Mentre la grande opera di Hernández sulla natura messicana langue nella biblioteca dell'Escorial e ogni tentativo di pubblicazione si infrange contro l'ottusità e la bancarotta della corte spagnola, decenni prima che gli Accademici dei Lincei riescano a far uscire la loro splendida versione, ad assicurarne la prima edizione a stampa - sebbene in una veste mutilata e arbitraria - sarà un oscuro monaco erborista, Francisco Ximenez. E non senza qualche equivoco Plumier gli dedicherà il genere Ximenia. Il primo divulgatore dell'erboristeria messicana Come si è visto in questo post, il primo avatar del mai pubblicato opus magnum di Francisco Hernández vide la luce nel 1615 in Messico, grazie a Francisco Ximenez. Prima avventuriero, poi frate, questo personaggio di cui non sappiamo quasi nulla - quel poco è sintetizzato nella biografia - lavorava come infermiere e preparatore dei farmaci all'ospedale Oaxtepec quando gli pervenne "par extraordinarios caminos" (ovvero per strade quasi miracolose) una copia del manoscritto dell'estratto dell'opera hernandina allestito da Recchi. Ximenez, sicuramente al corrente dell'attività di Hernández che in quell'ospedale aveva operato, decise di tradurre il manoscritto latino in spagnolo in modo da creare un manuale "da usare nei luoghi dove non ci sono medici e farmacisti affinché la gente possa preparare da sé le medicine, utilizzando risorse di origine naturale". Nasce così Quatro libros de la naturaleza y virtudes de las plantas que están recevidas en el uso de medizina en la Nueva España y el Methodo y preparación que para administrarlas se requiere con lo que el Doctor Francisco Hernández escrivió en lengua latina ("Quattro libri sulla natura e le virtù delle piante che hanno impiego medico nella provincia della Nuova Spagna e Metodo e preparazione richiesti per somministrarle, con ciò che il Dottor Francisco Hernández ne scrisse in lingua latina"); non si tratta di una mera traduzione, ma di un'opera molto libera in cui il testo di Hernández-Recchi è integrato da nozioni e indicazioni pratiche ricavate dall'esperienza di paramedico e farmacista dello stesso Ximenez. Fu la prima opera di divulgazione del sapere scientifico pubblicata in Messico; riveste un notevole interesse storico ed etnografico, perché documenta i metodi terapeutici del tempo, in cui si integrano tradizione popolare indigena, conoscenze "scientifiche" rinascimentali e perdurante influenza delle pratiche medievali, basate sulla teoria galenica dei quattro umori. Le parti del tutto originali sono per altro limitate (12 capitoli su un totale di oltre 450); per circa l'80%, l'opera è una traduzione della silloge di Recchi - con molte libertà, omissioni e interpretazioni personali; il resto è costituito da annotazioni e glosse. Ximenez espunse alcuni capitoli e eliminò (o forse neppure conobbe) le tavole delle illustrazioni. Probabilmente l'opera fu stampata in poche copie - oggi è considerata una rarità ricercata dai bibliofili - ma ottenne un discreto successo. Nel 1625 è citata nella Storia del nuovo mondo e descrizione delle Indie Occidentali di Johannes de Laet, naturalista e direttore della Compagnia olandese delle Indie occidentali. Benché mai ristampata, nei due secoli successivi è ripetutamente citata da naturalisti spagnoli e messicani. Tra di essi, ricordiamo Nicolás Antonio, che nella sua Bibliotheca Hispana Nova (1672) commise un curioso errore, confondendo il nostro Francisco Ximenez, domenicano dell'inizio del Seicento, con un omonimo Francisco Ximenez francescano che nel 1524 fu tra i primi dodici missionari inviati ad evangelizzare il Messico. Ximenia, una pianta ricca di virtù Sicuramente de Laet e presumibilmente Antonio sono le fonti di Charles Plumier, che conobbe l'opera di Ximenez solo in modo indiretto, senza avere coscienza della sua relazione con il testo di Hernández. Infatti, nella breve biografia che accompagna la descrizione del nuovo genere Ximenia in Nova plantarum americanarum genera scrive: "Il reverendo padre francescano Francisco Ximenz, spagnolo, dell'ordine minore della provincia di San Gabriele, uno dei primi dodici padri minori che portarono la luce del Vangelo nelle Indie Occidentali. Poiché aveva appreso perfettamente la lingua messicana, scrisse quattro libri sulla natura e la virtù degli alberi, delle piante e degli animali della Nuova Spagna, in particolare della regione del Messico, e sui loro usi in medicina, stampati a Città del Messico nel 1615, più volte lodati da Jan de Laett nella sua opera sul nuovo mondo". Come si vede, Plumier non solo riprende da Antonio l'errore di persona, ma è convinto che l'opera di Ximenez si debba a una ricerca originale. A complicare ulteriormente le cose per i ricercatori distratti, si può aggiungere che esiste un terzo Francisco Ximenez, anche lui domenicano, ma vissuto nel Settecento in Guatemala, celebre per aver scoperto e pubblicato il Popol Vuh. Ma è ora di parlare di Ximenia. Creato, come si è detto, da Plumier, il genere ricevette la conferma di Linneo nel 1753; appartenente alla famiglia Olacaceae, comprende una dozzina di specie di arbusti e piccoli alberi tropicali. Si tratta di piante emiparassite radicali, che si procurano sali minerali e acqua assorbendoli per mezzo di austori dalle radici delle piante vicine. Molto curiosi i fiori, fittamente ricoperti da una peluria da bianca a brunastra, seguiti da frutti eduli simili a piccole prugne (donde i nomi inglesi wild plum, monkey plum, sour plum). Ricchissimi di vitamina C, essi sono consumati sia crudi sotto forma di marmellate, gelatine, sciroppi. Dai semi di X. caffra - la più nota delle specie africane - viene estratto l'olio di Ximenia, utilizzato soprattutto nella cosmesi per le sue proprietà antiossidanti. Anche le foglie, le radici e la corteccia sono usate nella medicina tradizionale sia in Africa sia in Brasile; studi in atto in Nigeria ne confermano le interessanti proprietà antimicrobiche. Insomma, una dedica quanto mai azzeccata all'infermiere erborista che si preoccupava di fornire rimedi naturali alla portata di tutti. D'altra parte, conoscendo il senso dell'umorismo un po' maligno di Linneo, non sarà mancata anche un'allusione all'emiparassitismo di questo genere, che succhia nutrimento dalle piante circostanti, proprio come Ximenez ha tratto un briciolo di fama dall'opera altrui. Qualche notizia in più sulle specie più note nella scheda.
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C'è stato un tempo in cui la Spagna era la massima potenza europea; in quel momento d'oro della sua storia, il suo potentissimo sovrano, Filippo II, ordina a uno dei suoi medici personali di esplorare la natura dei suoi domini, di studiare le piante esotiche e di indagarne le virtù terapeutiche. Sarà la prima spedizione naturalistica ufficiale dei tempi moderni. Il grande medico e botanico Francisco Hernández assolve il suo compito al di là di ogni aspettativa. Ma proprio come l'oro americano, le sue scoperte non porteranno alcun frutto in patria, e andranno a fecondare la botanica italiana e europea. A ricordarlo il genere Hernandia, e l'intera famiglia delle Hernandiaceae. Il mancato siglo de oro della botanica spagnola Anche in botanica, la Spagna ha avuto - o meglio, avrebbe potuto avere - un siglo de oro. Il dominio del Nuovo mondo metteva nelle mani di Madrid le chiavi d'accesso a quel favoloso continente, un scrigno di nuove specie mai viste che faceva sognare tutti i naturalisti d'Europa. E all'inizio ne fu perfettamente consapevole: come abbiamo visto parlando di Monardes, Siviglia, sede della Casa de Contractacion, era il punto d'arrivo non solo dell'oro e dell'argento americano, ma anche delle piante esotiche, dal tabacco al girasole, dal peperoncino al Tagetes. Anche sul piano culturale e teorico, la Spagna era perfettamente attrezzata: aveva partecipato allo stesso livello degli altri paesi al grande revival di Dioscoride - di cui Andrès Laguna pubblicò una delle più importanti edizioni commentate; aveva strutture all'avanguardia (già nel 1550 Salamanca aveva il suo Teatro anatomico e nello stesso periodo Laguna creava il parco-giardino a Aranjuez); i suoi medici-botanici viaggiavano in Italia, in Francia, nei Paesi bassi, erano in contatto con tutti quelli che contavano ed erano parte propulsiva della grande rete dei naturalisti del Rinascimento. Per essere il primo paese d'Europa nello studio della botanica non mancavano dunque né l'opportunità, né le conoscenze e neppure la consapevolezza dell'enorme importanza anche sul piano economico e politico della posta in gioco; in particolare era chiarissimo l'enorme potenziale delle piante americane per la cura di vecchie e nuove malattie. Eppure qualcosa si inceppò, qualcosa non funzionò e il primato, appena intravisto, si bruciò nell'arco di due generazioni. Proprio come la potenza spagnola, trascinata alla rovina prima dalla megalomania cattolica di Filippo II poi dalla nullità boriosa di Filippo III e Filippo IV. Metafora delle potenzialità bruciate della Spagna tra Cinquecento e Seicento, piccola storia in cui si rispecchia la grande Storia, la vicenda della "Comision de Francisco Hernández a Nueva España" vale la pena di essere raccontata. La "Comision de Francisco Hernández a Nueva España" Francisco Hernández, nato nel 1514, faceva parte della prima generazione degli studiosi spagnoli che avevano partecipato con passione alla riscoperta delle opere botaniche dell'antichità. Si era costruito una solida fama di medico, botanico, naturalista, era un umanista di formazione erasmiana che stava preparando la prima traduzione spagnola dell'opera di Plinio il Vecchio. A metà degli anni '60, entrò nell'ambiente di corte fino a diventare uno dei medici di Filippo II. Non è strano dunque che il re abbia pensato proprio a lui per la missione che avrebbe dovuto, d'un solo colpo, collocare la Spagna all'avanguardia degli studi naturalistici. Nel 1570, dopo averlo nominato "protomedico generale delle nostre Indie", gli affidò il compito di dirigere la spedizione incaricata di esplorare - per una durata di cinque anni - le risorse naturali (essenzialmente a fini medici) di tre territori della corona spagnola: la nuova Spagna (il Messico e l'America centrale), il Perù, le Filippine. E' la prima spedizione scientifica ufficiale dei tempi moderni. Il re la organizzò senza badare a spese (un contemporaneo dichiarò che alla fine era costata 60.000 ducati, un cifra enorme se si calcola che con 100 ducati si poteva acquistare una casa). Un'impresa destinata a dare prestigio al monarca che tanto generosamente la finanziava, ma anche con trasparenti scopi economici: imporre il monopolio della Spagna sul mercato dei farmaci di origine americana. Dopo alcuni mesi di preparativi, nell'agosto 1570 il gruppo si mise in viaggio: oltre a Francisco Hernández, ne facevano parte suo figlio Juan, con compiti di segretario, e il geografo Francisco Dominguez, incaricato delle rilevazioni topografiche; tutti gli altri collaboratori sarebbero stati reclutati sul posto. Dopo una sosta a Gran Canaria e una tappa a Santo Domingo de Cuba, a febbraio 1571 il gruppo sbarcò a Veracruz, al tempo il maggior porto della Nuova Spagna e la principale base della penetrazione spagnola in centro America. Nei successivi tre anni la spedizione - cui si erano aggiunto numeroso personale indigeno, tra cui tre pittori, medici e erboristi, un interprete e numerosi servitori - percorse sistematicamente tutti i territori della Nuova Spagna fino ad allora esplorati, attraverso una serie di grandi giri che includevano la zona centrale del Messico, la costa del Pacifico, le regioni di Oaxaca e Michoacán, il corso del Pánuco. Per raccogliere gli esemplari, Hernández si avvalse della collaborazione di raccoglitori indigeni; per ottenere descrizione omogenee, non influenzate dalle differenze linguistiche e culturali, elaborò un dettagliato questionario-guida. Creò anche un modello formalizzato per l'erborizzazione e la raccolta, che prevedeva la visita delle stazioni più volte durante l'anno, per esaminare le piante nei diversi stadi dello sviluppo. Piante e animali vennero scrupolosamente disegnati a vivaci colori dai pittori indigeni che accompagnavano la spedizione. Nel marzo del 1574, raccolta un'immensa quantità di materiali (la descrizione di 3000 piante, 400 animali, un centinaio di minerali; semi, piante vive e essiccate, insetti, piume, scheletri e pelli di animali), Hernández rientrò a Veracruz per predisporre riordinare le collezioni, presiedere al completamento delle illustrazioni, testare di persona l'efficacia terapeutica dei semplici locali attraverso la sperimentazione diretta negli ospedali della città. Nel 1575 l'opera era terminata. Era una vera enciclopedia, senza eguali nella scienza del tempo: 24 volumi sulle piante, uno sulla fauna, uno sui minerali, 10 volumi di disegni. Tra le piante documentate l'ananas, il cacao, il mais, il tabacco, la vaniglia, i peperoncini, i pomodori, molti tipi di cactus, diversi tipo di Passiflora, Guaiacum officinale, Strychnos nux-vomica, molte piante con proprietà allucinogene come alcune specie di Datura. Di fronte a quel materiale immenso, raccolto con la determinante partecipazione degli indigeni, la nomenclatura e i criteri di classificazione europei (ancora basati su Dioscoride e Plinio) si rivelavano inutili: senza alcun pregiudizio eurocentrico, Hernández usò i nomi indigeni e spesso raggruppò le piante secondo i criteri della medicina locale (a piante diverse, con effetti terapeutici simili, venivano assegnati nomi formati dalla medesima radice). Nel marzo del 1576, dopo aver predisposto una seconda copia, Hernández affidò alla flotta reale la copia lussuosamente rilegata da donare al re, gli erbari, le piante vive, le casse con le raccolte. Si trattenne ancora un anno in Messico, a sperimentare e a curare le vittime di una epidemia. Partito il 30 marzo 1577, a settembre rientrava a Siviglia. Le strane avventure del Tesoro messicano Ma la Spagna in cui Francisco Hernández sbarcò non era quella da cui era partito. Filippo II accolse con cortesia il medico, ammirò i disegni e ne volle alcuni nei suoi appartamenti privati, ma il suo entusiasmo non andò oltre. L'opera si rivelava enorme e probabilmente aveva troppo ecceduto i suoi desideri: avrebbe voluto un catalogo di piante medicinali utili, da vendere sui mercati europei, invece si trovava nelle mani un'immensa enciclopedia naturalistica, con nomi incomprensibili e troppe concessioni alla sapienza indigena. In una Spagna alle prese con la seconda bancarotta e impegnata nel braccio di ferro con i Paesi Bassi e l'Inghilterra, la sua pubblicazione a stampa era impensabile (tra testi e disegni, secondi i calcoli dello stesso Hernández non meno di 16 volumi in folio); i soldi non c'erano, ma presumibilmente neppure la volontà. Per non perdere del tutto l'enorme investimento, forse per il declino della salute di Hernández, forse in polemica con l'impostazione troppo "indigenista", il re affidò a un altro dei medici reali, l'italiano Nardo Antonio Recchi, il compito di predisporre un'edizione abbreviata, in lingua latina, selezionando solo le piante di interesse medico. In una poesia latina, dedicata all'amico Arias Montano, Hernández, già molto malato, espresse con estrema dignità il suo dolore per essere stato emarginato dal frutto di tante fatiche. Morì nel 1587. Qualche approfondimento nella biografia. Anche l'impresa di Recchi però incontrò ostacoli. Benché epurata del suo indigenismo (si torna a far riferimento alla teoria galenica dei quattro umori), ridotta a un solo tomo (le piante passano a circa 800), più uno di tavole, e completata nel 1582, non venne mai pubblicata in Spagna. Nel 1589, al suo rientro in Italia per assumere l'incarico di protomedico del reame di Napoli, Recchi portò con sé il manoscritto, che passò al suo erede Marco Antonio Petilio; questi intorno al 1610 lo vendette a Federico Cesi, il fondatore dell'Accademia dei Lincei, che con la collaborazione di diversi membri dell'Accademia - Giovanni Faber (Johannes Schmidt), Giovanni Terrenzio (Johann Schreck), Fabio Colonna, Francesco Stelluti e Cassiano dal Pozzo - su di esso si basò per predisporre un'edizione a stampa, arricchita con commenti e nuove figure. Finalmente nel 1628, per i tipi del tipografo Mascardi a Roma, usciva la prima parte dell'opera sotto il titolo Rerum Medicarum Novae Hispaniae Thesaurus (più conosciuta come "Tesoro messicano") che riproduceva, in dieci libri, il compendio di Nardo Recchi. Tra il 1631 e il 1648, usciranno la II, III e IV parte, con aggiunte, annotazioni e indici elaborati dai membri dell'Accademia. Sarà questa la via principale che farà conoscere Hernández alla scienza europea e ne consoliderà la fama come massimo conoscitore della natura del nuovo mondo. L'opera fantasma di Hernández, intanto, conosceva una vita carsica. Già nel 1607, in Messico, Juan de Barros, in appendice al suo Verdadera medicina, cirurgia y astrologia en tres libros, aveva pubblicato un ricettario - attribuito a Hernández - in cui le piante indigene, con nomi in lingua nahuatl, sono raggruppate in base alla parte del corpo che dovrebbero curare (disposte dalla testa ai piedi). Barrios si basò, presumibilmente, su un altro manoscritto di Hernández, rimasto in Messico: forse una prima versione del suo magnus opus, forse un estratto ad uso dei medici messicani, spagnoli e indigeni. Qualche anno dopo, sempre in Messico, questa volta sulla base della silloge di Recchi, Francisco Ximénez, frate e infermiere del convento di San Domingo di Città del Messico, nel 1615 pubblicò Cuatro libros de la naturaleza y virtudes de las plantas y animales de uso medicinal en la Nueva España, in cui il testo di Hernández-Recchi, senza figure, è integrato con osservazioni dovute all'esperienza medica dell'autore. Il manoscritto originale era conservato all'Escorial e sicuramente fu visto e consultato dagli studiosi che visitarono la Spagna, fu spesso citato e sicuramente se ne trassero copie parziali e estratti. Nel 1590 Filippo II donò a un altro medico di corte, Jaime Honorato Pomar - il titolare della più antica cattedra di botanica in Spagna - un prezioso manoscritto miniato, oggi noto come Codex Pomar, che contiene circa 200 acquarelli con animali e piante del vecchio e del nuovo mondo. Le figure di 7 animali e 25 piante, come ha dimostrato il confronto con le tavole dell'edizione romana del Tesoro del Messico, derivano dal manoscritto di Hernández. Quest'ultimo nel 1671 andò perduto nell'incendio della Biblioteca dell'Escorial. L'opera originale di Hernández, tuttavia, non scomparve del tutto: alla fine del Settecento, nella Biblioteca dei gesuiti di Madrid Juan Bauptista Munoz ne scoprì una copia parziale (tre volumi di botanica, uno di zoologia, uno di opuscoli vari); ne informò il re Carlo III che, nel pieno del rinnovamento della scienza spagnola, affidò l'incarico di pubblicarla al grande botanico Casimiro Gomez Ortega. Ma la maledizione hernandina continuava: neppure Gomez Ortega vide completata la sua fatica (riuscì a pubblicare solo la parte di botanica, nel 1790). Tuttavia, proprio questo ritrovamento stimolò la stagione delle grandi spedizioni naturalistiche finanziate dalla monarchia spagnola. Hernandia, frutti senza polpa Nonostante tanta sfortuna editoriale, Francisco Hernández, forse il più grande botanico spagnolo del Rinascimento, e la sua opera mai pubblicata, perduta, sconciata, rimasero un mito per le generazioni successive. Padre Plumier, sempre molto attento ai contributi spagnoli alla conoscenza delle piante americane, non poteva certo dimenticarlo e gli dedicò uno dei suoi nuovi generi (Nova plantarum americanarum genera, 1703). Nel 1753 Linneo convalidò il genere Hernandia, considerandolo appropriato non solo perché la specie-tipo, H. sonora, fa parte della flora messicana, ma perché nel curioso frutto della pianta scorgeva una corrispondenza ironica con le vicende della spedizione nella Nuova Spagna; come in quella un enorme investimento di denaro alla fine aveva prodotto ben pochi frutti, così i frutti delle Hernandiae sono piccole e modeste drupe racchiuse in una cupola carnosa vuota. Hernandia - che dà il nome alla famiglia delle Hernandiaceae - è un genere di alberi o arbusti pantropicali che comprende circa 25 specie. La sua particolare distribuzione - Antille, coste americane e africane, isole dell'Oceano Indiano, Australia e Polinesia - si spiega con la dispersione dei frutti da parte delle onde marine. Oltre al curioso frutto "vuoto", un'altra particolarità di questo genere è la spiccata eterofillia: le foglie giovanili, in genere a tre o cinque lobi, sono estremamente diverse da quelle adulte, semplici, spesso peltate. Il legname leggero e di facile lavorazione ha fatto sì che presso diverse popolazioni sia stato usato per costruire canoe. Qualche approfondimento nella scheda. Ardono gli ultimi fuochi delle guerre di religione quando un giovane medico, Pierre Richer de Belleval, propone a Enrico IV di dotare l'Università di Montpellier di un orto dei semplici degno della sua fama. E' così che nasce, tra gelosie di colleghi e cronica mancanza di fondi, il primo Orto botanico di Francia, creato da un cattolico in una cittadella del protestantesimo, destinato ad essere distrutto dal fuoco amico del cardinale di Richelieu e a risorgere dal nulla, sempre per merito del pertinace Belleval. Che si guadagnerà ben due generi: Richeria e Bellevalia. La modesta proposta di Richer de Belleval Dicembre 1593. Il governatore della Linguadoca, duca di Montmorency, presenta un giovane medico a un Enrico IV ancora in assetto di guerra (da quattro è nominalmente re di Francia, si è già convertito al cattolicesimo, ma ancora Parigi rifiuta di aprirgli le porte). Il dottore si chiama Pierre Richer de Belleval e espone al sovrano il suo sogno: dotare l'Università di Montpellier di un giardino dei semplici che rivaleggi con quello di Padova. Il re, già proiettato verso la pace e la ricostruzione del paese, è entusiasta. Ed è così, che con decreto reale nasce il Jardin du Roy, il giardino del re, ovvero l'Orto botanico di Montpellier; poiché nessuna delle cattedre di medicina dell'Università di Montpellier è vacante, con un secondo provvedimento ad hoc viene istituita per Belleval una quinta cattedra (il primo insegnamento di botanica in terra francese): d'inverno dovrà insegnare anatomia, in primavera e d'estate raccogliere e "dimostrare" i semplici. Nonostante le "lettere patenti" reali, c'è ancora qualche ostacolo: manca la ratifica del Parlamento di Linguadoca (arriverà solo nel 1596) e Belleval deve completare gli studi: ha conseguito il titolo medico a Avignone, gli manca il dottorato che solo Montpellier, appunto, gli può conferire. Ottenuto il titolo e giunta l'approvazione del Parlamento e i primi finanziamenti, Belleval si mette all'opera: acquista una serie di appezzamenti al di fuori delle mure cittadine, nel quartiere di Saint Jacques, altri ne requisisce. Si getta anima e corpo nell'impresa, anticipando anche di tasca sua il denaro necessario per gli uomini, i cavalli, i materiali, le piante (si è da poco sposato con una ricca ereditiera, di cui sta rapidamente esaurendo la dote). Estraneo all'ambiente di Montpellier (la sua famiglia è originaria della Champagne), "papista" in una città protestante (ha compiuto gli studi nella cattolicissima Avignone, che fa parte del territorio pontificio), con la sua fortunata carriera Belleval non può che suscitare invidie e rancori nella città che, nel frattempo, con l'editto di Nantes, è diventata anche ufficialmente una roccaforte ugonotta. I più zelanti fanno arrivare a André Dulaurens, primo medico del re, denunce e proteste: la più grave è che Richer de Belleval ha lasciato all'abbandono l'insegnamento dell'anatomia. Accusa fondata: sempre in giro ad erborizzare nelle campagne della Linguadoca, quando non all'estero, per fare visita ai colleghi di Padova, Bologna, Vienna, Londra, Leida (entrando il quella rete di relazioni e scambi che abbiamo già incontrato parlando dell'Orto padovano), in effetti Belleval ha occhi e tempo solo per il Giardino. E alla fine, trovata una soluzione di compromesso (l'insegnamento di anatomia sarà affidato a un sostituto), l'appassionato botanico può finalmente concentrarsi nell'opera della sua vita. Un giardino per i semplici e per le piante La concezione del Jardin royal di Montpellier è per molti aspetti innovativa: non sarà solo un giardino dei semplici, destinato alle piante medicinali la cui conoscenza è richiesta nel curriculum dei futuri medici, ma un giardino botanico dove le piante esotiche e le piante del territorio potranno essere coltivate rispettando le loro esigenze di suolo e esposizione. L'idea più innovativa è il monticulus, il "monticello", un rialzo artificiale alto circa due metri, con orientamento est-ovest, formato da cinque terrazze sovrapposte; lo scopo è duplice: riparare dal vento le piante medicinali coltivate nelle parcelle destinate ai semplici; offrire alle piante "selvagge" l'esposizione più adeguata. Nelle cinque terrazze esposte a sud vengono trapiantate le piante della garrigue, amanti del sole; nelle cinque terrazze esposte a nord le piante amanti dell'ombra. Di concezione ugualmente innovativa il labirinto, uno spazio protetto da muri con una struttura a spirale che trattiene l'umidità e fornisce ombra alle piante. Per le esotiche c'è un giardino recintato e sono previste aree specifiche per le piante acquatiche, quelle delle sabbie e quelle delle rocce. E' la prima volta che in un giardino si cerca di ricreare le condizioni naturali adatte a ciascuna pianta. Più tradizionale la parte propriamente didattica, il giardino dei semplici vero e proprio, destinato alla formazione degli studenti di medicina dell'Università, collocato a sud del monticulus; comprendeva due gruppi di tre aiuole rialzate parallele, dotate di canaletti di irrigazione, dove le piante erano sistemate in ordine alfabetico (esattamente come negli erbari del tempo) e contraddistinte da numeri incisi sulla pietra che permettevano l'identificazione (lo stesso Richer de Belleval provvide a scrivere il catalogo, in cui le piante erano contrassegnate con quegli stessi numeri). All'ingresso, un'iscrizione latina ammoniva i visitatori: Hic Argus sit et non Briareus, "Qui bisogna comportarsi come Argo dai cento occhi, non come Briareo dalle cento mani" (insomma, "guardare e non toccare"). Nel 1622, il Giardino aveva ormai raggiunto la maturità, conteneva almeno 1300 specie, era il fiore all'occhiello dell'Università di Montpellier e attirava studenti e visitatori da tutta Europa; Parigi, che ancora non aveva un suo orto botanico, guardava a quel modello per dotarsi di un'istituzione di pari livello. Quell'anno il Cardinale di Richelieu, nella sua controffensiva contro gli ugonotti, inviò le sue truppe ad assediare la città, che, come si è visto, era una delle piazzeforti protestanti previste dall'editto di Nantes. Il cavaliere d'Argencourt, ingegnere della città, per rafforzare le difese in vista dell'assedio, cacciò i giardinieri e trasformò il giardino in un bastione; Richer de Belleval riuscì solo a salvare le piante più preziose, trasferendole in quello che era stato il piccolo orto di Rondelet. Due anni dopo, quando venne firmata la pace, del giardino non era rimasto nulla. Bisognò ricominciare tutto da capo; nel 1629 Richelieu visitò la città e promise aiuti finanziari che tardavano ad arrivare (forse perché, nel frattempo, stava per sorgere il Jardin des plantes di Parigi, che stava molto più a cuore al re e al cardinale). Belleval, negli otto anni che gli sarebbero rimasti da vivere, ricostruì e ingrandì la sua creatura, lasciando in eredità il difficile compito a un nipote (come molte cariche della Francia dell'Ancien Régime, anche quella di curatore del Jardin royal di Montpellier era ereditaria). Fondatore del più antico orto botanico francese, titolare della prima cattedra di botanica, pioniere dell'ecologia botanica, Belleval fu anche uno botanico sul campo che esplorò a fondo la flora della Linguadoca, ma anche dei Pirenei e delle Alpi. Fu anche un antesignano della nomenclatura binomiale, anche se la sua idea oggi appare francamente bizzarra: denominare le piante con un nome più generale (il genere) in caratteri latini, un nome più specifico (la specie) in caratteri greci. Qualche notizia in più nella biografia. Tra alti e bassi, nei secoli successi il Jardin des Plantes de Montpellier, il più antico orto botanico francese, secondo in ordine di importanza solo a quello parigino (fondato nel 1626), manterrà il suo prestigio e sarà diretto da importantissimi botanici, come Augustin Pyramus de Candolle; oggi è uno dei pochi a trovarsi ancora nella collocazione voluta dal suo fondatore, e al centro è ancora visibile il monticulus, la "Montaigne di Richer", all'estremità della quale da quasi quattro secoli continua a fiorire l'albero di Giuda (Cercis siliquastrum) da lui piantato. Due nomi, due generi: Richeria e Bellevalia Diversi botanici onorarono Richer de Belleval con la dedica di un genere. Oggi due sono quelli considerati validi: Richeria Vahl e Bellevalia Lapeyr. Forse è giusto, considerando che il nostro aveva due nomi e due volte ha creato il giardino. Richeria Vahl. è un piccolo genere della famiglia Phyllantaceae (un tempo sottofamiglia delle Euphorbiaceae) che comprende alcune specie di alberi originari del centro e sud America e delle Antille. E' stato dedicato a Richer de Belleval nel 1797 dal botanico danese Martin Vahl. La specie più nota è Richeria grandis, un grande albero sempreverde comune nelle foreste dei Caraibi e del Sud America. Alla sua scorza, nota con il nome di bois bandé, sono attribuite proprietà afrodisiache. Torniamo nel vecchio mondo con Bellevalia Lapeyr., un genere della famiglia Asparagaceae (una delle diverse famiglie staccate dalle Liliaceae), abbastanza affine a Muscari o Hyacinthus. E' stato stabilito nel 1808 da un naturalista francese dal nome chilometrico: Philippe-Isidore Picot de Lapeyrouse, grande studioso della fauna, della flora e dei minerali dei Pirenei. Comprende una sessantina di specie, diffuse dal Mediterraneo all'Asia centrale. Sono bulbose con infiorescenze a spiga molto simili a quelle dei giacinti (e infatti al genere Hyacinthus in passato sono state assegnate diverse specie). Sei specie e due sottospecie sono presenti anche in Italia; la più diffusa è B. romana, nota come giacinto romano, una bulbosa con fiori bianco-verdastri con stami viola, raccolti in racemi laschi portati su caratteristici fusti violacei. Per altre informazioni sui generi Richeria e Bellevalia si rimanda alle rispettive schede. Gli epiteti di molte piante ci ricordano l'importanza dell'Università di Montpellier, culla della botanica francese. E gran parte del merito va a un grande medico, scienziato e didatta, Guillaume Rondelet, che seppe attirare nella città della Linguadoca tante giovani menti, soprattutto dal mondo protestante, diventando il vero "maestro di color che sanno" della botanica francese (e non solo) di fine Cinquecento. A ricordarlo la bella, e non abbastanza nota, Rondeletia. La botanica francese nasce a Montpellier Acer monspessulanum, Cytisus monspessulanus, Dianthus monspessulanus, Cistus monspeliensis, Chrisanthemum monspeliense, Ranunculus monspeliacus (e via elencando)... Avete notato quante piante ricordano nel nome specifico la città francese di Montpellier (in latino Monspessulanus)? E' dunque un paradiso botanico questa città della Linguadoca? In realtà, molte di queste piante non sono affatto esclusive di quella località, anzi alcune non vi crescono neppure spontaneamente. Se il nome di Montpellier è legato a tante specie, si deve al ruolo che ebbe la sua Università nella storia della botanica. Già durante il Medioevo, la scuola di medicina di Montpellier, fondata nel 1180, contendeva a Salerno, Bologna e Padova il primato negli studi medici. Con questa lunga storia alle spalle, proprio qui, nel Rinascimento, era destinata a sorgere la botanica scientifica francese. Il merito va in gran parte a un grande professore, Guillaume Rondelet, che fu per la Francia quello che Ghini fu per l'Italia e Fuchs per la Germania; un ricercatore, ma soprattutto un insegnante carismatico, capace di creare una scuola e di richiamare attorno a sé le più belle menti del tempo. Proprio a Montpellier Rondelet era nato nel 1507, figlio di un aromatarius (un po' speziale, un po' droghiere, un po' farmacista) e aveva studiato medicina, per poi perfezionarsi in anatomia a Parigi. Come anatomista dà anzi scandalo, quando - nell'intento di individuare la causa della morte -disseziona il cadavere del suo stesso figlio. All'inizio degli anni '40, entra al servizio del cardinale François de Tournon, che accompagna nei suoi viaggi in Italia e nei Paesi Bassi. Rondelet ha così modo di incontrare Ghini - da cui pare abbia appreso le tecniche per predisporre un erbario - e Aldrovandi. Durante i suoi viaggi incomincia anche a raccogliere e studiare sistematicamente la fauna acquatica che, insieme all'anatomia e alla botanica, sarà il principale campo di studio di questo scienziato dottissimo e polivalente. Tornato a Montpellier, nel 1545 diventa professore di medicina dell'università; nel 1550 (cinque anni dopo l'analogo provvedimento padovano) inserisce nel corso di studio dei futuri medici l'obbligo di raccogliere piante e organizza il primo corso ufficiale di botanica in Francia. Anziché sui libri di Dioscoride - come si farà a Parigi ancora un secolo dopo - gli allievi di Rondelet si formano sul grande libro della natura: i giovani aspiranti medici che accorrono da tutta l'Europa vengono inviati dal maestro a erborizzare nelle garrigues della Linguadoca, nelle Cevenne e nei Pirenei e a raccogliere esemplari che, preparati secondo le tecniche apprese da Ghini, saranno "dimostrati" nel corso delle lezioni. La botanica incomincia anche a emanciparsi dalla medicina: oggetto delle erborizzazioni non sono solo i semplici, ma ogni tipo di pianta, che viene ora studiata e descritta nelle sue caratteristiche; incomincia a delinearsi quell'interesse per la classificazione, la sistematica, la tassonomia che sarà il grande contributo della scuola francese alla botanica (da Tournefort a de Candolle, passando per i Jussieu). Con la sua formazione di anatomista, Rondelet abitua i suoi allievi ad osservare le parti e gli organi delle piante, a paragonarli tra di loro, a interrogarsi sulla loro funzione. Botanica e Riforma Intanto, l'Europa in generale e la Francia in particolare, si dividono tra Cattolici e Protestanti e l'Università di Montpellier diventa uno dei centri di diffusione del calvinismo nella Francia meridionale, mentre la città è teatro di scontri tra le due fazioni. E' discusso se Rondelet stesso abbia aderito o no alla fede riformata; certo a quegli ambienti fu vicino ed espresse la sua simpatia anche con gesti clamorosi, come nel 1551, quando il vescovo della città, l'umanista Guillaume Pellicier, suo buon amico, fu arrestato dal Parlamento di Tolosa con l'accusa di eresia (cioè di posizioni filoprotestanti): per protesta, Rondelet bruciò pubblicamente tutti i suoi libri di teologia. In ogni caso, mentre le università cattoliche si chiudevano ai protestanti, Montpellier diventava l'unica università francese che continuò ad accoglierli. Questa circostanza, insieme al carisma di Rondelet, che nel 1556 era diventato anche cancelliere dell'Università, attirò a Montpellier molti studenti sia dalla Francia sia dai vicini paesi protestanti. E di fede riformata erano molti di loro (anche se non tutti). Tra i più celebri nella storia della botanica ricordiamo almeno i francesi Charles de l'Écluse (ovvero Carolus Clusius, che di Rondelet per qualche tempo fu anche segretario), Matthias de l'Obel (Lobelius) e il suo amico Pierre Pena, Jacques Daleschamps; gli svizzeri Jean e Gaspard Bauhin e Felix Platter. A parte il provenzale Pena, arrivavano dai quattro angoli della Francia e anche da più lontano, e non conoscevano la flora mediterranea; furono proprio loro, nelle loro descrizioni delle piante che andavano raccogliendo nelle loro spedizioni botaniche, ad assegnare con tanta generosità l'etichetta monspessulanus, monspeliacus ecc. anche a specie non strettamente legate ai dintorni di Montpellier. Grazie alle lettere che Felix Platter (1536-1614) - studente svizzero destinato a diventare un celebre anatomista - scambiò durante l'intero corso degli studi con il padre, che viveva a Basilea, conosciamo la vita quotidiana degli studenti di Montpellier, che non era fatta solo di studi severi e di discussioni teologiche, ma anche di danze, serenate con il liuto e bevute in compagnia (anche, se sullo sfondo, incombevano le perquisizioni, gli arresti, i processi e i roghi per eresia). Scopriamo che Rondelet - proprio come Linneo dopo di lui - sapeva interessare gli studenti con piccole storie e aneddoti divertenti; era una personalità aperta, amante degli scherzi e delle battute, un padre affettuoso e bonario per i suoi studenti, che spesso accompagnava ad erborizzare. Al tempo degli studi, fu anche buon amico di un altro studente di Montpellier, il grande scrittore François Rabelais, che a lui si ispirò per la figura del dottor Rondibilis nel terzo libro del Pantagruel. Entrambi pronti alla battuta e amanti della buona tavola, a quanto pare, da giovani studenti avevano recitato insieme in ruoli farseschi. Così importante per la storia della botanica grazie al sapere trasmesso ai suoi allievi, Rondelet non ha pubblicato nulla in questo campo. La sua opera più importante è Histoire des poisson, "La storia dei pesci", pubblicato dapprima in latino (1554), quindi in francese (1558); nonostante il titolo, il trattato, l'opera fondatrice dell'ittiologia, non parla solo di pesci, ma anche di altri animali acquatici; anzi Rondelet fu forse il primo scienziato, dissezionando un delfino, a capire che non di un pesce si trattava, ma di un mammifero. Oltre ad aver dotato l'università di un piccolo hortulus, nel 1556 promosse la costruzione di un teatro anatomico. Negli ultimi anni della sua vita, funestati dallo scoppio delle guerre di religione (1562) e da problemi di salute, si ritirò nella cittadina di Réalmont dove morì nel 1566. Qualche notizia in più nella biografia. Una profumata (?) Rondeletia E' ancora una volta Charles Plumier (1703) a dedicare a Rondelet uno dei suoi nuovi generi americani; del resto l'omaggio al fondatore della botanica francese era atto dovuto per un botanico provenzale, amico di tanti naturalisti formati all'Università di Montpellier. La dedica, come sempre ricca di superlativi, suona: "Guillaume Rondelet, eccellentissimo nell'arte della medicina, scrisse una celeberrima opera sui pesci e sulla natura dei pesci, ma anche realizzò un'opera somma nella raccolta e nel riconoscimento delle piante, e in ciò eccelse assai; fu il primo a esporre Dioscoride (= cioè la materia medica, la botanica) a Montpellier". Il genere Rondeletia (Rubiaceae) sarà convalidato da Linneo nel 1753. Rondeletia è uno dei più ampi generi della sua famiglia nell'area dei Tropici che va dal Messico al nord del Sud America, con massimo centro di diversità nelle Grandi Antille, in particolare a Cuba. Sottoposto di recente a una parziale revisione tassonomica, che ne ha separato alcune specie - per ironia della sorte, proprio alcune di quelle più coltivate nei giardini e normalmente conosciute con il nome Rondeletia - comprende circa 120 specie di arbusti e piccoli alberi, con foglie sempreverdi lucide, tondeggianti, e infiorescenze di fiori spesso profumati, che attirano le farfalle. La specie più nota, la sola relativamente diffusa in coltivazione, è R. odorata, originaria di Cuba e Panama, un arbusto con brillanti corimbi di fiori rosso aranciato con gola gialla; nonostante il nome, i fiori non sono molto profumati, anche se in passato hanno trovato impiego in profumeria. Molto decorativa, è stata introdotta nei giardini della fascia tropicale. Qualche informazione in più nella scheda. Riscoprire l'antichità e viaggiare per studiare la natura dal vivo: sono le due vie maestre percorse dai medici-botanici del Rinascimento; compreso Prospero Alpini che in Egitto vede all'opera l'antica tecnica di impollinazione delle palme e ne deduce la differenziazione sessuale delle piante dioiche. Grande esperto di piante medicinali esotiche e quarto ostensore dei semplici dell'Orto padovano, dona al suo nome all'esotico (e speziato) genere Alpinia. Dalle palme d'Egitto all'orto di Padova La palma da dattero (Phoenix dactilifera) è un noto esempio di specie dioica, con piante maschili (che producono il polline) e femminili (che danno i frutti). L'impollinazione naturale è effettuata dal vento, ma già in Mesopotamia, almeno 4000 anni fa, si scoprì che la produttività e la qualità dei frutti viene accresciuta con l'impollinazione artificiale. Presso i Babilonesi e gli Egizi, i rami fioriti degli esemplari maschili venivano tagliati e legati sugli esemplari femminili; quello di impollinatore di palme doveva essere un mestiere alquanto pericoloso, visto che occorre arrampicarsi su piante mediamente alte tra i 15 e i 20 metri. L'antichissima pratica era ben nota agli scrittori antichi di cose naturali, come Teofrasto e Plinio, anche se la loro comprensione del fenomeno era parziale. In ogni caso, benché la tecnica fosse rimasta ininterrottamente in uso, in Europa anche quelle limitate conoscenze vennero dimenticate almeno fino al Rinascimento. Tra il 1580 e il 1584, Prospero Alpini, un altro botanico legato al fecondo ambiente padovano, soggiornò in Egitto come medico di Giorgio Emo, console veneziano al Cairo. Ebbe così modo di osservare gli impollinatori delle palme al lavoro e dedusse correttamente che le piante da dattero femminili davano frutto solo se avveniva un mescolamento tra rami maschili e femminili, in modo che la polverina prodotta dai fiori maschili (noi oggi diremmo il polline) cospargesse i fiori femminili. Queste osservazioni gli permisero di essere tra i primi botanici a riconoscere la differenziazione sessuale delle piante. Il libro che Alpini ricavò dal soggiorno in Egitto, De plantis Aegypti liber (1592), contiene la descrizione - accompagnata da illustrazioni di buona qualità - di una cinquantina di specie medicinali, coltivate e spontanee, usate nella farmacopea egiziana del tempo. E' celebre soprattutto per contenere la prima illustrazione europea della pianta del caffè; del caffè e del suo consumo Alpino parla anche in altro testo dedicato all'Egitto, Aegyptiorum libri quatuor (1591), che contiene informazioni etnologiche, storiche e archeologiche. Alpini era nato a Marostica nel 1553 e si era formato all'Università di Padova, sotto la guida di Guilandino; anzi fu proprio l'esempio del maestro a spingerlo ad accompagnare Emo al Cairo. Rientrato in patria nel 1584, le sue opere sull'Egitto attirarono l'attenzione dei Riformatori dell'ateneo padovano, che nel 1594 lo nominarono lettore dei semplici, la cattedra che era stata di Guilandino ed era vacante dal 1568. Alla morte di Giacomo Cortuso, nel 1603, gli succedette nell'incarico di prefetto dell'Orto botanico di Padova e ostensore dei semplici, riunendo nuovamente le due cattedre (come il suo maestro prima di lui). Il prestigioso incarico, che mantenne fino alla morte nel 1616, fece di Alpini una figura riconosciuta nella medicina e nella botanica europea del primo Seicento; come i suoi predecessori, intrattenne rapporti e scambi di piante con importanti botanici, come Gaspard Bauhin e Camerarius il giovane; incrementò l'importanza dell'orto di Padova come centro di studio e diffusione di piante esotiche, alle quali nel 1614 dedicò De plantis exoticis. Ebbe fama europea anche come medico. La sua attenzione di medico-botanico si rivolse in particolare alle specie medicinali, soprattutto esotiche (egizie, ma anche cretesi); si interessò tuttavia anche alla flora locale: sul monte Grappa raccolse una nuova Campanula, che chiamò C. pyramidalis minor; Linneo la ribattezzò in suo onore C. alpini (assegnata a un altro genere e riunita a un'altra specie, il suo nome attuale è Adenophora liliifolia). Come sempre, qualche notizia in più nella biografia. Dal Medioevo, una spezia magica Decisamente poco fortunato con le dediche linneane, il nostro buon medico di Marostica. Infatti nel 1753 Linneo gli dedicò anche un genere Alpinia, che tuttavia qualche anno dopo confluì nell'affine Renealmia, per opera del figlio di Linneo, Carlo il giovane. Ma qualche anno più tardi, a rendere omaggio a Alpini pensò, questa volta in via definitiva, un altro medico-botanico, lo scozzese William Roxburgh, grande esperto di flora indiana. La sua scelta fu quanto mai felice, perché cadde su un genere esotico - come quelli che amava Alpini - che comprende molte piante medicinali. Alpinia Roxb. è il genere più vasto della famiglia dello zenzero, le Zingiberaceae (cui appartiene anche Renealmia, un genere dell'America tropicale), con circa 250 specie; fino a qualche anno fa ne comprendeva circa 400, ma in seguito a una recente revisione tassonomica ne sono stati separati diversi nuovi generi. Native delle aree tropicali e subtropicali dell'Asia, dell'Australia e delle isole del Pacifico, sono grandi erbacee rizomatose, prive di vero fusto, ma con pseudofusti formati dalle guaine fogliari sovrapposte, che arrivano ai 3 metri (sono noti esemplari giganti di alcune specie, alti fino a 8 metri). I rizomi di alcune specie, estremamente aromatici, trovano impiego in erboristeria e in cucina, come spezie. Dal mio punto di vista, la più affascinante di tutte è A. galanga, ovvero la galanga, una spezia quasi mitica che compare in tutti i ricettari medievali come ingrediente del forte vino speziato dalle proprietà medicamentose, l'ippocrasso. Sebbene sia nota anche come zenzero tailandese - la radice fresca è un ingrediente della cucina thai - il suo aroma solo superficialmente può essere accostato a quello dello zenzero: è molto più rotondo, muschiato, meno aggressivo. Nel Medioevo gli si attribuiva la virtù magica di tenere lontani gli spiriti maligni. Caduta in disuso, fino a epoca recente è stata introvabile da noi (oggi è possibile trovare la radice fresca in rete o in negozi specializzati in prodotti alimentari; come del resto già in epoca medievale, è molto costosa). Anni fa, immaginate con quanta eccitazione, mi capitò di acquistarne radici essiccate (cioè esattamente la spezia usata nel Medioevo) nel bazar di Aleppo. E vi posso assicurare che è vero, l'ippocrasso preparato con la galanga è un'altra cosa. Altre specie di Alpinia, tuttavia, sono interessanti, anche come piante ornamentali, tanto che alcune sono state introdotte nei giardini tropicali di tutto il mondo. Di alcune di loro si parla nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
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