E' molto probabile, anzi certo, che tra l'imperatore Carlo Magno e i cardi del genere Carlina non ci sia nessuna relazione. Ma la fantasia linguistica del popolo ha voluto stabilire un legame, sulla base di quel fenomeno che i linguisti chiamano paretimologia o etimologia popolare: e così cardina, "piccolo cardo", si è trasformato in carlina. La leggenda però è suggestiva e i meriti botanici del grande imperatore sono sufficienti ad accogliere anche lui nella galleria dei patroni delle piante, nonostante i pasticci di Linneo. ![]() Una leggenda tardo medievale Stando ai linguisti, non c'è storia: il nome volgare, e poi scientifico, dei cardi del genere Carlina deriva per dissimilazione da cardina, a sua volta forma diminutiva di carduus. Ma la suggestione del suono ci porta inevitabilmente a un Carlo, anzi al Carlo per eccellenza, il re Carlo o re Carlone dei Reali di Francia. Divenuto ormai opaco, carlina è stato reinterpretato dalla fantasia linguistica popolare come "pianta di Carlo" e ne è nata una leggenda che probabilmente girava di bocca in bocca da tempo quando, tra il 1462 e il 1463, l'umanista Enea Silvio Piccolomini, ovvero papa Pio II, la mise per iscritto. Nei suoi Commentarii egli racconta che nell'estate dell'800 Carlo si trovava sul monte Amiata, da dove avrebbe raggiunto Roma per essere incoronato, quando il suo esercito fu colpito da una terribile pestilenza. Il sovrano si gettò in ginocchio e pregò il Signore di dargli soccorso. L'aiuto giunse in forma di sogno o visione. A Carlo apparve un angelo che gli ordinò di scagliare un dardo in direzione del sole. La dove sarebbe caduto, avrebbe trovato una pianta che avrebbe risanato i suoi uomini. Carlo obbedì; la freccia andò a conficcarsi nella radice di una erba che, ridotta in polvere e fatta bere agli ammalati, li guarì. La scena è perfettamente ritratta nell'erbario figurato di Giovanni Cadamosto (Manoscritto Harley MS 3736), dipinto probabilmente nella Germania meridionale intorno al 1475, a sua volta una copia di un manoscritto eseguito per Borso d'Este (morto nel 1471). La didascalia recita "Carlina che purga de la peste": il testo prosegue descrivendo le virtù della pianta e raccontando la leggenda in modo simile a Piccolomini. La conclusione ricorda che di quel miracolo rimane il segno tangibile: "tute quante nasceno con lo buso de quel dardo". Sempre in ambiente ferrarese, la storia era nota anche al medico personale dei duca d'Este, Niccolò Leoniceno, che nei suoi manoscritti (pubblicati solo nel 1532, molto dopo la sua morte) parla di una "herba Carlina" che "fu scoperta da Carlo Magno". Più interessato a identificarla con una qualche pianta degli antichi, Leoniceno non va oltre; a farlo è il suo allievo Antonio Musa Brasavola che in Examen omnium simplicium (1536), discutendo dell'identificazione delle carline che ha raccolto sui monti del bolognese, attribuisce l'invenzione della leggenda agli erboristi che, vedendo quella lesione al centro della radice, l'hanno attribuita al dardo scagliato da Carlo Magno istruito da un angelo; e conclude haec puerilia sunt, "sono puerilità". Non molto meno drastico è Mattioli, che chiama la pianta Chamaeleon albus (o niger), sulla scorta di Dioscoride, e aggiunge: "I Toscani, ma anche altri nel resto d'Italia, la chiamano volgarmente carlina; perché il volgo crede (e il volgo è facile a credere) che quest'erba un tempo sia stata mostrata a re Carlo da un angelo per guarire il suo esercito dalla peste e sia dunque l'antidoto migliore di tutti". Ormai, la storia è di dominio comune e con espressioni come "si dice", "si crede", la riportano Cesalpino, Tabernemontano, Dodoneo, Caspar Bauhin e altri. A crederci, o ad approfittarne, sono i monaci dell'Abbazia di San Salvatore sul monte Amiata, che arricchiscono la leggenda di particolari; anche se il senese Piccolomini non ne parla, sarebbero stati loro ad aiutare il re carolingio a curare i suoi soldati. Ma le leggende, si sa, si deformano, si attualizzano; e qualcuno, chissà quando, chissà chi, incomincia ad attribuire la vicenda al nuovo Carlo, ovvero l'imperatore Carlo V. Dal monte Amiata lo scenario si sposta ad Algeri, dall'estate dell'800 all'autunno del 1541. Intatte rimangono la peste e la guarigione miracolosa. Stranamente, a rifarsi a questa versione spuria è proprio Linneo che in Critica botanica, riferisce Carlina al Carlo sbagliato. Eppure riprende il genere Carlina dal Pinax di Bauhin, dove è correttamente collegata a Carlo Magno. ![]() Nell'orto di Carlomagno Non seguiremo Linneo su questa strada. Come pseudo-dedicatario di Carlina, teniamoci quello originale, tanto più che in qualche modo di piante si occupò. Lo fece attraverso il più famoso dei suoi provvedimenti amministrativi, il Capitulare de villis, in cui vengono impartite direttive sulle attività delle aziende agricole (villae) del patrimonio imperiale; non ne conosciamo la data, ma gli storici lo collocano generalmente negli ultimi anni del suo regno, anche se non manca chi ha voluto attribuire il documento al figlio Ludovico il Pio. L'importante testo, una delle poche testimonianze sull'agricoltura e l'orticoltura altomedievali, è stato assai studiato - soprattutto per i suoi aspetti giuridici - e diversamente interpretato. Anche se varie piante sono nominate sinteticamente nei capitoli dedicati alla gestione dei boschi, alla coltivazione dei campi, alla viticoltura, all'allevamento del bestiame, a interessarci in particolare è il capitolo 70 e ultimo, che contiene un elenco di 73 ortaggi e 16 alberi che l'imperatore vorrebbe fossero coltivati nei suoi poderi. Anche se la loro identificazione è tutt'altro che sicura e univoca, su questa base in vari paesi europei sono anche stati ricostruiti numerosi "giardini carolingi", a cominciare dai due Karlsgarten di Aquisgrana. Sebbene la lista sia aperta dalla formula imperativa "Vogliamo che nell’orto sia coltivata ogni possibile pianta", è improbabile che in ciascuna delle centinaia di aziende agricole imperiali sparse tra Francia, Germania, Aquitania, Austria, Italia settentrionale ci fossero sempre tutte 89. Basti pensare che nei tre orti dell'abbazia di San Gallo, di cui ci è giunta una pianta risalente all'820 circa, le specie coltivate erano in tutto 47. Si tratterà dunque di una lista ideale, da adattare secondo le esigenze, le risorse del territorio, il clima del luogo. Come negli orti monastici medievali, anche in quelli delle villae carolinge si affiancavano piante alimentari e medicinali. Tra le alimentari troviamo numerose specie che ancora oggi popolano gli orti: alia, l'aglio Allium sativum; ascalonias, lo scalogno Allium cepa var. ascalonicum; betas, le biete o barbabietole Beta vulgaris subsp. vulgaris; apium, il sedano Apium graveolens; carvitas, le carote Daucus carota; caulos, i cavoli Brassica oleracea; cepas, le cipolle Allium cepa; cicerum italicum, i ceci Cicer aretinum; cucumeres, i cetrioli Cucumis sativus; eruca, la rucola Eruca sativa; fabas maiores, le fave Vicia faba; fenicolum, il finocchio Foeniculum vulgare; intubas, la cicoria Cichorium intybus; lactucas, le lattughe Lactuca sativa e/o L. virosa; pepones, il melone Cucumis melo; pisos, i piselli Pisum sativum; porros, i porri Allium porrum; uniones, la cipolla d'inverno Allium fistulosum. Più inconsuete per noi adripias, la chenopodiacea Atriplex hortensis, oggi sostituita dagli spinaci; blidas, l'amaranto livido Amaranthus blitum; cucurbitas, la zucca da vino Lagenaria siceraria; nasturtium, il crescione d'acqua Nasturtium officinale; pastenacas, la pastinaca Pastinaca sativa; radices, il ramolaccio nero Raphanus sativus var. niger. Nutrita è la schiere delle aromatiche: ameum, l'ammi Meum athamanticum; anesum, l'anice Pimpinella anisum; anetum, l'aneto Anethum graveolens; britlas, l'erba cipollina Allium shoenaprasum; careum, il carvi Carum carvi; cerfolium, il cerfoglio Anthriscus cerefolium; ciminum, il cumino Cuminum cyminum; coriandrum, il coriandolo Coriandrum sativum; costum, l'erba di san Pietro Tanacetum balsamita; fenigrecum, il fieno greco Trigonella foenum-graecum; git, il cumino nero Nigella sativa; levisticum, il levistico Levisticum officinale; menta, la menta Mentha spp.; mentastrum, Mentha longifolia; nepeta, Nepeta cataria; Petresilinum, il prezzemolo Petroselinum crispum; puledium, il pulegio Mentha pulegium; ros marinum, il rosmarino Rosmarinus officinalis; ruta, la ruta Ruta graveolens; salvia, la salvia Salvia officinalis; satureia, la santoreggia Satureja hortensis; sinape, la senape bianca Sinapis alba. Utili per insaporire il cibo e aiutarne la conservazione, moltissime aromatiche erano anche piante medicinali, come del resto anche qualcuno degli ortaggi citati in precedenza, ad esempio l'aglio o la lattuga. Dovevano essere invece coltivate prevalentemente o solo per le loro virtù officinali abrotanum, l'abrotano Artemisia abrotanum; altaea, l'altea Althaea officinalis; diptamnum, il dittamo Dictamnus albus; lacteridas, la catapuzia Euphorbia lathyris; malvas, la malva Malva sylvestris; papaver, il papavero Papaver somniferum; parduna, la bardana Arctium lappa; savina, il ginepro sabina Juniperus sabina; sclareia, Salvia sclarea; silum, Laserpitium siler; sisimbrium, Sisymbrium officinale; solsequia, la calendula Calendula officinalis; squilla, la velenosissima Drimia (o Urginea) maritima; tanazita, il tanaceto Tanacetum vulgare; vulgigina, Asarum europaeum. Di alcuni ortaggi e erbe rimane discussa l'identificazione: cardones, che potrebbero essere cardi Cynara cardunculus, ma anche qualche altra pianta spinosa, come Dipsacus sativus, che tornava utile anche per cardare la lana; coloquentidas, il coloquintide Citrullus colocynthis ma forse Bryonia alba, dunque non una pianta alimentare, ma medicinale; dragantea, per alcuni il dragoncello Artemisia dracunculus, per altri Polygonum bistorta, per altri ancora Dracunculus vulgaris; fasiolum, forse il fagiolo dell'occhio Vigna unguiculata, forse Lablab purpureus; febrefugia, un'officinale cacciafebbre che potrebbe essere Centaurium erythraea o Tanacetum parthenium; olisatum, Smyrnium olusatrum o Angelica archangelica; ravacaulos, cavolo rapa Brassica oleracea var. gongylodes oppure rapa Brassica rapa subsp. rapa. Prima di lasciare l'orto, incontriamo ancora una pianta tintoria, warentia, la garanza Rubia tinctorum e un gruppetto di piante fiorifere, coltivate come ornamentali ma forse anche come mellifere, come del resto non poche delle specie già elencate: gladiolum, il gladiolo Gladiolus italicus; lilium, il giglio di sant'Antonio Lilium candidum; lilium gladiola, che non è né un giglio né un gladiolo, ma Iris germanica; rosas, che saranno rose canine, galliche o altro. Passiamo agli alberi. L'imperatore raccomanda "frutteti di vario genere: meli cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi, noci, ciliegi di vari tipi". La maggiore attenzione va ai meli, di cui si elencano quattro varietà per noi ormai misteriose e si prescrive che dovranno produrre mele sia dolci, sia aspre, sia precoci, sia tardive, di consumo immediato o a lunga conservazione, da consumare crude o cotte. Anche le pere saranno di tre o quattro tipi, qualcuna dolce, qualcuna da cuocere, e non mancheranno le tardive e quelle di lunga durata. Un'ultima raccomandazione conclude capitolo e capitolare: l'ortolano non dimentichi di mettere sul tetto della sua casa la barba di Giove, ovvero Sempervivum tectorum. Era infatti diffusa la credenza che preservasse i tetti dalla caduta dei fulmini. ![]() Spine e fiori solari Tra le piante medicinali del Capitulare de villis non compare nessuna Carlina, anche se probabilmente qualcuna delle specie di questo genere europeo sarà stata ben conosciuta dai contadini, magari come erbaccia da estirpare dai campi più aridi e sassosi o, chissà, come pianta magica e terapeutica. Del resto, almeno Carlina acaulis era già nota agli antichi; Teofrasto, Dioscoride e Plinio la descrivono come Chamaeleon niger e Chamaeleon albus; come spiega Plinio, il nome "camaleonte" deriva dal vario colore delle foglie, che sembra adattarsi a quello del substrato dove cresce la pianta. La radice era raccomandata per il trattamento delle affezioni della pelle, ma anche per malattie gravi, dalla lebbra alla tubercolosi. Dobbiamo però fare un lungo salto nel tempo per trovare la prima rappresentazione in assoluto di Carlina acaulis: ce la propone lo splendido Codex bellunensis, composto nei primissimi anni del Quattrocento tra Feltre e Belluno, designata con il nome comune Carlina e il nome latino Oculus bovis, "occhio di bue", per la forma che evoca un occhio. E' la specie più nota del genere Carlina L. (famiglia Asteraceae, tribù Cynareae, la stessa dei carciofi), che ne comprende una trentina, diffuse dalla Macaronesia al Vicino Oriente, con centro di diversità nel bacino del Mediterraneo; una sola specie, C. bibersteinii, raggiunge la Siberia e la Cina. Il genere è ben rappresentato nella flora italiana con una decina di specie, una delle quali endemica della Sicilia. Del resto, ad eccezione di poche specie di ampia diffusione, come C. acaulis, C. bibersteinii, C. corymbosa, C. vulgaris, il genere comprende molti endemismi di aree circoscritte e parecchie "isolane"; oltre alla nostra C. sicula, potremmo citare la cipriota C. pygmaea, le cretesi C. barnebiana, C. curetum, C. diae, le canarie C. canariensis, C. falcata, C. texedae, C. xeranthemoides. Anche se molte specie sono annuali o biennali, non mancano perenni, arbusti e persino alberi nani (fino a un metro d'altezza); vari anche gli ambienti, tipicamente aridi e sassosi, ma per alcune specie erbosi e boschivi. Lo scapo può essere assente (come in C. acaulis), ma anche alto più un metro, diritto o ramificato, solitamente spinoso. Le foglie hanno margini profondamente incisi in genere muniti di spine più o meno robuste e pungenti. I capolini sono solitari o raggruppati in infiorescenze. Come in tutte le Asteraceae, essi sono a loro volta delle infiorescenze, ma presentano solo i fiori del disco, tubolari e ermafroditi. I "petali" che circondano il ricettacolo sono infatti brattee di consistenza membranosa o cartacea, che assolvono la funzione di attirare gli insetti che in altre specie di questa famiglia è svolta dai fiori del raggio. I frutti sono acheni muniti di pappi piumosi; prodotti in grande numero, tendono a spargersi ampiamente. Per questo, e perché il bestiame tende a rifiutarle, le carline sono spesso considerate dannose per i pascoli. ![]() Carlina magica e salutifera Carlina acaulis ha un ruolo notevole sia nel folklore sia nella medicina tradizionale. Il capolino circondato da un doppio giro di brattee, simile a un sole o a un occhio circondato dalle ciglia, ma munito di temibili spine, diventa un talismano apotropaico capace di tenere lontano il malocchio. I baschi, che la chiamano eguzkilore, "fiore del sole", usano appendere o inchiodare un fiore di carlina all'uscio; la credenza vuole che in tal modo le lamias, gli spiriti maligni che insidiano le case per rapire i bambini, saranno costrette a fermarsi per contare i "petali", ma, essendo deboli in matematica, perderanno il conto e se ne andranno. La stessa usanza si ritrova anche nelle Alpi. In Germani la si inchiodava alle porte delle stalle per impedire alle streghe di mungere le mucche e rubare il latte, e alla porcilaia per mantenere sani i maiali. Avere una carlina da tenere d'occhio può essere utile per fini meno magici e più concreti. Quando il tempo è umido e minaccia pioggia, le brattee si chiudono attorno al ricettacolo, quando il tempo torna sereno e secco si riaprono. Dato che questa proprietà si mantiene nei fiori secchi, questi ultimi funzionano come un barometro naturale, che permette di predire il tempo a breve scadenza. Ecco perché in alcune aree francesi Carlina acaulis si chiama barométre. Quanto alle virtù medicinali, come abbiamo visto, Mattioli era piuttosto scettico. Il suo contemporaneo Dodonaeus invece si schierava con coloro che lo consideravano il più potente degli antiveleni, il rimedio sovrano contro i vermi e i parassiti, le contusioni e soprattutto contro la peste: "inverte la malattia infettiva o la pestilenza dell'uomo e fa sì che non possa impadronirsi di noi o stabilirsi in noi e anche se qualcuno ne è contagiato, lo guarisce completamente". Diuretica, cicatrizzante, antimicrobica, serve un po' a tutto; e aggiunge che secondo qualcuno portarne una radice appesa al collo accresce la forza. Con il nome di Radix Carlinae, la radice di Carlina acualis compare nelle farmacopee ufficiali di molti paesi europei fino a metà Ottocento, prescritta per uso esterno come rimedio delle affezioni della pelle e per uso interno per una varietà di scopi: come lassativo, depurativo, sudorifero, diuretico, stomatico, antimicrobico. La scienza ha confermato solo quest'ultima proprietà, grazie alla presenza di ossido di carlina, un poliacetilene antibatterico. Dunque, forse, era davvero utile per sconfiggere la peste. Informazioni anche sulle altre specie nella scheda.
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Il medico austriaco di origine croata Nicolaus Thomas Host dedicò tutta la vita alla ricerca, alla pubblicazione e alla valorizzazione della flora nativa del vasto e variegato impero austriaco, tanto da fondare un "Giardino delle terre della Corona". E' dunque curioso che oggi sia ricordato, più che per questa impresa o per le sue pubblicazioni, per aver dato il nome a un genere che arriva da molto lontano. Le specie del genere Hosta, oggi tra le piante più amate e coltivate, sono infatti originarie dell'Estremo oriente. Le prime hanno fatto timidamente la loro comparsa in pochi orti botanici europei negli ultimi anni del Settecento; la loro vera diffusione in Europa si deve però a Siebold, che a partire dal 1830 ne importò dal Giappone una ventina tra specie e varietà. Questa rimase più o meno la situazione per circa un secolo, tanto che si dice che buona parte delle piante coltivate in Europa all'inizio del '900 discendesse in un modo o nell'altro dagli esemplari importati da Siebold. Ancora nel 1950, in Olanda se ne coltivavano non più di una trentina di varietà. Ma nel secondo dopoguerra la selezione di cultivar e ibridi è cresciuta in modo esponenziale, tanto che ormai essi si contano a migliaia (anche più di 10.000 secondo alcune fonti). ![]() Alla ricerca delle piante native La monarchia asburgica, nata dall'accumulo secolare di eredità disparate più ancora che dalle conquiste territoriali, è nota per essere l'antitesi dello stato nazionale: ne facevano parte territori molto diversi tra loro per lingua, cultura, storia, strutture economiche. Ovviamente, queste considerazioni valgono anche per l'ambiente naturale: dalla vegetazione tipicamente alpina del Tirolo a quella continentale dell'Austria orientale e della Pannonia, per non parlare delle aree con flore peculiari come l'Istria. Con i cinque volumi della spettacolare Florae austriacae (1773-78), Nicolaus Joseph von Jacquin aveva cominciato a rendere disponibile questo variegato patrimonio; tuttavia, il suo lavoro si limitava all'arciducato d'Austria, escludendo dunque non solo territori che oggi fanno parte di altri stati come l'Ungheria, la Croazia, la Boemia, l'Istria, la Carniola, la contea di Gorizia, ma anche la Stiria, la Carinzia, l'Austria anteriore, il Tirolo, il principato di Salisburgo. Forse non è strano che l'idea di allargare l'indagine quanto più possibile a tutti questi territori, che all'epoca erano raggruppati sotto l'etichetta Kronländer, "terre della corona", sia venuta a un suddito dell'impero originario di una regione di confine: il croato Nicolaus Thomas (o Nikola Toma) Host. Era a nato a Fiume / Rijeka, una città multietnica che dopo aver fatto parte per circa duecento anni prima della Carniola quindi della Bassa Austria, dal 1776 era stata unita al regno d'Ungheria come porto franco e corpus separatum, ovvero entità autonoma. Molto giovane Host si trasferì a Vienna per studiare medicina; fu accolto nell'entourage di von Jacquin, suo professore di botanica, e strinse amicizia con suo figlio Joseph Franz; insieme i due iniziarono ad esplorare la flora di aree ancora poco studiate, come la Stiria, il Tirolo, l'Istria. Laureatosi nel 1786, Host rimase a Vienna dove si fece un nome come medico, tanto nel 1792, a poco più di trent'anni, fu scelto come medico personale dall'imperatore Francesco II che più tardi lo volle come consigliere. Nel frattempo Host aveva continuato ad alternare all'attività professionale lunghe escursioni nelle terre della corona, incluse l'Ungheria e la Croazia, raccogliendo non solo esemplari d'erbario ma anche piante vive e semi che coltivava nel suo giardino. Nel 1793 propose all'Imperatore di creare un orto botanico esclusivamente dedicato alle piante native; Francesco II, grande appassionato di botanica, accolse la proposta con entusiasmo e gli mise a disposizione un'area del parco di Belvedere, adiacente all'orto botanico imperiale. Durante i suoi soggiorni estivi sul Danubio, l'imperatore si faceva suo allievo e gli chiese di dare lezioni ai suoi fratelli minori, gli arciduchi Johann, Anton e Rainer. Per il loro uso, Host creò un giardino didattico nel parco di Schönbrunn con le piante collocate secondo il sistema di Linneo. Il primo nucleo del Garten der Kronländer fu costituito dalle piante coltivate da Host nel suo giardino privato, cui si aggiunsero via via le piante native che andava raccogliendo nelle sue escursioni botaniche in molte parti dell'Impero. Funzionale alla realizzazione del giardino fu anche la prima pubblicazione di Host, Synopsis plantarum in Austria (1797), che contiene molte nuove specie; a differenza della monumentale opera illustrata di Jacquin, costosissima, stampata in poche copie e diventata presto quasi irreperibile, vuole essere un'opera di consultazione il più possibile completa (conta oltre 600 pagine) ma relativamente agile e di ampia diffusione; proprio per questo è priva di illustrazioni. Il capolavoro botanico di Host tuttavia è Icones et descriptions graminum austriacorum (1801-09), una magnifica opera in quattro volumi in folio con le illustrazioni di Johann Ibmayer che illustra le graminacee dell'Austria e dell'Europa centrale. Ugualmente splendido è Salix (1808), anch'esso illustrato da Ibmayer, dedicato ai salici delle provincie austriache. L'ultima fatica di Host fu ancora un'opera complessiva sulla flora dei territori asburgici, Flora austriaca, in due volumi (1827-1831), particolarmente importante per l'inclusione di specie di aree all'epoca poco note e ricche di endemismi, l'Istria e la Dalmazia, con tavole tratte da acquarelli di Ibmayer. Anche se Host è stato a volte criticato perché tendeva a moltiplicare le specie, classificando come specie distinte qualsiasi variazione, si tratta di lavori molto importanti che arricchirono notevolmente la conoscenza della flora dell'Austria e delle aree limitrofe. Host morì a Schönbrunn nel 1834. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Sembra che dopo la sua morte il giardino che aveva concepito, creato e diretto sia caduto presto nella trascuratezza. Intorno al 1865, quanto rimaneva della collezione di piante alpine fu trasferita al Belvedere e divenne il primo nucleo dell'attuale giardino alpino. ![]() Hosta, una po' di storia Come medico imperiale ed esponente di punta della scuola botanica di Vienna, Host era in contatto con molti colleghi in patria e all'estero. Tra i suoi corrispondenti ed amici troviamo anche Leopold Trattinick che 1812 volle onorarlo ribattezzando Hosta plantaginea una pianta giapponese precedentemente pubblicata da Thunberg come Hemerocallys japonica. Nacque così il genere Hosta, famiglia Asparagaceae; oggi è una superstar dei giardini, ma a quel tempo solo due specie erano arrivate in Europa ed erano ancora una curiosità coltivata in pochissimi orti botanici. A rigori, il nome di Trattinick era illegittimo, perché la denominazione era già stata utilizzata da von Jacquin per un genere poi riconosciuto sinonimo di Cornutia. Nel 1817 il botanico prussiano Kurt Sprengel propose una denominazione alternativa, ribattezzando il genere Funkia, in onore del botanico bavarese Heinrich Christian Funck. Questo nome ottenne un certo successo, tanto da fornire il nome comune in varie lingue, tra cui il tedesco Funkie; venne inoltre largamente usato in campo orticolo ed è ancora presente in vecchie pubblicazioni. Tuttavia, anche la denominazione di Sprengel era altrettanto illegittima, perché preceduta da Funckia Willd. (sinonimo di Astelia). Per farla corta (vennero proposte anche altre denominazioni, che però per una ragione o per l'altra non si affermarono), la questione venne risolta solo nel 1905, quando il Congresso internazionale di botanica optò per Hosta. E così, un botanico che aveva dedicato tutta la sua vita alla ricerca e alla valorizzazione della flora nativa si è trovato associato a un genere che arriva da molto lontano, ovvero dall'Estremo oriente (Cina, Giappone, Corea, Russia sud-orientale). Il primo incontro tra i botanici europei e le Hosta avvenne in Giappone, dove queste piante sono chiamate giboshi e, oltre a crescere in natura (le isole giapponesi sono il centro di diversità del genere) sono coltivate almeno dall'ottavo secolo. Engelbert Kaempfer, che soggiornò a Deshima tra il 1690 e il 1692 come medico della Compagnia olandese orientale, descrisse e disegnò Joksan, vulgo gibbooschi Gladiolus plantagenis folio che è stata identificata come Hosta lancifolia. Quasi un secolo dopo fu la volta di Carl Peter Thunberg, che fu a Deshima tra il 1775 e il 1776 e pubblicò due specie, assegnandole al genere Hemerocallis. Tuttavia le prime specie di Hosta raggiunsero l'Europa dalla Cina. La prima fu H. plantaginea, arrivata nel Jardin des Plantes di Parigi nel 1784 grazie ai semi inviati dal console francese a Macao. I semi germinarono e nel 1788 Lamarck descrisse la pianta come Hemerocallis plantaginea. La seconda specie arrivò a Londra nel 1790 e qualche anno dopo fu descritta da Salisbury come Bryocles ventricosa. Ma il personaggio più importante per l'introduzione delle Hosta in Europa fu senza dubbio Philipp Franz von Siebold, anche lui medico a Deshima per la Compagnia olandese delle Indie tra il 1823 e il 1828. Al suo ritorno in Europa ne portò con sé diversi esemplari, aprendo anche un proprio vivaio a Leida; più tardi, quando poté ritornare in Giappone, ne importò altri ancora; grazie a lui, il numero di specie o cultivar coltivate in Europa passò di colpo da due a una ventina. Non a caso, due tra le specie più note portano il suo nome: H. sieboldiana e H. sieboldii. Dall'Europa le Hosta raggiunsero anche gli Stati Uniti; tuttavia negli anni '70 Thomas Hogg, un vivaista che lavorava in Giappone per il governo statunitense, aprì un canale di importazione diretto. Le Hosta incominciarono via a via ad acquistare popolarità, ma fino alla seconda guerra mondiale le varietà disponibili erano ancora più o meno quelle note nell'Ottocento. Intorno al 1950, nei Paesi Bassi, se ne coltivavano una trentina di specie. Si era alla vigilia della grande esplosione dei nuovi ibridi e della selezione di cultivar sempre nuove, il cui numero nell'arco di mezzo secolo è cresciuto in modo esponenziale. Nel 2009 il vivaista e ibridatore americano Mark Zilis nella sua Hostapedia ha elencato 7000 tra specie, ibridi e cultivar. Ovviamente, quelle non selezionate sono ancora di più. Altre informazioni su questo genere molto amato nella scheda, dove troverete soprattutto una selezione di link per approfondire la conoscenza con il "pianeta Hosta". |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
Aprile 2021
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