L'orto botanico dell'università di Bonn ha da poco festeggiato il bicentenario. Nacque infatti nel 1818 per iniziativa congiunta del fondatore dell'università, il ministro dell'istruzione della Prussia Karl von Altenstein, e del botanico Nees von Esenbeck. Ma la sua realizzazione e la sua rapida crescita sarebbero state impossibili senza l'abile e energico Wilhelm Sinning che fu prima capo giardiniere poi ispettore capo del giardino renano per oltre mezzo secolo. Nees von Esenbeck espresse la sua stima dedicandogli la bellissima Sinningia helleri, specie tipo del nuovo genere Sinningia, di cui fa parte una delle Gesneriaceae più coltivate, la "gloxinia dei giardinieri", ovvero Sinningia speciosa. Nascita di un orto botanico Nell'estate del 1818, il botanico Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck, che all'epoca insegnava scienze naturali all'università di Erlangen, in Baviera, fu eletto presidente dell'Accademia leopoldina; quindi si accordò con il ministro dell'istruzione prussiano Karl von Stein zum Altenstein, che aveva appena decretato l'istituzione di un'università a Bonn (Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität), per il trasferimento dell'Accademia, della sua biblioteca e delle collezioni naturalistiche presso il neonato ateneo, sotto l'egida della Prussia. In cambio ottenne sia la cattedra di botanica e scienze naturali, sia la responsabilità dell'organizzazione e dello sviluppo delle istituzioni scientifiche dell'università, in particolate di un Museo di storia naturale e di un orto botanico. Quest'ultimo venne ricavato trasformando il parco di piacere del castello di Poppelsdorf, alla periferia sud della città, che quello stesso anno era stato donato all'Università di Bonn dal principe-arcivescovo di Colonia, di cui era la residenza estiva. Intorno al palazzo arcivescovile, un giardino dovette esistere almeno dal 1578, come attesta un bozzetto a penna, ma presumibilmente andò distrutto come il palazzo stesso durante la cosiddetta Guerra di Colonia (1583-1588). Solo dopo la fine della Guerra dei trent'anni, nel 1650, fu impiantato un nuovo giardino formale, che poi nel 1720 fu ristrutturato in stile barocco, per fare da cornice al Clemensruh, la residenza nello stesso stile costruita dall'architetto francese Robert de Cotte per il principe arcivescovo Joseph Clemens di Baviera e il nipote e successore August Clemens. Dopo aver risolto il contenzioso con la Baviera, che cercò di impedire il trasferimento della biblioteca e delle collezioni della Lepoldina, von Esenbeck arrivò a Bonn nel dicembre 1818, si stabilì con la famiglia al secondo piano del castello e si impegnò immediatamente nella ristrutturazione del parco per adattarlo alla nuova destinazione didattico-scientifica. I lavori iniziarono già quell'inverno e nell'arco di un anno lo sterro era completato, così come la costruzione delle prime serre. Alla fine del 1819, von Esenbeck stimava che le specie e varietà ospitate ammontassero già a 4500. Lavori così celeri e un risultato tanto eclatante erano stati possibili perché von Esenbeck aveva trovato un collaboratore d'eccezione nel capo giardiniere Wilhelm Sinning (1791– 1874). Ne conosciamo piuttosto bene la formazione e il percorso professionale. La sua carriera inizia a quindici anni come apprendista giardiniere nei giardini ducali di Bernburg (Sassonia-Anhalt); nel 1809, diciottenne, completa l'apprendistato nel giardino d'inverno di Lipsia; celebre all'epoca, era il giardino-vivaio creato dal vivaista Christian August Breiter, specializzato in piante esotiche, coltivate in serre con temperature differenziate. In città Sinning ha anche modo di frequentare l'accademia di disegno, dove probabilmente apprende i primi rudimenti della progettazione di giardini. Nel 1810 è promosso Kunstgärtner (letteralmente "giardiniere d'arte"), termine che all'epoca definiva un giardiniere specializzato in piante ornamentali, in contrapposizione ai giardinieri comuni che erano anche orticultori e frutticoltori. Segue un periodo in cui il giovane giardiniere, forse desideroso di nuove esperienze professionali o condizionato dall'inquieta situazione politica (sono gli anni in cui la Germania è uno dei principali teatri delle guerre napoleoniche), cambia ogni anno sede e datore di lavoro: nel 1810 lavora nel giardino ducale di Dresda, nel 1811 in quella della residenza dei Sassonia-Gotha a Altenburg, dal 1812 al 1814 all'Hofgarten di Düsseldorf, proprio negli anni in cui il capo giardiniere e architetto paesaggista Maximilian Friedrich Weyhe stava trasformando l'antico giardino principesco nel primo parco pubblico della Germania. Con questo ampio ventaglio di esperienze, nel 1814 passa finalmente al servizio del re di Prussia. Dal 1814 al 1819 lavora nell'Orangerie e nel giardino del castello di Brühl, famoso per il Jardin Secret con piante mediterranee ed esotiche. Nel 1818, presenta la propria candidatura come capo giardiniere del costruendo orto botanico di Bonn e deve sostenere una prova esame che consiste proprio nella progettazione del nuovo giardino. Evidentemente il progetto piace, e ottiene il posto. Nei primi mesi del 1819 lo troviamo già al lavoro al fianco di Nees von Esenbeck; mentre a questi spetta la direzione scientifica, a lui vengono affidati il disegno del progetto e la direzione dei lavori, nonché delle semine e dei trapianti. Il suo progetto, che per molti aspetti si rifà a quello del suo maestro Wehye per l'Hofgarten di Düsseldorf, cerca di conciliare l'eredità barocca del giardino con le esigenze scientifiche e il gusto paesaggistico "all'inglese". Sinning allestisce anche una serra in legno e vetro con quattro ambienti, uno caldo, due temperati e uno freddo, utilizzando probabilmente le vetrate delle serre di Brühl. Già nella primavera insieme ai suoi aiutanti provvede alle prime semine; il prestigio scientifico di Esenbeck, ma anche il peso politico della monarchia prussiana fanno affluire semi da molti orti botanici tedeschi, ma anche stranieri (Londra, Parigi, persino la lontana Madrid). Non mancano invii di privati: una selezione di 126 semi arrivò "come dono del consigliere privato von Goethe", ovvero del poeta Goethe, amico e corrispondente di Esenbeck; il principe esploratore Maximilian zu Wied-Neuwied contribuì con i semi di oltre 200 piante raccolte nei suoi viaggi in Brasile, mentre un altro titolato, Joseph Salm-Dyck, donò quasi 300 esemplari della sua celebre collezione di succulente, che nel 1821 Sinning andò prelevare e preparare di persona per il viaggio. Molte piante vive vennero trapiantate dal giardino di Brühl. Anche se le difficoltà finanziarie, logistiche e politiche non mancarono (soprattutto andò a rilento la vera e propria attività didattica), le collezioni continuarono a crescere vigorosamente. Nel 1820 uscì il primo catalogo del giardino, curato da Christian Gottfried Nees von Esenbeck e dal fratello minore Theodor Friedrich Ludwig, che egli aveva fatto assumere come ispettore del giardino botanico. Nel 1821 le specie e varietà erano quasi 6000. Nel 1824 uscì una silloge illustrata delle più rare piante del giardino, Plantarum in horto medico Bonnensi nutritarum icones selectae, firmata anche da Sinning che aggiunse alle descrizioni dei fratelli Esenbeck le sue note colturali. Nel 1829 uno scandalo mise precipitosamente fine alla carriera prussiana del maggiore degli Esenbeck; quando emerse una relazione extraconiugale con la moglie di un collega, fu costretto a lasciare la Prussia; si trasferì a Breslavia, scambiando la cattedra con Ludolph Christian Treviranus, che così divenne il nuovo capo di Sinning. Il più giovane degli Esenbeck, che nel frattempo era diventato a suo volta professore di botanica, rimase invece a Bonn e nel 1833 fu nominato condirettore dell'orto botanico. Nel 1834 firmò a quattro mani con Sinning la magnifica raccolta Sammlung schönblühender Gewächse für Blumen- und Gartenfreunde, con 100 litografie e la presentazione di altrettante piante; a cura di Sinning, nuovamente le note orticole. Intanto i direttori passavano: Treviranus si scontrò con il personale e dopo pochi anni, pur mantenendo la cattedra di botanica, lasciò la direzione del giardino, e Theodor Friedrich Ludwig von Esenbeck morì in giovane età di tisi; e mentre altri ne arrivavano e si succedevano per brevi periodi, a garantire la continuità dell'istituzione era proprio il capo giardiniere, che fu la colonna del giardino di Bonn per più di mezzo secolo, dal 1819 al 1871, quando andò in pensione. Nel 1833 fu promosso ispettore. Tra il 1849 e il 1851 curò la sostituzione della vecchia serra, ormai precaria e cadente, con una più moderna serra in ghisa e vetro, ispirata ai modelli inglesi di Loudon e Paxton; dal 1847 al 1874 tenne anche la cattedra di botanica all'Università di agraria, istituita nel 1847 sempre a Poppelsdorf. In ricordo di colui che disegnò il giardino e ne fu l'anima per mezzo secolo, uno dei sentieri dell'orto botanico si chiama Sinning-Weg. Splendide e variabili Sinningia Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck aveva grandissima stima del suo capo giardiniere. In una lettera scritta da Breslau al suo antico protettore Altstein nel 1832, si compiace che il suo successore Treviranus ne abbia finalmente riconosciuto i meriti e scrive: "[in questo modo] mostra un encomiabile cambiamento di opinione. In precedenza aveva dichiarato che un giardiniere dovrebbe essere solo il servitore e lo strumento senza volontà propria del direttore, il che è certamente sbagliato. Invece un giardiniere preparato e dotato di spirito di iniziativa è il vero principio di vita di un giardino, è ciò che fa del giardino un giardino, altrimenti, sotto la maggior parte dei direttori, sarebbe solo una specie di erbario molto costoso". Da parte sua, aveva espresso il suo apprezzamento anche in altro modo. Tra tanti semi che affluivano al neonato orto botanico, nel 1824 il direttore dell'orto botanico di Würzburg Franz Xaver Heller spedì dei semi giunti dal Brasile etichettati come Columnea. L'abile Sinning li seminò e ne nacque una bellissima pianta dai fiori bianchi; era certo una Gesneriacea, ma non una Columnea; anzi, apparteneva a un nuovo genere che von Esenbeck chiamò in suo onnore Sinningia con le seguenti parole: "La nostra nuova pianta è destinata a conservare la memoria del sig. Wilhelm Sinning, giardiniere dell’università di Bonn, le cui cure infaticabili e lo zelante amore per la scienza stanno facendo avanzare così bene questo stabilimento, fondato e diretto sotto i miei occhi sulla base dei suoi disegni”. Era così nato il genere Sinningia, uno dei più importanti della famiglia, con una ottantina di specie distribuite dal Messico all'Argentina settentrionale, con centro di diversità in Brasile, di cui è endemica o nativa la maggior parte delle specie. Per lo più tuberose, hanno fiori tubolari o a coppa molto attraenti, che ne fanno eccellenti piante d'appartamento o da serra. La specie di gran lunga più nota e coltivata è S. speciosa, nota a giardinieri e coltivatori come glossinia, gloxinia o gloxinia dei giardinieri, perché, quando fu importata in Inghilterra dal Brasile nel 1817, il vivaista Loddiges la denominò Gloxinia speciosa, nome che mantenne per sessant'anni, finché W. P. Hier la assegnò correttamente al genere Sinningia. Dopo la Saintpaulia, è probabilmente la specie più coltivata della famiglia, grazie ai suoi grandi fiori a coppa dai petali vellutati. Sono il risultato delle coltivazione e delle selezioni dei vivaisti; in natura, benché sia piuttosto diffusa e alquanto variabile, questa specie ha fiori molto più piccoli, penduli, con corolla tubolare, asimmetrica e lobi meno accentuati, in colori che vanno dal bianco al rosa a varie sfumature di viola. In coltivazione, fino dalla metà dell'Ottocento, si è invece sviluppata la forma pelorica, con corolla attinomorfa, eretta e molto più aperta; la gamma dei colori si è allargata al rosso e al blu; sono state introdotte forme con gola macchiettata, con lobi arricciati o marginati di bianco, con fiori doppi. Estremamente popolare nelle serre ottocentesche, scatenò la fantasia di ibridatori e vivaisti, che ne produssero decine e decine di varietà, sontuosamente raffigurate nelle riviste illustrate dell'epoca. Tra i maggiori realizzatori, troviamo senza dubbio il belga Van Houtte, che ne selezionò moltissime e le propagandò nelle pagine della sua rivista Flore des serres. La bellezza e la diffusione di S. speciosa non deve però farci dimenticare le altre specie. Come spesso in questa famiglia, anche Sinningia è un genere morfologicamente vario, che si è adattato a habitat diversi. La maggior parte vive sulle pareti rocciose, ma ci sono anche specie terrestri e qualche epifita; alcune vivono nel sottobosco della foresta, o addirittura sulle pareti di grotte (è il caso di S. tuberosa), altre lungo i corsi d'acqua, alcune addirittura sommerse per parte dell'anno (è il caso di S. glazoviana). Per lo più sono dotate di rizoma, in alcuni casi così sviluppato da essere assimilato a un caudice (è il caso di S. leucotrichia o S. cooperi); possono essere erette, striscianti o pendule, basse, acauli e con foglie a rosetta, o al contrario, piuttosto alte con verticilli di foglie ai nodi. Anche le dimensioni variano assai: alcune sono minuscole, come S. pusilla che non supera i 5 cm d'altezza, altre imponenti, dei veri e propri arbusti, come S. mauroana, che può raggiungere i due metri. I fiori si presentano in forme diverse, anche in relazione ai differenti impollinatori (colibrì, imenotteri, falene). I colori delle corolle comprendono il bianco, il giallo, il lavanda, il viola, il rosa, l'arancio e il rosso. Qualche approfondimento, una selezione di specie e link selezionati nella scheda.
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Capita che generi di una certa importanza, orticola o economica, portino il nome di un personaggio poco noto o addirittura quasi dimenticato. E' senza dubbio il caso di Kohleria, uno dei più belli ed ammirati della famiglia Gesneriaceae, dedicato da Regel, insieme ad altri cinque con ben più illustri dedicatari, all'oscuro Johann Michael Kohler, professore al Seminario di Zurigo e autore di testi di agronomia. Una dedica forse dovuta all'amicizia, o almeno alla frequentazione di ambienti comuni. Kohler, chi era costui? Fin dal 1817, quando Bowie e Cunningham spedirono a Kew i primi esemplari di Sinningia, l'interesse per le Gesneriaceae dell'America tropicale non fece che crescere. Erano bellissime, esotiche, non troppo difficili da moltiplicare e coltivare; così, grazie ai cacciatori di piante inviati in Centro e Sud America, gli arrivi si moltiplicarono, insieme a una certa confusione di nomi. Tra i botanici che si interessarono con una certa continuità alla loro classificazione va annoverato Eduard Regel cui si deve la creazione di diversi nuovi generi; nel 1847, quando era capo giardiniere dell'orto botanico di Zurigo, ne creò in una volta sola ben sei, pubblicandoli succintamente nell'Index seminum del giardino e più ampiamente qualche mese dopo nell'articolo "Über die Gattugen der Gesneerien", pubblicato sul Botanische Zeitung del 1848; si tratta, nell'ordine, di Rechsteineria, Moussonia, Naegelia, Koellikeria, Kohleria, Locheria, tutti, come specifica lo stesso Regel, dedicati "esclusivamente a naturalisti svizzeri, perché anche la famiglia porta il nome di uno di essi". Oggi solo due rimangono validi, Moussonia e Kohleria. Regel, forse memore delle versatile personalità di Gessner, scelse non solo botanici, ma naturalisti impegnati in vari campi delle scienze naturali, alcuni dei quali decisamente illustri. Il nome oggi di maggior rilievo è quello del medico, anatomista e fisiologo Rudolf Albert von Koelliker (1817-1905), patriarca della biologia ottocentesca, fondatore della moderna istologia sistematica, autore di scoperte fondamentali nel campo dell'anatomia e della fisiologia animale e umana; anche se alcune pubblicazioni risalgono già agli anni '40, erano allori al di là da venire; all'epoca insegnava anatomia e fisiologia all'università di Zurigo e Regel lo menziona come autore di una lista delle piante spontanee della regione di Zurigo. Anche Albert Mousson (1805-1890), che Regel ricorda come presidente dell'Unione dei naturalisti, insegnava all'Università di Zurigo, dove era docente di fisica; glaciologo e meteorologo, è noto soprattutto come malacologo, cui si deve la descrizione di 450 nuove specie. Il terzo docente dell'ateneo zurighese Carl Nägeli (1817-1891) era certo il più vicino a Regel; in primo luogo era un illustre botanico, autore di ricerche di citologia e fisiologia vegetale, sulla struttura del protoplasma, sulla teoria dell'ereditarietà; in secondo luogo, nel 1843, insieme allo stesso Regel e al direttore dell'orto botanico Oswald Heer, aveva fondato l'Associazione svizzera di agricoltura e orticoltura. Grande esperto del genere Hieracium, è anche noto per aver involontariamente scoraggiato le ricerche di Mendel: entrato in corrispondenza con l'abate boemo, di cui fu l'unico ad apprezzare l'opera, gli suggerì di estendere i suoi esperimenti a questo genere, singolare per il gran numero di varietà e forme; purtroppo tanto lui quanto Mendel ignoravano che la maggior parte di esse si riproducono senza fecondazione; così il suggerimento si rivelò controproducente. Anche il medico Hans Locher-Balber (1797-1873), che Regel cita semplicemente come Dr. Locher, veniva dalle file dell'ateneo zurighese, dove insegnava medicina e di cui fu anche decano; inoltre era il direttore dell'ospedale universitario. Era invece una celebrità locale Johann Konrad Rechsteiner (1797-1858), che Regel ricorda solamente come "parroco di Eichberg"; pastore riformato, oltre che occuparsi attivamente del miglioramento del sistema scolastico, era un attento studioso della flora locale nonché collezionista di minerali, fossili e conchiglie; corrispondeva e scambiava piante con molti botanici e il suo erbario di 12.000 esemplari era considerato uno dei più completi del paese. Oggi le sue collezioni sono custodite al Museo di storia naturale di San Gallo. Rimane uno solo nome e, guarda caso, è il carneade del gruppo: Johann Michael Kohler (1812-1884) non era professore universitario, ma, come ci informa lo stesso Regel, lettore di scienze naturali alla scuola cantonale, nota anche come seminario; solo molti anni dopo sarebbe diventato professore titolare. Né, all'epoca, aveva ancora pubblicato nulla. Quali meriti l'avranno fatto inserire in questo parterre de rois? Forse era amico di Regel, certo lo frequentava; anche lui era tra i soci fondatori dell'Associazione svizzera di agricoltura e orticoltura e forse collaborò come redattore alla rivista dell'associazione, Schweizerische Zeitschrift für Land- und Gartenbau (1843-1845), anche se non vi compaiono articoli a sua firma. Tutte le sue pubblicazioni sono successive; è del 1851, per incarico dell'Unione agricola cantonale di Zurigo, Landwirthschaftliche Beschreibung der Gemeinden Dettenriedt, Höngg, Thalweil-Oberrieden, Uitikon, Wangen, Weyach ("Descrizione agricola dei comuni Dettenriedt, Höngg, Thalweil-Oberrieden, Uitikon, Wangen, Weyach"), un'inchiesta sulla situazione dell'agricoltura e delle proprietà agricole, in cui, tra l'altro, mettendo a confronto la situazione svizzera con quella statunitense, lamenta l'estremo frazionamento delle proprietà, che si suddividevano sempre più ad ogni generazione. Dal 1850 al 1856 fu redattore della rivista dell'associazione agricola svizzera, nata da una scissione della vecchia associazione fondata con Regel. Solo nel 1873 divenne professore titolare con incarico di insegnamento di orticoltura, frutticoltura e viticoltura, mantenendolo fino alla morte nel 1884; era soprattutto un esperto dei due ultimi settori, come possiamo vedere dalle due opere pubblicate nella maturità, Die wichtigsten Kernobstsorten des Kantons Zürich (Zürich 1864), ovvero "Le più importanti varietà di pomacee del cantone di Zurigo", interessante soprattutto per la descrizione di una varietà locale di pero, detta Kalchbühler o Chalchbüeler, molto fruttifera ma con frutti piccoli utilizzati soprattutto per il sidro, e Der Weinbau und die Weinbehandlung (Aarau 1878), ovvero "Viticoltura e trattamento del vino". Kohleria, spettacolo tropicale Com'è, come non è, il buon agronomo svizzero Kohler si è trovato a fare da padrino a uno dei più amati generi della famiglia Gesneriaceae, dove le bellezze certo non mancano. Kohleria Regel comprende 22-24 specie, distribuite lungo la Cordigliera occidentale, dal Messico meridionale al Perù, in Venezuela, Trinidad e le Guyane, con centro di diversità in Colombia, in ambienti che vanno dalle foreste tropicali a bassa quota alle foreste nubilose d'altura, tanto in zone aperte in pieno sole, quanto nel sottobosco con luce filtrata. Di conseguenza, presenta una grande varietà morfologica, comprendendo erbacee perenni, suffrutici, arbusti, di portamento ora eretto, ora prostrato. Hanno radici rizomatose e scagliose e diverse specie vanno in dormienza in inverno; gli steli e il fogliame sono in genere vellutati e i fiori brillantemente colorati, soprattutto rossi, con macchie o marcature in colori contrastanti. Solitamente sono di piccole dimensioni, con strette corolle tubolari e lobi da appena accennati a ampi e arrotondati, e sono impollinati dai colibrì; fanno eccezione K. allenii e K. tigiridia (una delle specie trasferite da Capanea) che hanno fiori a coppa aperta impollinati da pipistrelli. La prima specie a essere descritta fu K. tubiflora, raccolta a Panama e descritta nel 1801 da Cavanilles come Gesneria tubiflora; all'epoca, infatti, erano stati determinati solo pochi generi della famiglia, in cui venivano inserite via via le nuove specie. Nel 1818, Kunth descrisse altre sei specie, sempre come Gesneria, tra cui K. hirsuta, la specie su cui si basò Regel per creare il nuovo genere nel 1847. Nel frattempo gli arrivi si erano moltiplicati, e, con il loro aspetto indubbiamente esotico, la grande variazione di colori, divennero piuttosto popolari nelle serre vittoriane, frequentemente ritratte nelle riviste di giardinaggio come il Curtis's Botanical Magazine, con un gran guazzabuglio di nomi; infatti, non solo furono assegnate a vari generi della famiglia (oltre a Gesneria, Achimenes, Isoloma, Sciadocalyx eTydaea), ma non di rado la stessa specie fu descritta più volte con nomi diversi, a causa della grande variabilità e della facilità di produrre ibridi naturali. Varietà e ibridi facevano la gioia di appassionati e giardinieri, e le riviste dell'epoca facevano a gare a riprodurli, ma purtroppo di loro quasi sempre rimangono solo le immagini; uno dei pochi vecchi ibridi sopravvissuti potrebbe essere 'Longwood', riscoperta in un orto botanico e reintrodotta dai Longwood Gardens; alta e molto fiorifera, con fiori rosso fragola, è a sua volta uno dei genitori di molti ibridi moderni. Come molti generi di questa famiglia, anche Kohleria ha avuto una vita tassonomica travagliata, giungendo ad annoverare anche una ottantina di specie, molte delle quali sono state ridotte a sinonimi o varietà o anche trasferite ad altri generi; recentemente ha invece assorbito il genere Capanea, che pure è morfologicamente assai diverso: non si tratta infatti di erbacee terrestri, ma di epifite, prive di rizomi e con radici avventizie. Tra le specie più coltivate, troviamo la colombiana K. amabilis, piuttosto variabile e molto usata nelle ibridazioni; la varietà nominale ha fiori rosa scuro macchiati di rosso alla gola, mentre la varietà bogotensis è bicolore, con lobi superiori arancio e lobi inferiori e gola gialli picchettati di rosso. Proviene da un'area che va dall'Ecuador a Trinidad K. hirsuta, con foglie vellutate verde medio e fiori tubolari rosso aranciato; la varietà nominale, anche nota con il sinonimo K. eriantha, ha foglie verde intenso con margini rossi. Proviene invece dalle foreste pluviali della Colombia K. warszewiczii (sin. K. digitaliflora), con fiori raggruppati a grappolo, tubo molto peloso rosa confetto e lobi gialli macchiettati di viola. L'interesse degli ibridatori si è riacceso nella seconda metà del Novecento. Uno dei primi nuovi ibridi è stato 'Connecticut Bell' (K. amabilis x K. eriantha), introdotto nel 1971, con grappoli di media altezza e fiori con stretto tubo rosso, lobi superiori rosa fucsia, lobi inferiori e gola da rosa chiaro a bianco, con linee di puntinature rosse. Da allora gli ibridi si sono moltiplicati; ne potete ammirare un'ampia selezione in questa pagina. Nel 1787, Ramond de Carbonnères, che all'epoca è il segretario del cardinale di Rohan, capita un po' per caso nei Pirenei. Da quel momento lo scopo della sua vita sarà scoprire i segreti della formazione geologica della catena, che all'epoca costituiva un enigma; per svelarli, ne esplora per decenni la sezione centrale, con un'ossessione: riuscire a scalare quella che al tempo se ne riteneva la massima cima, il Monte Perdido o Mont Perdu. Vero padre della scoperta scientifica dei Pirenei, Ramond era anche un appassionato botanico e uno specialista della flora di alta montagna. La dedica del bel genere Ramonda, che annovera un endemismo dei Pirenei e due specie balcaniche, è assolutamente perfetta. Da poeta a scienziato: un percorso di vita Nella primavera del 1787, quando per la prima volta arriva nei Pirenei, Louis Ramond (1755–1827) non sa ancora che quelle montagne diventeranno la sua passione, anzi la sua ossessione. Ha poco più di trent'anni, ma è come se avesse già vissuto almeno due vite. Nato a Strasburgo, una città-frontiera, è diviso tra due culture anche nell'identità personale, figlio com'è di un padre francese della Linguadoca e di una madre alsaziana di origine tedesca. Dunque, nulla di strano che sia tra i primi a scoprire il preromanticismo tedesco dello Sturm und Drang. Ha appena diciannove anni quando esce I dolori del giovane Werther di Goethe; la lettura di quel romanzo generazionale è una tale folgorazione che decide di diventare a sua volta scrittore e nel 1777 (ora ha ventidue anni) pubblica a sua volta Les Dernières aventures du jeune d'Olban, che, come il suo modello goethiano, si conclude con un colpo di pistola. Come Werther, anche Louis (che quell'anno si è anche laureato in legge) ha vissuto un amore impossibile, ma lascia che a suicidarsi per lui sia il suo eroe, e per consolarsi parte per la Svizzera; è alla ricerca di paesaggi che nutrano la sua ispirazione poetica e, come scrive in una lettera al padre, si mette in viaggio per "osservare e non per arrivare"; ci sono incontri con personalità importanti, come il patriarca dei naturalisti Albrecht von Haller, il biologo Charles Bonnet e il fondatore della fisiognomica Lavater, ma c'è soprattutto la scoperta delle alte montagne: scala diverse cime del Bernese, poi si sposta al San Gottardo e va all'esplorazione delle Alpi ticinesi. Poi, per tre anni, è soprattutto uno scrittore. Pubblica una raccolta di poesie, poi si trasferisce nella capitale dove dà alle stampe un dramma romantico e la traduzione di Sketches of Swisserland di William Coxe (Lettres de M. William Coxe à M. W. Melmoth sur l'état politique, civil et naturel de la Suisse), che infarcisce di note e osservazioni tratte dal suo viaggio svizzero al punto da irritare l'autore. Il successo letterario a cui aspira non arriva: ci vorranno anni perché il gusto romantico conquisti Parigi; per i milieu letterari, Ramond è uno scrittore appena mediocre, più tedesco che francese. Ma la contestata traduzione ha un merito: attira l'attenzione del vescovo di Strasburgo, il cardinale di Rohan, che nel 1781 lo assume come segretario; per sette anni ne sarà il più ascoltato consigliere e gli sarà fedelissimo; sbriga i suoi affari, organizza le sue feste, lo accompagna in tutti i viaggi, viaggia per suo conto quando il cardinale preferisce rimanere nella prediletta residenza di campagna di Saverne, ai piedi dei Vosgi. Alla colorita corte del cardinale, conosce Cagliostro, che lo inizia alla massoneria e ne fa il suo discepolo nelle sedute di magia e ipnosi. Per adeguarsi al nuovo ambiente, cambia anche nome: ora si fa chiamare Louis Ramond de Carbonnières, pretendendo che si tratti di un vecchio nome che da tre secoli distingue un ramo della sua famiglia . Quando il cardinale viene arrestato in seguito all'affare della collana, Ramond- uno dei pochi del suo entourage rimasto a piede libero - si incarica di far sparire le lettere compromettenti; poi va in Inghilterra a cercare le prove che la collana è stata venduta dai truffatori e il cardinale è stato ingannato; anche grazie ad esse, Rohan viene assolto, ma il re lo manda in esilio all'abbazia di Chaise-Dieu in Alvernia. Ramond è con lui e approfitta di quella che per il suo padrone è una orribile seccatura per immergersi nella natura e dedicarsi alle passeggiate botaniche. Quando arriva l'inverno, il cardinale e il suo seguito sono autorizzati a trasferirsi a Marmoutier, in Touraine. Poi, gli viene permesso di viaggiare per "passare le acque"; così nella primavera del 1787, sua Eminenza lo manda in avanscoperta nei Pirenei. La scelta cade su Barèges, un villaggio a circa 1200 metri d'altitudine, annidato nelle montagne, lungo la strada che conduce al Col Tourmalet, ai piedi del Pic du Midi; all'epoca reputata per le sue acque solforose, è la stazione termale più elevata dei Pirenei. La comitiva del cardinale vi arriva alla fine di luglio, e già il 2 agosto Ramond scala per la prima volta il Pic de Midi: ai suoi occhi si mostra una gran parte dei Pirenei centrali, fino alla vetta culminante, il Monte Perdido/ Mont Perdu. Diverse escursioni seguiranno nei giorni successivi; la maggiore, dal 16 al 24 agosto, lo porta a percorrere ben 250 km e un dislivello di 13 km, da Barèges al ghiacciaio della Maladeta e ritorno. Non sono solo la passione alpinistica e il gusto romantico a spingerlo a percorrere il massiccio, solo o accompagnato da pastori locali; in gioco c'è anche una disputa scientifica. L'idea dominante all'epoca, confermata dall'ascensione al Monte Bianco di Saussure, era che le montagne più alte ed antiche fossero granitiche, mentre quelle più recenti e basse calcaree; secondo Dolomieu (un uomo che destava i sistemi) la catena centrale dei Pirenei faceva eccezione, essendo calcarea. Per verificare se abbia ragione, Ramond si propone di raggiungere il centro della catena, ovvero quel Mont Perdu che ha visto come un miraggio fin dalla sua prima ascensione. Ma come arrivarci nessuno lo sa. Così, quando, venuto l'autunno, tocca ripartire, egli si rassegna a rimandare il problema alla prossima occasione, Nel dicembre 1788, lascia il servizio del cardinale e si trasferisce a Parigi, deciso a fare della scienza la sua nuova professione. Pubblica Observations faites dans les Pyrénées, pour servir de suite à des observations sur les Alpes e segue le lezioni di Antoine Laurent de Jussieu e René Desfontaines al Jardin des Plantes. Ma a imporre una momentanea battuta d'arresto è la politica: nel settembre 1791 è eletto deputato all'Assemblea legislativa; esponente di spicco dei Foglianti, è strettamente legato a La Fayette e avverso ai giacobini. Nell'estate del 1792, mentre la situazione politica precipita, Ramond si allontana prudentemente dalla capitale e torna a Barèges. L'8 agosto è di nuovo sul Pic du Midi. Durante la Convenzione, rimane nei Pirenei, fissando la sua residenza prima a Barèges poi a Gèdre; continua ad esplorare la catena, anche se le tensioni tra Francia e Spagna ostacolano i suoi movimenti. Finché nel gennaio 1794 viene arrestato come "elemento controrivoluzionario" e condotto nel carcere di Tarbes; rimarrà agli arresti per più di sette mesi, fino a novembre, rischiando anche la condanna capitale. Se ne salva grazie ad alcuni amici, tra cui l'illustre botanico Desfontaines. La difficile conquista del Mont Perdu Ora per Ramond de Carbonnières inizia una nuova vita, l'ennesima. Lasciatosi alle spalle l'ambizione politica, vuole essere solo scienziato. Così scrive a Philippe Picot de Lapeyrouse, colui che considera il suo maestro e la sua guida per la storia naturale dei Pirenei: "Non sono posseduto da alcuna ambizione [...]. Sono amico della natura e nient'altro. Non posso essere utile ai miei concittadini che sotto questa forma". Si stabilisce a Bagnères-de-Bigorre, ma Barèges, dove ora abita sua sorella che ha sposato il capo chirurgo del locale ospedale, continua ad essere il punto di partenza delle sue escursioni; arricchisce l'erbario, raccoglie campioni di rocce e fossili, disegna schizzi (è infatti anche un ottimo disegnatore), corrisponde con altri studiosi, tra cui Dominique Villars, grande esperto di flora alpina. Nel 1795, alla creazione della scuola centrale degli Alti-Pirenei a Tarbes, viene nominato professore di storia naturale, e si dedica al nuovo compito con grande serietà. Le sue lezioni entusiasmanti lo rendono presto popolare tra gli studenti, ai quali vuole trasmettere “non la scienza, ma il desiderio e il modo di apprendere”. Momento chiave di questo insegnamento sono le erborizzazioni e le escursioni in natura, anche di più giorni e anche in montagna. Non ha rinunciato al progetto di scalare il Mont Perdu; è convinto che l'unica via per raggiungere quella montagna proibita ("mai, da quando si dà un nome alle montagne, ce n'è stata una con un nome così appropriato") sia la valle d'Estaubé. Nell'estate del 1797 è pronto ad affrontare la sfida con due guide fidate e pochi allievi già esperti alpinisti, quando vede arrivare Picot de Lapeyrouse, che è venuto a Barèges a curarsi i reumatismi. Tra lui e Ramond c'è una disputa: entrambi concordano sulla natura calcarea della catena centrale dei Pirenei, ma mentre il primo pensa che non presenti tracce di fossili e dunque sia di orogenesi primitiva, il secondo ne dubita, convinto che l'ipotesi vada per lo meno verificata sul campo, e che la risposta la darà il Mont Perdu. Così l'11 agosto quello che parte da Barèges è un folto gruppo: Picot de Lapeyrouse, suo figlio Isidore, due allievi e il giardiniere della scuola centrale di Tolosa, due pastori che hanno già accompagnato Ramond in molte gite, Ramond stesso e quattro allievi della scuola centrale di Tarbes; uno di loro è Charles-François Brisseau de Mirbel, futuro padre della citologia vegetale. Da Gèdre il gruppo sale a Coumélie lungo un sentiero tortuoso; Ramond nota qui e là un fiore simile al colchico che annuncia già l'autunno. Lo ritiene un genere nuovo e lo battezza Merendera (oggi l'unico genere da lui creato non è accettato, ed è sinonimo di Colchicum); passano la notte in una grangia e Ramond ingaggia altre tre guide, due pastori di Coumélie e un cacciatore, che aveva fama di conoscere il Mont Perdu ("il fatto è che non ne sapeva niente più di noi"). All'alba del giorno successivo, procedendo lungo i pascoli, si dirigono verso la valle di Estaubé. In quel paesaggio imponente e severo, fioriscono in abbondanza i lunghi pennacchi di Saxifraga longifolia, di cui Lapeyrouse è stato il primo scopritore. Mano a mano che avanzano nella valle, il Mont Perdu sembra giocare a rimpiattino, sempre più nascosto da imponenti bastioni di roccia, fino a scomparire del tutto. Non si scoraggiano e continuano a salire, fino a giungere ai piedi del ghiacciaio mediano di Tuquerouye, dove incontrano un contrabbandiere che, finalmente, sembra saperne qualcosa, e consiglia loro di tornare indietro, ridiscendere e risalire da un'altra via; sono ore di marcia perdute, e Ramond propone ai suoi compagni una strada più diretta e audace: salire fino al ghiacciaio e attraversarlo. Il contrabbandiere approva, e presto si dilegua. Eccoli dunque risalire lungo la morena del ghiacciaio, fino a toccare la neve. La traversata è impegnativa, Lapeyrouse è sempre più in difficoltà, finché Ramond lo convince a fermarsi; lo lascia ad attenderli in compagnia della più fidata delle sue guide, mentre gli altri proseguono. Dopo un'ora di difficile marcia, ritrovano il contrabbandiere, caduto in un precipizio. Lo recuperano e lo uniscono a loro, anche se la disavventura nella quale ha perso, insieme alla piccozza, gran parte della sua sicurezza, semina la sconforto. Finché, superato il punto di massima inclinazione del ghiacciaio, la pendenza si addolcisce visibilmente e riprendono fiducia e slancio. Un grido di gioia annuncia il cambiamento di scena: la montagna, cinta da nubi, avvolta di ghiacci, separata da loro da abissi, si è degnata di mostrarsi, come "un Dio la cui presenza è sentita più che vista e che si manifesta in tutto ciò che lo circonda prima di rivelarsi". La cima è davanti a loro, ma è anche chiaramente irraggiungibile. Ramond e i suoi compagni decidono di esplorare il lago ghiacciato che si occupa una valletta ai piedi della montagna. Lo attraversano e sondano le rocce che lo circondano; dappertutto, trovano "vestigia di abitanti del mare. Sostanzialmente ostriche e una moltitudine di madrepore costituiscono la parte più appariscente di questi venerabili resti". Ormai è mezzogiorno, ed è tempo di ritornare. Pensare di trascorrere lì la notte, al freddo e senza viveri, per tentare la scalata il giorno dopo, sarebbe follia. Ramond, preoccupato per i suoi compagni, provati dalla salita, decide di scendere per la strada inizialmente indicata dal contrabbandiere, che nel frattempo si è ecclissato di nuovo. E' poco meno difficile e pericolosa. Ore dopo, più in basso, al Port de Pinède, ritrovano Lapeyrouse, che Ramond ha fatto avvertire del cambio di programma da una delle guide; gli mostra le sue scoperte che provano l'indubbia natura secondaria dell'asse dei Pirenei. Il vecchio scienziato è amareggiato e deluso e, anche se non cesseranno di corrispondere, continuerà a nutrire rancore verso il più giovane collega, cercando di sminuirne le scoperte. L'8 settembre, ancora con i suoi allievi e le due guide più fidate, Ramond ritorna al lago glaciale per tentare la scalata alla cima; devono di nuovo rinunciare, ma raccolgono altri fossili. Negli anni successivi, è impegnato in molte ascensioni lungo il massiccio, talvolta da solo, talvolta con Mirbel e altri allievi, o amici come Jean-Florimond Boudon de Saint-Amans, professore di storia naturale alla scuola centrale di Agen. Nel 1801, racconta le sue ascensioni ed espone la sua teoria generale sulla formazione dei Pirenei in Voyages au Mont-Perdu et dans la partie adjacente des Hautes-Pyrénées, un libro di grande precisione scientifica ma anche di lettura appassionante, in cui dietro lo scienziato si avverte la mano del poeta romantico. Il Mont Perdu è ancora inviolato. Lo rimane fino al 6 agosto 1802, quando le due fidate guide di Barèges, Rondo e Laurens, inviati in avanscoperta da Ramond, riescono a raggiungere la cima. Tre giorni più tardi vi guidano Ramond, che poi racconterà l'impresa in Voyage au sommet du Mont-Perdu in uno stile che Henri Beraldi ha definito "molto veni, vidi, vici". Lo stesso anno la sua fama di scienziato è consacrata dall'ammissione all'Institut de France (la vecchia Accademia delle scienze) nella classe di scienze fisiche e matematiche. Piante d'alta quota Dopo il colpo di stato di Napoleone, Ramond, molto stimato dal primo console, ha anche ripreso a fare politica. Dal 1800 al 1806 è deputato del corpo legislativo. Nei cinque mesi in cui avvengono le sedute, vive a Parigi; il resto dell'anno è ospite della sorella e del cognato a Barèges. Alle ricerche geologiche e botaniche, si sono aggiunti anche i rilievi barometrici, cui è stato iniziato dall'amico Bon-Joseph Dacier, conservatore della biblioteca imperiale. Nel 1806 Bonaparte lo nomina prefetto del Puy-de-Dome. Come funzionario, è serio ed efficiente come lo è stato come professore. Ma è ancora soprattutto uno scienziato, che fa rilievi barometrici dal balcone della prefettura, esplora i monti Dores, i monts Dômes e il massiccio del Sancy. Frutto di queste ricerche è Nivellement des Monts Dores et des Monts Dômes disposé par ordre de terrains (1815). Nel 1809 l'imperatore premia la sua fedeltà facendolo barone dell'Impero. Nel 1810, torna ancora una volta nei Pirenei e il 28 settembre scala per la 33 e ultima volta il Pic du Mid. La morte della sorella nel 1812, poi del cognato nel 1815, chiude definitivamente il capitolo Pirenei. Nel 1813 lascia la funzione di prefetto, e si stabilisce definitivamente a Parigi, con la giovane moglie, figlia dell'amico Dacier. Anche se durante i Cento giorni è nuovamente deputato, questo volta per il dipartimento di Puy-de-Dome, la Restaurazione lo lascia indenne, tanto che nel 1818 è nominato al Consiglio di Stato. Nell'estate nel 1821, torna in Alvernia e inizia alla geologia e alla botanica del massiccio centrale due giovani naturalisti parigini, Victor Jacquemont e Hippolte Jaubert. Ma è ancora dedicata ai Pirenei l'ultima memoria, Sur l’état de la végétation au sommet du Pic du Midi (1825). Muore a Parigi nel 1827. Anche se i suoi contributi più decisivi sono nel campo della geologia, Ramond è stato un appassionato botanico, fin dai tempi in cui ancora al servizio del cardinale di Rohan erborizzava a Saverne. Le narrazioni delle sue escursioni sono costellate di puntuali riferimenti alla flora; persino nei momenti più difficili, quando ciascuno di noi baderebbe più che altro a dove mette i piedi, non manca di osservare ed elencare le piante che si offrono al suo sguardo attento e innamorato. Il suo contributo principale alla botanica è ovviamente nello studio della flora di alta quota, là dove pochi erano andati ad erborizzare prima di lui. Gli si deve la scoperta di nove specie, sette delle quali endemiche dei Pirenei: Arenaria purpurascens, Asperula hirta (oggi Hexaphylla hirta), Festuca eskia, Leucanthemum maximum, Medicago suffruticosa, Scorzonera aristata, Pinguicola longifolia, scoperta durante una delle sue ascensioni al Mont Perdu. Le altre due sono Potentilla micrantha e Viola pirenaica, presenti rispettivamente nell'Europa centrale e meridionale e nelle montagne europee. Ad eccezione di Asperula hirta, pubblicata dallo stesso Ramond, furono tutte pubblicate da de Candolle, a cui egli aveva affidato le sue osservazioni e i fogli d'erbario. Ramond considerava il suo erbario l'oggetto più prezioso, il custode della memoria della sua vita: "Ora sono vecchio e mi riposo [...]. Diminuisco la mia biblioteca, e conservo solo ciò che è necessario per me e mio figlio, soprattutto il mio erbario, perché è la storia di mezzo secolo della mia vita. Adesso vivo con il mio erbario e i ricordi che lo accompagnano; al di fuori di questo, tutto mi è superfluo". Conservato in 68 sacchi di tela e donato dagli eredi alla Societé Ramond (creata nel 1866 per promuovere la scoperta naturalistica, storica, etnologica e sportiva dei Pirenei), dal 2003 è stato affidato al Conservatoire botanique nationale des Pyrénées et de Midi-Pyrénées, che ne ha curato la pubblicazione on line a questo indirizzo. Gioielli vegetali dai Pirenei e dai Balcani A celebrare il padre degli studi pirenaici non poteva che essere una pianta di quelle montagne. Nel 1805 Louis Claude Richard, nell'assegnare a un nuovo genere una pianta che Linneo aveva descritto come Verbascum myconi, la rinominò Ramonda pyrenaica, "così chiamata in memoria del celebre Ramond per i suoi meriti nell'osservazione delle piante pirenaiche". Qualche anno dopo Lapeyrouse nel suo Histoire Abrégée des Plantes des Pyrénées, forse memore dello sgarbo di Ramond, la ribattezzò Myconia borraginea. Troppo tardi. Il nome valido è quello di Richard, anche se ovviamente la specie ha recuperato il più antico eponimo linneano e oggi si chiama Ramonda myconi. E' una delle tre (o quattro) specie di questo genere della famiglia Gesneriaceae, diffusa soprattutto ai tropici, di cui, insieme a Haberlea e eventualmente Jancaea, è l'unico rappresentante europeo. Vestigio dell'epoca terziaria, quando il nostro continente godeva di un clima subtropicale, più caldo e umido, queste piante all'arrivo delle glaciazioni si sono rifugiate in enclave montane. R. myconi è stata a lungo l'unica specie conosciuta; è ristretta ai Prepirenei, ai Pirenei e alla catena costiera catalana, dove vive nelle gole calcaree e nelle valli umide di montagna. La sua scoperta risale addirittura al Cinquecento, quando venne raccolta nella montagna di Montserrat dal farmacista e botanico catalano Francisco Micó, che la comunicò a Jacques Dalechamps che a sua volta la pubblicò in Historia generalis plantarum sotto il nome Auricula ursi myconi. E' una piccola è graziosissima semoreverde rupicola, con foglie a rosetta e fiori viola che ricordano da vicino quelli della Saintpaulia. Verso la fine dell'Ottocento si aggiunsero altre due specie, scoperte in Serbia da Joseph Pančić, R. serbica e R. nathaliae. Entrambe vivono in habitat calcarei, ma hanno distribuzione diversa. R. serbica, scoperta da Pančić nel 1874 sul monte Rtanj, appartiene al bacino idrografico adriatico ed ha areale più ampio (Serbia, Albania; Montenegro, Macedonia, Grecia settentrionale, tra 200 e 1950 metri sul livello del mare); R. nathaliae, scoperta nel 1884 nella gola di Jelašnica presso Niš dallo stesso Pančić e dal medico di corte Sava Petrović, che la dedicarono alla regina di Serbia Natalija Obrenović, è ristretta alla Macedonia e ad aree adiacenti di Grecia, Serbia e Kosovo ed appartiene al bacino idrografico egeo. Le due specie sono molto simili, ma R. serbica ha foglie più romboidali con margini vistiosamente dentati o incisi, fiori più piccoli e meno numerosi portati su lunghi scapi, R. nathaliae foglie più arrotondate, fiori più grandi e scapi più brevi. Nel 1928 il botanico russo Pavel Černjavskij stava riordinando il suo erbario quando casualmente vi rovesciò sopra un bicchiere d'acqua; per rimediare al disastro, lasciò asciugare le carte e le piante per tutta la notte; al mattino dopo, scoprì che un esemplare di R. nataliae, che faceva parte della sua collezione da un anno e mezzo ed era totalmente disseccato, si era reidratato ed appariva vivo e vegeto. Pubblicò subito la scoperta sulla rivista della società botanica russa, con una conseguenza politica; da allora R. nataliae è stata scelta come simbolo della "resurrezione" della Serbia e del suo esercito dopo la Prima guerra mondiale. La rara particolarità di potersi disseccare completamente e di riprendersi alla prima pioggia, diffusa tra licheni, epatiche e muschi, ma rarissima tra le Angiosperme, è condivisa da tutte le specie del genere, anzi da tutte le Gesneriaceae europee; hanno sviluppato questa capacità per poter sopravvivere, nonostante la loro origine tropicale, in aree montane con estati secche e temperature invernali che scendono di molto sotto zero. Nel 1851, Theodor von Heldreich, all'epoca direttore dell'orto botanico di Atene, scoprì sulle pendici del monte Olimpo un'altra gesneriacea, di cui però non vide i fiori. Inizialmente Boissier la classificò come Haberlea heldreichii, poi, dopo la raccolta di esemplari fioriti, la trasferì a un genere proprio, Jancaea, in onore di Viktor Janka, curatore dell'erbario di Budapest ed esploratore della flora dei Balcani. Non tutti erano d'accordo: Alphonse e Casimir de Candolle la collocarono nel genere Ramonda, come R. heldreichii. Recentemente, l'appartenenza a Ramonda è stata supportata da dati molecolari; Plant of the World on line ne prende atto, riducendo Jancaea a sinonimo. Ma poiché la maggioranza dei repertori, inclusi il sito della Gesneriad Society e Flora of Greece on line, lo trattano ancora come genere a sé, così farò anch'io, soprattutto per poter dedicare un post a Janka. Nel 1696, il frate francescano Francesco Cupani pubblica lo straordinario Hortus Catholicus: è il catalogo delle circa 3000 tra specie e varietà che crescevano nello splendido giardino di Misilmeri, voluto da Giuseppe del Bosco principe di Cattolica. Accanto alle officinali di prammatica, c'erano le specie sicule, molte delle quali raccolte di persona da Cupani, assiduo esploratore della flora dell'isola, e le esotiche più rare, giunte in Sicilia grazie alla rete di corrispondenti italiani e europei abilmente coltivata dal botanico francescano. Rimase invece incompleta e inedita l'ultima opera di Cupani, l'ancor più grandioso Panphyton siculum. Il confratello Plumier volle ricordarlo con il genere Cupania, cui più tardi si affiancò Cupaniopsis. Al suo allievo Bonanno, che tentò di completarne l'opera inedita, è invece toccato il monotipico Bonannia. Un giardino straordinario e il suo catalogo Intorno al 1690, Giuseppe del Bosco, principe di Cattolica, decise di trasformare in orto botanico il Giardino Grande del suo palazzo di Misilmeri, a una quindicina di km da Palermo; già esistente almeno dal XV secolo, godeva di acque abbondanti grazie a una vicina sorgente. Non conosciamo nei particolari la genesi del progetto, che voleva anzitutto venire in soccorso delle genti bisognose del feudo attraverso la coltivazione di piante medicinali utili, ma è probabile che sia stato determinante l'incontro con il frate francescano Francesco Cupani (1657-1710), che da qualche anno si stava dedicando all'assidua esplorazione della flora siciliana. Nato a Mirto in provincia di Messina, come riferisce egli stesso nel prologo di Hortus Catholicus, Cupani inizialmente studiò medicina a Palermo, appassionandosi soprattutto di botanica; tuttavia a 24 anni entrò nel terzo ordine francescano, e lasciò lo studio della natura per la filosofia e la teologia, che in seguito insegnò prima a Verona poi a Palermo. La passione per le piante, relegata a svago marginale, si riaccese con forza al ritorno in Sicilia, alimentata dalla frequentazione di medici e speziali come Ignazio Arceri, medico del Regio nosocomio palermitano, e l'aromataro Nicola Gervasi (1632-1681), console del Collegio dei farmacisti e autore dell'Antidotarium Panormitanum Pharmaco-Chimico; di quest'ultimo, che Cupani definisce affettuosamente praceptor meus, "mio maestro", egli loda il giardino palermitano ricchissimo di piante rare. Ma la spinta determinante venne dall'esempio di Paolo Silvio Boccone, suo modello e assiduo corrispondente, che lo incoraggiò a proseguire le ricerche sulla flora indigena. Frutto di quattro anni di erborizzazioni, sfidando il caldo estremo dell'estate e i geli dell'inverno, è la prima opera edita di Cupani, Catalogus plantarum sicularum noviter adinventarum, pubblicata a Palermo nel 1692. Sono appena quattro pagine, con una lista di circa 150 piante in ordine alfabetico; secondo l'uso del tempo Cupani si avvale di nomi-descrizione polinomiali; ad esempio, l'attuale Euphorbia pithyusa subsp. cupanii figura come Tithymalus exiguus, pumilus, saxatilis, Portulaceae foliolis, flosculis rubentibus. A conclusione della lista, in una breve nota il francescano esprime la speranza di poter presto pubblicare le immagini delle piante, a meno che non lo faccia per lui il reverendo Silvio Boccone "famosissimo per la competenza erboristica", al quale ha inviato generosamente tutti gli exsiccata "mosso dall'onore della patria". Al momento dell'uscita del catalogo, il principe di Cattolica gli aveva già affidato la realizzazione del giardino di Misilmeri, in cui alle piante medicinali tanto native quanto esotiche si sarebbero affiancate ornamentali, piante esotiche rare, alberi da frutto e orticole. Per le piante medicinali e autoctone, il frate si avvalse della collaborazione di farmacisti ed erboristi come Pietro Citraro e Francesco Scaglione, nonché degli invii di numerosi corrispondenti che vivevano in parti dell'isola non esplorate di persona; ma continuò anche il lavoro sul campo, tanto che già nel 1694 fu in grado di stampare una seconda lista di piante siciliane, Syllabus plantarum Siciliae nuper detectarum, pubblicata sempre a Palermo, in cui le specie e varietà elencate sono salite a 300. Intanto il giardino cresceva grazie alla munificenza del principe, che lo trasformò in un luogo fatato con statue, fontane e addirittura uno zoo con animali esotici; lo circondava un muro coronato da oltre 600 vasi di piante esotiche, quasi un'anticipazione della ricchissima collezione di piante che racchiudevano. A farle arrivare in Sicilia fu una vasta rete di corrispondenti italiani ed europei che Cupani mise insieme forse con la mediazione iniziale di Boccone. Tra i corrispondenti più assidui troviamo infatti uno dei contatti di Padre Silvio, William Sherard, che a sua volta fece da tramite con botanici, appassionati e collezionisti britannici, gli inviò piante esotiche in cambio di semi siciliani, gli procurò libri (tra gli altri, Historia plantarum di John Ray). Determinante per la crescita del giardino fu poi Giovanni Battista Trionfetti, il curatore dell'orto botanico della Sapienza a Roma, che poté far giungere a Misilmeri le novità che affluivano a Roma grazie a gesuiti e sacerdoti viaggiatori. Tra i corrispondenti di Cupani troviamo molti altri grandi nomi della botanica del tempo: lo stesso Ray, Pitton de Tournefort, Caspar Commelin, i tedeschi Johann Georg Volkamer e Johannes Böhm. Questi scambi epistolari, oltre ad arricchire il giardino, consentirono al botanico siciliano di superare l'isolamento di una località periferica e di tenersi aggiornato sui progressi della botanica e sui grandi dibattiti del suo tempo, procurandosi i testi di riferimento indispensabili per catalogare le piante del giardino; nella nota di autorità premessa a Hortus Catholicus, egli elenca ben 90 titoli, tra i quali, oltre a testi già classici della botanica rinascimentale o del primo Seicento, troviamo libri di pubblicazione recente o recentissima, come il catalogo delle piante canadesi di Cornut (1635), Flora sinica di Boym (1656), la Centuria e il Prodromus di Breyne (rispettivamente 1678 e 1680), il catalogo delle piante olandesi di Jan Commelin (1683), i primi sei volumi di Hortus Malabaricus (1678-1686), il catalogo dell'orto botanico di Montpellier di Magnol (citato nella seconda edizione di Hortus Catholicus, e uscito lo stesso anno 1697). Come si vede, si tratta principalmente di cataloghi di orti botanici e di rassegne di flore esotiche: il problema principale che si poneva Cupani, come si evince anche dalla corrispondenza con Sherard, era infatti la corretta identificazione, per evitare di presentare come nuove piante già pubblicate in precedenza. Nonostante la grande mole di piante da identificare e descrivere, già nel 1696 Cupani fu in grado di dare alle stampe la prima edizione di Hortus Catholicus, accompagnata da un primo supplemento e seguita l'anno dopo da un secondo. E' un'opera imponente, che elenca circa 3000 tra specie e varietà; per le identificazioni e le denominazioni, Cupani rimase fedele all'insegnamento di Boccone, scegliendo una soluzione un po' datata: come punto di riferimento principale per l'identificazione dei generi (il concetto, anche se in modo ancora impreciso, si andava ormai affermando) si affidò all'autorità di Robert Morison, e al suo sistema basato sulla fruttificazione (che in qualche modo poteva essergli familiare, visto che anche Castelli, maestro del suo praeceptor Gervasi, si era basato sui frutti); per le specie e le denominazioni, oltre a Morison stesso, all'ancora più datato Pinax di Caspar Bauhin e all'Historia plantarum di Jean Bauhin. Come nelle liste precedenti, anche in Hortus Catholicus le piante si susseguono in ordine alfabetico, da Abies alba a Yucca. Per quelle già note, tipicamente Cupani parte dalla denominazione del Pinax, seguita, se differenti, da quelle di Jean Bauhin e di Morison; la voce si conclude (e questa invece è una novità) con il nome vernacolo siciliano, nel desiderio di allargare la conoscenza delle piante anche a chi non leggeva il latino. A mo' di esempio, ecco la voce iniziale (corrispondente a Abies alba Mill): Abies alba, seu foemina CBP [ovvero Caspar Bauhin Pinax], sive elate Thilia IB [ovvero Jean Bauhin], vulgo Erva di S. Filippu, o Arvulu cruci, Arvulu caccia diavuli. Ovviamente, se la pianta nel Pinax non compare, Cupani ricorre ad una o più altre autorità, ad esempio per l'attuale Hibiscus mutabilis L. a Paul Hermann, Morison e Ferrari: Althaea arborea, Rosea, Sinensis, flore multiplici HLB [Hermann, Hortus logduno-batavus], Althaea arborea, Sinensis Moris. Hist. 2 [Morison, Historia universalis Oxoniensis vol. 2], Rosa sinensis Ferrari Florae cult. vulgo Rosa Indiana. Per le piante non descritte in precedenza, Cupani usa una denominazione polinomiale, costituita dal nome generico seguito da uno o più epiteti. A tale proposito, si è spesso detto che egli abbia anticipato Linneo, facendo largo uso di nomi binomiali. Lasciando da parte i binomi ripresi da Bauhin (che a sua volta è ritenuto l'inventore dei nomi binomiali, ma non li usò in modo sistematico), vediamo se è vero con un esempio, tratto ancora dalla lettera A. Oltre a sei specie di Acetosa già descritte dai Bauhin e/o da Morison, Cupani ne descrive cinque nuove: "Acetosa Nebroides Arisari pallido-virenti folio", "Acetosa peregrina, lanceolata, vesiculis trigonis, venis sanguineis inscriptis", "Acetosa alienigena caule carens, sterilis, radice nimio reptatu, foecunda", "Acetosa lanceolato folio, e basi lata polyfido, Etnensis", "Acetosa montana angusto folio sagittae". Si tratta, evidentemente, di nomi descrizione polinomiali; anzi, nella secondo supplemento, Cupani esprime la sua perplessità di fronte a nomi troppo brevi che, egli teme, impedirebbero il riconoscimento proprio delle specie nuove. Per dirlo in altri termini, la separazione tra denominazione e descrizione, che Linneo stesso raggiungerà solo in Species plantarum, non è ancora avvenuta. Infatti, in Bibliotheca botanica, lo svedese collocò Cupani non certo tra gli innovatori o i sistematici, ma tra i curiosi, ovvero "coloro che raccolsero piante prima del tutto ignote o mal conosciute e le illustrarono con descrizioni e immagini". Il merito maggiore di Cupani sta ovviamente nell'esplorazione della flora siciliana, di cui fu instancabile raccoglitore e descrittore, segnando un passo avanti notevolissimo anche rispetto a Boccone. Da segnalare è anche l'attenzione alle produzioni agricole locali e soprattutto alle varietà delle piante fruttifere, che ne fanno un antesignano della pomologia: ad esempio, sono elencate e puntigliosamente descritte 35 varietà di mandorli, 48 di fichi, 45 di meli, 73 di peri, 48 di viti, 20 di limoni, 21 di aranci, 5 di cedri. Mentre scriveva Hortus Catholicus, Cupani già pensava a un progetto ancora più ambizioso: una vasta opera illustrata che avrebbe fatto conoscere al mondo la natura siciliana, descrivendo non solo le piante, ma anche gli animali, le conchiglie, i fossili, i minerali. Secondo quanto scrive nel prologo della prima edizione di Hortus Catholicus, intorno al 1696 il lavoro era già abbastanza avanzato: erano state incise 600 delle 800 lastre di rame previste (a pagarle fu evidentemente il generoso principe di Cattolica, che contava di trarre gloria europea dal munifico investimento); per quanto riguarda le piante era sua intenzione specificarne la denominazione secondo le indicazioni dei Bauhin e di Morison, il luogo di origine, le proprietà officinali, l'etimologia, i sinonimi in latino, il nome volgare, il segno celestiale, l'astro dominante e l'epoca più indicata di raccolta. Nel supplemento dell'anno successo, ci informa che ormai le lastre erano tutte pronte e il manoscritto a buon punto, tanto che contava, Dio volendo, di completarlo in pochi mesi. Ma, evidentemente, Dio non volle: il lavoro di raccolta e verifica si prolungò più del previsto e nel 1710 Cupani morì prematuramente, a poco più di cinquant'anni, lasciando l'opera incompleta. Torneremo più avanti sulla sorte di quell'opera sfortunata, per soffermarci sulle vicende successive del giardino di Misilmeri. Morto Cupani, che lo aveva fondato e diretto per quasi vent'anni, la direzione passò successivamente a due suoi collaboratori, Pietro Citraro e Francesco Scaglione. Nel 1714 ricevette la visita di Vittorio Amedeo II, appena divenuto re di Sicilia. Tuttavia nel 1721 Giuseppe del Bosco morì senza lasciare eredi diretti, e le proprietà e i feudi passarono al figlio di una sorella, Francesco Bonanno del Bosco. Nel corso del Settecento, i Bonanno sperperarono il patrimonio familiare. A risentirne fu anche lo splendido ma dispendioso giardino, via via sempre più trascurato. Intorno alla metà del secolo, ebbe ancora un sussulto, grazie all'arrivo da Padova dell'abile capo giardiniere Giovanni Maria Lattini, ma quando questi lasciò l'incarico, insoddisfatto del salario, il declino divenne inarrestabile. Nel 1785, all'atto della fondazione dell'orto botanico di Palermo, con il benestare del principe in carica, 2000 piante tra le più rare furono espiantate e traslate nel nuovo giardino, insieme a vasche di marmo, sedili di pietra e altro materiale. Da quel momento dell'antico Hortus Catholicus del principe Giuseppe del Bosco e di Francesco Cupani rimase solo il ricordo. Da Cupania a Cupaniopsis A testimoniare il ruolo di Cupani nella scoperta delle piante sicule sono le diverse specie che lo ricordano nell'epiteto, come Colchicum cupanii, Genista cupanii, Aira cupaniana e la già citata Euphorbia pithyusa subsp. cupanii. Tributo alla fama europea del giardino e del suo creatore è invece la dedica del genere Cupania da parte di Plumier, che cita il giardino "ricchissimo di piante fatte venire dalle più remote contrade del mondo" nonché il suo "ordinatissimo catalogo". Poi validato da Linneo, il genere Cupania, della famiglia Sapindaceae, esclusivo dell'America tropicale, dal Messico all'Argentina, con centro di diversità in Brasile, comprende circa 60 specie di alberi e arbusti, che vivono in vari habitat, dalle foreste stagionalmente aride alle foreste pluviali. Benché presentino sia fiori femminili sia fiori maschili sulla stessa pianta, sono funzionalmente dioiche e poligame, poiché i fiori staminati (maschili) e quelli nettariferi (femminili) si aprono in momenti diversi. Hanno foglie composte alternate, con nervature molto evidenti, generalmente coriacee, spesso con faccia superiore glabra e inferiore tomentosa; i fiori, piccoli, con cinque petali e cinque sepali, sono raccolti in grandi infiorescenze spesso molto ramificate e sono seguiti da capsule che contengono semi arillati. Tra le specie di maggiore diffusione, citiamo C. cinerea, originaria delle foreste umide dalla Costa Rica al Brasile, a volte coltivata come ornamentale; particolarmente notevoli i frutti, che a maturazione si aprono formano una stella coriacea con al centro semi neri avvolti in un arillo aranciato. Per la sua chioma elegante, è spesso utilizzata nelle alberature anche C. vernalis, diffusa dalla Bolivia al Brasile e all'Argentina settentrionale. A celebrare indirettamente Cupani, si è aggiunto il genere Cupaniopsis ("simile a Cupania"), stabilito da L.A.T. Radlkofer nel 1879. Anch'esso appartenente alla famiglia Sapindaceae, raggruppa una quarantina di specie di alberi e arbusti diffusi in Nuova Guinea, in Australia e nelle isole del Pacifico; ricorda Cupania per le foglie composte e i frutti a capsula. Purtroppo molte piante di questo genere, endemiche di piccole aree, sono minacciate, in pericolo di estinzione o addirittura già estinte, come C. crassivalvis della Nuova Caledonia, dichiarata estinta nel 1998. La specie più nota è l'australiana C. anacardioides, nota con il nome vernacolare tuckeroo. E' un piccolo albero originario delle foreste litoranee dell'Australia orientale e settentrionale. Più che al momento della fioritura, diventa spettacolare al momento della fruttificazione, quando produce grandi grappoli di capsule aranciate che si aprono in tre lobi, rivelando i semi scuri ricoperti da un arillo arancio brillante; sono appetiti da numerose specie di uccelli. Per la sua bellezza, anche questa specie è spesso utilizzata nelle alberature stradali, soprattutto nelle zone costiere vista la sua tolleranza alla salinità. Un'opera maledetta e una pianta tossica Per concludere, resta ancora da raccontare della sorte dell'ultima opera inedita di Cupani. Nel 1713, probabilmente per volontà del principe, sotto il titolo Panphyton siculum vennero stampate le sole immagini, con una tiratura di poche copie (se ne conoscono in tutto sette), per altro diverse tra loro, tanto da fare pensare a prove di stampa. I manoscritti furono invece affidati, perché li completasse e li preparasse per la stampa, al farmacista Antonio Bonanno, nei testi d'epoca spesso chiamato Antonino, figlio di Vincenzo, uno dei collaboratori di Cupani, e di una figlia di Nicola Gervasi (per questo motivo, è anche noto come Bonanno Gervasi). Bonanno riuscì a rivedere e predisporre un primo volume, con 187 tavole, che fu stampato nel 1719, ma lo stesso anno morì. Come abbiamo già visto, nel 1721 morì anche il principe, e con la sua morte ebbe fine ogni tentativo di pubblicare quell'opera sfortunata. I manoscritti furono ereditati da un'altra famiglia di farmacisti imparentata con i Bonanno, i Chiarelli, che custodirono gelosamente una copia di Panphyton Siculum in quattro volumi, appartenuta a Antono Bonanno con le sue annotazioni manoscritte, e 16 volumi di note manoscritte di Cupani. Desideravano pubblicarli, ma mancavano le risorse finanziarie. Il momento giusto sembrò arrivare quando entrarono in contatto con il botanico statunitense Rafinesque, che visse in Sicilia dal 1805 al 1815. Deciso a far risorgere il Panphyton, da lui ribattezzato Panphysis sicula, fece approntare copie delle incisioni e cercò di coordinare i suoi sforzi con quelli dei Chiarelli, ma poi anche lui dovette rinunciare. Nel 1815, quando ripartì dall'America, portò con sé le 121 tavole di incisioni che era riuscito a far preparare; al largo del Connecticut si inabissarono nelle acque dell'oceano, insieme alla biblioteca di Rafinesque e circa 60 casse di collezioni; il botanico salvò la vita, ma dovette ricominciare dal nulla. Non stupisce che egli abbia voluto ricordare il tentativo dell'altrettanto sfortunato Bonanno; nel 1814 pubblicò su un giornale siciliano, Specchio delle scienze, il genere Bonannia (Sapindaceae) con queste parole "Questo genere ha gran somiglianza con Cupania [...]; gli ho perciò dato il nome di Bonannia in onore di Antonino Bonanni Gervasi, discepolo ed illustratore del P. Cupani, e del P. Filippo Bonanni gesuita, autore di una conchilogia". Pubblicato su una rivista locale, il nuovo genere passò inosservato. Come nomen rejicendum, è oggi sinonimo di Blighia. Nel 1826, fu la volta del boemo Presl che in Flora Sicula creò un secondo genere Bonannia (Brassicaceae), in onore tanto di Vincenzo quanto di Antonio Bonanno "coetanei e discepoli del reverendo Cupani". Oggi è sinonimo di Brassica. Infine, nel 1843 Gussani in Florae Siculae Synopsis creò un terzo genere Bonannia (Apiaceae); anche se non lo cita esplicitamente, il riferimento a una tavola del volume curato da Bonanni, fa presumere che il dedicatario sia sempre lui; benché sia l'ultimo arrivato, fu accettato dalla comunità scientifica ed è tuttora valido come nomen conservandum. Si tratta di un genere monotipico, rappresentato dalla sola B. graeca, una rara erbacea dei pascoli montani aridi, presente in Sicilia dal Messinese al Palermitano, in Calabria nella Sila e nel Pollino e in poche località sparse in Grecia e nell'Egeo. E' un'erbacea perenne, alta fino a 30 cm, con foglie basali lanceolate e foglie cauline ridotte a guaine, e fiori gialli riuniti in ombrelle. Tutta la pianta emana una resina giallastra tossica, che può causare la morte degli agnelli. Paolo Boccone, che prese il nome di Silvio quando entrò nell'ordine cistercense, è uno dei più importanti botanici italiani del Seicento, certo il più noto a livello interazionale, grazie ai suoi viaggi, ai molti contatti, all'erudizione delle sue opere. Lo testimoniano i luoghi di pubblicazione, che vanno da Parigi a Oxford, da Amsterdam a Venezia, e i molti erbari che confezionò per i suoi protettori e mecenati, conservati a Lione, Parigi, Leida, Oxford, Innsbruck, Vienna, Breslavia. Il suo maggior merito fu attirare l'attenzione degli studiosi europei sulla peculiare flora siciliana, che fu uno dei primi ad esplorare. Plumier, che fu suo allievo a Roma, volle onorarlo con il genere Bocconia, poi validato da Linneo. Da Palermo a Parigi Il palermitano Paolo Boccone (1633-1704) fu una figura di caratura internazionale per le sue ricerche che, oltre alla botanica, toccarono la chimica, la mineralogia, la natura dei fossili, le eruzioni dell'Etna e molti altri argomenti. Eppure, la sua biografia è tutt'altro che chiara, e molte delle notizie che si ripetono su di lui mancano di prove: ad esempio, non è affatto provato che la sua famiglia fosse di nobili origini, né che si sia laureato a Padova, né tanto meno che abbia insegnato in quell'ateneo. Molto incerta è la cronologia della sua vita, in particolare dei viaggi che lo portarono a visitare molti paesi europei. Nacque a Palermo da una famiglia oriunda di Savona e si ritiene si sia avvicinato alla botanica, alla chimica e alla scienze naturali grazie alla frequentazione di Pietro Castelli e dell'orto botanico di Messina, ma neppure di questa notizia spesso ripetuta abbiamo alcuna evidenza; fu invece con certezza allievo del matematico Giovanni Alfonso Borelli, che conobbe a Messina e di cui intorno al 1655 seguì le lezioni a Pisa. Lasciata la Sicilia, continuò infatti gli studi a Perugia, a Padova e nella città toscana. Nella seconda metà degli anni '50 dovette fare la spola tra la Sicilia e la Toscana, dove sperava di inserirsi stabilmente alla corte del granduca. In effetti per qualche tempo divenne uno dei semplicisti di Ferdinando II; nel frontespizio di gran parte delle sue opere, non manca di ostentare questo titolo, usando formule diverse: "botanico del serenissimo duca di Toscana", "serenissimi magni Hetruriæ ducis Phylliatra", "Herboriste de Ferdinand II de glorieuse mémoire Grand-Duc de Toscane"; il suo compito principale doveva essere quella di raccogliere piante e semi per arricchire i giardini granducali, nonché gli orti dei semplici di Pisa e Firenze. Era però una posizione subordinata e poco soddisfacente (nella dedicatoria a Cosimo III di Recherches et observations naturelles del 1674 scrive più realisticamente "per qualche tempo ho avuto l'onore di essere uno degli erboristi del fu Monsignore vostro padre"); Boccone dunque si rassegnò a tornare in Sicilia, dove si fissò almeno dal 1663. Si sposò e cercò di conciliare gli impegni familiari (che egli definisce "noiosi", ovvero penosi e difficili) con le ricerche naturalistiche, specialmente con il "diletto di osservar piante", che lo portò a percorrere molte contrade dell'isola. Erano un oggetto di studio, ma anche un cespite d'entrate; nel 1668 a Catania pubblicò l'elenco di piante siciliane Manifestum botanicum de plantis Siculis, il cui scopo commerciale è palese nella riedizione dello stesso anno, Elegantissimarum plantarum cultoribus, nec non obseruatoribus perdoctis, quibus forte desunt infrascripta semina nunc recentia offeruntur, & communicantur honesto pretio per Paulum Boccone Panormitanum, ovvero un catalogo di semi offerti a studiosi e appassionati a giusto prezzo. Importante fu la frequentazione del pittore messinese Agostino Scilla, con il quale condivideva l'interesse per i fossili, la geologia, le specie marine e quelle strane forme che paiono al confine tra i regni della natura: coralli, madrepore, fossili marini, pietre a forma di conchiglia o di lingua. In questi anni risiedeva nella Sicilia orientale, tra Leontini, Messina e Catania, dove pubblicò i suoi cataloghi e il suo primo saggio naturalistico, Della pietra belzuar minerale Siciliana, dedicato a Giacomo Ruffo visconte di Francavilla e scritto sotto forma di lettera al farmacista bolognese Giacomo Zannone, uno dei suoi clienti e corrispondenti. Nel 1668 visitò Malta, dove stabilì qualche utile contatto, raccolse poche piante (nel libro sulla flora siciliana e maltese che pubblicherà qualche anno dopo a Oxford ne figurano solo tre e un fungo), ma molti fossili tra cui le ricercatissime glossopietre. Rientrò poi a Messina, dove fece escursioni e ricerche congiunte con Scilla. Ebbe anche modo di assistere all'eruzione dell'Etna, la più importante dell'epoca. Si trovava nell'isola ancora nel marzo 1669, come risulta da una lettera a Redi in cui accenna all'acquisto di semi per l'orto botanico di Pisa su incarico del granduca. La morte della moglie, avvenuta quell'anno, e la speranza di reinserirsi nell'ambiente toscano lo spinsero a lasciare l'isola. Nella seconda metà del 1669 era a Firenze, dove mostrò le sue collezioni al granduca, ma la morte di quest'ultimo nel maggio 1670 lo convinse a cercare fortuna altrove. Munito di lettere di presentazione dell'archiatra Giovanbattista Gornia, di altri medici toscani e del Gran Priore dell'ordine di Malta Valencé, si imbarcò per la Francia. Dalle raccolte botaniche, risulta che erborizzò nei dintorni di Marsiglia ed Aix e nell'Isola Ste Marguerite, di fronte a Cannes. Fu poi a Lione, dove è conservato uno dei suoi erbari e per tre mesi insegnò la bella arte della botanica a due distinte dame (come aveva già fatto in Italia con "gentiluomini di prima qualità"). Era sicuramente a Parigi all'inizio del 1671; infatti, secondo quanto egli stesso scrive nel curioso dialogo "Entretien d'un Seigneur de la Cour de France avec M. Boccone" che conclude Recherches et observations naturelles sur la production de plusieurs pierres, nell'aprile di quell'anno aveva iniziato a tenere nella sua casa parigina quelli che potremmo definire dei seminari in cui presentava le curiosità che aveva portato con sé dall'Italia e determinava le piante proposte dai partecipanti: ognuno era invitato a portarne con sé "fino a mezza dozzina, fresche o essiccate, per essere esaminate, scegliendole tra le più curiose e le più rare"; gli incontri si tenevano il giovedì all'una, ogni due settimane, e Boccone vi parlava “di piante, di animali, di pietre, di metalli, e di tutto ciò che di più raro e prezioso la natura racchiude nel suo seno”. Dal dialogo scopriamo anche che il botanico siciliano aveva portato con sé i semi di piante da offrire al Re cristianissimo per arricchire il Jardin du Roi, e a tal fine aveva preso contatto con il sovrintendente Vallot, che li aveva rifiutati, sostenendo che erano vecchi e non più vitali, anche se Boccone chiedeva di essere ricompensato solo per quelli che avrebbero germinato. Non era dunque un dono, ma una transazione commerciale. Il trattatello, stampato a Parigi appunto nel 1671, oltre al dialogo fittizio, contiene cinque saggi in forma di lettera su pietre dalle forme curiose, la pietrificazione di parti di animali e l'eruzione dell'Etna, che riproducevano in forma scritta le conferenze tenute da Boccone all'Accademia privata fondata dal medico del principe di Condé, l'abate Pierre Bourdelot. Seguì una seconda serie, intitolata Recherches et observations curieuses sur la nature du corail, con ulteriori cinque lettere sul corallo e alcuni pesci; nell'introduzione dell'editore si preannuncia la prossima uscita di un'opera illustrata totalmente dedicata alle piante. Rispetto a un opuscolo con poche immagini, si trattava di un'operazione editoriale decisamente costosa, che Boccone non poteva affrontare senza un mecenate. In realtà, proprio grazie a Bourdelot, ne aveva incontrato uno dal nome altisonante, appunto il gran Condé; ma il principe, in disgrazia per la sua partecipazione alla Fronda, era privo di ogni influenza politica e viveva lontano dalla corte, nella sua tenuta di Chantilly; Boccone dovette frequentarla con una certa assiduità e una sua erborizzazione è testimoniata dal Cahier de Chantilly, un quaderno di piccolo formato probabilmente di sua mano in cui le piante raccolte sono elencate utilizzando per lo più la nomenclatura del Pinax di Caspar Bauhin; la seconda parte del manoscritto è un erbario, non costituito da exsiccata, ma da impressioni ottenute inchiostrando esemplari secchi, una tecnica impiegata qualche anno primo anche da Fabio Colonna e perfezionata dallo stesso Boccone. Era invece un più tradizionale erbario di piante essiccate quello che Boccone avrebbe approntato per un altro principe reale in odore di Fronda, il botanofilo Gastone d'Orlèans, ugualmente conservato a Parigi; visto che il principe morì nel 1660, quando Boccone viveva ancora in Toscana ed era del tutto sconosciuto, è escluso che gli sia mai appartenuto, tanto più che contiene piante sicuramente raccolte da Boccone nelle Fiandre nel 1672; moltissimi esemplari sono invece comuni all'erbario del Principe di Condé, anche se non sappiamo quando e per chi il botanico siciliano preparò il cosiddetto "erbario di Gastone d'Orlèans". Un naturalista di fama europea Nel 1672 Luigi XIV si decise a riabilitare il gran Condé per servirsi del suo genio militare nella campagna contro l'Olanda. Una buona notizia per lui, ma non necessariamente per Boccone, che vide il suo principale protettore partire per il campo di battaglia. Forse il suo manoscritto, con le descrizioni delle piante raccolte in Sicilia, a Malta, in altre regioni italiane e in Francia e le illustrazioni a stampa diretta, era pronto, ma mancava chi lo finanziasse. Ma la cronologia si imbroglia di nuovo; non sappiamo quando abbia lasciato la Francia né se abbia visitato altri paesi, a parte una visita ad Anversa nel 1672. Di certo invece si trovava a Londra il 5 maggio 1673, giorno in cui presentò alla Royal Society, alla quale aveva donato un gabinetto di curiosità e una piccola natura morta di Agostino Scilla, una memoria su alcune pietrificazioni siciliane. Fu presumibilmente in questo ambiente che conobbe un gentiluomo appassionato di botanica e giardinaggio, Charles Hatton, che era stato allievo di Robert Morison e decise di inviare il manoscritto al suo maestro. L'arrogante Morison per una volta comprese pienamente il valore di quel materiale, e si diede da fare per prepararlo per la pubblicazione. Hatton, benché non fosse un nababbo, non fece mancare il sostegno finanziario, così nel 1674, per i tipi dell'Università di Oxford, uscì Icones et descriptiones rariorum plantarum Siciliae, Melitae, Galliae et Italiae, con la descrizione di un centinaio di piante (ci sono anche alcuni funghi), più della metà delle quali siciliane, e incisioni ricavate dalle immagini a stampa diretta; saltando i passaggi del dipinto e del disegno al tratto, i costi si riducevano di molto, ma i risultati, tranne che nei casi di piante minute o dalle forme lineari, lasciano spesso a desiderare; diverse immagini erano di qualità così bassa che Morrison le scartò e le sostituì con sette incisioni calcografiche, che furono pagate da Hatton così come la stampa. Con il libro fresco di stampa, Boccone ripartì alla volta dell'Olanda, deciso a farlo conoscere e cercare nuovi sponsor per stampare le sue opere erudite sulle curiosità naturali; sappiamo che pensò a Hieronymus van Beverningh, il protettore di Paul Hermann, visitò diversi gabinetti di curiosità, donò uno dei suoi erbari a Arnold Seyen, professore di botanica a Leida. Tra gli altri, incontrò il microscopista Johannes Swammerdam, perfezionando l'uso del microscopio che fu il primo ad applicare allo studio dei fossili. Incontrò anche il farmacista Johann Breyne, ma mancò il nipote Jacob, il collezionista e botanico di Danzica. Nel 1674 ad Amsterdam uscì Recherches et observations naturelles, che riprende ed amplia le pubblicazioni parigine e le comunicazioni alla Royal Society; le lettere, indirizzate ad eminenti esponenti della scienza italiana, francese, inglese e olandese, sono ora 29, e toccano argomenti disparati. In ogni caso, assicurarono la fama europea di Boccone. Sulle vicende successive e sulla data del rientro in Italia di nuovo la cronologia e i percorsi (ricavabili per lo più dai luoghi di raccolta delle piante citate in Museo di piante rare e da notizie sparse in varie opere) si fanno incerti e intricati. Forse tornò per qualche tempo in Francia, e certo sulla via del ritorno visitò il Delfinato e la Savoia (raccolse alla Grande Chartreuse e a Chambéry), varcò le Alpi al passo del Moncenisio, dove fece notevoli raccolte, quindi visitò il giardino reale di Torino. Fu poi la volta della Liguria, da dove passò in Corsica, visitata nel 1677. Nel 1678 era a Roma, dove ritrovò Agostino Scilla e frequentò l'accademia fisico-matematica fondata da Giovanni Giustino Ciampini, di cui condivideva il metodo sperimentale e lo spirito di ricerca. Lo si vedeva anche alle riunioni dell'Accademia reale voluta da Cristina di Svezia, cui donò l'ennesimo erbario. Passato per donazioni successive all'Istituto botanico di Genova, è probabilmente andato perduto durante la seconda guerra mondiale. Forse Boccone anche a Roma teneva lezioni ed accademie come quelle parigine; certo tra i suoi discepoli vi fu Charles Plumier, che in quegli anni studiava presso il convento dei minimi di Trinità dei monti. In questo stesso torno di anni, incominciò a corrispondere con Francesco Cupani, incoraggiandolo ad esplorare la flora siciliana. Non sappiamo come maturò la decisione, alla vigilia dei cinquant'anni, di abbracciare lo stato ecclesiastico. Nel 1682 entrò nell'ordine cistercense, assumendo il nome di Silvio (Sylvius) e svolgendo il noviziato a Firenze. Non per questo cessò di studiare e di viaggiare per raccogliere piante e oggetti naturali. Nel 1684 pubblicò a Bologna Osservazioni naturali, sempre sotto forma di lettere a medici e dotti soprattutto bolognesi e veneti, dedicate ad argomenti disparati, in cui sembrano prevalere gli aspetti più curiosi della natura, dai "fuochi naturali" di cui i contadini modenesi si servono per cucinare alle formiche o mosche odorose della campagne pisane. Delle piante si parla soprattutto per le proprietà farmacologico-terapeutiche, ma nella lettera 21 si disquisisce "delle cause della viridità perpetua di alcune piante in tutte le stagioni". Bologna non fu certo l'ultima tappa della sua vita errabonda. Nella biblioteca nazionale di Vienna sono conservati due piccoli erbari di Boccone, da lui dedicati "alla sacra maestà cesarea di Leopoldo Primo", in cui probabilmente sperava di trovare l'ennesimo mecenate. Il primo è intitolato "Piante originali e rare ostensive", è firmato Paolo Boccone ed è relativo alle piante di Icones et descriptiones; il nome secolare e il contenuto ci rimandano a una data precedente il 1682, forse addirittura agli anni francesi. Il secondo, intitolato "Piante dell'Austria", è invece firmato Silvio; sul recto di ciascun foglio sono incollate piante piuttosto comuni dei dintorni di Vienna, sul verso sintetiche indicazioni sul loro uso terapeutico, certamente di mano del botanico siciliano, di cui documentano il passaggio in Austria probabilmente negli anni '90. Sono gli anni in cui Boccone, con il nome onorifico di Plinius II, è ammesso all'Accademia curiosorum naturae di Halle, posta sotto l'alto patronato di Leopoldo I e ribattezzata Accademia cesarea leopoldina. Come risulta da Museo di piante rare, da Vienna si spostò a Brno, Bratislava, quindi potrebbe aver raggiunto Wroclaw, dove è conservato un altro erbario. Secondo una serie di documenti in gran parte inediti ritrovati dalla studiosa palermitana Floriana Giallombardo, i viaggi in Europa centrale si collocano tra il 1694 e il 1697. Ma era soprattutto di casa in Veneto. Nel 1694 fece raccolte in Dalmazia e nel 1697 pubblicò a Venezia Museo di fisica e di esperienze, l'ultima delle grandi opere miscellanee su svariati argomenti di scienze naturali, e Museo di piante rare della Sicilia, Malta, Corsica, Italia, Piemonte e Germania, la più ampia delle sue opere botaniche. L'impostazione è assai diversa rispetto alla sintetica opera oxoniense: le descrizioni delle piante, che rimangono brevi o brevissime, sono riunite in gruppi o decadi affini per qualche ragione (ad esempio, le analoghe proprietà medicinali, l'origine alpina, il profumo simile delle foglie) e si alternano a trattati più ampi, sotto forma di lettere aperte ad altrettanti dotti e mecenati. Le tavole, di buona qualità, non sono più alternate al testo, ma riunite nella seconda parte del volume; ne risulta un'opera corposa, di quasi 200 pagine di testo e 130 tavole calcografiche con 319 figure. È dedicato "ad alcuni nobili patritii Veneti protettori della botanica, e delle buone lettere", ovvero agli sponsor che aprirono la borsa per finanziare il bello e certamente costoso volume. Alle piante già pubblicate in Icones et descriptiones si sono aggiunte quasi duecento nuove specie; i nuclei principali di raccolta, il cui luogo è quasi sempre puntigliosamente indicato, sono il Moncenisio, le Alpi Apuane, la Corsica, l'Appennino modenese e la zona di Norcia/Monti Sibillini; frequenti pure le raccolte dei territori di Bologna, Roma e Padova. Se il grosso Boccone lo raccolse personalmente, qualche specie si deve a doni e invii di amici e corrispondenti; il gruppo più cospicuo gli fu donato dal domenicano francese Jacques Barrelier, che probabilmente Boccone conobbe a Parigi (e non a Roma, come scrivono alcuni). Nella prefazione, Boccone racconta che fu incoraggiato a pubblicarlo da William Sherard, che nel 1697 come lui si trovava a Venezia; quando gli mostrò le sue raccolte, l'inglese confermò che molte piante erano inedite. L'anno successivo, il volume fu recensito da John Ray sulle Transactions della Royal Society, che ne riconosce l'importanza ("ci offre una vasta collezione di piante rare, la maggioranza delle quali sono nuove e mai descritte"), ma rimarca tre difetti: le piante sono collocate senza alcun ordine o connessione; le descrizioni si limitano a pochi elementi, senza una sufficiente descrizione delle parti principali; mancano i sinonimi delle piante descritte da altri botanici; prosegue poi facendo le pulci a diversi passi specifici. Questa recensione agrodolce è comunque una carezza in confronto alla reazione di Antoine de Jussieu che accusò Boccone di plagio per aver pubblicato alcune piante raccolte da Barrelier (di cui per altri riconosce sempre apertamente la paternità). Dopo il grande exploit dei due Musei, Boccone dovette ritornare a Palermo; visse gli ultimi anni nella Abbazia di Santa Maria di Altofonte in Parco, a 5 km dalla città, divenendone anche priore; qui morì nel 1704. Come pioniere dello studio della flora siciliana, e più in generale mediterranea, gli è stata dedicata la rivista Bocconea, edita dalla fondazione internazionale Pro Herbario Mediterraneo. Una bella invadente Come scopritore di decine di specie inedite (intorno a 120), Boccone è ricordato dall'epiteto di numerose specie, dallo splendido Eryngium bocconei a Limonium bocconei, da Seseli bocconei a Hieracium bocconei. Il genere Bocconia si deve a Plumier che in Nova plantarum americanarum genera riserva a Boccone termini assai elogiativi: "Il reverendo padre Dom Silvio Boccone, in precedenza Paolo Boccone, nobile gentiluomo palermitano, celeberrimo in tutto il mondo letterario per le sue opere sia botaniche sia naturalistiche, che dopo aver contemplato molte parti del mondo terrestre, si accinge a meditare su quello celeste, essendo stato accolto nell'ordine cistercense a Firenze". Non fa cenno di esserne stato allievo, ma confermò la circostanza all'amico Garidel. Fatto proprio da Linneo, il genere Bocconia (Papaveraceae) riunisce una decina di specie di arbusti e piccoli alberi, diffusi nei Caraibi, in Messico e in Sud America. Hanno rami sottili, grandi foglie lobate o dentate, piccoli fiori apetali raccolti in pannocchie terminali; i rami spezzati emanano un latice giallastro o arancio, con proprietà antidolorifiche; dalla corteccia di alcune specie si ricava invece una tintura gialla. La specie più nota e diffusa è B. frutescens, nativa del Messico, delle Antille e di parti del centro e del Sud America, dove si trovi in habitat diversi, dalle foreste aride a quelle umide, incluse quelle nebulose, nonché in terreni disturbati. E' un grande arbusto o piccolo albero, alto fino a sei metri, molto ramificato, con rami sottili e intricati, che portano all'apice gruppi di grandi foglie profondamente lobate. Benché i fiori siano privi di petali, le grandi infiorescenze a pennacchio risultano piuttosto decorative. Per questo, intorno al 1920 è stata introdotta come pianta da giardino nelle Hawaii, dove si è rivelata una pericolosa infestante. Produce infatti una grande quantità di piccoli frutti, mangiati e dispersi dai semi, e cresce in fretta, sottraendo luce e nutrienti alle piante native. Non fa invece più parte del genere B. cordata, trasferita al genere Macleaya come M. cordata. |
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November 2024
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