oceano indiano, approda a rive lontanissime dal suo luogo di nascita. A differenza del seme della noce di cocco, non è più vitale e la sua presenza in luoghi dove non c'è nessun albero che lo produca ha alimentato miti e leggende. In Malesia si credeva che fosse il frutto di un albero sottomarino, detto Pausengi, sulle cui fronde faceva il nido il mitico uccello Garuda, metà uomo e metà aquila, il cui equivalente nei paesi islamici è il colossale Roc. Consideriamo poi che questo seme è molto speciale non solo per le dimensioni: bivalve, ha una forma che evoca sorprendentemente la parte inferiore del corpo femminile: visto di fronte, il ventre e il bacino; di dietro, le natiche, come ci ricorda un'altra denominazione francese, coco-fesses, "cocco natiche". Gli strani semi si trovavano talora lungo le spiagge di India, Sri Lanka e Maldive. In India erano venduti per cifre altissime e contesi tra i potentati. Nelle Maldive erano considerati di proprietà del re e chi se ne fosse appropriato era passibile di pena di morte: i sovrani dell'arcipelago ne fecero oggetto di un lucroso commercio, vendendole in Indonesia, in Giappone e in Cina, dove si attribuivano loro proprietà mediche come antiveleno e afrodisiaco. Al loro arrivo nell'Oceano Indiano, anche gli europei ne furono colpiti. La prima testimonianza europea è quella di Garcia de Orta che nel 1563 in Colóquios dos Simples e Drogas he Cousas Medicinais da Índia [...] li descrive come coco das Maldivas. Anche Camoes li menziona nei Lusiadi. Pochi anni dopo l'imperatore Rodolfo II riuscì a procurarsene un esemplare per la sua Wunderkammer sborsando 4000 fiorini d'oro. Nel 1602 il sultano di Banten, per sdebitarsi con l'ammiraglio olandese Wolfert Hermanssen, che lo aveva aiutato contro i portoghesi, gli fece dono di una noce, ma prima ordinò che fosse privata della parte superiore, per non offendere la sua modestia. Nella seconda metà del Seicento, la storia dell'albero sottomarino venne riportata con il dovuto scetticismo nell'Herbarium amboinicum di Georg Everhard Rumphius, che battezzò la pianta Cocus maldivicus: ecco l'origine dell'epiteto che porta ancora, nonostante non cresca nelle Maldive. Come ho anticipato, la sua patria sono infatti le Seychelles. Oggi è presente soltanto a Praslin, la seconda isola per grandezza dell'arcipelago, e nel vicino isolotto di Cousin; in passato, la sua distribuzione era lievemente più ampia, ma non si è mai spinta oltre questo angolo delle Seychelles. Fino a quando non venne colonizzato dai francesi nella seconda metà del Settecento, l'arcipelago, situato a metà strada tra il Madagascar e le Mascarene, era disabitato, salvo offrire punti di sosta e rifugio temporaneo a mercanti e pirati. L'isola dove cresce la nostra palma nel 1744 fu cartografata dall'esploratore francese Lazare Picault che la battezzò appunto "isola delle palme", vedendo che era quasi interamente ricoperta da fitti palmeti; nel 1768 fu esplorata da Marion Dufresne che la rinominò Praslin, in onore del ministro della marina, César Gabriel de Choiseul-Chevigny, duca di Praslin (cugino del duca di Choiseul, il segretario di stato di Luigi XV). L'agrimensore della spedizione, un certo Barre, raccolse una trentina di noci e le portò con sé all'Ile de France; almeno alcune finirono nel gabinetto di curiosità di Poivre, dove le vide e le studiò Philibert Commerson. L'anno successivo, un altro membro della spedizione, Jean Duchemin, tornò nell'isola e raccolse una grande quantità di noci, che andò a vendere in India, determinando un crollo del loro valore. Le leggende, comunque, non erano finite: come molte palme, il cocco di mare è una pianta dioica. Il fiore degli alberi maschili è un lunghissimo spadice della forma fallica. Fu così che nacque la diceria che, nelle notti di tempesta, essi si sradicassero per raggiungere le femmine e accoppiarsi con loro. Ma guai a chi avesse assistito alla scena: sarebbe morto o avrebbe perso la vista. Non è finita: nel 1881 il generale inglese Charles George Gordon visitò le Seychelles e fu talmente colpito dall'esuberante vegetazione della Vallée de Mai nell'isola Praslin da concludere che questa era la vera sede del Paradiso terrestre. E la mela offerta da Eva ad Adamo era una noce di coco de mer. Dal che si conclude che Eva era molto forzuta, visto il peso di quel frutto (per altro privo di ogni pregio alimentare). Un eponimo che porta fuori strada Forse nel 1771 o nel 1772 Sonnerat visitò le Seychelles, ed ebbe modo di osservare, disegnare e descrivere il "grande palmizio dell'isola Praslin volgarmente detto cocco di mare". Egli era convinto appartenesse al genere Borassus e lo battezzò B. macrocarpus. Da parte sua, Commerson riteneva appartenesse a un genere proprio, e creò una denominazione molto originale, che commenterò più avanti: Lodoicea callypyge. Nel 1791 Georg Friedrich Gmelin pubblicò la pianta come Cocos maldivica, riprendendo la denominazione di Rumphius. Purtroppo la descrizione di Sonnerat non rispetta le regole e quella di Commerson è andata perduta; la sua denominazione fu pubblicata solo molti anni dopo, nel 1805, da Saint-Hilaire. Due anni dopo, La Billardière tentò di correggere il tiro rinominando la specie Lodoicea sechellarum, L. delle Seychelles. Purtroppo il danno era fatto: il primo eponimo valido era quello di Gmelin e in base alla legge della priorità nel 1887 Peerson ufficializzò il nome "sbagliato" che porta ancora, Lodoicea maldivica, L. delle Maldive. Spiegato l'eponimo, è ora di occuparci del nome generico. Come abbiamo visto, Commerson lo accoppiò a un nome specifico inconsueto: callypige, dal gr. calli- "bello" e pigé "natica", attributo di Venere dalle belle natiche. Basta osservare il famoso seme del coco de mer per capire perché. Del resto un aneddoto, non so quanto fondato, vuole che Bougainville, visitando il gabinetto di curiosità di Poivre a Parigi, abbia proposto di chiamarlo Cucul la Prasline. Da dove viene invece Lodoicea? Perdute le note di Commerson e senza altre testimonianze (contrariamente a ciò che scrivono alcuni, né Saint Hilaire né La Billardière si pronunciano in merito), dobbiamo affidarci alle ipotesi. La prima vuole che si tratti di un nome mitologico: evocherebbe Laodice, tirata in ballo come la "più bella delle figlie di Priamo". E' vero che Commerson non rifuggiva dai nomi derivati dal mito (è suo, ad esempio, Hebe), ma non si capisce come un ottimo latinista come lui abbia potuto stravolgere le leggi della fonetica e derivare da Laodice Lodoicea anziché *Laodicea; senza contare che in nessun testo antico si parla del lato B della bella principessa troiana. Un omaggio o uno sberleffo? Regolarissima è invece la derivazione di Lodoicea da Lodoicus, una delle forme latine di Luigi / Lodovico, in concorrenza con il più comune Ludovicus. Chi potrebbe essere questo Luigi se non il re cristianissimo, sua maestà Louis XV, ovvero il datore di lavoro di Commeson, botaniste du roi? Ovviamente le perplessità sono molte: intanto in medaglie e iscrizioni il sovrano ha sempre usato la forma Ludovicus; inoltre sembra oltraggioso, o per lo meno maldestro, accostare al regio nome un epiteto così scandaloso. Ricordiamoci però della personalità di Commerson: era un noto gaffeur, non aveva peli sulla lingua ed era uno spirito anticonformista. D'altra parte, la noce di coco de mer è stato per secoli un ambitissimo dono regale; le palme, poi, sono simbolo di vittoria e sono spesso associate ai sovrani, e da questo punto di vista Ladoicea maldivica, con la sua altezza che può superare i 30 metri e foglie lunghe più di dieci, certo non sfigura. Luigi XV non ha mai usato il nome Lodoicus, ma lo hanno fatto molti re di Francia prima di lui: è una forma un po' arcaica, ma perfettamente documentata, che potrebbe persino essere considerata un omaggio, la rievocazione di un passato glorioso. Potrebbe però anche essere uno sberleffo, se consideriamo alcuni aspetti della personalità del possibile dedicatario. E' noto che Luigi XV era poco interessato agli affari di stato, e combatteva la noia collezionando favorite ed amanti. La sua condotta sessuale era oggetto di pettegolezzi e pasquinate e a corte tutti sapevano che il modo migliore per fare carriera era contribuire alle regali distrazioni. Sicuramente era un intenditore di bellezze femminili, incluse le belle natiche. Nel 1752, il pittore François Boucher dipinse un nudo femminile, conosciuto come La jeune fille allongée ("La ragazza sdraiata") o L'odalisque blonde ("L'odalisca bionda") che ritrae un'adolescente formosa e indubbiamente callipigia. Si tratta di un ritratto della quindicenne Louise O'Murphy, che secondo la testimonianza di un ispettore di polizia che indagò sulla famiglia della ragazza, fu commissionato dal marchese di Marigny, il fratello minore di Mme de Pompadour. Quando il re vide il dipinto, chiese di conoscere l'originale, che trovò anche più bello del quadro. Per due anni, dal 1753 al 1755, Louise fu una delle sue petites maitresses, come venivano chiamate le amanti non ufficiali che non venivano presentate a corte e alloggiavano discretamente in una delle case del Parc-aux-Cerfs a Versailles. Questa storia Commerson doveva conoscerla meglio di noi: a riferirgliela, di prima mano, sarà stato proprio il marchese, che per un ventennio fu sovrintendente degli edifici e dei giardini reali; il botanico lo frequentò nei suoi anni parigini e gli dedicò il genere Marignia, oggi sinonimo di Protium. Naturalmente non è una prova, ma almeno un indizio. D'altra parte, Luigi XV tutto sommato un genere botanico se lo merita. Per quanto annoiato, frivolo e superficiale, era interessato alle scienze e finanziò, oltre al viaggio di Bougainville, altre spedizioni scientifiche, la più importante delle quali è sicuramente la Missione geodetica franco-spagnola. Inoltre, volle al Trianon un orto botanico che in pochi anni divenne uno dei più importanti del mondo. Anche questa è una storia interessante. Intorno al 1750, avendo saputo che uno dei suoi cortigiani preferiti, il duca di Noialles, aveva messo a disposizione del medico Louis Guillaume Le Monnier e del giardiniere Antoine Richard una parte del suo parco di Saint Germain en Laye perché sperimentassero nuove tecniche di coltivazione e creassero un orto botanico all'avanguardia, il re volle visitarlo. Ne fu ammirato e chiese di conoscere Le Monnier; senza nessun preavviso, il dottore fu convocato e quando si trovò di fronte al sovrano, svenne per l'emozione. Luigi XV lo nominò suo medico personale e, insieme a Richard, lo incaricò di creare un orto botanico al Trianon. Certo non disprezzava il Jardin des Plantes, creato dai suoi antenati; ma viveva a Versailles e da Parigi si teneva il più lontano possibile. Quest'uomo incostante e annoiato per una volta si appassionò: le serre si moltiplicarono e da tutto il mondo arrivarono piante rare che fecero crescere rapidamente il giardino, che arrivò ad accogliere 4000 specie, organizzate secondo il sistema linneano. Di Linneo, infatti, Luigi XV era un fervente ammiratore. Nel 1771, quando il principe ereditario di Svezia, il futuro re Gustavo III, gli fece visita, si congratulò con lui per avere un suddito tanto eminente e gli affidò i semi delle piante più rare (alcune fonti dicono che le raccolse di sua mano) da consegnare al grande botanico. Purtroppo quel giardino bellissimo ebbe vita breve. Alla morte del vecchio sovrano, il nipote Luigi XVI donò questa area del parco alla moglie Maria Antonietta, che fece spianare l'orto botanico per sostituirlo con un giardino all'inglese, a cornice del suo universo privato di finta pastorella. Come avrebbe reagito Luigi XV se fosse stato informato dell'insolita dedica (morì di vaiolo circa un anno dopo Commerson)? ne sarebbe stato indignato? o al contrario lusingato o addirittura divertito? E' inutile chiederselo: era un uomo impenetrabile e imprevedibile, oltre che pieno di contraddizioni. La storia l'ha condannato per aver disonorato la monarchia con la sua condotta scandalosa, per aver perso le colonie in guerre disastrose, per aver lasciato il potere in mano a cortigiani corrotti, per aver lasciato incancrenire i problemi sociali e finanziari del paese. Ma, almeno per la botanica, è un benemerito. Un suo breve profilo nella sezione biografie. Una palma patrimonio dell'Umanità Per concludere, ancora due parole su Lodoicea maldivica, unica specie del genere Lodoicea, famiglia Arecaceae. E' indubbiamente la pianta dei record: il suo frutto e il suo seme sono i più pesanti dal mondo (per lo meno, allo stato selvatico); il suo fiore femminile è il più grande tra le palme, mentre quello maschile è uno spadice di oltre un metro in grado di produrre polline per dieci anni di seguito. Da record anche il cotiledone germinato, che può allungarsi fino a quattro metri. Produrre frutti e semi così grandi comporta un enorme dispendio energetico; ciascuna pianta in media non ne porta più di sette alla volta, e circa una centinaio in tutta la sua vita. Come abbiamo visto anche la sua altezza e la lunghezza delle fronde sono ragguardevoli: lunghe 10 metri e oltre, possono coprire un'area di dieci metri quadrati. Un'altra caratteristica di questa palma è la sua lentezza, e, correlata ad essa, la sua longevità. Prima di arrivare a maturità e fiorire, passano da 25 a 50 anni; ciascun frutto, per maturare, richiede da sei a dieci anni. Quando poi cade a terra, ci metterà almeno due anni a germinare. In compenso, a meno di essere distrutte dall'uomo o da eventi avversi, queste palme possono vivere e produrre fiori e frutti per 800 anni. Prima dell'arrivo degli europei, Lodoicea maldivica costituiva la specie dominante delle isole Praslin e Cousin e di altri isolotti circostanti, ed era presente in una varietà di habitat dalla costa fino alle zone più alte. Deforestazione, incendi, attività umane l'hanno fatta sparire nelle isole minori e ne hanno ridotta la presenza a una sola stazione a Cousin e a due a Praslin. La più importante, e la sola dove i palmizi formano ancora una foresta densa e continua, è la Vallée de Mai di Praslin, dove Gordon collocò l'Eden. Oggi è una riserva naturale, che a partire dal 1983 fa parte dei Patrimoni dell'Umanità Unesco. Qui Lodoicea maldivica cresce in formazioni miste con altre quattro palme endemiche (Deckenia nobilis, Phoenicophorium borsigianum, Nephrosperma vanhoutteanum e Verschaffeltia splendida) e alberi dicotiledoni endemici (Paragenipa wrightii, Canthium bibracteatum, Syzygium wrightii e Erythroxylum sechellarum). E' l'habitat di felci, briofite e licheni e di una sorprendente serie di endemismi animali: il pappagallo nero delle Seychelles Coracopsis nigra barklyi, cinque gechi dei generi Phelsuma e Ailuronyx, i due camaleonti Calumma tigris e C. seychellensis, la chiocciola Pachnodus praslinus. La salvaguardia della Vallée de mai riveste anche una grande importanza economica: è stato calcolato che il 40% dei turisti che visitano le Seychelles acquistano il biglietto d'ingresso alla riserva. Anche la vendita delle noci (oggi fortunatamente regolamentata, dopo che questo commercio aveva dato un ulteriore colpo alla sopravvivenza della specie) comporta un notevole giro d'affari. Il prezzo, ovviamente, è molto variabile in base alle dimensioni e alla qualità, e non è affatto economico, anche se non è paragonabile a quello che toccava prima della colonizzazione delle Seychelles, quando una sola noce poteva costare quanto una casa.
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La famiglia Begoniaceae ha una curiosa particolarità: comprende due soli generi, opposti per ampiezza e diffusione. Da una parte c'è l'enorme (e notissimo) genere Begonia, con circa 1400 specie, di casa in una vastissima area tropicale che spazia dall'Asia all'America all'Africa; dall'altra il minuscolo genere Hillebrandia, con una sola specie, raro endemismo di alcune isole dell'arcipelago delle Hawaii. Da quando è stata scoperta nel 1865, Hillebrandia sandwichensis ha destato curiosità per diverse ragioni, non ultima il fatto che è tre volte più antica delle isole dove vive. Anche il suo dedicatario, il medico Wilhelm Hillebrand, è una figura fuori del comune: arrivato nell'arcipelago alla ricerca di un clima propizio alla sua salute, vi visse vent'anni e vi lasciò un'eredità che ha contribuito non poco a riplasmarne la demografia, l'economia e la stessa storia naturale. Pioniere dello studio delle piante delle Hawaii, è autore di una monumentale flora che ancora dopo oltre un secolo è considerata un testo di riferimento. Vent'anni nelle isole Nell'Ottocento la tubercolosi, di cui non si conoscevano ancora né le cause né la cura, era tanto diffusa da essere soprannominata "male del secolo". Uno dei pochi rimedi per provare a sfuggirvi era, letteralmente, cambiare aria: nei sanatori in montagna, nel clima mediterraneo (come fece inutilmente Chopin a Maiorca), nei mari del sud (come fece, anch'egli senza successo, Stevenson). Tra questi "viaggiatori della salute" c'è anche il medico tedesco Wilhelm Hillebrand (1821-86); dopo aver esercitato qualche anno la professione in patria, essendo appunto malato di tubercolosi lasciò la Germania per cercare salvezza in un clima più caldo e propizio. Provò in Australia, nelle Filippine, in California, finché alla fine del 1850 arrivò alle Hawaii. Notando un immediato giovamento, decise di fermarsi. Ci sarebbe rimasto vent'anni. Divenne un medico di successo, che contava tra i suoi pazienti la stessa famiglia imperiale, medico capo del Queen Hospital, membro del Dipartimento della Sanità, studioso di malattie tropicali, primo vicepresidente dell'Hawaiian Medical Society. Il suo coinvolgimento nella vita dell'arcipelago non si limitò al campo sanitario; dopo aver dato una costituzione al paese, il re Kamehameha V lo volle nel proprio Consiglio segreto. Nel 1865, quando con la famiglia intraprese un viaggio di piacere in Asia orientale, Hillebrand venne nominato Commissario all'immigrazione, con l'incarico di facilitare l'immigrazione di lavoratori asiatici che potessero sostituire i nativi decimati delle epidemie. Grazie al suo impegno, arrivarono così nelle isole le prime decine di cinesi (oggi gli asiatici costituiscono il 38,6% della popolazione delle isole, una delle più multietniche del globo). Durante questo viaggio, durato circa un anno, per incarico della Hawaiian Agricultural Society, che aveva deliberato un finanziamento di 500 dollari, ricercò piante e animali da introdurre nelle isole. Fu così che da Calcutta, Singapore e Ceylon, al sicuro nelle scatole di Ward, arrivarono pianticelle di arance, mandarini, litchi, jackfruit, Prunus mume, plumerie, banyan, eugenie, canfora, cinnamomo. Come gli esseri umani che Hillebrand contribuì a far giungere nelle Hawaii, anche le piante dal lui introdotte hanno mutato il volto dell'arcipelago; molte vi sono oggi largamente coltivate, come il litchi di cui le Hawaii sono uno dei massimi produttori mondiali o la plumeria, che delle isole è addirittura diventata il simbolo; altre si sono naturalizzate a discapito della flora nativa. Molte essenze tropicali Hillebrand le acquistò per il suo stesso giardino, che sorgeva alle porte di Honolulu in un terreno che nel 1853 gli era stato ceduto dalla regina Kalama perché vi costruisse la sua casa. Il medico tedesco lo trasformò in un raffinato giardino botanico, dove accanto alle piante native crescevano quelle portate dai suoi viaggi, con boschi, cascatelle, spazi per gli animali esotici. Nel 1884, quando capì che non sarebbe più tornato alle Hawaii, Hillebrand lo vendette alla famiglia Foster, che continuò a sviluppare il giardino. Nel 1930, l'ultima proprietaria, Mary E. Foster, lo lasciò in eredità alla città a condizione che diventasse un parco pubblico. Oggi, con il nome Foster Botanical Garden, è il più antico degli orti botanici delle Hawaii, famoso soprattutto per la sua collezione di orchidee. Nell'estate del 1871, per permettere al figlio maggiore di seguire una scuola preparatoria negli Stati Uniti e poi l'università in Germania, Hillebrand lasciò le Hawaii con la famiglia; trascorse l'inverno successivo a Cambridge Massachussets dove Asa Grey lo aiutò a identificare le specie che aveva raccolto nel ventennale soggiorno nell'arcipelago, in vista della pubblicazione di quella che sarebbe diventata la sua Flora of Hawaiian Islands. Dopo qualche anno tra Svizzera e Germania, la salute malferma della moglie lo spinse a trasferirsi per qualche tempo a Madeira quindi a Tenerife. Nel 1877 ritornò definitivamente in Germania, continuando fino alla morte a lavorare alla sua opera. Rimase comunque in contatto con le Hawaii; in particolare, trovandosi a Madeira proprio mentre imperversava l'epidemia di peronospora, che aveva lasciato centinaia di viticoltori sul lastrico, promosse il trasferimento nelle Hawaii di molte famiglie. Lo stesso fece poi anche dalla Germania. Una sintesi della sua vita nella sezione biografia. La monumentale opera di una vita Fin dal suo arrivo nell'arcipelago, Hillebrand, che già si interessava di botanica e aveva raccolto piante durante il breve soggiorno in Australia, fu colpito dalla ricchezza e dalla diversità della flora dell'arcipelago. Incominciò così a raccogliere campioni di erbario, che inizialmente inviò all'orto botanico di Melbourne (alcuni sono preziosissimi perché costituiscono l'unica testimonianza di specie che nel frattempo si sono estinte), quindi a Berlino (in gran parte purtroppo perduti durante la Seconda Guerra Mondiale). Decise quindi di esplorare in modo sistematico l'arcipelago, con l'obiettivo di scrivere una flora il più possibile completa delle specie autoctone e introdotte. Nell'arco di vent'anni, spesso accompagnato dal figlio maggiore William Francis - che sarebbe divenuto un chimico di fama mondiale - visitò tutte isole maggiori dell'arcipelago (Hawaii, Kauai, Oahu, Molokai, Lanai, Maui). Era anche in contatto epistolare con molti botanici, soprattutto statunitensi, che grazie al suo esempio furono stimolati ad interessarsi di questa flora così peculiare. Dopo vent'anni di ricerca sul campo e altrettanti di studio dei materiali raccolti, Hillebrand riuscì a completare il suo opus magnum proprio alla vigilia della morte, intervenuta, inattesa, nel 1886. In quel momento, parte del manoscritto si trovava nelle mani dello stampatore, che ne aveva tirato qualche foglio di prova. Ad assumersi il compito di curane la pubblicazione postuma fu così il figlio William Francis, con l'aiuto di un amico del padre, il professor Askenasy di Heidelberg. Rimase in parte incompleta proprio l'introduzione, un interessantissimo saggio in cui Hillebrand analizza le peculiarità della flora hawaiiana, frutto dell'isolamento, del vulcanismo e di un clima quanto mai favorevole; non mancano i paralleli con altre due flore insulari ricche di endemismi, quelle di Madeira e delle Canarie. Secondo i suoi calcoli, su 999 specie recensite, ben 653 erano endemiche (una percentuale quasi senza paragoni), 207 native ma presenti anche altrove, 24 introdotte dagli hawaiani in tempi remoti, 115 di recente introduzione; proprio queste ultime si sarebbero rivelate un pericolo mortale per le specie autoctone, molte delle quali, da quando Hildebrand le segnalò, sono scomparse proprio a causa della pressione antropica, inclusa l'introduzione di piante aliene (e, come abbiamo visto, il nostro ben intenzionato dottore diede il suo contributo forse più di ogni altro). Benché privo di figure, se si escludono le mappe delle isole, il ponderoso volume fu una pietra miliare nello studio della flora hawaiana, un'opera di riferimento imprescindibile per tutti gli studiosi successivi, tanto da essere ancora ristampata (con l'aggiunta di immagini e previa la modernizzazione della nomenclatura) nella seconda metà del Novecento. I misteri di Hillebrandia E' ovvio che questo pioniere dello studio della flora delle Hawaii sia ricordato da diverse piante di quelle isole, come Embelia hillebrandii, Isodendrion hillebrandii, Suttonia hillebrandii, Pritchardia hillebrandii. Nel 1865 nell'isola di Maui egli raccolse una curiosa Begoniacea; ne informò il direttore di Kew, W.J. Hooker; fu così che Daniel Oliver, curatore dell'erbario di quel giardino botanico, poté studiarla e assegnarla non solo a una specie nuova, ma a un nuovo genere con il nome Hillebrandia sandwichensis. Si tratta dell'unica rappresentante di questa famiglia a non appartenere al genere Begonia (che di specie ne comprende più di 1400). Le differenze principali riguardano l'ovario libero nel suo terzo superiore, la presenza di tepali raccolti in due serie di verticilli nei fiori femminili, nonché alcune particolarità dei frutti e del polline. Un tempo era presente nelle isole di Kaui, Maui e Molokai, oggi è limitata alle prime due, dove sta diventando sempre più rara. Il suo habitat - simile a quello di molte Begoniae - sono gli ombrosi e umidi burroni della foresta pluviale di montagna, tra 900 e 1800 m. Nota nelle isole con il nome aka'aka'awa', è un'erbacea rizomatosa di raffinata bellezza, alta oltre un metro con grandi foglie palmate e grappoli di delicati fiori bianco-rosati, con 8-10 tepali a simmetria radiale. Recenti studi filogenetici hanno confermato la sua appartenenza a un genere proprio. A fare discutere è la sua origine: è l'unica rappresentante della sua famiglia a vivere nell'arcipelago e, per la sua struttura, risulta più arcaica delle sue sorelle Begoniae, da cui si ritiene si sia separata tra 51 e 65 milioni di anni fa. Da dove, quando e come è arrivata nelle Hawaii, che, almeno nel loro stadio attuale, sono di 20 milioni di anni più giovani? Considerando che le isole di oggi sono il risultato di sollevamenti della crosta terrestre e di eruzioni vulcaniche relativamente recenti, ma devono essere state precedute da isole più antiche, oggi livellate e scomparse, l'ipotesi più verosimile è che la nostra pianta relitta, dopo essere giunta dall'area Maleso-Pacifica, dove era nata ed oggi è scomparsa, vivesse in isole del Pacifico oggi sommerse e sia riuscita a sopravvivere a tanti sconvolgimenti e catastrofi trasportata da un'isola all'altra sulle ali (o meglio sulle zampe) degli uccelli che anche oggi provvedono alla dispersione dei suoi semi. Qualche approfondimento nella scheda. Sulle orme di Carlo Bertero, che ne visitò l'isola maggiore nel 1830, fornendo la prima ricognizione scientifica della sua flora, raggiungiamo l'arcipelago delle Juan Fernandez, un gruppo di isole oceaniche al largo del Cile, caratterizzate da un eccezionale numero di endemismi, purtroppo a grave rischio di estinzione. E scopriamo che proprio qui visse quattro anni da naufrago Alexander Selkirk, corsaro scozzese le cui vere vicende ispirarono a Defoe le avventure immaginarie di Robinson Crusoe. A ricordare i due personaggi, quello reale e quello fittizio, oltre ai nomi ufficiali delle due due isole principali, oggi rispettivamente Robinson Crusoe e Marinero Alejandro Selkirk, anche due rari generi nativi delle isole: Robinsonia e Selkirkia. Un paradiso botanico a rischio L’arcipelago delle Juan Fernández, al largo del Cile, a circa 670 km dalla costa, più o meno alla latitudine di Valparaiso, è formato da tre isole, più alcuni isolotti: l’Isla Más a Tierra (quella più vicina alla costa), che dal 1966 si chiama ufficialmente Robinson Crusoe; l’Isla Más Afuera (l'isola più esterna), che è stata ribattezzata Marinero Alejandro Selkirk; l’Isla Santa Clara. Come sanno i cultori del romanzo di Defoe, Alexander Selkirk è il personaggio reale a cui si ispirò lo scrittore inglese per le avventure del suo personaggio fittizio: dall’ottobre 1704 al febbraio 1709, egli visse nell'isola che oggi porta il nome del suo “doppio” romanzesco, dopo asservi stato abbandonato dal capitano della nave corsara su cui prestava servizio. Cosa c’entra tutto questo con la botanica? Intanto, quella nave faceva parte della flotta comandata da William Dampier, che oltre ad essere un corsaro era anche un appassionato naturalista, tanto da meritarsi la dedica del genere Dampiera (la sua storia è raccontata qui); ma soprattutto, queste isole così remote, proprio come le più celebri Galapagos, sono caratterizzate da una fauna e una flora molto particolari, con molte specie che vivono solo qui, tanto è vero che nel 1977 sono state proclamate dall’UNESCO Riserva mondiale della Biosfera. Le isole oceaniche sono ambienti allo stesso tempo unici e fragili. Sono unici perché da una parte l'isolamento crea le condizioni per linee evolutive separate, con la nascita di specie esclusive; dall'altra la distanza dal continente fa sì che non si siano risentiti gli effetti delle grandi estinzioni di massa, preservando piante e animali altrove estinti. Sono fragili perché sono estremamente sensibili ai mutamenti climatici e soprattutto all'invasione di specie continentali, introdotte in modo volontario o accidentale dall'uomo. Di origine vulcanica, le tre isole e i numerosi isolotti che le attorniano sono le cime di una catena sottomarina. Non sono mai state collegate al continente, il che significa che gli antenati di tutte le piante e di tutti gli animali che vi vivono sono arrivati qui trasportati dalle onde del mare o dall'aria. Ecco perché non ci sono né rettili né mammiferi terrestri. Anche i semi delle piante sono stati portati qui dalle onde o dal vento, evolvendosi poi in modo separato, tanto che oggi il 60% delle specie vascolari autoctone sono endemiche. In particolare l'isola Robinson Crusoe (la cui superficie è circa la metà di quella dell'isola d'Elba) presenta più piante endemiche per km quadrato di ogni isola del mondo (93 specie, ovvero 1,9 per km quadrato). In totale nell'arcipelago si annoverano una famiglia (Lactoridaceae), 12 generi e 132 specie vascolari endemiche. Il maggior numero di endemismi si incontrano nei boschi montani alti (tra 350 e 650 m sul livello del mare) e bassi (tra 220 e 410 m) dove raggiungono rispettivamente il 75 % e del 65%. Le due comunità sono dette Mirtiselva, per l'importanza delle piante della famiglia Myrtaceae. Nel bosco endemico montano d'altura le specie dominanti sono gli alberi endemici Myrceugenia fernandeziana (luma di Más a Tierra) e Drimys confertifolia. Nel sottobosco le specie più comuni sono la felce arborea Dicksonia berteroana, Coprosma oliveri (olivillo de Juan Fernandez), la palma Juania australis, e, tra le erbacee, Gunnera peltata e diverse specie del genere endemico Robinsonia. Nei boschi più bassi si aggiungono Fagara mayu (naranjillo) e, a Más Afuera, Myrceugenia schulzei. Altri alberi endemici meno abbondanti sono Rhaphithamnus venustus, Coprosma pyrifolia e Boehmeria excelsa. Nelle fasce più basse, l'introduzione di specie invasive dal continente ha quasi distrutto la flora nativa, mettendo a rischio endemismi ormai rari come Dendroseris litoralis, una stupefacente Asteracea arborea, o Sophora fernandeziana. Estinto ormai da un secolo è Santalum fernandezianum, un albero dal legname prezioso profumato di canfora; è stata invece dichiarata estinta nel 2004 Robinsonia berteroi. Ben il 75% delle specie endemiche delle Juan Fernandez è inserito nella lista delle specie a rischio. Questi dati ci dicono quanto preziose siano le ricerche di quei botanici che visitarono le isole prima che l'arrivo delle specie aliene ne alterasse così profondamente l'equilibrio e praticamente cancellasse la flora autoctona dei litorali e delle fasce inferiori. Di eccezionale importanza in particolare è il lavoro di Bertero, che nel 1830 visitò Más a Tierra insieme all'amico Alexander Caldcleugh, raccogliendo circa 300 specie (molte di esse oggi perdute per sempre). Alexander Selkirk, il vero Robinson Crusoe E' ora però di parlare dei protagonisti umani di questa storia, il reale Alexander Selkirk e il fittizio Robinson Crusoe, accomunati dall'aver dato il loro nome a uno dei generi delle isole, ovvero Selkirkia (Boraginaceae) e Robinsonia (Asteraceae). Entrambi furono stabiliti sulla base di esemplari raccolti e inviati in Europa da Bertero; già nel 1833 Robinsonia, creato da de Candolle e solo nel 1884 Selkirkia, stabilito da Hemsley riclassificando una specie che Colla nel 1835 aveva denominato Cynoglossum berteroi. Per completezza, bisogna dire che Selkirk era arrivato persino dopo Venerdì, cui nel 1882 Baillon aveva dedicato il genere Vendredia (ora considerato un doppione di Robinsonia). Non c'è bisogno di raccontare la storia di Robinson: tutti la conoscono, se non dal romanzo almeno da uno dei numerosissimi film che ne sono stati tratti. Nel 1719, Defoe, che era sempre a corto di soldi, pensò di sfruttare commercialmente la passione dei suoi contemporanei per i viaggi avventurosi per mare, ispirandosi alle memorie del marinaio scozzese Alexander Selkirk, raccolte dal capitano Rogers e pubblicate nel 1712. Come tutti sappiamo, fu un successo che continua dopo tre secoli. Proprio come Robinson, Selkirk veniva da una onesta famiglia protestante, ma rissoso, scapestrato e poco incline al lavoro, molto giovane si arruolò come corsaro e nel 1703 (all'epoca aveva 27 anni) partecipò alla spedizione nel Pacifico comandata da William Dampier, che comandava il St. George, mentre Selkirk era imbarcato sulla Cinque Ports, sotto il comando di Thomas Stradling. Ben presto i risultati deludenti e dispute sulla spartizione del bottino spinsero quest'ultimo a separarsi da Dampier. A ottobre 1704 la nave fece scalo a Más a Tierra per rifornirsi di acqua e viveri. Selkirk fece notare che lo scafo era in pessime condizioni e che sarebbe stato meglio ripararlo prima di riprendere il mare, aggiungendo che avrebbe preferito rimanere lì da solo piuttosto che sfidare le onde su quella bagnarola; cercò anche di convincere i compagni a disertare. Il capitano lo prese in parola: lo fece sbarcare con un moschetto, della polvere da sparo, un'accetta, strumenti da falegname, un coltello, un piatto da cucina, una Bibbia, un materasso e alcuni vestiti. Selkirk era convinto che il suo isolamento sarebbe durato ben poco, invece dovette trascorrere da solo in quell'isola disabitata quattro anni e quattro mesi. Va anche detto che ci aveva visto giusto: la Cinque Ports fece effettivamente naufragio; il comandante e alcuni marinai si salvarono ma, catturati dagli spagnoli, trascorsero anni in prigionia. Quanto a Selkirk, imparò a vivere da solo nell'isola e a sfruttarne le risorse naturali, soprattutto dopo aver abbandonato la spiaggia dove aveva trascorso i primi mesi per trasferirsi più in alto, dove era più facile trovare cibo e rifugio. Proprio come Robinson, l'isolamento e la lettura della Bibbia operarono in lui un profondo mutamento interiore. In quel lungo periodo, solo due navi si avvicinarono all'isola, ma trattandosi di spagnoli, Selkirk dovette nascondersi per evitare di essere catturato e magari giustiziato come pirata, Quando nel febbraio 1709 giunse finalmente il sospirato soccorso, grazie alla nave corsara Duke, comandata Woodes Rogers, Selkirk era un giovane uomo di grande agilità e vigore fisico e dall'eccezionale pace interiore. Rogers ne fu così colpito da nominarlo ufficiale in seconda. Selkirk tornò così alla pirateria, a quanto pare anche con un certo successo economico. Ritornò in patria solo nel 1711, dopo un'assenza di otto anni. Rogers, cui aveva raccontato le sue avventure, ne pubblicò un resoconto in un libro sulla sua spedizione corsara, pubblicato l'anno successivo, destando molto interesse. A differenza di quella del suo doppio letterario, però, la conversione di Selkirk non resse; dopo aver nuovamente manifestato comportamenti violenti e asociali, si arruolò nella marina inglese, morendo di febbre gialla nel 1721 al largo della costa occidentale dell'Africa. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Selkirkia e Robinsonia, le piante del vero e del falso Robinson L'unica specie del genere Selkirkia originaria delle Juan Fernandez, S. berteroi, come ho anticipato, inizialmente fu assegnata al genere Cynoglossum, sulla base delle caratteristiche dei frutti. Dal momento in cui Hemsley lo creò nel 1884 fino a pochi anni fa, è stato ritenuto un genere monotipico e endemico dell'arcipelago delle Juan Ferdandez, rappresentato dalla sola S. berteroi. Nel 2016 un'équipe internazionale capeggiata da N. Holstein e H. Hilger, sulla base di evidenze filogenetiche, ha dimostrato che questa specie non è più "naufraga", unendovi tre specie continentali, prima assegnate due a Mapuchea e una a Cynoglossum. Le diversità nel portamento (S. berteroi è un arbusto, le altre sono erbacee) e nella morfologia generale sono dovute ai diversi habitat, spiegano i ricercatori, mentre il tratto comune sono i frutti con quattro nucule con peli (glochidi) barbati. S. trianae vive nel sottobosco della foresta nebulosa densa della Colombia e dell'Ecuador; S. limense e S. pauciflora sono originarie delle regioni del Cile a clima mediterraneo. Tutte sono piante rare (di cui non ho trovato neppure un'immagine), le prime due a rischio per riduzione dell'habitat. Un breve profilo nella scheda. Anche se è dedicata a un personaggio letterario e non a una persona reale, vale la pena di dedicare qualche riga al genere Robinsonia, un'Asteracea esclusiva delle Juan Fernandez, il secondo genere endemico dell'arcipelago, con otto specie, sette a Más a Tierra, una a Más a Fuera; il primo, con dodici specie, è Dendroseris, un'altra Asteracea piuttosto affine. Grazie a questa eccezionale radiazione, le Robinsoniae si sono adattate ad habitat piuttosto vari; ad esempio, R. evenia e R. gracilis crescono in situazioni aperte, su versanti scoscesi, aridi e rocciosi; R. evenia cresce nel sottobosco della foresta nebulosa, talvolta anche come epifita sulle felci del genere Dicksonia. Sono veri e propri alberi con esili fusti legnosi e foglie a rosetta. Alcuni studi recenti ne propongono la confluenza in Senecio, ipotesi respinta da altri ricercatori. Purtroppo due delle otto specie, R. berteroi e R. megacephala, sono considerata estinte. Un botanico che vive in provincia può competere con i suoi contemporanei per preparazione e erudizione, ma non ha né le occasioni né le conoscenza giuste per vedere pubblicare la sua opera, che spesso è condannata a rimanere allo stadio di manoscritto, quasi una curiosità preservata in una biblioteca locale. A ricordarlo solo qualche erudito, anch'egli legato al piccolo luogo. Insomma, un botanico endemico! Ne è un esempio il farmacista di Grenoble Pierre Bérard. A ricordarlo, non poteva che essere un endemismo, l'intrigante Berardia. Pierre Bérard, chi era costui? Con il nome endemismo ci si riferisce a una specie animale o vegetale limitata a un ambiente geografico circoscritto, per l'estremo adattamento a tale ambiente o per la presenza di barriere naturali, geografiche che ne impediscono l'espansione. Proporrei di estendere il concetto ai botanici. Con l'espressione "botanico endemico" mi riferisco a botanici che sono nati e vissuti in un luogo di cui hanno studiato la flora; scelte personali o circostanze avverse, biografiche culturali storiche, li hanno mantenuti relegati per sempre nella loro piccola patria. In questo senso, il piemontese Carlo Allioni potrebbe rientrare nella categoria: nato e vissuto a Torino, ha dedicato il suo lavoro scientifico principalmente alla flora piemontese; ma d'altro canto l'amicizia con Linneo, l'appartenenza alle maggiori accademie scientifiche del tempo, la risonanza europea delle sue opere, ne fanno una figura di rilevanza europea. Un esempio molto più calzante è quello di Pierre Bérard, maestro farmacista di Grenoble vissuto nella prima metà del Seicento. Nel corso della sua lunga vita, affiancò all'attività professionale approfonditi studi botanici, condotti attraverso sia lo studio della letteratura scientifica del tempo, sia l'esplorazione del territorio, grazie alla quale individuò e descrisse molte specie fino ad allora ignorate. Fu anche in corrispondenza con molti botanici del suo tempo (francesi, ma anche spagnoli, italiani, tedeschi). Come altri botanici contemporanei, ebbe l'ambizione di scrivere una grande opera che raccogliesse tutte le specie descritte nei grandi repertori - primo fra tutti il Pinax di Gaspard Bauhin - integrandole con nuove acquisizioni; fu così che mise insieme un manoscritto di sette volumi in folio, contenenti 6000 piante, concluso nel 1653 con il titolo Theatrum botanicum. Non sappiamo in seguito a quali circostanze, l'opera non venne pubblicata. Possiamo però ipotizzare che diversi elementi abbiano contribuito all'endemismo del povero Bérard: la stampa di un'opera di tali dimensioni era costosissima ed evidentemente all'autore mancavano i mezzi, la forza (all'epoca aveva già superata i settant'anni), i contatti giusti; non era sostenuto da un'Università (un farmacista era considerato un semplice artigiano), da un'Accademia, dal potente di turno. Almeno a livello locale, non fu dimenticato del tutto: qualche anno dopo la sua morte Guy Alliard (1635-1716, storico endemico?), autore del Dictionnaire historique, chronologique, géographique, généalogique, héraldique, juridique, politique et botanographique du Dauphiné ricavò dal Theatrum botanicum le voci dedicate alla flora del Delfinato, grazie alla collaborazione del figlio di Pierre, Jacques Bérard, priore a Serres. D'altra parte anche l'opera di Alliard venne pubblicata solo nella seconda metà dell'Ottocento. Nel 1780 il manoscritto del Theatrum botanicum fu acquistato dalla Biblioteca di Grenoble e rimase inedito. Nella sezione biografie le poche notizie su Pierre Bérard che sono riuscita a rintracciare. Per un botanico della provincia, una pianta di qui A sottrarre almeno un poco Bérard all'oblio totale fu un altro botanico quasi endemico, Dominique Villars (1745-1814), grande esperto della flora del Delfinato, che affiancava alle spedizioni botaniche le ricerche nei polverosi scaffali delle biblioteche; fu folgorato dall'opera di Bérard, tanto da scrivere nella prefazione della sua Histoire des plantes de Dauphiné (1786-89): "Quest'opera era senza dubbio la più completa della sua epoca, ed è una grande sfortuna per i botanici in generale e per questa provincia [cioè il Delfinato] in particolare che non sia stato stampato. Sarebbe stata di maggior valore della Historia Plantarum di Jean Bauhin, di quella di Lione [non sono riuscita a identificare quest'opera], del teatro di Parkinson, persino della storia delle piante di Ray, anche se sono arrivate molto dopo di lui". Propose così di dedicare a Bérard una pianta alpina, Arctium lanuginosum Lam., di cui era stato recentemente riconosciuta l'appartenenza a un genere distinto: "Ho dato il nome di Berardia a questa pianta allo scopo di conservare ai posteri il nome di un sapiente botanico di Grenoble che l'aveva bene conosciuta e le cui opere non sono state stampate... Lasciamo l'omaggio di questo nome a un botanico della provincia". Da quel momento, Bérardia subacaulis (Asteraceae), un endemismo che vive nei macereti calcarei delle Alpi Occidentali (Delfinato, Alpi Marittime, Alpi Cozie), si è assunta il compito di ricordare il suo altrimenti dimenticato dedicatario. E lo fa benissimo, lei che è così tenace da vivere in condizioni proibitive ed è così antica che, secondo il botanico tedesco H. Merxmuller, è contemporanea del sollevamento che ha dato origine alle Alpi. Gli approfondimenti nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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