La vita di Andrès Laguna, medico umanista celebre per la prima (e mirabile) traduzione in spagnolo di Dioscoride, è caratterizzata da un continuo errare per le contrade d'Europa. A vent'anni, dalla nativa Spagna va a studiare a Parigi (una scelta forse obbligata per un converso nato da padri ebrei); poi lo troviamo a Londra, Gand, Ratisbona, Metz, Colonia, e, per molti anni in Italia, tra Bologna, Roma e Venezia. A quella Europa umanista e cristiana che sentiva come la sua vera madre dedicò anche un'accorata orazione che è allo stesso tempo un compianto e un invito alla pace, in un continente dilaniato dalle guerre e dagli scontri religiosi. Laguna condivideva l'anacronistico sogno di Carlo V di una monarchia universale; e quando capì che non era possibile, lui che per tutta la vita aveva scritto in latino, decise di servirsi della lingua di Castiglia per la sua edizione di Dioscoride, una delle più importanti della prima stagione del Rinascimento. E la dedicò al suo nuovo sovrano, il principe Filippo che di lì a poco sarebbe passato alla storia come Felipe II. Compianto per l'Europa che tormenta se stessa La sera del 22 gennaio 1543, all'Università di Colonia va in scena una commovente e mesta cerimonia. Nell'aula magna rivestita di drappi neri, illuminata da nere candele, avanza un uomo in cappa e cappuccio neri. E' il medico e umanista spagnolo Andrès Laguna. Invitato dall'arcivescovo della città a tenere una lezione magistrale, ha voluto questo apparato funebre per dare più forza alla sua orazione Europa heutentimorumene, "L'Europa che tormenta sé stessa". Di fronte a un attonito pubblico di notabili, presta la sua voce a un'Europa dilaniata da interminabili guerre intestine e invita alla pace e alla concordia in nome della comune identità europea e cristiana. Il discorso di Laguna è uno dei primi in cui viene espressa un'idea di Europa intesa non come spazio geografico ma come entità politica e culturale con radici comuni, che per l'umanista cristiano Laguna sono l'antichità greco-latina e la religione cristiana. Questa visione umanista dell'Europa, che egli riprendeva da Erasmo e dallo spagnolo Juan Luis Vives, per il medico spagnolo era anche una concreta esperienza di vita. Nato a Segovia probabilmente nei primi anni del Cinquecento in una famiglia di ebrei convertiti, dopo aver iniziato gli studi in patria, poiché l'Inquisizione vietava ai conversos di conseguire la laurea nelle Università spagnole, era andato a studiare medicina a Parigi. Nella capitale francese, forse al momento l'ambiente più fecondo d'Europa, Laguna aveva incontrato grandi maestri, come Jacques Dubois (Jacobus Sylvius) e Jean Ruel, ed era diventato un tipico uomo universale del Rinascimento: medico, anatomista, botanico, filosofo, cultore delle lingue classiche, filologo e traduttore. Dopo un breve ritorno in patria e un viaggio in Inghilterra, si era spostato nelle Fiandre dove era entrato al servizio di Carlo V. Carlo era il suo sovrano (oltre che imperatore e duca delle Fiandre era anche re di Spagna), ma soprattutto in lui Laguna vedeva il nuovo Carlo Magno, colui che avrebbe ristabilito la monarchia universale e riunito la cristianità divisa, guidandola alla lotta contro i nemici esterni (in primo luogo l'Impero Ottomano), secondo l'ideologia imperiale formulata dal cancelliere dell'Impero, il cardinale umanista Mercurino Arborio di Gattinaria. La realtà era ben diversa; alle interminabili guerre tra Carlo V e Francesco I, che non aveva esitato ad allearsi con il sultano turco, si aggiungevano la frattura religiosa tra cattolici e protestanti, con il suo seguito di scontri sempre più sanguinosi. Lotte in cui Laguna si trovò coinvolto in prima persona quando l'imperatore lo inviò come ambasciatore a Metz, nel 1540. La città era la capitale del ducato di Lorena, di lingua francese, ma formalmente parte dell'Impero, una zona di confine in cui le idee riformate avevano incontrato largo seguito. Medico e anatomista già celebre, Laguna fu invitato ad assumere l'incarico di medico cittadino e rimase nella città lorenese per cinque anni, allontanandosi solo per venire a Colonia in occasione del celebre discorso. In Lorena, Laguna come medico affrontò la battaglia contro la peste e come agente imperiale cercò di combattere la diffusione del protestantesimo; i suoi rapporti con il duca di Lorena, la cui politica oscillava tra la fedeltà all'imperatore e l'avvicinamento alla Francia, si fecero tesi fino al punto di rottura; nel 1545, quando venne richiesta la sua consulenza in un processo di stregoneria contro due anziani accusati di aver causato una grave infermità al duca, dimostrò con un esperimento empirico l'infondatezza delle accuse; il suo parere non piacque né ai giudici (i malcapitati furono condannati) né al duca stesso, e poco dopo Laguna lasciò la città. La tappa successiva fu l'Italia. Il medico umanista incominciava forse a capire che quella dell'Impero universale era un'ideologia anacronistica, e che era giunta l'ora delle monarchie nazionali. L'Italia era per lui la patria dell'Umanesimo, dove avrebbe trovato manoscritti da studiare, colleghi con cui discutere, tipografie all'avanguardia; ma era anche uno dei più importanti domini della monarchia spagnola. La prima tappa fu Bologna, dove ottenne la laurea magistrale in medicina che ancora gli mancava. Visse poi soprattutto a Roma, dove fece parte dell'entourage dell'influente cardinale Francisco de Mendoza y Bobadilla, che lo introdusse presso i papi Paolo III e Giulio III, di cui divenne medico personale. Frequentò anche Napoli, nelle cui campagne raccolse piante officinali, e fu più volte a Venezia e a Padova. Fu forse il desiderio di seguire da vicino le vicende che portarono all'abdicazione di Carlo V che nel 1554 lo spinsero a lasciare l'Italia per le Fiandre, dove nel 1555, come vedremo meglio tra poco, pubblicò la sua celebre tradizione di Dioscoride, dedicata a quel principe Filippo d'Asburgo che presto sarebbe diventato il re di Spagna Filippo II. Seguendo il suo nuovo sovrano tornò infine in Spagna nel 1557, morendo però poco dopo, alla fine del 1559. Una sintesi della sua vita errabonda nella sezione biografie. Filologia e pratica medica Nella storia della botanica, Laguna (che fu anche prolifico autore di opere mediche, ma soprattutto di edizioni e di traduzioni di testi antichi, tra cui una influente epitome dell'opera omnia di Galeno) conta soprattutto per la mirabile traduzione di Dioscoride, Pedacio Dioscorides Anazabareo. Acerca de la materia medicinal y de los venenos mortiferos (1555). L'interesse di Laguna per l'opera di Dioscoride risale agli anni parigini, quando come abbiamo visto egli fu discepolo di Jean Ruel, autore di una importante traduzione in latino di Materia medica; un interesse che sicuramente lo accompagnò in tutte le sue peregrinazioni, e fu probabilmente anche una delle ragioni che lo spinsero a trasferirsi in Italia, dove erano usciti sia l'editio princeps del testo greco pubblicata da Manuzio (1499) sia i commentari di Mattioli (la prima edizione è del 1544). Anche se è possibile che avesse cominciato a lavorarvi da tempo, la traduzione prese corpo proprio negli anni italiani; e nella nuova atmosfera politica, significativamente Laguna decise che non sarebbe stata in latino, ma in spagnolo (o meglio, in castigliano): era una scelta politica, un contributo al progresso scientifico di quella che, ormai gli era chiaro, era e sarebbe rimasta la sua unica patria. Simbolicamente, la data di pubblicazione (1555) coincide con l'anno di abdicazione di Carlo V, ovvero con la presa d'atto da parte del vecchio imperatore del fallimento del suo progetto politico. Nella sua edizione di Dioscoride Laguna seppe unire allo scrupolo filologico e alla perfetta padronanza delle lingue classica la sua ampia esperienza di medico e di studioso dell'anatomia e delle piante medicinali. Come testo di partenza si basò sulla traduzione latina del suo maestro Ruel, ma la collazionò, oltre che con l'edizione aldina, con tutti i manoscritti che poté consultare, rilevando e correggendo circa 100 errori; la sua traduzione, chiara e precisa, è accompagnata da un ricco apparato di note in cui trasfuse il sapere che aveva accumulato in una vita divisa tra l'interpretazione dei testi antichi, la pratica medica e lo studio dal vivo della natura; sappiamo dal suo stesso racconto che erborizzava, visitava giardini, scambiava esemplari con altri naturalisti, creando anche una piccola collezione di oggetti naturali che portò con sé nei suoi spostamenti; soprattutto interrogava ogni possibile categoria di informatori sulla provenienza e gli effetti dei semplici: medici, mercanti, viaggiatori, addirittura donne di vita. E ciò che apprendeva, lo metteva alla prova sui suoi pazienti, convinto com'era che nulla potesse essere affermato con certezza se non era stato verificato sperimentalmente. Per gli studiosi di oggi, il suo Dioscoride è dunque una miniera di informazioni sulle tecniche mediche, la botanica applicata e la farmacologia del Cinquecento. Entro il XVIII secolo, in Spagna il Dioscoride di Laguna raggiunse 22 edizioni, un testo così popolare da meritare una citazione nel Don Chisciotte di Cervantes; sulle sue pagine si formarono i medici iberici che avrebbero studiato le piante del Nuovo Mondo (una realtà ancora quasi ignorata da Laguna, se non per poche piante viste per lo più come succedaneo più economico delle rare o perdute piante degli antichi). Veramente figlio del Rinascimento per lo scrupolo filologico e l'adozione di una prassi basata sulla verifica sperimentale, Laguna è invece piuttosto tradizionale per l'impostazione generale, ancora fedele alla teoria degli umori di Galeno. Un falso ibisco che arriva da lontano Particolarmente attento all'identificazione delle specie citate da Disocoride (per identificale correttamente aveva persino pensato di recarsi nell'impero ottomano, impresa da cui fu distolto dagli amici veneziani), Laguna descrisse anche per la prima volta alcune piante orientali che aveva potuto conoscere attraverso i suoi informatori. E' il caso di una Malvacea presente anche in Nord Africa, oggi Abelmoscus ficulneus, che nel 1786 Cavanilles chiamò in suo onore Laguna aculeata; il genere Laguna è oggi considerato sinonimo di Hibiscus. Ugualmente non valido è Lagunea, creato nel 1790 da Loureiro e riformulato come Lagunaea da Agardh, oggi sinonimo di Persicaria. Memore della proposta di Cavanilles, nel 1824 de Candolle denominò Lagunaria una sezione del genere Hibiscus; cinque anni dopo Reichenbach la elevava a genere. Lagunaria (DC) Rchb. è piccolo genere della famiglia Malvaceae, che comprende due specie native dell'Australia, Lagunaria patersonia, un albero endemico delle isole di Lord Howe e Norfolk e della costa del Queensland, e L. queenslandica, endemica del medesimo stato dell'Australia orientale. Abbastanza coltivato anche da noi in zone a clima mite, L. patersonia (spesso commercializzata con la grafia errata L. patersonii) è un bellissimo sempreverde con chioma piramidale e foglie verde oliva, che in estate si ammanta di grandi fiori rosa-lilla a stella. La colonna staminale prominente e i cinque petali ricurvi possono ricordare Hibiscus rosa sinensis, ma le foglie, intere, ovate, coriacee sono completamente diverse. Molto simile è l'altra specie, a lungo considerata una sottospecie con il nome L. patersonia susbp. bracteata, che si distingue per gli organi sessuali ancora più prominenti con nettari esterni al fiore e un diverso habitat: vive lungo i corsi d'acqua e nelle insenature costiere, mentre l'altra specie è tipica della foresta pluviale. Quale informazione in più nella scheda.
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La botanica francese esordisce con un traduttore e un erudito, Jean Ruel, autore di eccellenti traduzioni dal greco in latino e di due sillogi del sapere scientifico degli antichi, la prima dedicata alla medicina veterinaria, la seconda alle piante officinali. Si tratta di De natura stirpium, in cui le nozioni estratte da Teofrasto, Dioscoride e Plinio vengono attualizzate cercando di ritrovare - spesso con risultati poco credibili - le piante degli antichi negli orti, nei giardini e nei prati di casa. Al di là dei suoi limiti, l'opera (che è anche quasi l'unica a riprendere gli insegnamenti di Teofrasto) ha il merito di trasmetterci il più antico elenco di piante in lingua francese. Di questo antesignano della botanica d'oltralpe non poteva dimenticarsi Charles Plumier, che gli dedicò lo splendido (e vario) genere Ruellia. La botanica francese inizia con un grande traduttore Nel 1499, con l'aiuto di eruditi greci, Aldo Manuzio pubblica la prima edizione a stampa del testo greco di Dioscoride. Questa edizione, che include anche due trattati apocrifi sui veleni, fornirà la base per le traduzioni cinquecentesche in latino e nelle lingue moderne. Una delle prime, e delle più prestigiose, esce a Parigi nella primavera del 1516 ad opera del medico e filologo Jean Ruel (1479?-1537). Della vita di questo personaggio poco conosciamo, ad eccezione di qualche aneddoto. Il primo vuole che avesse appreso da autodidatta le lingue classiche, che tanto mirabilmente padroneggiava. Il secondo ci racconta che, rimasto vedovo, fu sollecitato dal vescovo di Parigi a abbracciare lo stato ecclesiastico, in modo da avere più tempo per lo studio; fu così che divenne canonico di Notre Dame. Sappiamo inoltre che tra il 1508 e il 1510 fu preside della facoltà di medicina di Parigi e per un certo periodo fu anche uno dei medici del re Francesco I, dedicatario di diverse sue opere. Una sintesi di queste poche notizia nella vita. Ma torniamo alla traduzione di Dioscoride. Pubblicata per i tipi di Henri Estienne il vecchio, si tratta di un lavoro eccellente in cui Ruel poté unire all'eleganza del linguaggio e alla competenza di filologo quella di medico e di botanico; la seconda edizione, riveduta e corretta (1530), ebbe successo europeo e divenne il punto di partenza per i tanti commenti di Dioscoride del Rinascimento, compreso quello di Mattioli. Nel corso del secolo ne uscirono venti edizioni. L'opera di traduzione di Ruel proseguì con Hippiatrika o Veterinariae medicinae (1530), a quanto pare commissionatagli da Francesco I, che consiste in una silloge di tutto ciò che era stato scritto in greco sui cavalli e la medicina veterinaria. Tradusse anche diverse opere di medicina, la più importante delle quali è De Methodo Medendi del medico bizantino Johannes Auctarius, uscita postuma (1539) con il titolo De Medicamentorum Compositione. Grazie a traduzioni, caratterizzate da una lingua elegante e da una perfetta intelligenza del testo di partenza, fu soprannominato, forse dall'amico Budé, l'"aquila degli interpreti". L'opera che lo fa entrare di diritto nella storia della botanica non è però una traduzione: De natura stirpium ("Sulla natura delle piante", 1536), analogamente al volume sulla medicina veterinaria, è una silloge in cui il medico-filologo riunì tutte le conoscenze dell'antichità sulle piante e sulla botanica applicata alla medicina; il grosso volume di oltre mille pagine, caratterizzato dall'alta qualità tipografica ma privo di immagini, si apre con un bel frontespizio: sotto una lussureggiante pergola d'uva vediamo un orto-giardino con piante locali ed esotiche (come la palma sulla sinistra) e una fontana che culmina in un amorino; sulla destra una curiosa figura alata con gambe caprine (un demone? un fauno? l'allegoria del tempo?), sulla sinistra una elegante coppia che, lasciata da parte la chitarra, si intrattiene a leggere in un grande libro (forse il libro della natura, o questo stesso che qui si apre). Il primo dei tre libri esordisce con una introduzione generale alla botanica tratta da Teofrasto; è questo un tratto originale del lavoro di Ruel, di fatto il solo autore del Rinascimento (ad eccezione del molto posteriore Cesalpino) a valorizzare l'insegnamento del poco studiato filosofo greco; di notevole interesse è anche il tentativo del nostro medico linguista di definire con precisione un vocabolario latino per le diverse parti delle piante. Segue poi la trattazione di circa seicento piante medicinali: prima gli alberi in ordine alfabetico (seconda parte del primo libro), poi le erbe coltivate (secondo libro), poi tutte le altre (terzo libro), parte in ordine alfabetico, parte raggruppate secondo criteri non sempre evidenti. Qui i nomi di riferimento sono Dioscoride e, anche di più Plinio. Tuttavia Ruel tentò di attualizzare l'insegnamento degli antichi, accostandovi le ricerche dei moderni e la sua stessa esperienza di medico e di conoscitore delle piante officinali. Fu così che ai nomi latini e greci unì quelli volgari, cercando di identificare nella flora francese (o meglio, dei dintorni di Parigi) le piante descritte da Dioscoride e Plinio. Queste identificazioni, che hanno anche un intento nazionalistico - l'opera è dedicata al re Francesco I e vuole dimostrare la grandezza del Regno di Francia anche in questo campo - sono per lo più arbitrarie, ma hanno il merito di fornirci il più antico elenco di piante in lingua francese. Inoltre, alle piante degli antichi Ruel volle aggiungere anche qualche specie esotica: proprio nelle sue pagine, ad esempio, troviamo la prima attestazione del dragoncello, pianta russa e asiatica che da pochissimo era stata introdotta in Europa. Ruellia, ovvero viva le differenze! A questo antesignano della botanica francese Charles Plumier volle dedicare uno dei suoi nuovi generi americani, Ruellia, poi validato da Linneo. Il secondo per grandezza della famiglia Acanthaceae, è un genere sempre più presente nei nostri giardini grazie alle bellissime fioriture. Estremamente ricco e vario, per secoli è anche stato un vero rompicapo per i tassonomisti, che ora lo hanno allargato, ora ristretto, finché a soccorrerli non è arrivato il contributo dell'analisi molecolare. Diffuso in un gran numero di specie (valutate in circa 350) nell'America temperata e nella fascia tropicale di Americhe, Africa, Asia, il genere non è solo vastissimo e diversificato (comprende erbacee, suffrutici, arbusti), ma anche caratterizzato da fiori sorprendentemente diversi per forme e colori, anche in specie affini: una diversità che potete facilmente notare nel collage di fotografie (tratto da un recente articolo di Zhuang & Tripp). Studi recenti hanno dimostrato che questa varietà è il risultato di una iper-specializzazione evolutiva, ovvero un adattamento ai diversi impollinatori. Le specie che sono impollinate da insetti, in particolare api e altri imenotteri, hanno fioritura diurna, tubo fiorale breve e aperto, grandi lobi viola, organi sessuali collocati all'interno del tubo. Le specie impollinate da colibrì hanno fiori rossi diurni con tubi lunghi e lobi retroflessi, organi sessuali all'esterno del tubo. Le specie impollinate da falene hanno fiori bianchi con tubo lunghissimo, lobi molto aperti e organi sessuali all'ingresso del fiore. Infine, quelle impollinate da pipistrelli sono notturne, da gialle a verdastre, con gola molto aperta e organi sessuali che sporgono al di fuori della corolla. Vistosi, colorati e decorativi, i fiori delle Ruelliae non piacciono solo a insetti, colibrì e pipistrelli, ma anche a noi umani e diverse specie hanno trovato posto nei nostri giardini. La più diffusa è probabilmente R. simplex (spesso commercializzata con il sinonimo R. brittoniana o anche R. angustifolia), anche nota con il nome del tutto arbitrario "petunia messicana" o "petunia selvatica" (le Petuniae, ricordo, sono Solanaceae, le Ruelliae Acanthaceae); molto apprezzata per i grandi fiori color lavanda, nei climi miti può formare con il tempo dense colonie, tanto da poter diventare invasiva. Sono disponibili anche cultivar con fiori rosa e bianchi. Ma altre specie sono sempre più facilmente disponibili nei migliori vivai; su alcune di loro quale informazione nella scheda. A lanciare la carriera dell'abate Jean-Paul Bignon fu indubbiamente il parentado altolocato; ma dovette solo al suo genio amministrativo la possente impronta che lasciò alle tre istituzioni che fu chiamato a dirigere e riorganizzare: l'Accademia delle scienze, l'Accademia delle iscrizioni e la Biblioteca reale, futura Biblioteca nazionale. Delle prime due redasse gli statuti, trasformandole in istituzioni attive e vitali; della terza fu, si può dire, il vero creatore, gettando le basi di una gestione moderna e dinamica. Protettore e amico di Joseph Pitton de Tournefort, fu da quest'ultimo ricordato con il genere Bignonia, poi validato da Linneo, destinato a dare non pochi grattacapi ai tassonomisti. La conseguenza? Ci sono due probabilità su tre che la pianta che chiamate "bignonia" per i botanici non sia affatto una Bignonia. L'eccezionale carriera di un Grand commis Terzogenito di una famiglia della nobiltà di toga che aveva ricoperto importanti incarichi amministrativi, Jean-Paul Bignon (1662-1743) fin dall'infanzia fu destinato alla carriera ecclesiastica. Ordinato prete nel 1691, fu nominato abate e predicatore di Luigi XIV. Era sicuramente un oratore brillante, tanto che nel 1693 fu ammesso all'Académie française, ma a favorire la sua carriera ai vertici delle istituzioni culturali della Francia del Re Sole fu soprattutto la protezione dello zio materno, Louis II Phélypeaux conte di Pontchartrain (1642-1727), cancelliere, controllore generale delle finanze, segretario di Stato della Marina e segretario di Stato della Casa del Re. Nel 1691, alla morte del potentissimo ministro Louvois, la tutela delle accademie, della biblioteca reale e del Gabinetto delle medaglie passarono sotto la giurisdizione del Segretario di Stato della Casa del re. Al contrario di Louvois, uomo gretto, di mentalità ristretta e burocratica, con scarse conoscenze scientifiche, che aveva ridotto all'osso i finanziamenti e soffocato la libera iniziativa di letterati e scienziati, Pontcartrain era un convinto assertore del ruolo delle scienze e delle lettere per la gloria del sovrano e la prosperità della nazione. Il primo passo della sua gestione fu la riorganizzazione della agonizzante Accademia delle Scienze; voluta da Colbert (1666), fino a quel momento era un semplice gruppo informale di eminenti matematici, scienziati, medici che si riunivano periodicamente presso la Biblioteca reale; Pontchartrain affidò al nipote, ovvero il nostro abate Bignon, la redazione dello statuto, che fu approvato dal re nel 1699. In tal modo l'accademia si trasformò in una istituzione organizzata con una struttura gerarchica: dieci membri onorari scelti tra personaggi altolocati; 18 accademici titolari di una pensione più un segretario e un tesoriere (tre per ciascuna delle seguenti categorie: geometri, astronomi, fisici meccanici, anatomisti, chimici, botanici); 18 "allievi" di almeno vent'anni, uno per ciascun accademico; 18 associati stranieri e 4 associati liberi. Erano previsti poi membri corrispondenti, in particolare per l'astronomia e la botanica, cui affidare le osservazioni locali. In tal modo, l'accademia diventava un centro di ricerca e di formazione nonché un punto d'incontro tra scienziati militanti e società civile. A dare continuità al progetto la presenza assidua e la guida di Bignon, che ne fu presidente o vicepresidente per circa venticinque anni. Il secondo passo fu la reinvenzione dell'Accademia delle iscrizioni e medaglie; anch'essa istituita da Colbert, fino a quel momento era un gruppo informale di quattro storici, numismatici e antiquari cui era affidato il compito di formulare le iscrizioni e i motti in onore del re su monumenti e monete; con la riforma del 1701, anch'essa disegnata da Bignon per incarico di Pontchartrin, si trasformò in una istituzione gerarchizzata sul modello dell'Accademia delle scienze (il nome diverrà Accademia delle iscrizioni e delle belle lettere) responsabile di importanti ricerche storiche e archeologiche. Ad assicurare la collaborazione tra le due accademie, quella scientifica e quella storica, la direzione dell'abate Bignon, che in quello stesso 1701 divenne anche uno dei tre membri ecclesiastici del Consiglio di Stato e dal 1705 al 1714 entrò nella redazione del Journal des savans, la più antica rivista letteraria e scientifica d'Europa (dopo un'interruzione decennale, dal 1724 ne sarebbe diventato direttore). Nel seno dell'Accademia delle scienze, grazie all'impulso di Bignon, incominciarono ad uscire i primi fascicoli della Description des arts et métiers, un'opera gigantesca che anticipa la futura Encyclopédie, di cui affidò la direzione a uno dei suoi protetti, il matematico e fisico René-Antoine de Réaumur. Pontchartrain affidò inoltre al nipote la direzione della censura; il risultato fu l'attenuazione del cosiddetto "regime dei privilegi", che prevedeva che nessuna opera potesse essere stampata senza la formale approvazione del re; da questo momento in avanti, venne stabilita una specie di silenzio assenso: un'opera che non aveva ottenuto il privilegio ma non era vietata era comunque tollerata. Il ritiro dello zio della politica nel 1714 impresse un momentaneo arresto alla carriera dell'abate, che dovette lasciare la direzione delle accademie e la redazione del Journal des savans (che tornerà a dirigere nel 1724). Dopo pochi anni di purgatorio, con la Reggenza e l'accesso al potere del cugino di secondo grado, Jean-Frédéric Phélypeaux, comte de Maurepas, uno dei più influenti ministri di Luigi XV, trovò un nuovo compito degno del suo attivismo e del suo genio amministrativo; nel 1718 venne infatti nominato Bibliotecario del Re (incarico che mantenne fino al 1740, quando lo cedette a un nipote). Bignon si trovò così a guidare la biblioteca più importante d'Europa. All'epoca, non esistevano né cataloghi né criteri di catalogazione; l'abate li introdusse, distribuendo i materiali in cinque tipologie (testi a stampa, manoscritti, titoli e genealogie, stampe e medaglie) e in 23 categorie, secondo il sistema recentemente elaborato dal bibliotecario Nicolas Clément. Grazie a una fitta rete di corrispondenti e contatti, arricchì inoltre i fondi della biblioteca facendo arrivare libri e riviste da tutta Europa. Sempre a lui si deve l'apertura della biblioteca reale al pubblico, anche se per un solo giorno alla settimana e per tre ore. Tra le scienze che riteneva meritevoli di essere valorizzate e diffuse, anche la botanica: fu su sua insistenza che nel 1691 Joseph Pitton de Tournefort, che all'epoca non era ancora neppure laureato, fu ammesso all'Accademia delle scienze, primo botanico ad ottenere tanto onore. Come si è già visto, nello statuto da lui redatto tre seggi accademici erano riservati ai botanici (una grande novità se si pensa che la botanica era ancora per lo più considerata ancella della medicina); come presidente dell'Accademia delle scienze egli inoltre stimolò la creazione di una rete di botanici residenti all'estero (un esempio potrebbe essere Gaultier, con le sue ricerche botaniche, meteorologiche e minerarie in Canada) e i viaggi naturalistici, a partire dalla spedizione in Levante dello stesso Tournefort. Molto ci sarebbe ancora da dire su questo attivo e influentissimo intellettuale, che molti considerano un precursore dell'Illuminismo oltre che un genio organizzativo; per una sintesi della sua vita rimando alla sezione biografie. Questa Bignonia è davvero una Bignonia? Riconoscente per la protezione accordatagli dall'abate, determinante per la sua carriera di botanico reale, Joseph Pitton de Tournefort volle onorarlo dedicandogli uno dei nuovi generi di Institutiones rei herbariae (1719), Bignonia, cui assegnò 11 specie americane, per lo più segnalate da Plumier, e due specie indiane tratte da Hortus Malabaricus. Il genere fu fatto proprio da Linneo, che lo validò in Species plantarum (1753). Anch'egli gli assegnò tredici specie, 11 desunte a Tournefort più due ricavate da Kaempfer. Primo genere ad essere descritto della famiglia cui avrebbe dato il nome, la Bignonia di Linneo era un gruppo eterogeneo, un vero e proprio minestrone: delle tredici specie linneane infatti solo due continuano ad appartenere al genere anche oggi, B. aequinoctialis L. e B. capreolata L; nove sono assegnate ad altri generi della famiglia Bignoniaceae: B. catalpa L. (oggi sinonimo di Catalpa bignonioides Walter), B. unguis cati L. (= Dolichandra unguis-cati (L.) L.G.Lohmann), B. paniculata L. (= Amphilophium paniculatum (L.) Kunth.), B. crucigera L. (= Amphilophium crucigerum (L.) L.G.Lohmann), B. leucoxylon L. (= Tabebuia heterophylla (DC.) Britton.), B. radicans L. (= Campsis radicans (L.) Seem.), B. caerulea (Jacaranda caerulea (L.) J.St.Hil.), B. radiata (= Argylia radiata (L.) D.Don, B. indica (= Oroxylum indicum (L.) Kurz; due addirittura appartengono ad altre famiglie: B. sempervirens L. (= Gelsemium sempervirens (L.) J.St.Hil.), famiglia Gelsemiaceae, B. peruviana L. (presumibilmente Nekemias arborea (L.) J.Wen & Boggan), famiglia Vitaceae. I botanici successivi fecero fatica a sbrogliare la matassa. Ampiamente diffuse in ambienti tropicali tanto diversi come la foresta pluviale e le foreste stagionali aride, e meno frequentemente nelle zone temperate, con oltre 800 specie distribuite in una ottantina di generi, le Bignoniacee (la famiglia fu creata nel 1789 da Antoine Laurent de Jussieu) costituiscono una famiglia ben caratterizzata e facilmente distinguibile, ma altrettanto difficile da classificare a livello di genere e specie. Gli uni e le altre sono infatti spesso polimorfi, senza contare gli inganni della convergenza evolutiva che non di rado ha prodotto caratteristiche simili in gruppi geneticamente lontani. Nel corso dell'Ottocento, anche se venivano via via creati nuovi generi, Bignonia L. continuò a lungo ad essere un vasto contenitore indifferenziato, tanto che ancora nel 1866 Henry Baillon ebbe a scrivere: "Fino a una certa epoca, quasi tutte le piante di questa famiglia erano assegnate al genere Bignonia". A un certo punto della sua esistenza, arrivò a comprendere 450 specie, per poi iniziare a dimagrire via via che venivano riconosciuti e separati altri generi, Il risultato è che ancora oggi la maggioranza delle persone quando pensa a una Bignonia, in realtà sta pensando a una Bignoniacea che Bignonia non è; infatti, nei nostri giardini, a parte B. capreolata, relativamente diffusa, sotto le mentite spoglie di Bignonia possiamo trovare specie come Campsis radicans, Campsis grandiflora, Podranea ricasoliana, Pandorea jasminoides, Tecoma capensis, Pyrostegia venusta (e l'elenco potrebbe continuare). Nella seconda metà dell'Ottocento e nel Novecento, sottoposto più volte a revisione, il genere Bignonia fu ridotto a tal punto che negli ultimi anni del secolo scorso le era riconosciuta una sola specie, B. capreolata. Uno studio recente (2014), basato su dati molecolari, ha nuovamente rimescolato le carte: con la confluenza di altri nove generi (Clytostoma, Cydista, Macranthisiphon, Mussatia, Osmhydrophora, Phryganocydia, Potamoganos, Roentgenia e Saritaea), Bignonia oggi comprende 28 specie, tutte liane neotropicali con centro di diversità in Brasile; l'unica a vivere in climi temperati è anche la specie più nota da noi, la semirustica B. capreolata, originaria del Sud est degli Stati Uniti, con fiori imbutiformi arancio ma talvolta bicolori. Tutte le altre specie sono prettamente tropicali; almeno due sono reperibili nel nostro paese in vivai specializzati, anche se in genere sono ancora commercializzate come Clytostoma; caratterizzate da meravigliosi fiori viola che possono ricordare la jacaranda, sono spesso note con il nome comune "bignonia viola". Troverete qualche informazione in più nella scheda. Nell'epoca vittoriana, la passione per le piante esotiche ha ormai contagiato l'intera società britannica; e all'introduzione di nuove specie da studiare, moltiplicare e coltivare non contribuiscono solo botanici e cacciatori di piante al servizio di orti botanici e vivai, ma anche singoli viaggiatori, commercianti, soldati, funzionari. E diplomatici, come il protagonista di questa storia, John Henry Mandeville. Furono numerose le piante interessanti che inviò a Londra dalla sua sede di Buenos Aires, secondo la testimonianza di John Lindley, che gli dedicò la più bella, la profumatissima Mandevilla suaveolens. A lungo piante di nicchia coltivate solo da chi poteva permettersi una serra, le Mandevillae sono oggi protagoniste di una vera rivoluzione, che le ha trasformate nelle rampicanti da fiore più apprezzate e vendute (persino nei supermercati), anche se, per una serie di complesse vicende, spesso sono commercializzate con il sinonimo Dipladenia. Successi e umiliazioni di un diplomatico Dopo un trentennio di gavetta, la carriera diplomatica di John Henry Mandeville (1773-1861) raggiunse il suo culmine con la nomina a ministro plenipotenziario britannico a Buenos Aires. Secondo Raymond Jones, studioso della diplomazia del Regno Unito, era un ottimo diplomatico, un "cavallo da tiro", stimato dai superiori per la capacità di iniziativa, l'intelligenza, l'affidabilità. Tuttavia gli mancavano gli amici potenti che gli avrebbero garantito incarichi più prestigiosi; dovette così accontentarsi di questa sede diplomatica che il Foreign office considerava secondaria. Diplomatico di lunga esperienza, uomo di mondo e conversatore facondo e affabile, Mandeville sembrava la persona giusta per barcamenarsi in una situazione tutt'altro che facile. Gli interessi britannici nel paese sudamericano, che aveva raggiunto l'indipendenza nel 1823 e si era affrettato a sottoscrivere un Trattato di amicizia, commercio e navigazione con il Regno Unito, erano importanti: la Gran Bretagna era il maggior partner commerciale e il primo investitore, e il trattato garantiva molti privilegi ai suoi sudditi. Tuttavia l'ascesa al potere del generale Rosas sembrava mettere in forse la stretta alleanza tra i due paesi, come faceva temere l'allontanamento del predecessore di Mandeville, Hamilton Charles Hamilton. La scelta del Foreign Office si rivelò lungimirante: giunto nella sua nuova sede nel 1835, Mandeville riuscì a conquistare la fiducia di Rosas e a convincerlo a sottoscrivere un accordo che metteva al bando la compravendita di schiavi. Il suo rapporto con il tirannico, sospettoso e grossolano generale non fu però esente da ombre: se da una parte quest'ultimo ne apprezzava la conversazione e lo invitava volentieri alla casa Rosada, incoraggiandolo addirittura a corteggiare sua figlia Manuela, dall'altra diffuse pettegolezzi su di lui e arrivò a farlo pedinare dalla polizia e a intercettarne la corrispondenza. D'altra parte, anche l'atteggiamento di Mandeville verso il dittatore argentino era ambivalente, come la politica del suo paese. Se mai si permise una critica aperta, non mancò di informare puntualmente il suo governo delle nefandezze del regime rosista ai danni degli oppositori; in ogni caso, sia lui, sia lord Palmerston erano convinti che in un paese selvaggio come l'Argentina un personaggio come Rosas fosse un male necessario (non diverso sarà il giudizio di Churchill su Mussolini). A partire dal 1838, Mandeville si trovò a gestire la difficile crisi internazionale provocata dalla Francia che impose il blocco navale del Rio della Plata per vedersi riconosciuto lo status di "potenza più favorita" di cui già godeva la Gran Bretagna; la Francia puntava direttamente alla caduta di Rosas, allenandosi con i suoi oppositori interni e con l'Uruguay. Dietro a tutto questo c'era evidentemente la rivalità politica ed economica tra la stessa Francia e la Gran Bretagna; tuttavia quest'ultima andò sempre più allontanandosi da Rosas, perché la situazione politica globale (si pensi in particolare alla Guerra dell'oppio) spingeva a un'intesa con Parigi. La guerra tra Argentina e Uruguay, il feroce nazionalismo di Rosas, il deciso interventismo francese spinsero così Palmerston a capovolgere la propria politica, alleandosi con la Francia contro Rosas (con la partecipazione al blocco anglo-francese del Rio de la Plata, 1845-1850). Il logoramento della relazioni anglo-argentine mise Mandeville in una posizione molto difficile, che raggiunse l'apice nel 1844, alla vigilia del suo congedo: il quotidiano "El Nacional" di Montevideo pubblicò undici sue lettere che contenevano giudizi molto duri sulla politica di Rosas, suscitando l'indignazione generale dell'opinione pubblica argentina; Rosas pensò che il diplomatico inglese non avrebbe più osato presentarsi al suo cospetto. Invece, con sangue freddo, Mandeville si recò alla sua residenza a Palermo. Rosas lo ricevette, ma dopo mezz'ora di conversazioni apparentemente senza importanza, diede libero sfogo in sua presenza a una necessità corporale. Alle proteste indignate dell'inglese, obiettò che era ben nota a tutti l'abitudine di Mandeville di grattarsi ovunque le natiche; lui non lo aveva mai ripreso per questo, perché riteneva che non potesse farne a meno, se gli prudeva. Dopo un simile affronto pubblico, al malcapitato ministro plenipotenziario britannico non restava che lasciare il paese; tornato in Gran Bretagna nel 1845, andò in pensione (aveva già superato i settant'anni), e visse ancora a lungo, forse coltivando la passione per il giardinaggio che l'aveva spinto, durante il mandato decennale, ad inviare in patria numerose piante rare. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Mandevilla o Dipladenia? Riconoscente per i numerosi interessanti invii, nel 1840 John Lindley volle dedicargli la specie più bella tra quelle da lui introdotte, una rampicante dai profumatissimi fiori bianchi, che in Argentina era nota come "gelsomino del Cile"; la battezzò Mandevilla suaveolens, ma poiché era già stata pubblicata nel 1799 da Ruiz e Pavon come Echites laxus, oggi il suo nome accettato è Mandevilla laxa (Ruiz & Pav.) Woodson. Nel corso dell'Ottocento altre specie di questo genere della famiglia Apocynaceae arrivarono occasionalmente nelle serre europee, ma nessuna divenne veramente popolare; diverso fu invece la sorte di una altro gruppo di specie affini. Nel 1844 Alphonse de Candolle pubblicò in Prodromus Systematis Naturalis Regni Vegetabilis una revisione delle Apocynaceae in cui, tra l'altro, creò il nuovo genere Dipladenia (il nome significa "con due ghiandole", in riferimento alla coppia di ghiandole del nettario), in cui riunì una ventina di specie staccate da Echites. Al contrario delle sorelle Mandevillae, queste rampicanti dai fiori spettacolari incontrarono il favore degli intenditori e nel corso del secolo diverse specie vennero introdotte nelle serre europee. Una delle prime fu D. rosacampestris (oggi Mandevilla illustris), raccolta in Brasile nel 1839 dai francesi Guillemin e Hullet; la stessa specie nel 1847 fu portata a Gand da de Vos, raccoglitore per i vivai Verschaffelt, con il nome D. nobilis. Nel 1841 William Lobb, cacciatore di piante dei vivai Veitch, raccolse nella Serra dos Órgãos in Brasile D. splendens e D. urophylla. A suscitare grande sensazione, quando venne presentata in una mostra floricola a Londra, fu soprattutto la prima, lodata da Hooker per l'esotica bellezza. Più o meno nello stesso periodo a nord di Rio de Janeiro fu scoperta D. sanderi, che però venne importata in Inghilterra solo nel 1896, appunto dal vivaio F. Sander and Co. Si deve a un altro cacciatore dei Veitch, Richard Pierce, l'introduzione di D. boliviensis; raccolta nel suo viaggio in Sud America tra il 1859 e il 1861, fiorì per la prima volta nelle serre dei Veitch nel 1868. Lo stesso anno venne presentato su The Gardener's cronicle un ibrido destinato a segnare la storia del genere, D. x amabilis (anche noto come D. amoena): l'aveva ottenuto nel 1862 Henry Tuke, giardiniere di un certo R. Nicolls a Bramley presso Leeds, incrociando D. splendens con D. crassinoda. Erano piante magnifiche e imponenti, che troviamo spesso illustrate nelle riviste di giardinaggio dell'epoca; ma non erano per tutte le tasche; costose ed esigenti, necessitavano di cure professionali e dell'atmosfera protetta di una serra tropicale. Fu così che nel Novecento furono un po' dimenticate, anche se nel 1930 in Francia si ebbe un apporto particolarmente apprezzabile, D. x amabilis "Alice du Pont", una statuaria bellezza dai fiori rosa chiaro. Vi state chiedendo come mai questa lunga storia di Dipladenia in un post dedicato a Mandevilla? Semplice: nel 1933 R.E. Woodson propose una ridefinizione di Mandevilla, che venne allargato a 107 specie, con la confluenza di otto generi incluso Dipladenia. Nel 1949 Pichon propose una nuova riclassificazione, che includeva in Mandevilla anche il piccolo genere Macrosiphonia, mantenuto indipendente da Woodson. I recenti studi tassonomici basati sul DNA hanno confermato queste conclusioni. Oggi, Mandevilla è il più numeroso genere neotropicale delle Apocynaceae, con oltre 150 specie, mentre per i botanici il genere Dipladenia non esiste più (o meglio è un sinonimo "storico" di Mandevilla). Ma le cose stanno diversamente in campo orticolo. Qui, evidentemente, il nome Dipladenia aveva fatto in tempo a entrare nella memoria e nel cuore di coltivatori e appassionati, cui era ben più familiare di Mandevilla. Ed è dunque con il duplice nome Mandevilla / Dipladenia che le nostre spettacolari rampicanti tropicali nell'ultimo ventennio sono diventate protagoniste di una delle più eclatanti rivoluzioni del mercato floricolo. Si è detto che il primo Novecento le trascurò; a riscoprirle furono nella seconda metà degli anni '50 gli orticultori danesi, che reintrodussero nel mercato "Alice du Pont" e diverse cultivar di Mandevilla sanderi (da questo momento, uso i nomi attuali!). Ma la vera rivoluzione inizia nel 1991: nei vivai della giapponese Suntory vengono seminati i semi di un incrocio tra M. x amabilis 'Rose Giant' (madre) e M. boliviensis (padre). Dei 35 semenzali solo uno sarà selezionato: è nata Sunmandeho, ovvero la capostipite della fortunata serie Sundaville, commercializzata a partire dal 2000 in Europa come 'Sundaville Cosmos White' e in America come 'Sun Parasol Giant White'. Nel 2005 seguirà la più famosa di tutte, la rossa Sunmadecrim, ibrido tra M. atroviolacea e M. sundaville 'Cosmos White'. Sarà commercializzata come Dipladenia sundaville 'Red'. La Suntory decide infatti di usare i due nomi per differenziare la sua produzione: Mandevilla per le rampicanti vigorose con grandi foglie dalla venatura evidente, Dipladenia per le forme più compatte, cespugliose e foglie piccole. Una distinzione inconsistente dal punto di vista botanico, ma che ha fatto scuola, tanto che oggi (almeno da noi) il nome commerciale prevalente sembra proprio essere Dipladenia (del resto, le forme compatte, nei nostri terrazzi e nei nostri piccoli giardini, hanno la preferenza su quelle a grande sviluppo). Sotto l'uno o l'altro nome, oggi sono le rampicanti da fiore più vendute sul mercato, tanto che è facile trovarle in vendita persino sugli scaffali dei supermercati, a prezzi così competitivi che molti le coltivano come annuali, proprio come si fa con le petunie. Le grandi ditte che dominano questo mercato miliardario si sfidano a colpi di novità: accanto al bianco, al rosa e al rosso, arrivano il giallo e l'albicocca; Suntory moltiplica le serie, introducendo le Mini e le Up con fiore stellato; la francese Lannes risponde con le piccole deliziose Diamantina; Syngenta punta sulle fioriture precoci, il portamento ordinato e compatto, la versatilità, la resistenza e la facilità di coltivazione della sua serie Rio (è probabile che se acquistate una "Dipladenia" rossa senza nome in un supermercato, sia una 'Rio Red', la più venduta di tutte). Dopo aver sopportato l'ignobile oltraggio di Rosas, il buon Mandeville saprà farsi una ragione se la "sua" pianta imperversa in ogni dove sotto le mentite spoglie di Dipladenia. Qualche notizia sulle specie più importanti per la creazione degli ibridi nella scheda. |
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https://app.myadvent.net/calendar?id=zb2znvc47zonxfrxy05oao48mf7pymqv CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2024
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