Da qualche anno incontra un crescente successo anche nei nostri giardini Muhlenbergia capillaris, una graminacea a fioritura tardiva, abbastanza insignificante fino a fine stagione, quando esplode in una sorprendente nuvola di aerei fiori rosa. Potrebbe essere un involontario ritratto vegetale del reverendo Henry Muhlenberg, placido pastore luterano e pioniere della botanica americana, che scelse la via del modesto raccoglitore della flora locale (mettendo insieme un catalogo di oltre mille specie, tutte rigorosamente raccolte nel raggio di tre miglia da casa) e propugnò il progetto di una flora nazionale, nata dalla collaborazione e dal confronto tra i botanici. Solo in tarda età, quando vide che a prevalere erano invece l'ambizione e le rivalità personali, si decise a pubblicare un lavoro che considerava poco più di un indice di quella flora cooperativa. Addirittura postuma uscì la sua opera più importante, dedicata alle sue piante preferite: carici e graminacee. E' dunque giusto che a celebrarlo siano le graminacee del genere Muhlenbergia, i cui numerosi rappresentanti negli Stati Uniti sono chiamati affettuosamente muhly. ![]() Conflitti tra vocazioni Dopo le turbolente vicende di Frederick Pursh, parlare di Henry Muhlenberg è come contemplare un placido lago dopo aver affrontato le rapide di un torrente. Anche lui vantava un doppio nome ed era di origine tedesca, ma le analogie finiscono qui. Il suo nome ufficiale era Gotthilf Heinrich Ernst, ma preferiva il più colloquiale Henry. Apparteneva a una delle famiglie più influenti della importante comunità tedesca e olandese della Pennsylvania; il padre Henry Melchior (nato Heinrich Melchior Mühlenberg, 1711-87) era il fondatore e il patriarca della Chiesa luterana negli Stati Uniti; i due fratelli maggiori, John Peter Gabriel e Frederick August, furono importanti uomini politici; il primo, generale dell'Armata continentale, era un eroe nazionale, la cui popolarità presso gli "olandesi" di Pennsylvania era seconda solo a quella di Washington. Anche nelle generazioni successive, fino ai nostri giorni, questa famiglia ha continuato ad essere illustrata da uomini di Chiesa e politici, scienziati, architetti e filantropi (se vi incuriosisce, qui trovate l'albero genealogico). Quando aveva solo nove anni, Henry fu mandata a studiare in Germania, a Halle, insieme ai fratelli maggiori, per ricevere un'adeguata istruzione che li avrebbe preparati alla carriera ecclesiastica cui li destinava il padre. Qui rimase dieci anni e studiò lingue antiche, filosofia, teologia; anche se la città vantava un prestigioso orto botanico e una secolare tradizione medica, non sembra che al momento il ragazzo se ne interessasse. Rientrò in patria nel 1770 e fu immediatamente ordinato sacerdote (aveva solo 17 anni), divenendo prima assistente del padre poi pastore a Filadelfia. Nel settembre del 1777 la città fu occupata dalle truppe britanniche; temendo rappresaglie per l'impegno patriottico dei fratelli maggiori, Henry preferì rifugiarsi nella casa paterna a Trappe, dove trascorse un anno di esilio forzato durante il quale incominciò a interessarsi delle piante locali. Uomo prudente e metodico, prese ad annotare le sue osservazioni in un diario di campo (scritto in grafia minutissima in un misto di tedesco colloquiale, inglese e latino, ha messo a dura prova gli studiosi) e a confrontarle con quanto poteva leggere nella letteratura sulla flora americana. Questo studio da autodidatta continuò quando venne nominato pastore a Lancaster, una località a circa 100 km da Filadelfia, dove servì fino alla morte per ben trentacinque anni. Inizialmente il suo interesse andava soprattutto alle piante medicinali, di cui sperimentava le virtù su se stesso, la sua numerosa famiglia (ebbe otto figli) e la comunità. Esplorava le campagne dei dintorni, raccogliendo semi che poi seminava nel giardino di casa, sempre annotando scrupolosamente le sue osservazioni. Si attirò così anche i rimproveri del padre, che avrebbe preferito si occupasse meno delle piante e più dei parrocchiani. La botanica era vista come un hobby, una passione un po' frivola, che non doveva distoglierlo dai compiti pastorali e didattici (nel 1789 divenne il primo presidente del Franklin College). Per almeno un decennio, Muhlenberg continuò ad osservare e analizzare la flora locale, sempre più consapevole del rischio di errori di identificazione vista la carenza di testi di riferimento. Infatti a quel tempo erano disponibili ben poche opere sulla flora delle colonie americane, nessuna delle quali si occupava specificamente della Pennsylvania: Natural History of Carolina, Florida and the Bahama Islands di Mark Catesby (1729-31), Flora virginica (1739-1743) di Gronovius, cui nel 1788 aveva fatto seguito Flora Caroliniana (1788) di Thomas Walter. Il pastore-botanico giunse così a compilare un Calendario delle fioriture delle piante locali e una lista di circa 1100 piante spontanee e coltivate che crescevano nel raggio di 3 miglia da Lancaster, presentata nel 1791 alla American Philosophical Society. Molte potevano essere specie nuove, ma per saperlo con certezza era necessario entrare in contatto con gli studiosi europei che, avendo accesso ai grandi erbari, avrebbero potuto aiutarlo a identificare e denominare correttamente i suoi esemplari. Determinante in questa decisione fu l'incontro con Johann David Schoeppf; questi, medico militare delle truppe dell'Assia stanziate presso New York durante la guerra d'indipendenza, dopo la fine del conflitto aveva ottenuto il permesso di rimanere nel paese e nel corso di vari viaggi esplorò la flora da New York alla Florida. Incontrò anche Muhlenberg, che lo accompagnò in alcune escursioni e condivise con lui le sue osservazioni sulle piante medicinali. Tornato in patria, Schoeppf pubblicò Materia medica americana (1787), senza neppure ringraziarlo. Tuttavia lo mise in contatto con il celebre naturalista Johan Christian Schreber, più tardi presidente dell'Accademia Leopoldina (cui anche Muhlenberg fu ammesso poco dopo), il quale a sua volta lo inserì nella rete dei grandi naturalisti europei, con i quali Muhlenberg scambiava piante, semi, esemplari e osservazioni naturalistiche. ![]() Un progetto di flora cooperativa A suscitare l'interesse dei corrispondenti europei erano soprattutto le nuove specie di briofite, caricacee e graminacee scoperte dal nostro pastore. I suoi invii furono determinanti ad esempio per gli studi sulle felci di Olaf Schwartz. A capire pienamente il valore delle sue ricerche fu però soprattutto Willdenow, il direttore dell'Orto botanico di Berlino, che nel 1801 pubblicò negli annali della Società di scienze naturali una serie di osservazioni di Muhlenberg sui generi Juglans, Fraxinus e Quercus, accompagnati dalle proprie descrizioni e note in latino: in tal modo, queste denominazioni di Muhlenberg, a differenza di quelle della lista del 1791, prive di descrizioni, risultano pienamente valide e sono entrate nella tassonomia botanica. Nel 1803 seguì un altro saggio sui salici. Numerose sono poi le specie segnalate da Muhlenberg pubblicate da Willdenow nella sesta edizione di Species plantarum (1798-1826) , tra cui numerosi carici. La fama e il prestigio di Muhlenberg in Europa è testimoniata anche dalla visita che gli fecero Humboldt e Bompland nel 1804, al ritorno dal loro viaggio in Sud America. Se nella prima parte della sua vita, la rete di corrispondenti di Muhlenberg includeva soprattutto studiosi europei, dopo l'indipendenza divennero sempre più numerosi gli americani, nell'ambito di un grande progetto che egli riuscì solo in parte a realizzare. In un discorso letto nel febbraio 1791 alla American Philosophical Society propugnò una Flora della nuova nazione che avrebbe dovuto nascere non dal lavoro di un singolo, geniale, studioso, ma dalla collaborazione di molti raccoglitori e uomini di scienza: "Ripeto il desidero che ho già espresso: alcuni connazionali istruiti dovrebbero unirsi nelle ricerche botaniche, e spedire alla nostra Società le loro Flore per essere esaminate e eventualmente pubblicate; in tal modo, dall'unione delle Flore di ciascun stato, potremmo avere una Flora degli Stati Uniti, basata su osservazioni valide e certe". Raccolse qualche adesione: tra le più entusiastiche, quelle di un altro pastore, Manasseh Cutler, che contribuì con le sue ricerche in varie aree del New England; William Baldwin, con raccolte in Georgia e Florida; Stephen Elliott, che contribuì per la Virginia occidentale. Ma, in generale, l'intuizione precorritrice di Muhlenberg cadde nel vuoto, mentre si moltiplicavano le flore scritte da botanici stranieri come Michaux, Pursh e Nuttall, in uno spirito di accesa competizione e di ricerca di gloria personale totalmente opposto al sogno "cooperativo" di Muhlenberg. Fu questa situazione, infine, a deciderlo a uscire dal riserbo e a pubblicare egli stesso Catalogus Plantarum Americae Septentrionalis or A catalogue of hitherto known native and naturalizes plants of North America, che include 3780 specie, raccolte grazie al contributo di 28 corrispondenti (scrupolosamente elencati nella prefazione). Nella speranza che mani più forti e abili delle sue, come ebbe a scrivere a Baldwin, completassero il lavoro, si tratta ancora una volta di una lista molto succinta, in cui utilizzò solo in parte il tesoro delle sue annotazioni botaniche, rimaste manoscritte. Unica eccezione, la parte dedicata alle amate graminacee e caricacee, pubblicata postuma dal figlio Frederick August in Descriptio Uberior Graminum et Plantarum Calamariarum Americae Septentrionalis Indiginarum et Cicurum (1817), un'opera di grande importanza storica perché numerose piante native vi vengono descritte per la prima volta. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Le nuvole rosa di Muhlenbergia Dipinto dai suoi contemporanei come un uomo amabile, ospitale, generoso, pieno di humor e calda simpatia (tratti evidenti anche ai nostri occhi grazie alle sue numerosissime lettere), benché abbia pubblicato così poco Muhlenberg fu riconosciuto già dai contemporanei come il vero padre della botanica americana, salutata da Baldwin come "il Linneo del nostro paese". Non mancarono dunque i riconoscimenti: numerosi botanici, tra cui Elliott, Gray, Torrey, Grisebach e Schwarz, gli dedicarono almeno una specie e Schreber, il suo primo corrispondente tedesco, battezzò in suo onore Muhlenbergia un genere di Poaceae (1789), omaggio adattissimo a questo grande esperto di erbe. Questo grande genere di graminacee comprende circa 150 specie di erbe diffuse in Asia e nel continente americano, soprattutto nel Stati Uniti sudoccidentali e in Messico. Molte delle numerose specie nordamericane hanno grande importanza ecologica come specie dominanti di praterie e pascoli montani. Native per lo più di ambienti desertici e semidesertici, sono piante poco esigenti che si adattano a suoli poveri e alla siccità, caratteristiche che, unite al notevole impatto estetico durante la fioritura, le stanno rendendo sempre più popolari nei giardini. Da noi la specie più nota è sicuramente la vistosa M. capillaris, caratterizzata da aeree infiorescenze che a fine estate e a inizio d'autunno la trasformano in una nuvola rosa, purtroppo non del tutto rustica; altre acquisizioni più recenti che stanno raggiungendo anche i nostri giardini sono M. reverchonii, più piccola e meno vistosa della precedente, ma anche più rustica; M. lindheimeri con fogliame verde azzurro e una fontana di spighe verde-argento, decorativa anche in inverno per i semi persistenti; M. dumosa con fusti eretti e finemente ramificati che la fanno assomigliare a un bambù, tanto che in America è detta Bamboo muhly. Muhly è infatti l'affettuoso nomignolo con cui le specie di questo genere sono note negli Stati Uniti. Altre specie sono presentate nella scheda.
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Alla fine, le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark non furono pubblicate né da B.S. Barton né da nessun altro botanico americano, ma in Inghilterra dal tedesco Frederick Pursh (nato Friedrich Pursch). Uno smacco per l'orgoglio nazionale degli Stati Uniti, appena usciti malconci dalla guerra del 1812 contro la perfida Albione. Insieme alla rivalità con altri botanici, primo fra tutti Thomas Nuttal, sta forse qui l'origine della leggenda nera che ha dipinto Pursh come mentitore seriale, plagiario, tassonomista mediocre e temerario, barbaro dalle fattezze tartare e, soprattutto, ubriacone senza speranza. Sicuramente la sua fu una vita inquieta e errabonda, conclusa precocemente nella miseria e nell'alcolismo. Rimangono a ricordarlo Flora Americae Septentrionalis, la prima flora del Nord America a comprendere specie continentali, raddoppiando il numero delle piante nordamericane fino ad allora pubblicate, e il genere Purshia, coraggioso e splendido ornamento dei monti e dei deserti del Nord America occidentale, il cui primo esemplare, ancora una volta, fu raccolto durante la spedizione di Lewis e Clark. Può essere ironico che, a celebrare un uomo accusato di essere troppo dedito alla birra, siano piante che non temono gli ambienti più aridi. ![]() Un inquieto botanico di talento Le vicende americane di Fredrick Pursh si intrecciano continuamente con quelle dei diversi personaggi che, in vario modo, ebbero a che fare con le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark: Thomas Hamilton, Bernard McMahon, il professor Barton, lo stesso Lewis. E alla fine fu proprio lui a pubblicarle per primo, nei due volumi di Flora Americae Septentrionalis, usciti a Londra tra la fine del 1813 e l'inizio del 1814. Tedesco, era nato a Großenhain in Sassonia nel 1774 con il nome di Friedrich Trauttgott Pursch; si era poi trasferito a Dresda, come apprendista giardiniere del Reale orto botanico, dove aveva ricevuto ottime basi teoriche da Johann Heinrich Seidel. La collaborazione a una flora dei dintorni della città gli permise di acquisire anche qualche esperienza editoriale. Spirito inquieto e avventuroso, nel 1799 lasciò la Germania per gli Stati Uniti, dove servì successivamente come giardiniere presso diversi privati tra Baltimora e Filadelfia. Nel 1803 Thomas Hamilton lo assunse come giardiniere capo di Woodlands, in sostituzione di John Lyon. Poté così conoscere i numerosi naturalisti e botanici che frequentavano la casa, tra cui Henry Muhlenberg, William Bartram e Benjamin Smith Barton; desideroso di liberarsi del lavoro nelle aiuole per dedicarsi completamente all'esplorazione e allo studio delle piante, nel 1805 lasciò anche Hamilton per passare al servizio di Barton, come curatore dell'erbario e raccoglitore. Per suo conto, intraprese infatti alcune spedizioni, in cui si mosse a piedi, con la sola compagnia di un cane, la prima delle quali, tra aprile e novembre 1806, lo portò in Virginia e sulle montagne tra le Caroline e la Georgia. Nel frattempo, a Filadelfia incominciavano ad arrivare le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark, gli essiccata affidati per volontà del presidente Jefferson alla American Philosophical Society in vista della pubblicazione da parte di Barton, e i semi a Hamilton e McMahon. Ma il lavoro di Barton, secondo la sua abitudine di molto progettare e poco concludere, non faceva alcun progresso. Fu così che, probabilmente dietro suggerimento di McMahon, nell'aprile 1807 Lewis incontrò Pursh e, impressionato dalla sua competenza, gli chiese di illustrare le "sue" piante, dietro il compenso di 60 dollari. Poco dopo, Pursh partì per la sua seconda escursione botanica, che lo portò sulle montagne tra Pennsylvania e Vermont in direzione dei grandi laghi. Di ritorno a Filadelfia a ottobre, si stabilì a casa di McMahon e lavorò tutto l'inverno ai disegni, e presumibilmente anche alle descrizioni, visto che da parte del professor Barton, che avrebbe dovuto occuparsene, non si registrava alcun progresso. Lo scontento di Pursh verso il dilatorio professore cresceva. Nel 1809, probabilmente anche in questo caso grazie alla raccomandazione di McMahon, fu assunto come curatore dell'Elgin Botanical Garden di New York, appena fondato da David Hosack. Lasciando Filadelfia, portò con sé i disegni, le descrizioni e i doppioni dell'erbario della spedizione (compreso qualche esemplare che aveva "sezionato" per avere un proprio campione), forse già con l'intenzione di pubblicare le piante in proprio, decisione probabilmente rafforzata dalla tragica morte di Lewis, avvenuta nell'ottobre 1809. Neppure a New York il nostro inquieto botanico si trattenne a lungo; nel 1810 visitò le Indie Occidentali, anche per ragioni di salute, e nel 1811, viste anche le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Gran Bretagna, che sarebbero sfociate nella guerra del 1812, partì per Londra. A spingerlo a questo passo, oltre alla speranza di trovare uno sponsor e un editore, la possibilità di consultare le biblioteche e gli erbari di numerosi botanici che avevano esplorato la flora nordamericana prima di lui. Nella capitale inglese Pursh trovò il protettore che cercava nella persona di Aylmer Bourke Lambert, vicepresidente della Linnean Society, grande collezionista di erbari e esperto di conifere (il suo nome è ricordato da Pinus lambertina). Dunque, con grande smacco dei botanici americani, le piante della grande spedizione "nazionale" di Lewis e Clark furono finalmente pubblicate a Londra da un tedesco. Prima di esaminare meglio Flora Americae Septentrionalis, un cenno alle successive vicende di Pursh. L'opera gli procurò una certa fama almeno in Inghilterra, se subito dopo gli venne affidata la cura dei cataloghi di alcuni giardini botanici; ma egli non era tipo da accontentarsi di un tranquillo lavoro editoriale. Desiderava ripartire e riprendere la ricerca sul campo. Nel 1814 respinse l'invito a dirigere il neo istituito orto botanico dell'Università di Yale; nel 1816 accettò invece quello di lord Selkirk di aggregarsi come botanico al nuovo insediamento del Red River in Canada. Partito dall'Inghilterra nel febbraio di quell'anno, si trovava già in Canada quando il progetto fallì in seguito all'assassinio del capo della spedizione, Robert Semple. Nei quattro anni che gli restavano da vivere, povero, senza alcun sostegno ufficiale e afflitto da problemi crescenti di alcoolismo, Pursh fece diverse escursioni botaniche nel paese, in particolare nel bacino del San Lorenzo e nell'isola di Anticosti, con l'intenzione di scrivere una flora del Canada. Aveva già raccolto circa 1000 esemplari, quando tutta la sua collezione fu distrutta in un incendio. Era l'ultimo colpo alle sue speranze. Morì a Montreal, ad appena 46 anni. Una sintesi di questa vita inquieta nella sezione biografie. ![]() Un'opera importante e molte polemiche Arrivato a Londra presumibilmente nel novembre 1811, ospite di Lambert, Pursh si mise immediatamente al lavoro. Già nel febbraio 1812 scrisse a James Edward Smith, proponendogli di pubblicare sulle Transactions della Linnean Society una relazione sulle piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark. Con l'incoraggiamento di Lambert, che gli fece aprire le porte delle biblioteche e delle collezioni di Banks e Smith, il progetto si ampliò a una flora dell'America settentrionale. Con una certa disinvoltura, senza il permesso dei raccoglitori, Pursh incominciò ad includervi non solo le specie di Lewis e Clark e quelle raccolte da lui stesso nel corso delle escursioni fatte al servizio di Barton e Hosack, ma anche le piante di cui era venuto a conoscenza grazie alla liberalità di Muhlenberg e di altri amici con i quali aveva erborizzato (senza né citarli né ringraziarli). Una disinvoltura che spiacque allo stesso Smith, il quale, a quanto pare, quando seppe in che modo Pursh era venuto in possesso degli esemplari raccolti da Lewis e Clark, non solo rifiutò di pubblicarli, ma evitò di venire a trovarsi nella stessa stanza con lui. Nella primavera del 1812, Pursh incontrò Nuttall, suo successore come raccoglitore di Barton, che gli mostrò le sue collezioni. Inoltre, in seguito a complesse circostanze, erano pervenuti a Lambert i duplicati delle collezioni dell'inglese John Bradbury, che nel 1811 aveva raccolto insieme a Nuttall lungo il fiume Missouri e poi da solo oltre Fort Mandan. Senza il permesso dell'autore (intrappolato dalla guerra negli Stati Uniti), Pursh decise di includere nella sua opera un'appendice con quaranta piante inedite raccolte da Bradbury. Anche Nuttall si lamentò in tal senso; tuttavia, poiché egli aveva ripercorso parte dell'itinerario di Lewis e Clark, raccogliendo le stesse piante, questa accusa è forse infondata. Tramontata la possibilità di pubblicare il suo lavoro sulle Transactions, Pursh si rivolse al Botanical Magazine, un mensile con il quale collaboravano sia lui sia Nuttall, in quella che divenne quasi una gara per la primogenitura. I due volumi di Flora Americae Septentrionalis uscirono ufficialmente il 10 gennaio 1814, ma poiché la stampa era stata completata qualche settimana prima, già a dicembre alcune copie vennero distribuite a personaggi influenti in vista della presentazione nella riunione mensile della Linnean Society. L'opera contiene la descrizione di 470 generi e 3076 specie, cui va aggiunto il supplemento con le 40 specie di Bradbury; tra di esse, quelle raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark sono 132; solo 24 sono illustrate da disegni eseguiti dallo stesso Pursh a Filadelfia. Benché preceduta di pochi anni da Flora Boreali-Americana di André Michaux (1803) e seguita quasi immediatamente da The Genera of North American Plants di Thomas Nuttall (1818), l'opera di Pursh riveste una notevole importanza storica. Rispetto alla flora del francese, che rendeva conto delle piante degli Stati atlantici, allarga il campo a molte specie continentali, sia delle Montagne rocciose sia della costa pacifica; inoltre la precedenza cronologica rispetto a Nuttall ha imposto molte delle sue denominazioni. Tra i generi da lui creati, vorrei ricordare Calochortus e soprattutto Lewisia e Clarkia, in onore dei due capi della celebre spedizione; tra le specie, Gaillardia aristata, Arbutus menziesii, Gaultheria shallon, Euphorbia marginata, Ribes sanguineum, Philadelphus lewisii, Linum lewisii. Inutile dire che i botanici americani non la presero affatto bene. Tra i più drastici, Constatine Samuel Rafinesque che nella sua recensione del 1819 segnalò 43 errori macroscopici e così si espresse: "L'ignoranza presiede tutta l'opera. Gli errori, gli spropositi, le denominazioni improprie che la costellano sono innumerevoli. Cambiare un nome buono con uno cattivo è un'assurda temerarietà. Eppure a tale temerarietà inclina Mr. Pursh; vorrei però avvisare tanto lui quanto chi volesse seguire la sua autorità, che sarebbe meglio tornasse a scuola, e imparasse l'abc della botanica, come fanno i bambini quando imparano l'alfabeto". Non mancarono dicerie sulla persona stessa di Pursh; già Barton aveva diffuso la fama della sua propensione all'alcool. John Francis, un amico di Hosack che soggiornò a Londra negli anni in cui vi viveva Pursh, disse di lui: "E' il peggiore nemico di sé stesso: è ubriaco al mattino, a mezzogiorno e alla sera". Un aneddoto, probabilmente falso, vuole che, per vedere Flora Americae septentrionalis finita, Lambert fosse costretto a chiuderlo a chiave nell'attico che gli aveva messo a disposizione con gli esemplari, libri, carta, inchiostro, cibo e birra. Un altro contemporaneo che lo incontrò a Montreal lo descrisse come un uomo brillante, sicuramente entusiasta della botanica, ma incolto, tagliato con l'accetta, con fattezze tartare, un barbaro nativo della Russia (una diceria che dovette essere diffusa, se si pensa che nei necrologi usciti in Canada è definito "il celebre botanico Frederick Pursh, nato in Russia"). ![]() Purshia, rose dei deserti Tra le piante della spedizione di Lewis e Clark, Pursh descrisse un arbusto raccolto lungo il Columbia River come Tigarea tridentata. Nel 1816, de Candolle riconobbe la sua appartenenza a un genere proprio, che battezzò Purshia in onore del nostro discusso botanico, la cui opera, al di là dei metodi disinvolti e degli innegabili errori, fu comunque una pietra miliare nella storia della botanica americana. Lo dimostrano anche le successive dediche di un genere Purshia da parte di due botanici tedeschi, Sprengel (1817) e Dennstedt (1818). A essere valido, per la regola della priorità, è quello di de Candolle. Purshia DC. della famiglia Rosaceae comprende 5-8 specie di arbusti endemici dell'America nordoccidentale, dal British Columbia in Canada al Messico settentrionale. Crescono in ambienti aridi sia di montagna sia delle steppe desertiche temperate. Sono arbusti o anche piccoli alberi con foglie piccole, profondamente lobate, e fiori molto decorativi con cinque petali più o meno separati bianchi, gialli o rosa e vistosi stami gialli. I frutti sono acheni piumati, che vengono facilmente dispersi dal vento. Molto resistenti alla siccità e adattabili ai suoli poveri grazie ai noduli sulle radici che ospitano i batteri azoto-fissatori Frankia, sono piante pioniere, spesso con un ruolo di specie dominante. Il genere oggi comprende anche le specie meridionali un tempo incluse in Cowania. La specie a più ampia diffusione è quella descritta da Pursh, Purshia tridentata, una specie montana con delicati fiori giallo pallido che può diventare un alberello alto fino a cinque metri. Il nome inglese antelope bush, antelope bitterbush sottolinea la sua importanza nell'alimentazione di Antilocapra americana e altri ungulati. Le radici amare erano usate dai nativi come medicinale, mentre dai semi veniva ricavata una tintura violacea. Di notevole importanza ecologica anche Purshia stansburyana, nativa dell'Ariziona e del Messico settentrionale, le cui fronde forniscono un'eccellente pastura a molti ungulati selvatici, inclusi alce, cervo mulo e bighorn del deserto. I suoi fiori bianchi dai grandi petali la fanno assomigliare a una rosellina; poiché il suo habitat preferito sono le rocce, su cui si abbarbica grazie alle profonde radici, è infatti detta cliffrose. Stansbury's cliffrose. Ulteriori informazioni sulle altre specie nella scheda. Subito dopo l'indipendenza, il più bel giardino d'America era Woodlands, alla periferia di Filadelfia, creato dal ricco proprietario terriero e collezionista d'arte William Hamilton che, a quanto pare, vi faceva coltivare circa 10.000 specie tra native ed esotiche. Jefferson, che ammirava Woodlands e lo considerava il solo giardino al di qua dell'Oceano a poter competere con quelli britannici, volle che nelle sue aiuole e nelle sue serre venisse coltivata e moltiplicata una parte delle piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark. Il nostro protagonista, tuttavia, non è Hamilton (gli furono dedicati ben tre generi, ma nessuno oggi valido), bensì il sovrintendente di Woodlands, il giardiniere scozzese John Lyon, che, dopo qualche anno trascorso a lavorare qui, si trasformò in un infaticabile cacciatore di piante indipendente, al quale Aiton in Hortus Kewensis attribuisce l'introduzione in Europa di oltre trenta specie. Tra le più note oggi, Phlox paniculata e Pieris floribunda. Assai affine a Pieris è Lyonia (Ericaceae), il genere che ne preserva il ricordo. ![]() Dalle aiuole alle montagne del Nord America Al ritorno da un viaggio in Europa, in gran parte dedicato a visitare parchi e giardini britannici, il facoltoso proprietario terriero e collezionista William Hamilton (1749-1813) decise di far ricostruire la casa padronale della tenuta di Woodlands, nei pressi di Filadelfia, secondo lo stile di Adam; anche il parco venne ridisegnato secondo i canoni del giardino paesaggistico d'oltre Oceano. In pochi anni, le collezioni di piante, native o fatte venire dall'Europa, dall'Asia e dal Sud Africa, giunsero a comprendere diecimila specie. Nel 1807 Jefferson, grande ammiratore di Hamilton (Woodlands sarà uno dei modelli di Monticello), chiese a McMahon, cui aveva affidato i semi raccolti durante la spedizione di Lewis e Clark, di dividerli equamente con lui, per aumentare le possibilità di riuscita, vista l'esperienza e i mezzi di Hamilton. Quest'ultimo, del resto, era già in relazione con i due esploratori, che nel 1804 gli avevano inviato da Fort Mandan alcune talee di Maclura pomifera (arancio degli Osagi). Sappiamo che Hamilton ricevette i semi di almeno 19 specie, che includevano diverse varietà di Ribes e il tabacco selvatico Nicotiana quadrivalvis. Un anno dopo, egli informava il presidente che non tutti i semi erano germogliati, mentre le piante di Maclura prosperavano. Dopo la morte di Hamilton, quella magnifica collezione andò rapidamente in rovina; una parte del parco fu venduta dagli eredi e intorno al 1840 molto di ciò che rimaneva venne trasformato in un cimitero rurale; è un luogo affascinante e caro ai cittadini di Filadelfia, ma certo molto diverso rispetto ai suoi anni d'oro. Molte informazioni sulla sua storia in questo sito. Ma il nostro protagonista non è Hamilton; certamente questo patrono dei giardini attirò l'attenzione dei botanici che gli dedicarono ben tre generi Hamiltonia: nel 1806 il conterraneo Muhlenberg, nel 1824 Roxburgh, nel 1838 Harvey; nessuno dei tre oggi è però valido. Dunque la nostra attenzione si sposta su una figura forse più interessante, e sicuramente più simpatica: il sovrintendente, o capo giardiniere, di Woodlands, lo scozzese John Lyon. Nulla sappiamo della sua vita prima che fosse assunto da Hamilton nel 1785; ignoriamo persino se si trovasse già in America, o se abbia incontrato il futuro datore di lavoro in patria. Ci mancano notizie anche sul primo decennio trascorso a lavorare a Woodlands; la nostra principale fonte informativa è infatti il suo diario di campo, che inizia nel 1799. E' probabile che in quei sedici anni egli già affiancasse alla cura del giardino - di cui fu evidentemente il principale realizzatore - escursioni nei dintorni, per incrementare le collezioni di piante native. Il primo viaggio documentato è proprio di quell'anno, quando Hamilton lo inviò sugli Allegheny della Pennsylvania alla ricerca di Pyrularia pubera, una pianta emiparassita con semi oleosi e tossici di potenziale interesse farmacologico, che il collezionista non era riuscito fino ad allora a far germinare. La spedizione si concluse con un nulla di fatto. E' possibile che già allora Lyon mordesse il freno; preparato, intelligente, industrioso e di spirito indipendente, incominciava a sentirsi soffocare al servizio di un uomo arrogante, esigente e imperioso, tanto più che la figura sociale del capo giardiniere in America non godeva della stessa considerazione sociale che forse aveva potuto sperimentare in patria. A partire dal 1802, e per i successivi dodici anni, non avrebbe mai cessato di viaggiare, dapprima per conto di Hamilton, poi in proprio. Erano viaggi faticosi e pieni di insidie, in zone spesso poco conosciute e non segnate sulle carte. Lyon si muoveva a cavallo, alloggiava talvolta all'aperto, ma più spesso in locande o presso case ospitali; portava con sé provviste minime, carta per gli esemplari pressati, mentre le collezioni di radici e semi andavano crescendo. Gli incidenti non mancarono: fu morso da un cane rabbioso e dovette curare da sé la ferita infetta cauterizzandola con un ferro rovente; si intossicò gravemente raccogliendo semi del velenoso Rhus michauxii; affrontò una bufera così forte da abbattere gli alberi; perse più volte il cavallo. Viaggiava per lo più da solo, ma spesso faceva tappa presso altri botanici o appassionati, che talvolta gli facevano da guida o lo accompagnavano per qualche tratto. I suoi viaggi, in tutto dieci, lo portarono ad esplorare buona parte degli Stati centrali e meridionali dell'America atlantica, in particolare, oltre alla Pennsylvania e alla Virginia, le due Caroline, la Georgia e la Florida settentrionale, con una predilezione per le montagne che fanno da confine tra North Carolina e Tennessee; solo un viaggio lo portò a Nord, verso i grandi laghi. Tra i luoghi ricorrenti, dove si fermava presso amici, cui spesso affidava le sue raccolte o preparava i materiali per le spedizioni, Silk Hope, in North Carolina, dove abitava l'amico Stephen Elliott, che fu anche suo compagno di viaggio in diverse occasioni; le città portuali di Savannah in Georgia e Charleston nella Carolina del Sud, da dove spediva per nave a Filadelfia le sue raccolte; Nashville e Asheville, rispettivamente in Tennessee e North Carolina, punto di partenza per l'esplorazione delle amate montagne; Lancaster, tappa obbligata sulla via del ritorno per visitare l'amico Henry Muhlenberg. Le spedizioni più ampie e importanti sono probabilmente quelle del 1803-1804 e del 1807. Durante la prima Lyon percorse 2250 miglia, giungendo fino in Florida e esplorando anche, oltre a diverse aree montane, buona parte della costa e delle isole della Georgia. Proprio durante questo viaggio, nel 1803, fu l'ultima persona a vedere in natura alcuni esemplari di Franklinia alatamaha (e potrebbe avere qualche responsabilità nella sua estinzione). Durante la seconda, percorse 2500 miglia, muovendosi lungo le montagne sui confini tra North Carolina e Tennessee (dove sarebbe tornato altre volte e sarebbe morto); tra i suoi ospiti, la colonia morava della Cherokee Country, e tra gli incontri notevoli, quelli con Moses Fisk, pioniere degli insediamenti nel Tennessee, e con il pastore e botanico Samuel Gottlieb Kramsch. Una narrazione più dettagliata dei suoi viaggi nella vita. ![]() Collezioni di piante e spirito imprenditoriale Lyon è una figura interessante anche perché si distacca dagli altri cacciatori di piante per la sua indipendenza e intraprendenza. Mentre i suoi colleghi erano finanziati da sovrani, istituzioni pubbliche, mecenati oppure, sempre più spesso, lavoravano per qualche ditta commerciale, Lyon era un libero professionista che si assumeva le spese e i rischi e provvedeva da sé alla vendita delle sue raccolte. Probabilmente lasciò Hamilton (per il quale tornò a lavorare occasionalmente anche in seguito, ma solo come giardiniere) nella seconda metà del 1803; nel frattempo era stato sostituito con Frederick Pursh. Da quel momento, Lyon prese a creare una propria collezione, con l'obiettivo di commercializzarla in Inghilterra. In natura raccoglieva piante vive (in quantità che a noi fanno accapponare la pelle, come le 200 radici di Podophyllum di cui fece incetta nel 1804 in Georgia), ma ancora più semi; questi ultimi erano destinati alla vendita, ma anche alla riproduzione. In effetti, alla fine del 1804 il giardiniere avrebbe voluto imbarcarsi per l'Inghilterra, ma non trovando un imbarco si fermò a Filadelfia per quasi un anno, dedicato a seminare e curare le plantule da portare con sé in patria. A tal fine, si appoggiò al vivaista David Landreth (fondatore nel 1784 della più antica ditta sementiera statunitense), da cui affittò una parte del vivaio. Alla fine del 1805 Lyon poté finalmente imbarcarsi per Londra, via Dublino. Nella capitale inglese dimostrò ottime capacità imprenditoriali; per vendere le sue piante, si affidò non solo a una clientela privata, ma a un'asta pubblica, pubblicizzata con annunci su sette giornali e con la stampa di un catalogo, in cui le piante nuove (sp. nova!) sono ben evidenziate. Forte di questo successo, ritornò subito in America, dove investì i guadagni in nuovi viaggi, che si mossero principalmente lungo le predilette montagne tra North Carolina e Tennessee. Dopo cinque anni di fatiche aveva creato una seconda, ancora più ricca, collezione, che portò con sé in Inghilterra nell'inverno 1811-12. La clientela inglese fu impressionata dalla qualità e dalla quantità dell'offerta, anche questa volta venduta con un'asta pubblica (ce n'è rimasto il catalogo). L'infaticabile Lyon tornò quasi immediatamente in America, dove fece ancora due viaggi nei luoghi prediletti; ammalatosi probabilmente di febbre gialla, si spense a Asheville (North Carolina) nel 1814. Non conosciamo il luogo della sua sepoltura, ma i parenti gli eressero una lapide nel cimitero di Dundee, dove è ancora conservata. Nelle testimonianze dei contemporanei, l'importanza del suo contributo all'introduzione delle specie americane in Europa appare imponente. Secondo la seconda edizione di Hortus Kewensis, redatto da William T. Aiton, le specie nuove messe in vendita nel 1806 e nel 1812 sono 31; spesso non si tratta davvero di novità (molte erano già arrivate in Europa, in particolare grazie ai Michaux che avevano raccolto nelle stesse aree), ma piuttosto di reintroduzioni, rese però disponibili da Lyon in modo ben più massiccio. Nell'elenco figurano tra l'altro (uso le denominazioni attuali) Desmanthus illinoensis, Amsonia tabernemontana var. salicifolia, Asclepias pedicellata, Calycanthus floridus var. glaucus, Dicentra eximia, Hamamelis virginiana, Iris fulva, Cliftonia monophylla, Calycocarpum lyonii, Tradescantia subaspera. Ho lasciato volutamente per ultime le introduzioni più importanti e durature: Phlox paniculata, Pieris floribunda e Magnolia macrophylla (ma potrebbe trattarsi di una specie affine che vive nelle stesse aree, Magnolia fraseri var. pyramidata). Entrambe sono oggi considerate relativamente rare in natura, forse anche a causa del contributo di Lyon, che nel suo viaggio del 1809 in North Carolina ne raccolse ben 3600 esemplari. Amabile Lyonia
In questo atteggiamento predatorio verso la natura, Lyon era un figlio del suo tempo, e lo perdoneremo, tanto più che, come abbiamo visto, pagò di persona il suo accanimento di cacciatore di piante indipendente con la fatica, le malattie, la solitudine e infine con la morte precoce. La puntigliosa registrazione delle entrate e delle uscite annotata nel diario ci dice anche che, se la sua impresa non fu in perdita, neppure gli assicurò un largo guadagno. Come al suo datore di lavoro, anche a lui furono dedicati tre omonimi generi Lyonia; nel 1808 da Rafinesque; nel 1817 dall'amico Elliott; nel 1818 da Nuttall. Per una volta ad essere accettato da botanici è il più recente. Questa la dedica: "Per commemorare il nome del fu Mr. John Lyon, un raccoglitore infaticabile del Nord America, che cadde vittima di un'epidemia perniciosa in mezzo a quelle montagne selvagge e romantiche che erano state tanto spesso teatro delle sue fatiche". Numerose sono poi le specie che lo ricordano nel nome specifico, come Chelone lyonii o Rosa carolina var. lyonii. Lyonia Nutt. (famiglia Ericaceae) comprende circa 35 specie di piccoli alberi o arbusti diffusi nelle boscaglie dell'area himalayana, in Asia orientale, nel Nord America e nelle Antille. E' molto affine a Pieris, in cui in passato è anche confluito (oggi studi molecolari ne confermano l'indipendenza). Decidue o sempreverdi, le piante di questo genere hanno foglie alternate, intere, coriacee e lucide e graziosi fiori penduli tubolari o a forma di urna raccolti in racemi terminali, solitamente bianchi. Tra le specie americane vale la pena di ricordare L. ligustrina, nativa degli Stati Uniti orientali dal Maine alla Florida, notevolmente adattabile ad ambienti diversi e capace, grazie ai rizomi, di resistere agli incendi (molto frequenti nelle pinete in cui vive abitualmente); L. mariana, sempre degli Stati Uniti orientali, usata dai Cherokee come pianta medicinale, e oggi minacciata in Pennsylvania e Connecticut; L. lucida, la specie più nota e diffusa, raccolta anche da Lyon, presente nelle pianure costiere degli Stati Uniti orientali dalla Virginia alla Florida e alla Louisiana e nell'isola di Cuba, con graziosi fiori penduli cilindrici portati su rami arcuati, bianchi, ma anche rosa o rossi. Sono tutti arbusti, mentre può diventare un vero albero l'asiatica L. ovalifolia, diffusa nell'India himalayana, in Cina e in Giappone. Una curiosità: un tempo Lyonia viveva anche in Europa. Alcuni frutti fossili di †Lyonia danica, attribuiti al Miocene medio, sono stati infatti trovati nello Jutland centrale (Danimarca). Qualche approfondimento nella scheda. Acquisita l'indipendenza politica, gli Stati Uniti incominciano ad emanciparsi dal passato coloniale anche sul piano culturale e scientifico. Nel campo delle scienze naturali, figura chiave di questo momento di passaggio tra una scienza ancora eurocentrica e una scienza autenticamente americana è Benjamin Smith Barton, titolare della prima cattedra statunitense di botanica e scienze naturali; autore del primo manuale di botanica, Elements of Botany; istruttore di Lewis in preparazione della grande spedizione nel Nord Ovest; finanziatore dei viaggi botanici di Pursh e Nuttall. Dunque un padre fondatore a tutti gli effetti; ma anche una figura controversa, con una biografia segnata da vicende poco chiare, promesse mancate, opere annunciate e mai finite, senza parlare del pessimo carattere. Ambizioso e desideroso di gloria, nei suoi ultimi giorni provò conforto nel pensare che la sua memoria sarebbe stata preservata dal nome di una delle più belle specie delle praterie americane; la regola della priorità l'ha invece legato per sempre a un'altra Bartonia, una pianta minuscola e insignificante, in una sorta di giustizia poetica. ![]() Un padre fondatore delle scienze naturali americane... I primi passi della scoperta della natura dei territori che diverranno gli Stati Uniti d'America si muovono in un'ottica ancora coloniale; europei sono i primi esploratori (come John Tradescant e John Clayton); quando John Bartram inizia i suoi viaggi, lo fa per soddisfare le esigenze di clienti britannici; ancora nei primi anni dell'indipendenza, il massimo protagonista dell'esplorazione botanica dell'America atlantica sarà il francese André Michaux. Europei erano anche i modelli teorici (prima quello di Linneo, poi quello di Jussieu) e i libri di testo, tutti regolarmente importati dal vecchio continente. Ma anche la scienza americana era desiderosa di emanciparsi e di acquistare la sua indipendenza; un processo di cui senza dubbio una delle figure chiave è Benjamin Smith Barton, titolare della prima cattedra universitaria di botanica degli Stati Uniti e autore del primo manuale di botanica, Elements of Botany, consulente di Jefferson che gli chiederà di istruire sulla natura e sui nativi il capitano Lewis, in preparazione della prima autentica spedizione naturalistica americana. Nel 1803, quando incontrò Lewis, Barton aveva appena pubblicato il suo manuale e, a soli trentasette anni, poteva già vantare una brillante carriera accademica. Gli inizi, tuttavia, era stati quanto meno imbarazzanti. Proveniente da una famiglia che vantava altri naturalisti (i più noti sono lo zio materno David Rittenhouse, eminente astronomo, e William P.C. Barton, anch'egli botanico e autore di Flora of North America), dopo aver seguito i corsi di medicina a Filadelfia, nel 1786, quando era appena ventenne, si spostò a Edimburgo con l'intenzione di laurearsi in quella prestigiosa università. Ambizioso e brillante, affascinante parlatore, con le sue conversazioni su popoli e piante native americane fu accolto con entusiasmo in quell'ambiente avido di esotismo; fu presto ammesso alla Royal Medical Society, di cui anzi divenne uno dei presidenti annuali, e ottenne un premio per un articolo sul giusquiamo nero (Hyosciamus niger); tuttavia dopo due anni, senza aver conseguito la laurea, lasciò precipitosamente la città. Secondo la vulgata familiare, era entrato in conflitto con alcuni insegnanti; visto il suo carattere ombroso, è più che possibile, ma a spingerlo alla fuga fu un prestito da parte della Medical Society che non poteva o non voleva onorare. Di lì passò in Germania. Quando nell'autunno del 1789 rientrò in patria senza alcun titolo universitario, si sparse la voce - che Barton non fece nulla per smentire, se non la diffuse egli stesso - che si fosse laureato presso la celebre Università di Gottinga. In ogni caso nei registri della Philosophical Society cui fu ammesso quello stesso anno il suo nome compare seguito dal titolo abusivo di "dottore in medicina". Sempre nel 1789 iniziò a praticare la professione medica e soprattutto gli venne assegnata la cattedra di storia naturale e botanica al Philadelphia College, due materie inedite nel curricolo universitario statunitense; incarico confermato due anni dopo, quando il Philadelphia College si fuse con l'Università di Pennsylvania. Nel 1790 fu ammesso al Collegio medico di Filadelfia; nel 1792 divenne membro dell'American Arts of Science; nel 1796, alla morte del precedente titolare, fu chiamato a reggere anche la cattedra di materia medica. A questo punto, essere privo di un titolo accademico poteva essere assai rischioso, tanto più che contava non pochi nemici; Barton cominciò così a sollecitare i suoi contatti europei per ottenere una laurea honoris causa; alla fine, pochi mesi prima che assumesse l'incarico, il sospirato titolo arrivò da una delle più oscure università tedesche, quella di Kiel. In ogni caso, Barton riuscì ad agire in modo così discreto che questa storia è stata scoperta solo intorno al 1970; fino ad allora, tutti - compresi gli storici - avevano presa per vera la laurea a Gottinga. Nonostante questo esordio fortunoso, Barton divenne presto una figura eminente del naturalismo americano. Come primo insegnante di storia naturale e botanica del suo paese, teneva affollate lezioni cui partecipavano non solo gli studenti di medicina, ma anche un pubblico di curiosi, comprese molte signore, che il professore sapeva affascinare toccando gli aspetti più diversi della natura americana. Divenne la figura centrale di un circolo di naturalisti che comprendeva anche il celebre raccoglitore William Bartram e il botanico Henry Muhlenberg. Anche grazie allo zio, David Rittenhouse, che era succeduto a Franklin come presidente della società, divenne il membro più giovane della American Philosophical Society, di cui poi fu vicepresidente dal 1802 al 1816; della società fu uno dei membri più attivi, pubblicando numerosi articoli che nel 1804 gli guadagnarono il Premio Magellano. Nel 1803 fondò la Philadelphia Linnean Society, di cui fu il primo presidente; dal 1809 alla morte fu anche presidente della Philadelphia Medical Society. Abile gestore della propria fama, seppe anche ingraziarsi i potenti in patria come all'estero. Era in corrispondenza con molti naturalisti europei, tra cui Banks (cui dedicò Elements of Botany); quanto a Jefferson, tra lui e il presidente esisteva un legame speciale da quanto gli aveva dedicato il genere Jeffersonia (come ho raccontato in questo post). Scrisse moltissimo (oltre che di medicina e botanica, di zoologia, mineralogia, geologia, antichità e lingue indiane, di cui fu un grande cultore), soprattutto articoli brevi che pubblicò dapprima nelle Transactions dell'American Philosophical Society, poi in Medical Physical Journal, la rivista medica che fondò e diresse per molti anni. Come ho anticipato all'inizio, nel 1803 uscì la prima edizione della sua opera più nota, Elements of Botany, il primo manuale di botanica scritto negli Stati Uniti, un testo di successo che raggiunse le sei edizioni, tre delle quali durante la vita dell'autore. Importante anche Collections for an Essay towards Materia Medica of the United States, che nella terza edizione (1810) descrive oltre un centinaio di piante officinali native e le loro proprietà mediche. Tra i suoi contributi più interessanti, vale anche la pena di citare A discourse on some of the principal desiderata in natural history: and on the best means of promoting the study of science in United States, letto da Barton nel giugno 1807 alla Linnean Sopciety, in cui tracciò un lucido programma di ricerca per gli scienziati della nuova nazione; per limitarci alla botanica, poneva tra i principali obiettivi lo studio delle crittogame, l'attenzione alla distribuzione geografica delle piante, gli studi comparativi, le acquisizioni dei nativi sulle piante medicinali e alimentari. E' dunque logico che Jefferson abbia inviato proprio a lui Lewis, perché gli aprisse le porte degli studiosi di Filadelfa (cosa che Barton non fece, o fece con riluttanza) e gli impartisse un corso accelerato di botanica e zoologica. Il professore non solo insegnò al capitano come raccogliere, conservare correttamente e etichettare gli esemplari, ma decise che doveva assolutamente partire anche lui, o almeno accompagnare la spedizione per un tratto. A questo punto va detto che egli, come riferisce a denti stretti il nipote e biografo William, soffriva di quello che oggi chiameremmo disturbo bipolare, sempre oscillante tra esaltazione e depressione; a ogni nuova occasione, a ogni nuovo soggetto di ricerca, si entusiasmava e si lanciava in vasti progetti, salvo poi abbandonarli per noia non appena dall'ideazione bisognava passare alla realizzazione concreta. L'idea di partire con Lewis sarà stato dunque un sogno, un fuoco fatuo tipico del suo carattere, che probabilmente egli stesso - un valetudinario cronico che soffriva di tubercolosi e di attacchi invalidanti di gotta - era il primo a non prendere sul serio. Dunque Lewis partì senza Barton, ma portando con sé come sostituito una copia fresca di stampa dei suoi Elements of Botany. Comunque Jefferson contava su di lui per pubblicare i risultati scientifici della spedizione, tanto che egli fu il destinatario del primo invio da Fort Maidan; ma la sospirata Storia naturale della spedizione di Lewis e Clark andò ad allungare la lista delle sue opere "fantasma". ![]() ... con un lato oscuro Dopo aver elencato i successi, il lato luminoso del nostro professore, è infatti venuto il momento di parlare del suo lato oscuro. Quella non fu l'unica opera promessa, ma mai scritta. Egli in effetti fu uno scrittore prolifico, ma farraginoso e prolisso, che dava il meglio di sé in testi brevi; la sua bibliografia è costellata di opere di più ampio respiro annunciate, progettate, a volte iniziate, poi abbandonate. Ma c'è di peggio. Ambizioso e avido di successo, non era sempre corretto verso gli altri ricercatori, tanto da essersi attirato l'accusa di plagio. L'ornitologo Charles Willson Peale lo accusò, probabilmente a torto, di essersi impadronito di alcuni esemplari destinati al suo museo e espresse la convinzione che "non si è mai fatto scrupolo di prendere le penne degli altri per arricchire il suo piumaggio". In effetti, gli studiosi hanno rilevato che non di rado fece passare per proprie idee altrui, senza citare la fonte né aver ottenuto l'autorizzazione dell'autore. A suscitare polemiche fu anche la pubblicazione di Jeffersonia diphylla, che non si basava su ricerche proprie, ma su raccolte di André Michaux e William Bartram. Ancora più criticato fu per la riluttanza a scambiare informazioni e materiali, secondo la secolare consuetudine dei naturalisti; ad esempio Henry Muhlenberg, che pure gli fu amico, lamentava che mentre lui gli aveva mostrato il suo erbario, Barton non aveva mai contraccambiato il favore. D'altra parte, bipolare anche in questo, sappiamo che a volte fu assai generoso con la sua preziosissima biblioteca, la più completa degli Stati Uniti per la storia naturale, prestando ad altri studiosi volumi altrimenti introvabili nel paese. Barton era più un teorico, un botanico da scrivania, che un ricercatore sul campo. Il suo erbario, conservato alla Natural Science Academy di Filadelfia, comprende 1674 esemplari, ma solo circa 200 furono raccolti da lui, per lo più nei pressi della città o della tenuta di famiglia. E' nota una sola spedizione di un certo impegno cui partecipò di persona, da New York fino alle Cascate del Niagara, ma anche in questo caso si dedicò più all'osservazione dei costumi dei nativi che alla raccolta di piante. L'erbario fu dunque messo insieme con acquisti e con il contributo di almeno una trentina di raccoglitori, molti dei quali suoi studenti. L'apporto maggiore (circa 1200 esemplari) tuttavia venne da Federick Pursh che egli assunse nel 1805 perché lo aiutasse a completare il suo maggiore progetto: una flora del Nord America, che avrebbe dovuto includere anche le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark. Probabilmente Barton aveva iniziato a lavorarci subito dopo la pubblicazione di Elements of Botany e nel 1806 ne pubblicò un'anticipazione dal titolo chilometrico: Prodromus of a Flora of the States of New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware, Maryland and Virginia. Riccamente illustrata dal pittore francese Turpin, fu stampata in 500 copie, ma non se ne è conservata neppure una. Come mai? Fu l'autore stesso a ritirare tutta l'edizione e a farla distruggere. L'ipotesi più probabile è che, lavorando insieme a Pursh, un eccellente tassonomista formatosi in Germania, che catalogò con ammirevole e teutonica precisione il suo erbario, Barton si sia reso conto di aver commesso molti errori e abbia preferito eliminare un'opera che, più che la sua gloria, avrebbe sancito la sua mediocrità di sistematico e tassonomista. L'opera andava riscritta e ampliata. A tal fine finanziò i viaggi di ricerca di Pursh che al suo servizio nel 1805 esplorò le regioni montane della Carolina e della Georgia e nel 1806 le montagne della Pennsylvania e del Vermont. L'anno successivo, di ritorno da una spedizione che lo aveva portato nello stato di New York e ancora nel Vermont, Pursh preferì non rientrare a Filadelfia e accettare l'incarico di curatore dell'orto botanico di New York. In tal modo, recuperava la sua indipendenza scientifica, e si liberava di un "patrono" mai troppo generoso, collerico e probabilmente geloso della sua competenza. Barton, privato del suo principale collaboratore, si trovò impossibilitato a proseguire, finché la dea bendata fece arrivare alla sua porta un giovanotto entusiasta con una pianta da riconoscere. Era il ventiduenne Thomas Nuttall, un apprendista stampatore britannico con la passione per le scienze naturali. Barton, che, colpito dal suo entusiasmo e dalle sue buone maniere, ne fece il suo pupillo, gli insegnò il sistema di Linneo e lo spronò a studiare ed esplorare la natura americana, sull'esempio di William Bartram. Dopo averlo messo alla prova con alcuni brevi viaggi, nel 1810 finanziò la prima grande spedizione di Nuttall fino ai Grandi laghi, con una paga di 8 dollari al mese più le spese; le osservazioni e i quaderni di campo sarebbero stati di esclusiva proprietà di Barton, ma il raccoglitore poteva tenere per sé la propria copia degli esemplari; esattamente il contrario di ciò che avveniva di solito: il finanziatore/collezionista esigeva per sé una o più copia dei materiali, ma il ricercatore manteneva la proprietà intellettuale delle proprie scoperte. Tuttavia anche questa collaborazione finì bruscamente, quando l'imminente scoppio della guerra del 1812 con l'Inghilterra spinse Nuttall a tornare in patria. Del resto, anche le forze di Barton andavano declinando. Morì nel 1815, al rientro da un viaggio in Europa grazie al quale aveva sperato di recuperare la salute. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Termino con una curiosità: la prestigiosa rivista Bartonia, organo del Philadelphia Botanical Club, non è dedicata a lui, ma a suo nipote William Paul Crillon Barton, autore di Compedium Florae Philadelphicae (1818) e A Flora of North America (1821), che dello zio fu allievo, biografo e successore per la cattedra di materia medica. ![]() Bartonia, ovvero botanica e giustizia poetica Tre giorni prima di morire, Barton aveva terminato il suo ultimo articolo, su un argomento che gli era molto caro: una pianta che nel 1812 Sims aveva denominato Bartonia decapetala, sulla base di materiali raccolti da Pursh e da Nuttall. Concordi sulla dedica al loro patrono, il primo, a quanto pare, avrebbe voluto chiamarla B. ornata, il secondo addirittura B. superba. In ogni caso, una pianta magnifica, con spettacolari fiori bianchi che si aprono di notte, che riempiva d'orgoglio il vecchio professore. Ma anche nella botanica c'è una giustizia poetica, che assume le petulanti vesti della legge della priorità. Molti anni prima, Henry Muhlenberg aveva già creato un genere Bartonia, pubblicato nel 1801 con tutti i crismi da Willdenow. Niente di cui andare orgogliosi, ahimè: si tratta di uno dei più insignificanti generi della famiglia Gentinaceae, minuscole annuali erbacee che passano quasi inosservate. Vivono nelle paludi, alcune specie in mezzo allo sfagno, da cui quasi non si distinguono se non durante la fioritura, e, come adattamento a un ambiente così povero di nutrienti, sono emiparassite che si nutrono a spese delle piante vicine, con foglie ridotte a scaglie insufficienti ad assicurare una sufficiente fotosintesi. Muhlenberg ovviamente di questo non poteva sapere nulla (dedicò a Barton B. verna, una specie che avevano raccolto insieme) ma non spiace che a ricordare il troppo vanaglorioso professore, accusato dai detrattori di adornarsi delle penne altrui, sia Bartonia Muhl. ex Willd. e non la più appariscente Bartonia Pursh ex Sims. Il piccolissimo genere comprende tre specie, endemiche degli Stati Uniti orientali. Legate ad ambienti fragili e sempre più ridotti, sono piuttosto rare: B. virginica è inclusa nella lista rossa delle specie a rischio mentre B. paniculata subsp. paniculata in Canada è oggetto di programmi di conservazione. Ancora non del tutto spiegati i meccanismi della sua nutrizione: secondo alcuni studiosi, sono saprofite mentre alcuni studi recenti mostrano evidenze di micorrize che permetterebbero di assorbire i nutrienti dall'apparato radicale delle piante circostanti. Un breve profilo delle tre specie nella scheda. Una trentina di militari, guidati da due capitani, uno schiavo nero, guide e trappers franco-canadesi, un'intrepida ragazza indiana e il suo neonato, un cane labrador sono i protagonisti della più mitica spedizione della storia statunitense: quella di Lewis e Clark e del Discovery Corps, che tra il 1804 e il 1806 per la prima volta attraversò il nord America da est a ovest, aprendo la via per il Pacifico. Imponenti i risultati scientifici: i primi contatti con una sessantina di tribù indiane, grandi progressi nelle conoscenze geografiche, nuove carte e centinaia di animali e piante raccolti e descritti per la prima volta, tra cui diversi nuovi generi; ai due capitani Lewis e Clark toccarono i notevoli Lewisia e Clarkia. ![]() Preparazione Nel 1803, dopo una breve trattativa, Napoleone cedette la Louisiana francese agli Stati Uniti in cambio di 23 milioni di dollari; quel territorio di oltre due milioni di km² raddoppiava d'un solo colpo la superficie del paese. Oltre a parte dell'attuale Louisiana, con la capitale New Orleans, comprendeva infatti Arkansas, Missouri, Iowa, Oklahoma, Kansas, parte del Minnesota, gran parte del Dakota del Nord, Dakota del Sud, l'area nordorientale del Nuovo Messico, l'estremità settentrionale del Texas, parte del Montana, Wyoming, il Colorado orientale e anche alcune parti delle attuali province canadesi di Alberta e Saskatchewan. Un territorio immenso, ma anche ben poco conosciuto, che la stessa Francia non aveva mai controllato davvero e neppure esplorato, se non per le piste battute dai cacciatori di pellicce e le poche vie commerciali lungo i bacini del Mississippi e del Missouri. Per il presidente Jefferson, che si era battuto per quell'acquisto nonostante la forte opposizione dei suoi avversari politici, era l'occasione per realizzare il sogno a lungo inseguito di esplorare l'occidente americano e di aprire una strada verso il Pacifico. Nel gennaio 1803 egli indirizzò al congresso una lettera segreta per chiedere un finanziamento di 2500 dollari per esplorare il bacino del Mississippi. Ottenuta l'approvazione, scelse come capo della futura spedizione il proprio segretario privato Meriwether Lewis, seguendo con cura la sua preparazione. Non solo gli mise a disposizione la sua biblioteca di Monticello - la maggiore del paese - ma lo inviò a Filadelfia perché potesse essere istruito da alcuni dei più eminenti scienziati americani in cartografia, astronomia, medicina, zoologia e botanica. In paleontologia lo istruì il medico Caspar Wistar, mentre il suo tutor in botanica fu Benjamin Smith Barton, amico e referente botanico di Jefferson. E' significativo che il presidente abbia affidato la missione a un militare (e soldati, a parte le guide e i battellieri, furono tutti i componenti della spedizione) e non a un naturalista di professione. Può aver influito il fatto che Jefferson stesso fosse un genio poliedrico versato in molte scienze che vedeva in Lewis una proiezione di se stesso; ma soprattutto contarono gli scopi politicamente sensibili della missione. Si trattava in primo luogo di mappare un territorio in gran parte ancora non segnato sulle carte; di valutare la presenza di inglesi e franco-canadesi e la loro intenzioni; di rivendicare il possesso effettivo dei territori prima di altre potenze; di stabilire relazioni commerciali con le popolazioni native; di aprire una strada percorribile fino al Pacifico, premessa di ogni futura espansione. Certo, non mancava l'aspetto scientifico; Lewis ricevette precise istruzioni direttamente da Jefferson che, per quanto riguarda la flora, recitano: "dedicare ogni attenzione al suolo e all'aspetto del paese, alle piante che vi crescono e ai prodotti vegetali, in particolare a quelli non presenti negli Stati Uniti". Lewis convinse William Clark, un vecchio compagno d'armi (erano entrambi capitani dell'esercito), ad unirsi all'impresa. Da quel momento, anche se nominalmente Lewis era il capo, avrebbero condiviso alla pari responsabilità e autorità. Incominciò poi a procurarsi l'equipaggiamento (tra cui figuravano il Dizionario di Miller e le opere di Linneo) e a luglio su recò a Pittsburg ad allestire il battello a chiglia necessario per navigare lungo il Missouri e i suoi affluenti. Ad agosto, insieme alle prime 11 reclute, risalì il fiume Ohio fino a Clarksville, dove incontrò Clark. I due si divisero i compiti: mentre Lewis muovendosi a cavallo completava l'equipaggiamento, Clark con il battello raggiunse Saint Louis, dove si occupò di arruolare ed addestrare nel forte di Camp Dubois sulla riva est del fiume i volontari del “Corps of Volunteers for Northwest Discovery.” I prescelti dovevano essere sani, scapoli, bravi a cacciare e usare le armi, dotati di buone capacità di sopravvivenza in un ambiente selvaggio. In tutto, i partecipanti furono 45, inclusi i due capitani, una trentina di volontari, i battellieri, gli interpreti e le guide ingaggiati durante il viaggio, uno schiavo di Clark di nome York. Completava la compagnia Seaman, il terranova di Lewis. ![]() Andata: da Camp Dubois al Pacifico La spedizione esordì ufficialmente il 24 maggio 1804 con la partenza da Camp Dubois del Corpo di scoperta, a bordo del battello a chiglia e di due piroghe; a Saint Charles i volontari incontrarono Lewis e Clark e proseguirono la navigazione sul Missouri, superando La Charette, ultimo insediamento bianco. Da quel momento entravano in territorio indiano; in previsione degli incontri con i nativi, era stato predisposto un protocollo che prevedeva il baratto di beni e il dono ai capi tribù di una medaglia con l'effige di Jefferson su un lato e due mani allacciate sotto un tomahawk e un calumet della pace sormontati della scritta “Peace and Friendship” dall'altro. Il primo contatto avvenne il 15 agosto con un gruppo di Odo, nei pressi dell'attuale Council Bluffs, Iowa; qualche giorno più tardi fu la volta di alcuni Sioux Yankton. Questi gruppi avevano già avuto contatti con cacciatori bianchi e, per quanto un po' delusi dai "doni" degli americani, si dimostrarono abbastanza amichevoli. Il 20 agosto si ebbe l'unica vittima della spedizione, il sergente Floyd, morto probabilmente di appendicite. Alla fine di settembre entrarono nel territorio degli Sioux Teton, detti anche Lakota, che accolsero i doni in modo ostile; il capo Bufalo Nero cercò di bloccare la spedizione, esigendo la consegna di uno dei battelli come pedaggio; si sfiorò la battaglia, ma di fronte alla superiorità militare del Corpo di scoperta, i Lakota si allontanarono. Continuando la navigazione verso ovest, all'inizio di novembre la spedizione toccò i villaggi di altre tribù amichevoli, i Mandan e i Minitari; Lewis e Clark decisero di fermarsi qui per l'inverno. Venne costruito un forte, detto Fort Mandan, dove il Corpo trascorse cinque mesi cacciando, preparando canoe, abiti di cuoio, mocassini, mentre Clark si dedicava a tracciare carte. A Fort Mandan fu ingaggiato come interprete il cacciatore franco-canadese Toussaint Charbonneau e venne permesso alla moglie incinta, un'indiana Shosone di nome Sacagawea, di stabilirsi nel forte; a febbraio proprio qui la ragazza partorì il suo primogenito, Jean Baptiste soprannominato Pompy o Pomp. La giovane donna ebbe un ruolo importante per il successo della spedizione: non solo per la sua abilità di interprete e la profonda conoscenza del territorio, ma grazie alla sua stessa presenza. Poiché gli indiani non usavano portare donne nelle loro spedizioni guerresche, il fatto che i soldati fossero accompagnati da una donna e da un bambino in fasce agiva da salvacondotto, indicandone le intenzioni pacifiche. Il 7 aprile 1805 il battello a chiglia e il suo equipaggio con dodici uomini furono rimandati a Saint Louis, con relazioni, lettere, carte, manufatti indiani e esemplari zoologici e botanici. I "membri permanenti" (Lewis, Clark, 27 soldati, York, con l'aggiunta della famiglia Charbonneau e di almeno un'altra guida franco-indiana, George Drouillard) ripresero il cammino verso ovest per affrontare la parte più difficile del viaggio. Continuando a navigare in canoa lungo il Missouri, a metà giugno ne raggiunsero le grandi cascate, in realtà un sistema di cinque cascate successive, che impiegarono oltre due settimane a superare, spesso in condizioni difficili. Quando raggiunsero il punto in cui tre corsi d'acqua confluiscono per dar vita al Missouri, li battezzarono Galtin, Madison e Jefferson e proseguirono lungo quest'ultimo. Qui divenne importantissimo l'aiuto di Sakagawea; la giovane donna era un'indiana Shoshone, rapita da una tribù nemica quando era bambina e poi passata attraverso diverse mani prima di essere venduta a Charbonneau. Ella riconobbe il punto esatto dove era stata rapita e quindi il Beaverhead Rock, una formazione rocciosa non lontana dalla sede estiva del suo popolo, dove avrebbero potuto procurarsi dei cavalli. Toccava ora lasciare il fiume e proseguire a piedi; il 12 agosto raggiunsero il Lemhi Pass, Montana, che segna lo spartiacque continentale. Qualche giorno dopo, incontrarono guerrieri Shoshone avvertiti della loro presenza; grazie a Sakagawea, che fungeva da interprete, ottennero guide e i desiderati cavalli; la ragazza ritrovò la sua tribù e scoprì che suo fratello Cameahwait ne era divenuto capo. Quindi il gruppo attraversò la Bitterroot Mountain Range percorrendo il Lolo Trail. Fu il tratto più difficile, in cui dovettero affrontare rocce, foreste impenetrabili, fame, deidratazione, cattivo tempo, temperature inclementi, alcuni casi di congelamento. Dopo 11 giorni, il 22 settembre lungo il Clearwater River, Idaho, incontrarono un'amichevole tribù di Nez Percé, che li accolse e li aiutò a recuperare le forze e la salute. Costruite alcune canoe e affidati i cavalli agli amici indiani, affrontarono le rapide del Clearwater River per raggiungere lo Snake River, quindi il Columbia River. Il 7 novembre, Clark annotò nel suo diario: "Oceano in vista! Oh, gioia!". La missione era compiuta. ![]() Ritorno e congedi Prima di affrontare il ritorno, bisognava trovare un ricovero per l'inverno. Accamparsi al di qua o al di là del fiume Oregon, dove si trovavano terreni di caccia più abbondanti? La decisione venne messa ai voti e tutti parteciparono, compresi York e Sakagawea (un episodio celebre perché fu la prima volta, nella storia degli Stati Uniti, in cui venne riconosciuto il diritto di voto a un nero e a una donna, che allo stesso tempo era una nativa). Il mese di dicembre venne impiegato a costruire Fort Clatsop, presso l'odierna Astoria, Oregon, che fu pronto per Natale. Qui il Corps trascorse un inverno difficile, dovendo affrontare il tormento degli insetti, umidità, influenza e infezioni intestinali. Il viaggio di ritorno iniziò il 23 marzo. Risalendo contro corrente il Columbia e molte cascate, ritornarono presso gli amici Nez Percé, dove recuperarono i cavalli e attesero lo scioglimento delle nevi prima di affrontare il cammino attraverso le montagne. Lewis approfittò di questa sosta per raccogliere la maggior parte dei suoi esemplari botanici. Poterono rimettersi in marcia solo a giugno. Dapprima ripercorsero il cammino dell'andata attraverso le Bitterrots e il Lolo Pass, dove Lewis e Clark decisero di dividersi in due gruppi, nella speranza di trovare un collegamento più agevole tra Pacifico e Atlantico. Lewis si diresse a nord lungo il fiume Missouri, mentre Clark a sud lungo il fiume Yellowstone, fissando come punto d'incontro la confluenza dei due corsi d'acqua. Lewis prese con sé i cacciatori migliori e l'interprete e scout franco-indiano George Drouillard. Il gruppo di Clark includeva York, Sacagawea, Pompy e Charbonneau. Lungo il fiume Marias il gruppo di Lewis incontrò alcuni guerrieri Piedi neri che cercarono di rubare loro le armi e i cavalli; ne nacque uno scontro a fuoco (l'unico di tutta la spedizione) in cui morirono due indiani; poco dopo lo stesso Lewis fu ferito da un compagno in un incidente di caccia, con conseguenze spiacevoli ma non fatali. Al gruppo di Clark, toccò invece il furto di alcuni cavalli, sottratti da abilissimi indiani Crow che i nostri non ebbero neppure modo di vedere. I due gruppi riuniti raggiunsero il 12 agosto il villaggio dei Maidan, dove salutarono Sakagawea e la sua famiglia e da qui, con una facile navigazione con corrente a favore lungo il Missouri, il 23 settembre rientrarono a Saint Louis, dove furono accolti come eroi. Avevano percorso più di 8000 miglia, incontrato e stabilito relazioni con almeno una sessantina i popoli indiani, raccolto informazioni geografiche di prima mano e prodotto dozzine di carte. Nel campo delle scienze naturali, il contributo fu notevolissimo. Già mentre risalivano il Missouri, Lewis prese ad annotare sul suo diario di campo la velocità della corrente, la natura delle rocce e, ovviamente, gli animali e le piante via via incontrati. Il primo animale nuovo per la scienza fu Neotoma floridana, un roditore noto come eastern wood rat. Seguirono bufali, grizzly, cani della prateria, castori, coyote, pecore bighorn, per un totale di 120 specie tra mammiferi, uccelli, pesci e rettili. Quanto alle piante, Lewis, che era munito di una piccola pressa manuale, ebbe cura di raccoglierne centinaia di esemplari; furono coinvolti anche altri membri della spedizione, tra cui Clark e Sakagawea. Nelle sue note, Lewis dimostrò notevoli capacità di osservazione sull'habitat e le caratteristiche morfologiche di ciascuna specie, facendo anche tesoro delle conoscenze dei nativi sugli usi alimentari, medicinali e pratici delle piante. Ad esempio, descrisse con precisione il modo in cui le donne Nez Percé raccoglievano e preparavano i bulbi di Camassia quamash, una componente molto importante della loro dieta. In tutto, le specie raccolte furono 174, di cui circa 90 nuove per la scienza. Molte sono belle piante da fiore, raccolte lungo il Lolo trail nel viaggio di ritorno, e alcune sono oggi molto comuni nei nostri giardini, come Mimulus guttatus, Euphorbia marginata, Echinacea angustifolia. Se volete conoscerle tutte, non vi resta che visitare il bellissimo sito The Lewis and Clark Herbarium. Dopo la grande avventura, le sorti dei due capitani furono assai differenti. Lewis, nominato da Jefferson governatore della Louisiana, non si dimostrò all'altezza del compito e finì presto i suoi giorni nell'alcoolismo e forse nel suicidio (qui una sintesi della sua vita); invece Clark divenne governatore del Missouri, giocò un ruolo centrale nelle relazioni con i nativi ed ebbe una vita lunga e operosa. Si dimostrò abbastanza generoso e umano da educare nella sua casa e far studiare il piccolo Pompey, rimasto presto orfano, ma non abbastanza da affrancare York, che pure della spedizione era stato uno dei membri più validi. ![]() Le amare radici della Lewisia Ma torniamo alle piante. Quelle essiccate furono inviate a Philadelphia all'American Philosophical Society perché fossero studiate dal mentore di Lewis, Benjamin Smith Barton. Le poche piante vive e i numerosi semi furono divisi tra due vivaisti, William Hamilton e Bernard McMahon. A questi tre personaggi era legato il botanico tedesco Frederick Pursh, che fu incaricato dapprima di disegnare le illustrazioni che avrebbero dovuto accompagnare la pubblicazione dei diari di Lewis e Clark (che non si realizzò mai); andò poi con McMahon a Londra dove nel 1813 in Flora Americae Septentrionalis descrisse 130 piante raccolte durante la spedizione. Tra di esse anche le specie tipo dei due generi destinati ad immortalare i capitani, Lewisia e Clarkia. Due specie del primo risultano nell'erbario di Lewis e Clark: Lewisia rediviva Pursh, raccolta il 2 luglio 1806 lungo il Betterroot River; L. triphylla (S. Watson) B. L. Rob., raccolta qualche giorno prima lungo il Lolo Trail. Solo la prima fu descritta da Pursh e deve il suo nome a una vicenda curiosa. Giunta a Filadelfia come esemplare essiccato, in realtà era viva grazie alla radice carnosa; fu quindi prelevata e piantata nel vivaio di McMahon, dove spuntò e visse qualche anno prima di morire a causa delle annaffiature eccessive. Nota con il nome franco-canadese radiz amère, in inglese fu chiamata bitterrot, e diede il suo nome sia all'omonimo fiume sia all'adiacente catena delle Montagne rocciose. Nel 1895 è stata scelta come pianta ufficiale del Montana. Il genere Lewisia Pursh appartiene alla famiglia Montiaceae (un tempo Portulacacae) e annovera 16-19 specie endemiche degli Stati Uniti nord-occidentali; sono piante perenni rupicole amanti dell'ombra che crescono abbarbicate alle rocce del versante nord, basse e molto decorative grazie ai grandi fiori. Oggi la più popolare nei nostri giardini è Lewisia cotyledon, disponibile in un'ampia gamma di colori che vanno dal rosa chiaro al porpora passando per il salmone e l'arancio, spesso con i petali sfumati in più colori. Altre informazioni nella scheda. Ricordano Lewis anche molti nomi specifici delle specie da lui segnalate, come Phildelphus lewisii, Linum lewisii, Mimulus lewisii. Purtroppo nessun botanico ha pensato invece di dedicare un genere a Sakagawea, che pure l'avrebbe meritato come tramite tra gli esploratori bianchi e le conoscenze etnobotaniche dei nativi, oltre che come raccoglitrice in prima persona. A ricordarla (ma il personaggio è molto popolare negli Stati Uniti, celebrato da dozzine di statue) c'è però proprio una specie di Lewisia, L. sakajaweana, un endemismo dell'Oregon. ![]() La singolare Clarkia Fu sempre Pursh a stabilire il genere Clarkia, sulla base di C. pulchella, raccolta il 1 giugno 1806 sempre lungo il Bitterroot River da Lewis che la definì "una pianta singolare" per i quattro petali finemente divisi in tre lobi. Nella storia della scienza è nota anche perché Robert Brown si servì del polline di questa specie per le osservazioni che lo portarono alla scoperta del moto browniano. Il genere Clarkia appartiene alla famiglia Onagraceae e comprende una quarantina di specie di annuali, tutte native del Nord America, ad eccezione della sudamericana C. tenella. Diverse specie sono popolari annuali da giardino. La più nota è probabilmente C. amoena, spesso utilizzata anche come fiore reciso, di cui esistono molte serie con fiori a imbuto singoli e doppi in una gamma di colori che include il rosa, il lilla, il salmone, il porpora. il bianco; alcune cultivar hanno margini bianchi o centri in colore contrastante. Per ironia della sorte, proprio alcune delle specie più coltivate sono note con il nome comune godezia, o il nome botanico Godetia, poiché un tempo appartenevano al genere Godetia Spach, che fin dal 1955 è confluito in Clarkia di cui è divenuto una sezione. E' uno dei tanti esempi di quella che definisco "viscosità dei nomi botanici", ovvero della fatica di coltivatori ed appassionati ad adottare i nuovi nomi, anche dopo decenni e decenni come in questo caso. Qualche approfondimento nella scheda. Di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, è stato detto che potrebbe essere nominato patrono laico dei giardini e dei giardinieri statunitensi. Quella per la natura, le piante e i giardini fu infatti per lui una passione costante in tutte le fasi della vita, fino alla creazione dello splendido giardino di Monticello. Protagonista di una rete di "scambisti" di piante tra le due sponde dell'oceano, botanico dilettante, presidente della American Philosophical Society, ebbe anche il merito di sponsorizzare la grande spedizione di Lewis e Clark. Lo ricorda una pianta del sottobosco delle foreste americane, Jeffersonia diphylla, che coltivava in una delle aiuole del suo giardino, dove spesso gli faceva omaggio della sua candida fioritura come dono di compleanno. ![]() Una dedica all'uomo di scienza, non al politico La sera del 18 maggio 1792 sei uomini si incontrarono presso la Philosophical Hall di Filadelfia, la sede della American Philosophical Society, per la consueta riunione del venerdì; dopo il momento conviviale del pranzo, Benjamin Smith Barton, professore di botanica e storia naturale presso l'Università della Pennsylvania, lesse una lettera che aveva scritto ai colleghi europei circa una pianta nativa della Virginia. Linneo, basandosi solo su esemplari essiccati, l'aveva assegnata al genere Podophyllum, con il nome P. diphyllum. Barton, studiandola dal vivo, era giunto alla conclusione che andasse invece assegnata a un genere nuovo e, aggiunse, "Mi sono preso la libertà di renderlo noto ai botanici sotto il nome di Jeffersonia, in onore di Thomas Jefferson, segretario di Stato degli Stati Uniti". E ciò, aggiunse, non in considerazione dei suoi meriti politici, ma delle sue conoscenze di storia naturale che, soprattutto nei campi della zoologia e della botanica "sono eguagliate da poche persone negli Stati Uniti". In effetti, il multiforme Thomas Jefferson, estensore della Dichiarazione d'Indipendenza, quindi ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, segretario di Stato, presidente per due mandati, oltre che uno dei padri fondatori degli Stati Uniti fu un intellettuale di notevole spessore, con forti interessi scientifici che spaziavano dalla matematica all'archeologia, dalla geografia alla paleontologia: le scienze naturali e la botanica furono una passione che coltivò per tutta la vita. Si racconta che quando era presidente conoscesse tutte le piante dei dintorni della Casa Bianca, e non si facesse sfuggire una specie nuova per il suo erbario. Per quanto riguarda la botanica, notevole fu il suo lascito in tre settori: la promozione dell'agricoltura del suo paese, con migliorie tecniche e l'introduzione di nuove specie; la creazione dello splendido giardino di Monticello; la promozione dell'esplorazione delle risorse naturali del territorio statunitense. Convinto che l'agricoltura fosse la base della prosperità, dell'indipendenza, ma anche della moralità di una nazione, sognava un paese di piccoli agricoltori liberi, anche se lui, da parte sua, era il proprietario schiavista di vaste piantagioni. Il suo contributo in questo campo fu soprattutto nella sperimentazione e nell'introduzione di nuove varietà: ad esempio, portò con sé dall'Europa una pianta di fico acquistata a Marsiglia, che a suo dire produceva i frutti migliori che mai avesse mangiato, e ne distribuì talee a vicini e amici; creò un vigneto sperimentale; incoraggiò la coltivazione del sesamo per la produzione familiare di olio. Ma il suo capolavoro fu Monticello, la sua residenza nei pressi di Charlottesville, Virginia, il cui nome italiano fa riferimento alla posizione della proprietà, sulla cima di un colle delle Southwest Mountains. Nel 1768 iniziò l'edificazione di una casa in stile palladiano, progettata dallo stesso Jefferson, che era quasi completa nel 1784 quando egli dovette lasciare gli Stati Uniti per la Francia, con l'incarico di ambasciatore presso la corte di Parigi. Contemporaneamente, cominciò a realizzare il giardino, sulle cui vicende siamo ben informati grazie al suo Garden Book, ovvero il quaderno dove annotava piantagioni, semine, esperimenti. La prima annotazione risale al 1769, quando Jefferson fece piantare alberi da frutto sul versante sud della collina. Nel 1774, in collaborazione con l'italiano Filippo Mazzei, che procurò vignaioli e vitigni, impiantò la prima vigna della Virginia. Tra il 1778 e il 1782 fu la volta di un vasto frutteto di meli e peschi e del primo orto, lungo la strada principale della piantagione, dove vennero seminari asparagi, piselli e carciofi. Il soggiorno in Europa, che si protrasse dal 1784 al 1789, permise a Jefferson di allargare i suoi orizzonti culturali e di allacciare proficue relazioni. Oltre alla Francia, visitò la Gran Bretagna, l'Italia, il Belgio e i paesi Bassi, dove visitò case e giardini, rimanendo profondamente impressionato dallo stile libero dei nuovi parchi all'inglese. A Parigi incominciò a frequentare il salotto di Madame de Tessé, zia di Lafayette e grande appassionata di giardini, che gli chiese di procurargli piante americane; e così, tra Parigi e Monticello, iniziò un attivo scambio transoceanico di piante: mentre esemplari di Callicarpa americana, Diospyros virginiana, Calycanthus floridus procurati da amici e corrispondenti di Jefferson raggiungevano il parco di Chaville, a Monticello arrivavano semi di elitropio bianco (Helitropium arborescens), ranuncoli, cavolfiori, broccoli e bulbi di tulipani. Un altro contatto importante fu André Thouin, capo giardiniere del Jardin du Roi. ![]() Un giardino per frutti, verdure, fiori Tornato in patria, Jefferson cercò di conciliare l'attività politica (che egli definiva il suo dovere) con gli interessi scientifici (che egli definiva la sua passione). Così, nel 1791 lo troviamo ad erborizzare nel New England con l'amico James Madison. Nel 1797 fu nominato presidente della American Philosophical Society (incarico che mantenne per un ventennio, anche durante i due mandati presidenziali). Nel 1812, quando durante la guerra anglo-americana un incendio distrusse la biblioteca del Congresso, Jefferson offrì di reintegrarla con la sua collezione (che vantava il doppio dei volumi di quella perduta), dietro un compenso che doveva aiutarlo a ripianare i grandi debiti contratti per la ristrutturazione di Monticello; il congresso accettò, creando così il primo nucleo dell'attuale Library of Congress. Egli inoltre si impegnò attivamente nella creazione dell'Università della Virginia a Charlottesville, che fu infine inaugurata nel 1819. A partire dal 1794, lo stesso anno in cui divenne segretario di Stato, Jefferson intraprese la totale ristrutturazione della casa e del parco di Monticello, ispirandosi a quanto aveva visto in Europa. Come Mount Vernon di Washington, anche il giardino concepito da Jefferson unisce le funzioni di parco paesaggistico, frutteto, orto e giardino di piacere. I frutteti e gli orti si trovavano fuori del parco vero e proprio, lungo il viale principale della piantagione. I frutteti, con pianta formale a grata, erano due, uno posto a nord, l'altro a sud. Includevano anche meli per la produzione di sidro; a più riprese, venne impianta una vigna, ma con poco successo. L'orto venne collocato su una lunga terrazza ricavata dal lavoro degli schiavi sul fianco della collina; comprendeva 24 parcelle quadrate destinate alla produzione di "radici" (come rape e carote), "frutti" (pomodori, fagioli), "foglie" (insalate, cavoli). Al centro un piccolo padiglione da cui si poteva godere il panorama. Alla base del muro di sostegno venivano coltivate le primizie e le piante più delicate, come i piselli, una delle grandi passioni di Jefferson. Anche i fichi portati dalla Francia crescevano qui. L'orto era anche uno spazio sperimentale dove provare novità, come i broccoli e i cavolfiori importati dall'Europa o gli stessi pomodori. Si calcola che nel corso degli anni Jefferson vi abbia fatto coltivare 330 varietà di 70 specie. La sommità della collina era occupata da una spianata con un vasto prato dai contorni irregolari, il West Lawn, a nord ovest del quale si trova il Grove, il boschetto, un'area di 18 acri concepita come una foresta ornamentale in cui agli alberi nativi più alti (potati in modo da lasciare luce e spazio agli alberi minori) si affiancavano piante scelte per il contrasto di colori, forme, tessiture. Il sottobosco naturale doveva essere eliminato per lasciare posto a radure a prato, con erbacee perenni e gruppi di arbusti disposti secondo un disegno labirintico a spirale. Il collegamento tra le varie parti del giardino era garantito da quattro viali circolari concentrici, posti a livelli differenti, bordati di gelsi e Gleditsia triacanthos e collegati tra loro da sentieri diagonali. Se, proprio come Mount Vernon, all'inizio anche Monticello era stato concepito soprattutto con funzioni utilitarie, dopo l'esperienza europea l'interesse di Jefferson per i fiori e le piante ornamentali aumentò. Nel 1807, in previsione del suo ritiro dalla vita politica, egli disegnò venti aiuole ovali, poste ai quattro angoli della casa, ciascuna delle quali destinata a una specie diversa, con bulbose, erbacee perenni e piccoli alberi da fiore. Probabilmente nel 1808 fu creata la grande bordura serpeggiante che contorna il prato centrale. In entrambe le aree la figlia e le nipoti di Jefferson coltivavano una grande varietà di piante e bulbi, forniti soprattutto dal vivaista di Filadelfia Bernard McMahon, in modo da assicurare fioriture dalla primavera all'autunno. C'erano i fiori coltivati tradizionalmente che i coloni avevano portato con sé dall'Europa; piante più inusuali o novità fornite dai contatti europei (ogni anno, una cassa giungeva dal Jardin des Plantes di Parigi). Almeno un quarto delle piante da fiore coltivate a Monticello erano tuttavia native; oltre a Jeffersonia diphylla, particolarmente gradita perché oltre a portare il suo nome fioriva proprio intorno al suo compleanno (il 2 aprile), c'erano diverse specie raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark, come Fritillaria pudica e Lobelia cardinalis. Siamo così giunti all'ultimo titolo di merito di Jefferson: quella spedizione era stata voluta e sponsorizzata proprio da lui, durante il suo primo mandato presidenziale. Negli anni successivi all'indipendenza, il territorio del nuovo stato era confinato nella stretta striscia tra gli Appalachi e l'Oceano, mentre si avevano scarse conoscenze delle terre poste al di là delle montagne. Jefferson era conscio delle enormi potenzialità di quel territorio inesplorato e sognava di trovare una via di comunicazione con l'Oceano Pacifico. Già quando si trovava a Parigi come ambasciatore sostenne il progetto dell'esploratore anglo-americano John Ledyard che si proponeva di raggiungere lo stretto di Bering attraversando la Russia via terra; da qui pensava di trovare un passaggio per l'Alaska, da dove sarebbe sceso verso sud per poi percorrere il continente americano fino alla Virginia. Ma, dopo essere arrivato in Siberia, nel febbraio del 1788 Ledyard fu arrestato per ordine dell'imperatrice Caterina e deportato in Polonia. Una seconda possibilità si presentò nel 1793, quando l'American Philosophical Society pensò di affidare la missione di "esplorare il paese lungo il Missouri e di lì proseguire verso ovest fino all'Oceano Pacifico" al botanico francese André Michaux, che da qualche anno viveva in Carolina del Sud e aveva una larga esperienza di viaggi di esplorazione e raccolta. Jefferson stesso organizzò la sottoscrizione che doveva finanziare la spedizione e ottenne l'assenso di Washington; tuttavia, quando fu chiaro che Michaux era coinvolto in un piano antispagnolo organizzato dall'ambasciatore francese, per evitare di peggiorare le relazioni diplomatiche con la Spagna il progetto fu annullato. Il sogno di Jefferson poté infine realizzarsi nel 1804 grazie alla spedizione capeggiata da Lewis e Clark, argomento su cui però tornerò in un altro post. Jefferson morì nel 1826, a ottantaquattro anni, ormai sprofondato nei debiti contratti per la sua vita troppo dispendiosa e soprattutto per la creazione di Monticello. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La figlia fu costretta a vendere la tenuta che, dopo essere passata attraverso vari proprietari, nel 1836 fu acquistata da Uriah Levy, grande ammiratore di Jefferson, il quale nel 1862 la lasciò in eredità al popolo americano perché fosse usata come scuola agraria. Ma si era in piena guerra civile e il congresso rifiutò il lascito. Dopo complesse vicende, a cercare di salvare Monticello, che era ormai in uno stato deprecabile di abbandono, fu il nipote Jefferson Monroe Levy, che ne iniziò il restauro, poi proseguito a cura della Thomas Jefferson Foundation, nata nel 1923. Monticello come lo vediamo oggi è il frutto dei restauri da essa promossi: sono stati ricreati il prato e la sua bordura, le aiuole ovali, il viale circolare inferiore, la terrazza con l'orto, mentre i frutteti non esistono più e il Grove è ben diverso da come doveva presentarsi all'epoca del suo creatore. Dal 1987 la tenuta è inclusa nella lista del patrimonio dell'umanità UNESCO. Moltissime notizie sul giardino e sullo stesso Jefferson nel sito di Monticello. ![]() Una pianta americana Abbiamo già visto che Jeffersonia fu dedicata a Jefferson nel 1792 da Benjamin Smith Barton. Appartenente alla famiglia Berberidaceae, comprende una sola specie, appunto J. diphylla, una rara erbacea perenne a fioritura primaverile del sottobosco delle foreste decidue con suolo calcareo degli Stati Uniti orientali. Alta fino a 25 cm, ha grandi foglie bilobate con lobi da arrotondati ad acuti posti quasi ad ala di farfalla; all'inizio della primavera produce fiori a coppa con otto petali bianchi e stami gialli. Gli si attribuiscono proprietà antireumatiche. Qualche informazione in più nella scheda. Ha anche una bellissima cugina asiatica che oggi, dopo molte incertezze, è stata restituita al genere Plagiorhegma. Dunque dobbiamo rassegnarci a chiamare questa perla dei giardini boschivi con foglie lobate e fiori lilla con l'orrendo nome Plagiorhegma dubium anziché Jeffersonia dubia. Nel 1800 Brickell dedicò a Jefferson un secondo genere Jeffersonia; illegittimo per la regola della priorità, è oggi sinonimo di Gelsemium. Tra gli avventurosi cacciatori di piante di inizio Ottocento c'è anche un botanico piemontese, Carlo Giuseppe Bertero. Formatosi alla scuola di Balbis, di fronte all'onda nera della Restaurazione decise di lasciare l'Europa e di dedicare la sua vita all'esplorazione della flora di paesi lontani, possibilmente poco battuti. Il primo viaggio, tra il 1816 e il 1821, lo portò nelle Antille e in Colombia; dopo un breve rientro in patria, nel 1827 ripartì nuovamente per le Americhe, scegliendo una meta quasi vergine per la scienza: il Cile. Fu poi la volta delle Juan Fernandez, uno straordinario arcipelago oceanico che per qualche aspetto anticipa le darwiniane Galapagos, quindi di Tahiti; ma era l'ultimo viaggio: mentre faceva ritorno in Cile, la nave su cui era imbarcato si inabissò nell'Oceano Pacifico. Privo di sostegno da parte di sovrani o altre istituzioni pubbliche, finanziò le sue ricerche mantenendosi con la sua professione di medico. Anche se non pubblicò quasi nulla, il suo contributo alla conoscenza della flora del Nuovo mondo fu inestimabile. De Candolle, che gli fu amico e mentore, già al suo ritorno dalle Antille aveva voluto dedicargli Berteroa, un piccolo genere di Brassicaceae affine ad Alyssum che non ha nulla di esotico, essendo diffuso soprattutto nel Mediterraneo e nell'Asia occidentale. ![]() Primo viaggio: Antille Fu forse l'indignazione per un gesto politico che calpestava un uomo che considerava un secondo padre e con lui le ragioni della scienza a spingere Carlo Giuseppe Bertero a trasformarsi in un cacciatore di piante. Nato a Santa Vittoria d'Alba nel fatidico 1789, era venuto a studiare medicina a Torino ed era divenuto uno dei più brillanti allievi di Giovanni Battista Balbis, cui lo legava un affetto quasi filiale. Nel 1814, quando il suo maestro fu cacciato dall'università e l'intera facolta di medicina fu epurata degli "infranciosati" (con il licenziamento di otto docenti su nove), Bertero decise di dare le dimissioni da segretario del Grand Jury (l'organismo che faceva le veci del Tribunale di Protomedicato) e di non continuare gli studi nel collegio medico dell'Università. Anche la monotona e soffocante provincia albese non sembrava offrirgli alcuna prospettiva. Tornato a casa, come l'eroe stendhaliano Fabrizio del Dongo, si trovò immerso in atmosfera stagnante, senza alcuna prospettiva. A soddisfare la sua sete di conoscenza non bastavano le escursioni botaniche sulle Alpi e nelle campagne di casa. Era ora di lasciare l'Italia per cercare altrove fama e conoscenza. Unico cordone ombelicale con una patria matrigna, la corrispondenza con gli amici, primi tra tutti il maestro Balbis e il colto botanico dilettante Luigi Colla che, come vedremo, furono poi i principali destinatari anche dei suoi invii di piante e semi. La prima tappa, quasi ovviamente, fu Parigi, dove poté sfruttare le relazioni di Balbis con i maggior botanici francesi per avere accesso al Jardin des Plantes e a erbari ricchi di piante esotiche; importante fu l'incontro con C.H. Persoon, grazie al quale trovò un imbarco per le Antille come medico di bordo. Si era preparato al viaggio con scrupolo, non solo studiando negli erbari la flora di quell'area, ma anche l'inglese e lo spagnolo. Imbarcatosi nell'agosto 1816 a Le Havre, a fine anno giunse in Guadalupa, salutato quasi come un eroe per aver salvato se stesso e molti compagni di viaggio da un'epidemia di febbre gialla scoppiata a bordo. Nell'isola esercitò con successo la professione medica e divenne una figura nota e riconosciuta, tanto che il governatore gli offrì la direzione dell'orto botanico e di un laboratorio di storia naturale. Nonostante la proposta fosse allettante anche sul piano economico, Bertero rifiutò per non legarsi a un singolo luogo e estendere la sua esplorazione ad altre isole dell'arcipelago. Privo di ogni sostegno ufficiale a causa della cecità dei Savoia, egli dovette dunque dividere il suo tempo tra la professione medica, che amava e esercitava con il tipico spirito umanitario della tradizione illuminista-giacobina, e le ricerche sul campo; altra difficoltà, la mancanza di testi di consultazione (all'epoca, non erano ancora state pubblicate i grandi repertori di de Candolle e Sprengel, che per le piante americane in modo diverso tanto dovettero proprio alle ricerche del nostro). Così, la sua avventura americana fu costellata di progetti e ripensamenti: in una lettera a Colla, annuncia che intende visitare sistematicamente tutto l'arco delle Piccole Antille (Marie-Galante, Dominica, Martinica, St. Lucia, St. Vincent, Barbados, Grenada, Tobago, Trinidad), per poi raggiungere il delta dell'Orinoco. Il percorso reale fu tutt'altro: lasciata Guadalupe nel luglio 1818, visitò due isole all'epoca sotto dominio danese, St. Thomas e St. Croix; passò poi a Porto Rico, lussureggiante per la flora, ma deludente per il dispotismo e l'arretratezza civile. Tra 1819 e 1820 visitò le due parti di Hispaniola, quella orientale ancora colonia spagnola, e quella occidentale, divenuta nel 1804 repubblica indipendente con il nome di Haiti. Da qui, tra 1820 e 1821, si spostò verso le coste dell’attuale Colombia. La guerra civile che imperversava nel paese lo spinse a lasciare quell'area di per sé promettente; dopo aver toccato ancora la Giamaica, a ottobre era di nuovo in Europa. ![]() Il viaggio continua: Cile, Juan Fernandez, Tahiti Desiderava soprattutto incontrare Balbis (che ormai si era trasferito stabilmente a Lione) e riordinare le proprie collezioni. Probabilmente, pur non manifestando apertamente la sua delusione per rispetto del maestro, non fu soddisfatto nello scoprire che Balbis, invece di tenere riuniti gli esemplari che egli gli aveva inviato tra tante difficoltà, li aveva distribuiti, generosamente ma altrettanto sconsideratamente, agli studiosi interessati, disperdendo una collezione che solo chi l'aveva raccolta avrebbe potuto ordinare e catalogare in modo completo. Rientrato ad Alba alla fine dell'anno, erborizzò ancora intensamente in Piemonte, ma crescevano la frustrazione e il desiderio di ripartire. Nel 1825 collaborò con Moris che stava esplorando la flora sarda, ma pasticci burocratici trasformarono anche questa opportunità in un fallimento, nonostante gli ottimi rapporti personali con il collega. Quando, all'inizio del 1827, la morte della amata madre sciolse l'ultimo legame con il Piemonte, capì che era ora di mettersi di nuovo in viaggio. Cercava una meta poco battuta dai botanici, e su suggerimento di de Candolle, che incontrò a Parigi, scelse il Cile. In effetti quell'angolo del Sud America, se si escludono il viaggio di Feuillé all'inizio del Settecento e il capitolo sulla vegetazione nel Saggio sulla storia naturale del Cile dell'abate Molina, era quasi sfuggito ai botanici. Ancora una volta, Bertero dovette muoversi in modo individuale; è vero che a Parigi molti colleghi lo avevano blandito e corteggiato, ma egli dovette amaramente constatare che in realtà speravano di sfruttarlo per ottenere l'invio di qualche pianta rara; lo stesso de Candolle gli offrì del denaro per raccogliere piante per lui, proposta che egli respinse con sdegno, nonostante l'amicizia personale che lo legava allo svizzero. Accettò invece che pubblicasse le sue specie e le sue descrizione nel Prodromus, come male minore, prima che lo facesse qualcun altro. Strinse anche un accordo con il barone Delessert: dal Cile avrebbe inviato i suoi esemplari a lui, che avrebbe custodito le collezioni fino al ritorno di Bertero, distribuendo una copia ciascuno a Balbis, Colla, de Candolle e trattenendone una per sé. Tuttavia il pur ricco barone non finanziò il viaggio, che Bertero ancora una volta si pagò con la sua attività di medico. Anche in questo caso si imbarcò come medico di bordo; partito da Le Havre nella seconda metà di ottobre 1827, sbarcò a Valparaiso nel febbraio dell'anno successivo. Anche in Cile alternò all'attività di ricerca la professione medica, in condizioni tuttavia ben più difficili di quelle già complesse che aveva incontrato nelle Antille. Nel paese era difficile spostarsi per l'assenza di strade, il territorio battuto da banditi, la resistenza endemica degli indios mapuche; il livello culturale era basso (da un medico ci si aspettava che ti guarisse subito, altrimenti meglio gli intrugli tradizionali) e la natura ostile, con piogge incessanti e frequenti terremoti. In quegli anni, il territorio del Cile, ancora oggi un lungo petalo stretto tra le Ande e l'Oceano Pacifico, come ebbe a definirlo Neruda, aveva un territorio di circa un terzo di quello attuale, che rispetto alla capotale si estendeva per circa 500 km a Nord (fino a La Serena, ultima città prima del deserto di Atacama) e altrettanti a Sud (fino a Concepción, sulla foce del fiume Bío-Bío). Di fatto, i viaggi di Bertero dovettero limitarsi alla valle centrale; dopo essere vissuto per qualche tempo nei villaggi di Rancagua e San Fernando, si stabilì essenzialmente tra la capitale Santiago e il porto di Valparaiso, da dove partivano i suoi periodici invii di piante essiccate e semi per l'Europa. Per qualche tempo, a quanto pare, insegnò anche disegno naturalistico all'Instituto National e tra il 1828 e il 1829 pubblicò sulla rivista Mercurio cileno la sua unica opera edita, Lista de las plantas que han sido observadas en Chile por el Dr. Bertero en 1828, in cui passa in rassegna le piante da lui osservate nel paese, indicate con il nome latino e quello locale (prive di descrizione, non sono tuttavia valide ai fini dell'attribuzione del nome botanico). Tra le escursioni più ricche di scoperte quella che lo portò a risalire la valle andina del fiume Aconcagua, fino a Quillota. Nel 1829 o nel 1830 Bertero conobbe il viaggiatore inglese Alexander Caldcleugh, appassionato di mineralogia e di botanica. Costui, di ritorno da un viaggio in Brasile e Argentina, aveva visitato brevemente Más a Tierra, l’isola principale dell'arcipelago Juan Fernández, oltre 600 km al largo di fronte a Valparaiso. Nacque così l'idea di recarsi in quel luogo remoto e singolare, che insieme al nuovo amico il piemontese esplorò dal marzo al maggio 1830. Era la prima spedizione di un botanico professionista in una terra ricca di endemismi, dove egli raccolse 330 specie, di fatto quasi l'intero catalogo della flora dell'isola. Ma sulle Juan Fernández, oggi riserva della biosfera, vorrei tornare in un altro post, visto che non mancano le storie da raccontare. Si trattava di un'impresa di grande valore che forse avrebbe potuto aprire a Bertero le porte di un incarico prestigioso, come la direzione del Museo nazionale cileno. Tuttavia, proprio mentre il piemontese era a Más a Tierra, il governo liberale con il quale probabilmente aveva avuto contatti, come dimostrerebbe la sua collaborazione al Mercurio cileno, venne rovesciato e si impose un regime autoritario. Furono forse queste circostanze a spingere Bertero, privo di appoggi e credenziali internazionali, a partire per una meta ancora più remota: Tahiti. A proporglielo fu il belga Jacques Antoine Morenhout, che aveva stabilito un proficuo commercio di madreperla, legname, olio di cocco tra Cile e isole del Pacifico, con centro a Tahiti, dove aveva una casa. Poco sappiamo del soggiorno di Bertero a Tahiti, che dovette durare sei mesi; nell'aprile 1831, essendo venuto a sapere (con dieci mesi di ritardo) della rivoluzione di luglio in Francia, si imbarcò alla volta di Valparaiso, dove aveva lasciato i suoi materiali e da dove intendeva tornare in Europa. Ma la nave su cui si era imbarcato, appartenente a Morenhout, non arrivò mai in porto. Il belga ne concluse che doveva aver fatto naufragio dopo aver lasciato Raiatea, un'isola a 290 km a nord-ovest di Tahiti, da dove Bertero gli aveva inviato la sua ultima lettera il 15 aprile 1831. In ricordo, battezzò Bertero Reef, scogliera di Bertero, un gruppo di isolotti e scogli corallini della Polinesia francese dove verosimilmente potrebbe essere avvenuto il naufragio. Una sintesi della vita avventurosa del botanico piemontese nella sezione biografie. ![]() La dispersione delle collezioni Vicende altrettanto sfortunate ebbero le sue collezioni. Come ho già accennato, molti degli invii ricevuti dalle Antille da Balbis, furono da quest'ultimp dispersi tra numerosi colleghi; inoltre Balbis consegnò (prestò?) a de Candolle il diario di campo del viaggio che Bertero gli aveva donato, perché se ne servisse per la stesura del Prodromus (lo svizzero vi attinse a piene mani, talvolta anche riproducendo le descrizioni di Bertero parola per parola). Per fortuna, nel 1857, grazie a suo figlio Alphonse il prezioso manoscritto tornò a Torino; si tratta di 14 quaderni di campo, per un totale di oltre 1000 pagine, dove Bertero annotò 1746 raccolte, con una descrizione minuziosa, habitat, luogo di raccolta, nomi comuni, usi officiali locali, accompagnati talvolta da una discussione sistematica e tassonomica e da precisi disegni di dettagli morfologici. Le piante essiccate raccolte nelle Antille sono in parte confluite negli erbari di Colla e Balbis, ora presso l'Orto botanico di Torino, in parte disperse in dozzine di erbari sparsi per l'Europa. Non possediamo purtroppo i diari di campo relativi a Cile, Juan Fernandez e Tahiti. Dopo la morte del congiunto, gli eredi di Bertero misero all'asta i materiali conservati presso il barone Delessert (circa 15000 esemplari) e, benché i botanici torinesi fossero riusciti a raccogliere la somma necessaria tramite una sottoscrizione, ad aggiudicarseli fu una ditta tedesca che a sua volta li vendette tanto a istituzioni scientifiche quanto a collezionisti privati, disperdendo anche questa collezione. Un piccolo erbario di circa 400 esemplari rimase in Cile, dove costituisce la collezione più antica dell'erbario del Museo Nacional de Historia Natural di Santiago. A questo punto, il più importante depositario della memoria di Bertero rimase Colla, che sulla base degli invii dell'amico ne aveva pubblicato un parziale catalogo già nel 1829 in Plantae rariores ex regionibus chilensibus a clarissimo C. G. Bertero nuper detectae et ab. L. Colla in lucem editae. Ma anche su Colla tornerò in un altro post. ![]() La modesta Berteroa Benché queste sfortunate vicende abbiano privato Bertero della gloria che sognava e ben meritava, il valore del suo lavoro non sfuggì ai botanici contemporanei, come dimostrano le varie dediche che ricevette in vita e dopo la morte. Intanto l'imponente numero di piante contrassegnate dagli specifici bereteroi, berteroanus (oltre 300) sta a dimostrare l'importanza del suo contributo alla conoscenza della flora delle Americhe. Tre sono i nomi specifici che gli sono stati dedicati (cui si aggiunge il fungo Berteromyces Ciferri). Il più antico (e unico oggi valido) è Berteroa, creato da de Candolle nel 1821, separando B. incana dal linneano Alyssum. Seguì nel 1854 E. G. von Steudel che, anagrammando la denominazione, creò Terobera (oggi sinonimo di Machaerina Vahl); infine nel 1919 O.E. Schulz assegnò una Brassicacea affine a Berteroa al nuovo genere Berteroella (oggi sinonimo di Stevenia). Il genere Berteroa, della famiglia Brassicaceae, comprende cinque specie di erbacee annuali, biennali o perenni di breve vita distribuite tra Mediterraneo e Asia occidentale, dall'Italia alla Turchia, con massima concentrazione nella penisola balcanica. La più nota è B. incana, un'erbacea abbastanza invasiva che si è infatti diffusa al di fuori dell'area originaria, per altro difficile da determinare, ed ora è presente dall'Europa occidentale fino alla Siberia; si è anche ampiamente naturalizzata negli Stati Uniti dove è considerata un'infestante. In Italia sono presenti tre specie, appunto B. incana (Italia settentrionale e forse centro-settentrionale, Basilicata), B. mutabilis (solo in Calabria), B. obliqua (Italia centro meridionale, a partire dal Lazio). Tendono a crescere in ambienti disturbati caldi e aridi; i fiori generalmente bianchi, portati su lunghi racemi, hanno quattro petali profondamente divisi e sono seguiti da silique ovoidali. Qualche informazione in più nella scheda. Quando Mociño mostrò a de Candolle i disegni eseguiti durante la Real Expedicion Botanica, che aveva sottratto al saccheggio trasportandoli da Madrd a Montpellier con una carretta a mano, in cui trascorreva le notti facendo loro letteralmente scudo con il suo corpo, il botanico svizzero ne fu stupefatto, tanto da esclamare che superavano per qualità scientifica ed estetica quelli del tanto celebrato Redouté. Eppure erano opera non di illustri pittori accademici, ma di due illustratori botanici messicani, Vicente de la Cerda e Atanasio Echeverría, che per circa quindici anni avevano condiviso tutte le avventure della spedizione, accompagnando i botanici in ogni angolo della Nuova Spagna e disegnando qualcosa come 4000 tavole. Poiché molte delle piante essiccate erano andate perdute per le circostanze della guerra, attraverso le copie eseguite per de Candolle dalle dame ginevrine, quei disegni furono a lungo l'unica testimonianza visibile di molte nuove specie descritte nei manoscritti di Sessé e Mociño e una fonte fondamentale per il Prodromos dello stesso de Candolle. Il quale, riconoscente, volle dedicare due nuovi generi agli artisti messicani: quello che toccò a de la Cerda è piccolo e misconosciuto, mentre Echeverría si è aggiudicato il più noto, amato e coltivato tra quelli che onorano i membri della spedizione. ![]() Due giovanotti vivaci e volenterosi La realizzazione di un corredo di disegni botanici dal vivo della flora messicana fu fin dall'inizio uno degli obiettivi fondamentali della Real Expedición Botánica a Nueva España. Gli artisti cui sarebbe stato affidato questo compito dovevano essere ingaggiati sul posto; Martin de Sessé si rivolse perciò al direttore della Reale Accademia d'Arte di San Carlos, Jéronimo Antonio Gil; sebbene l'illustrazione botanica non fosse prevista nei corsi dell'Accademia, Gil scelse quattro allievi del corso di incisione cui fornire una preparazione specifica, sulla scorta delle puntuali indicazioni di Sessé, che li visitava assiduamente. Alla fine due furono i prescelti: il talentuoso Atanasio Echeverría y Godoy e il volenteroso Juan de Dios Vicente de la Cerda, meno dotato ma capace di significativi progressi. I due, descritti come giovanotti (avevano diciotto o diciannove anni) docili, volenterosi e dediti al lavoro, vennero assunti con una paga di 600 pesos annui per l'attività in bottega, da raddoppiarsi per il lavoro sul campo. Benché questa paga fosse la metà di quella percepita dagli artisti spagnoli che avevano partecipato alla spedizione nel Vicereame del Perù, fu ulteriormente ridotta a 500 pesos dalla Junta Real, l'Organo amministrativo della colonia. Da quel momento, e per circa quindici anni, i due artisti accompagnarono, ora insieme ora separatamente, le "escursioni" della spedizione. Il primo a partire fu de la Cerda, che partecipò alla prima campagna dell'ottobre 1787 nei dintorni della capitale; Echeverría seguì poco dopo. Poiché le loro opere sono rarissimamente firmate e i due pittori, oltre ad essere allievi dello stesso maestro, obbedivano alle identiche convenzioni dell'illustrazione scientifica, è difficile distinguere il lavoro dell'uno da quello dell'altro (tranne per i disegni che si riferiscono a piante di aree visitate da uno solo); nonostante ciò, agli occhi degli esperti almeno in qualche caso la mano di Echeverría è riconoscibile per la sicurezza del tratto, l'abilità nel tratteggio delle ombre, la luminosità dei colori, la precisione dei dettagli. Certa è invece l'enorme mole di lavoro compiuto, in parte sul campo in parte in atelier. Già all'inizio di maggio 1788 i due pittori avevano realizzato 187 tavole. Alla fine ufficiale della spedizione, sedici anni dopo, sarebbero state oltre 4000. I documenti della spedizione ci permettono di ricostruire la loro attività con una certa precisione. I due pittori accompagnarono insieme la prime due escursioni e la prima parte della terza, quando i botanici si divisero in due sottogruppi. I disegni realizzati in questa prima fase obbediscono a criteri formali molto precisi (inclusi in un rettangolo, con la pianta inserita al centro, adattandone per così dire la disposizione a questo rigido spazio), furono probabilmente eseguiti in collaborazione dai due artisti, che ne prepararono almeno due copie (una da inviare a Madrid, l'altra da conservare a Città del Messico a corredo del corso di botanica tenuto da Vicente Cervantes; in alcuni casi, furono eseguite ulteriori copie). Nella seconda fase, ciascuna sotto équipe fu invece formata generalmente da un solo botanico, accompagnato da un naturalista e da un disegnatore. Portando con sé i propri materiali (la carta, necessaria sia per i disegni sia per l'erbario, era il prodotto più ingombrante e indispensabile, poi c'erano i colori, le matite, le penne, i pennelli, le gomme e i raschiatoi), dovevano affrontare lunghi viaggi a piedi, dormire in una tenda, lavorare sul campo spesso in condizioni difficili. Mano a mano che il numero di specie raccolte cresceva, dovevano anche lavorare in fretta, per documentarne il maggior numero nel minor tempo possibile, non trascurando però i particolari anche minuscoli indispensabili per l'identificazione. In questa seconda fase, non vennero più eseguite copie sul campo. Anzi, spesso il pittore realizzava solo un bozzetto, che poi sarebbe stato completato in un secondo tempo. Come si vede dall'immagine che ho scelto, il pittore tracciava il disegno a matita, con una linea molto sottile ma sicura; il disegno veniva quindi ombreggiato con china o inchiostro ferrogallico steso a pennello; soltanto per gli esemplari più interessanti almeno alcuni particolari erano colorati con velature successive ad acquerello. Il bozzetto poteva poi essere completato in atelier, talvolta anche con l'ausilio di altri artisti (come Francisco Lindo, un altro allievo del San Carlos) che erano impegnati anche nella realizzazione di copie. Ma molti disegni sono rimasti allo stadio di bozzetto. ![]() Avventure di uomini e disegni A partire dagli ultimi mesi del 1791, Echeverría e Cerda non lavorarono più insieme sul campo. Quando la spedizione si divise per esplorare le regioni del Messico nordoccidentale, a Echeverría, con Mociño e Castillo, toccò l'area più impervia e settentrionale, fino al deserto di Sonora, mentre Cerda esplorava l'attuale stato di Sinaloa con Sessé e Maldonado. Tra il 1792 e il 1793, ancora Echeverría fu prescelto, insieme a Mociño e Maldonado, per la spedizione di Nootka (ce ne rimane una serie di piante regionali molto riconoscibili, caratteristiche delle regioni costiere umide del Pacifico nordorientale), mentre Cerda, attraversando il Messico centrale, rientrava a Città del Messico con Sessé e l'ormai malatissimo Castillo, avendo qui agio di completare, nei molti mesi che vi trascorse prima del ritorno del collega, molti bozzetti. Tra luglio e dicembre 1793, quando Sessé visitò le aree di Puebla e Veracruz, fu presumibilmente accompagnato prima da Echeverría , poi da Cerda. L'anno successivo, Echeverría accompagnò nuovamente Mociño nelle aree di Veracruz, Oaxaca, Tabasco. Quando poi la spedizione venne allargata ai Caraibi e all'America centrale, nuovo scambio di ruoli: mentre insieme a Mociño Cerda si spingeva in Guatemala, Salvador, Nicaragua e Costa Rica, Echeverría era con Sessé a Cuba e Puerto Rico. Le 140 tavole da lui dipinte nelle Antille sono considerate il suo capolavoro, rimarchevoli per l'attenzione ai dettagli e i colori vividi. Del resto, il dotatissimo Echeverría era ormai un artista riconosciuto, tanto che quando Sessé rientrò a Città del Messico, egli rimase a Cuba, entrando a far parte, come aiuto di José Guío, il pittore ufficiale, della Commissione di Guantanamo, una spedizione a carattere a metà tra scientifico e militare, durante la quale fu raccolta un'eminente collezione di pesci, uccelli e anche piante. Ritornato a Città del Messico intorno al 1802, l'anno successivo seguì Sessé e Mociño in Spagna, che però lasciò quasi immediatamente, per lo stato di guerra del paese, rientrando in Messico, dove fu nominato direttore della Reale accademia di San Carlos, morendo però presumibilmente poco dopo. Altro non sappiamo della sua vita; ancor meno di quella di Vicente de la Cerda. Sappiamo che Sessé avrebbe voluto che anche lui lo accompagnasse in Spagna, ma la Giunta gli impose invece di rimanere in Messico, al servizio dell'Orto botanico. Non conosciamo però né la data della sua morte né altri particolari sulla sua esistenza da questo momento in poi. Ma c'è ancora una storia da raccontare: quella delle meravigliose tavole create dai due artisti messicani. Alcune furono effettivamente consegnate all'Orto botanico di Madrid e lì sono ancora custodite; alcune copie rimasero a Città del Messico, altre furono donate a vario titolo; ma il grosso della collezione rimase nelle mani di Mociño che le portò avventurosamente con sé nel suo esilio in Francia, affidandolo a de Candolle. Ho già raccontato in questo post come il botanico svizzero, dovendo restituire i disegni in tutta fretta all'amico, le avesse fatte copiare da un centinaio di signore di Ginevra (dove queste copie sono tuttora conservate). Gli originali, invece, dopo la morte di Mociño sembrarono perduti per sempre. Stavano invece vivendo una vita sotterranea: passati nelle mani del dottore che aveva assistito Mociño nella sua ultima malattia, fino alla fine dell'Ottocento rimasero, sconosciuti a tutti, tra i beni ereditari dei suoi discendenti. Verso la fine del secolo dovettero essere venduti allo storico e bibliofilo Lorenzo Torner Casas. La biblioteca dell'erudito catalano passò poi al fratello minore e ai due nipoti, Jaime e Luis Torner Pannocchia, che nel 1979 li cedettero all'Hunt Institute di Pittsburg, dove giunsero nel 1981, ritornando ad essere accessibili agli studiosi dopo 160 anni. Se ne volete sapere di più, la storia della Torner Collection of Sessé and Mociño Biological Illustrations è raccontata con maggiori particolari in questa pagina del sito dell'istituzione americana. ![]() La modesta e multiforme Cerdia Grande ammiratore del lavoro di Cerda e Echeverría, che divenne anche il principale punto di riferimento per la stesura della sua Flore du Mexique, de Candolle volle onorare i due artisti dedicando a ciascuno di loro uno dei nuovi generi messicani pubblicati in Prodromus Systematis Naturalis Regni Vegetabilis (1828), sulla scorta degli appunti di Sessé e Mociño. Entrambi sono ancora validi, ma ben diversi per ampiezza e notorietà. Per volontà di Sessé e Mociño, rispettata da de Candolle, al modesto e solerte Vicente del la Cerda è toccato il monotipico Cerdia, della famiglia Cariophyllaceae, rappresentato dalla poco appariscente C. virescens, una minuscola erbacea perenne a cuscino con fiori bianco-verdastro privi di petali che poco si distinguono dal fogliame. Endemica delle aree aride del Messico, dal deserto di Chihuahua alle montagne centrali, è una specie piuttosto variabile - per il colore e la disposizione delle foglie, il numero di fiori per infiorescenza, la morfologia dei tepali e delle brattee, la presenza o l'assenza di stipole - tanto che in passato ne furono distinte quattro specie; oggi, sulla base di studi molecolari, tutte sono ricondotte a C. virescens. Qualche approfondimento nella scheda. ![]() Echeveria, una scelta infinita Se nessuno di noi, a meno di essere un esperto di flora dei deserti messicani, ha mai visto una Cerdia, alzi la mano chi non conosce e coltiva le Echeveriae. Al brillante Atanasio Echeverría è infatti toccato in sorte uno dei generi più noti, amati e coltivati dell'intera famiglia Crassulaceae. A dire il vero, Sessé e Mociño avevano destinato al più dotato dei loro pittori un'altra specie dei deserti messicani, l'ocotillo, un arbusto spinoso simile a un rovo che alla prima pioggia si trasforma in una cascata di fiori rosso fiamma. Ma, prima che de Candolle potesse pubblicarlo, era stato anticipato da Kunth (il collaboratore di Humboldt) che l'aveva battezzato Fouquieria splendens. Dunque l'assegnazione del nostro Echeveria a Atanasio Echeverría fu decisa dal solo de Candolle, sulla base di tre specie che Sessé e Mociño avevano assegnato ai generi Cotyledon e Sedum. Echeveria è un genere vastissimo, con oltre 150 specie di piante succulente sempreverdi, talvolta suffrutici, con foglie per lo più a rosetta, diffuse prevalentemente negli habitat aridi di media e alta quota del Messico (una specie raggiunge il Texas e alcune, attraverso il Centro America, si spingono fino all'America andina). Sono tra le succulente più popolari soprattutto per la bellezza delle foglie, in una vasta gamma di forme e colori (che includono il verde, il grigio, l'azzurro, il porpora, il rosato), generalmente raccolte in una rosetta più o meno globosa o aperta, ma anche per la facilità della coltivazione e della propagazione (è molto facile riprodurle anche da una singola foglia). I fiori campanulati, anch'essi piuttosto carnosi, raccolti in cime o pannocchie su lunghi steli lievemente arcuati, con i loro colori in tecnicolor (aranciati, rossi, rosati, spesso con apice dei petali giallo) aggiungono un'ulteriore attrattiva. Impossibile citare anche solo le specie più abitualmente coltivate; la scelta è ampissima, con centinaia e centinaia di cultivar. Disponibili in un'infinita varietà di forme e colori, attraenti tutto l'anno, a prova di pollice secco, relativamente rustiche, sono apprezzate tanto dai collezionisti a caccia dell'ultima novità quanto dal "coltivatore" più occasionale. Alle numerosissime varietà e agli ibridi interspecifici, si aggiungono anche gli ibridi intergenerici con altri generi di Crassulaceae; i più noti e disponibili sul mercato sono quelli con gli affini Pachyphytum, Graptopetalum, Sedum sezione Pachysedum (x Pachyveria, x Grapteveria, x Sedeveria). Qualche informazione in più nella scheda. Concludiamo con una nota dolente: sembra che, nonostante l'incredibile varietà di forme e di colori resa possibile dal lavoro di selezione e creazione di vivaisti e ibridatori, il mercato sia alla ricerca di qualcosa di diverso, di ancor più strabiliante. Così, da qualche anno, soprattutto nel periodo natalizio, ecco sui bancali di fiorai e garden center fare brutta mostra di sé le grandi rosette di E. agavoides (una specie assai robusta e facile da coltivare, che può raggiungere anche un diametro di 20 cm) verniciate in giallo, blu, rosso, nero, oro. Al di là del giudizio estetico, si tratta di una pratica assassina: la vernice impedisce alle foglie di respirare e di effettuare la fotosintesi; nell'arco di pochi mesi, la pianta è destinata a perire. Per gli olandesi che le producono a migliaia di esemplari, poco importa: gli affari sono affari. Ma per chi ama il verde e rispetta la natura, è un infelice connubio di ignoranza, cattivo gusto e consumismo. Nella storia della Real Expedición Botánica a Nueva España l'arrivo di José Mariano Mociño segna uno spartiacque; grazie al suo dinamismo, alla sua conoscenza del territorio, alla sua curiosità insaziabile, dal Messico centrale dove fino ad allora si era mossa la spedizione, gli orizzonti si allargano. E proprio Mociño sarà il protagonista delle due tappe più lunghe e ambiziose: quella che nel 1792 lo porterà fino all'isola di Nootka (oggi nella canadese Columbia britannica) e quella, lunghissima e inedita, che tra 1796 e il 1799, lo vedrà esplorare la Capitania General de Guatemala, ovvero non il solo Guatemala, ma l'intera America Centrale, con un percorso di oltre 4000 miglia. Scienziato completo e vero figlio dei Lumi, Mociño fu anche un medico impegnato nel sociale, in Sudamerica come in Spagna, che pagò carissima la coerenza e la fedeltà alle proprie idee. Morto in povertà e in disgrazia, senza poter vedere pubblicati i risultati dell'immenso lavoro suo e dei compagni, fu anche sfortunato da un altro punto di vista. Per una ragione o l'altra, nessuno dei generi che gli furono dedicati al suo tempo è sopravvissuto; ma, per una volta, a rimediare a tanta ingiustizia ha provveduto poco più di vent'anni fa un botanico conterraneo, incoronandolo con gli allori del monospecifico Mocinnodaphne. ![]() Dal Messico al Canada Nel 1787, José Mariano Mociño, giovane creolo imbevuto di idee illuministe, si laureò in medicina. In quello stesso anno iniziarono le attività della Real Expedición Botánica a Nueva España, il cui primo atto fu la fondazione dell'Orto botanico di Città del Messico, con annessa cattedra di botanica. A seguire quei corsi, tenuti da Vincente Cervantes, tra i tanti giovani entusiasti c'era anche il nostro protagonista, che con l'amico José Maldonado si segnalò a tal punto che il maestro propose a Sessé di cooptarlo nella spedizione. Sessé accettò di buon grado, e, come ho già accennato in questo post, Mociño partì immediatamente con lui e i suoi compagni alla volta del Messico settentrionale; quando i naturalisti si divisero in due sottogruppi, insieme a Castillo e al pittore Echevarría visitò le zone più impervie e inesplorate del Messico nordoccidentale, negli attuali stati di Jalisco, Nayarit, Sinaloa e Sonora, raccogliendo vaste collezioni di piante e animali prima sconosciuti alla scienza. Quando si ricongiunse con Sessé a Aguascalientes, scoprì di essere stato designato, insieme a Maldonando e Echevarría, per accompagnare la spedizione dell'ammiraglio Bodega y Quadra all'isola di Nootka. La nomina, voluta dal viceré, veniva anche a rimediare un groviglio burocratico. In effetti, mentre Sessé aveva accolto con entusiasmo l'ingresso di Mociño e Maldonado, in sostituzione dell'inefficiente e incapace Senseve, quest'ultimo aveva fatto ricorso alla corona per essere reintegrato; inoltre era ostile alla nomina dei due messicani pure Longinos, che li considerava dei semplici e inadeguati studenti; e anche per questo motivo si era giunti a una rottura tra lui e Sessé. Mentre i membri della spedizione erano già nel nord del paese, arrivò da Madrid l'ordine di reintegrare Senseve e allo stesso tempo venne annunciata la spedizione dell'ammiraglio Bodega; ordinando che Mociño,Maldonado e Echevarría lasciassero la Real Expedición Botánica e si integrassero a quest'ultima, il viceré prendeva i classici tre piccioni con una fava: obbediva a Madrid, destituendo Mociño e Maldonado; essi però avrebbero continuato a percepire una paga come membri della nuova spedizione e, inoltre, i limiti della Real Expedición Botánica si sarebbero allargati alla California e all'isola di Nootka. Ho già raccontato altrove le circostanze che nell'estate del 1789 portarono la Spagna e la Gran Bretagna sull'orlo di una guerra per un lembo di terra nell'isola di Nootka (Nutca in spagnolo), di fronte all'attuale isola Vancouver, nella Columbia britannica (Canada). La crisi diplomatica più assurda della storia si risolse poi con un accordo, che doveva però essere perfezionato sul posto da due plenipotenziari, il capitano Vancouver per i britannici e l'ammiraglio Juan Francisco de la Bodega y Quadra per gli spagnoli. Bodega era il comandante della base di San Blas sul Pacifico e aveva una lunga esperienza di navigazione lungo le coste di quell'oceano; nel 1791 ricevette la nomina a Commissario per la questione di Nootka e nel 1792 salpò per l'isola con una piccola flotta che comprendeva due fregate, una scuna e due golette; a bordo, anche i nostri naturalisti, che da Aguascalientes si erano affrettati a raggiungere san Blas per l'imbarco. Il 29 aprile la flotta spagnola giunse a Nootka, dove si sarebbe trattenuta tutta l'estate; Vancouver a sua volta arrivò ad agosto. Sebbene sul piano diplomatico le trattative si fossero ben presto arenate, tra i due comandanti si strinse un'intesa personale, che portò spagnoli e britannici a collaborare nell'esplorazione dello Stretto di Juan de Fuca e dell'intrico di fiordi che si estende tra la Columbia britannica e l'Alaska. Per Mociño e i suoi compagni fu l'occasione per incrementare il loro bottino naturalistico (l'erbario di Mociño e i disegni di Echevarría destarono ammirazione e una punta d'invidia in Menzies, il botanico della spedizione Vancouver), ma l'inesauribile curiosità del naturalista messicano si volse anche alle questioni economiche, ai costumi degli indigeni e alla loro lingua. Trascorso l'inverno 1792-93 a Monterray in California (dove ancora una volta Bodega accolse e ospitò l'amico Vancouver), nella primavera del 1793 la Commissione rientrò a San Blas, dove Maldonado decise di stabilirsi come medico, uscendo così dalla Real Expedición Botánica. Insieme a Bodega e a un ufficiale inglese che doveva essere inviato in patria per avere istruzioni (mentre Vancouver proseguiva il giro del mondo) Mociño e Echevarría tornarono invece a Città del Messico. Qui nel 1794 Mociño pubblicò Noticias de Nutka, importante soprattutto per le informazioni sui costumi delle popolazioni dell'isola. ![]() L'esplorazione dell'America centrale Non rimase comunque a lungo inoperoso. Sessé era riuscito a convincere la corona spagnola a prolungare la spedizione e ad allargarla alla Capitanìa di Guatemala, ovvero all'intero Centro America. Più ancora del Messico, quest'area appariva promettente sul piano botanico, in quanto la più fertile del Viceregno, con molte specie medicinali di grande importanza anche per la bilancia dei pagamenti del Regno iberico. Era anche un territorio quasi inesplorato (solo l'area costiera intorno a Realejo era stata toccata nel 1791 dalla spedizione Malaspina). Mentre riservava a se stesso le isole delle Antille Sopravento, Sessé affidò il comando della sottospedizione in Guatemala a Longinos, con il quale si era in qualche modo rappacificato, e ordinò a Mociño e all'altro pittore, Vicente de la Cerda, di unirsi a lui. Mociño ne fu desolato e inizialmente cercò di sottrarsi: Longinos lo aveva sempre trattato con disprezzo, mai aveva avuto una parola di considerazione per lui; tuttavia alla fine, per amore della scienza, si convinse. In ogni caso, rimasero i contrasti con Longinos, che se ne andò direttamente in Guatemala in nave, mentre Mociño e de la Cerda, cui si era unito il farmacista Julian del Villar, si muovevano più lentamente via terra scendendo a sud lungo la strada del Pacifico. Partiti verso la metà del 1795, a novembre erano a Oaxaca (qui Mociño aveva vissuto a lungo in gioventù, sposando anche la nipote del vescovo della città) e a febbraio 1796 a Tehuantepec. Nel frattempo però erano rimasti in due: Julian del Villar, considerato privo di titoli sufficienti per partecipare alla spedizione, fu infatti richiamato a Città del Messico. In Chiapas (regione che faceva già parte della Capitanìa) furono poi trattenuti oltre il loro desiderio da un'epidemia di vaiolo. Giunsero finalmente a destinazione ad aprile. A Città di Guatemala si ricongiunsero con Longinos che, proprio come a Città del Messico, era intento a costituire un gabinetto naturalistico, in pieno accordo con le autorità locali. Si riprometteva a questo scopo una serie di viaggi che in realtà non poté affrontare per la salute sempre più declinante. I suoi occhi e le sue mani divennero così quelle di Mociño e la Cerda che all'inizio del 1797 lasciarono Città del Guatemala per esplorare in modo estensivo il Centroamerica. Iniziarono dall'area più popolata e meno rischiosa della spedizione, il settore sudoccidentale della Capitanìa lungo la costa del Pacifico. Di lì proseguirono verso sud lungo la cosiddetta "Via de Nicaragua" che congiungeva il Guatemala con la Costa Rica passando attraverso Salvador e Nicaragua, sempre muovendosi grossomodo lungo la costa. Benché frequentata da secoli, era tuttavia una strada accidentata, che attraversava paludi e aree selvagge. Lasciato l'attuale Guatemala, si mossero in territorio salvadoregno, poi, seguendo la costa del golfo di Fonseca, entrarono in Nicaragua, sempre muovendosi lungo la costa fino a Managua. Di qui si spostarono verso l'interno fino al lago Nicaragua, di cui percorsero la riva sudorientale fino all'isola Omeytepe. Proseguriono quindi verso Masaya e Granada, raggiungendo Nicaragua (oggi Rivas). Nel corso del viaggio, non solo incrementarono l'erbario e i disegni, ma realizzarono esperimenti scientifici e collaborarono in vari modi con le autorità locali. In Salvador e in Nicaragua Mociño si interessò della coltivazione dell'indaco, che rivestiva grande importanza economica, alla quale poi avrebbe dedicato un opuscolo. Non conosciamo esattamente l'itinerario successivo, ma le piante dell'erbario di Mociño fanno pensare che scendessero ancora più a sud, penetrando nell'attuale Costa Rica, fino a Cartago, punto più meridionale della spedizione. Da qui intrapresero la strada del ritorno; ma all'inizio del 1798 fecero una lunga tappa in Salvador, per studiare lo sciame sismico che aveva fatto seguito all'eruzione del vulcano Quzaltepec, avvenuta nel febbraio di quell'anno; gli esiti delle sue osservazioni saranno poi pubblicati da Mociño nella Gazeta de Guatemala. Ma intanto il tempo concesso dalla corona per l'esplorazione della Capatanìa era scaduto e alla fine del 1797 Sessé scrisse in tal senso a Longinos, ordinandogli di rientrare con i suoi compagni a Città del Messico. Mentre attendeva i salvacondotti necessari per il viaggio di ritorno, su sollecitazione dei commercianti locali, Mociño trovò ancora il tempo di redigere una memoria sulle potenzialità del commercio tra Messico e Guatemala. Infine, mentre Longinos, malato, si tratteneva ancora in Guatemala, Mociño e de la Cerda si incamminarono alla volta del Messico, muovendosi questa volta più all'interno. Toccata Huehuetenango, a giugno erano in Chapas, dove Mociño venne trattenuto dalle autorità locali, che gli chiesero aiuto prima per fronteggiare un'epidemia (forse di lebbra), poi per valutare la natura e il potenziale economico di alcuni minerali, mentre de la Cerda veniva sollecitato a rientrare a Città del Messico con gli esemplari e i disegni, in vista del ritorno a Madrid che si credeva imminente. Sarebbe arrivato a destinazione nel dicembre 1798; Mociño sarebbe stato di ritorno invece solo a febbraio dell'anno successivo, dopo un'assenza di oltre 4 anni. Portava con sé il manoscritto di una Flora de Guatemala, che tuttavia sarebbe stata pubblicata solo nel 1996. ![]() Epilogo: triste, solitario y final Contrariamente alle attese, dovevano ancora passare diversi anni prima che i membri superstiti della spedizione potessero lasciare il Messico, trattenuti dalla guerra e, nel caso di Mociño, anche da un complicato divorzio. Egli trascorse quegli anni sia a riordinare e classificare le collezioni in vista della pubblicazione, sia soprattutto lavorando come medico negli ospedali di Città del Messico, dove fu attivo sperimentatore degli effetti terapeutici delle piante indigene nei laboratori voluti da Sessé presso i principali nosocomi della capitale. Fu solo nel 1803 che Sessé si trasferì a Madrid, portando con sé l'immenso patrimonio delle collezioni naturalistiche e delle migliaia di tavole eseguite da de la Cerda e Echevarría. Mociño lo seguì poco dopo, e Sessé lo ospitò a casa sua. Pur continuando a lavorare con lui (e dopo la sua morte, avvenuta nel 1808, con l'allievo la Llave) alla redazione della Flora della Nuova Spagna e della Flora messicana, proprio come in Sud America, Mociño si lasciò coinvolgere in crescenti impegni medici e scientifici: nel 1804 lo troviamo a fronteggiare un'epidemia di febbre gialla nel sud del paese; divenne poi ispettore sanitario, professore e direttore del Gabinetto di storia naturale (tra i suoi allievi, appunto il botanico messicano Pablo de la Llave), presidente della Real Academia Medica Matritense. Benché fossero istituzioni prettamente scientifiche, bastò perché nel 1812, quando i francesi si ritirarono, fosse coinvolto nella caccia alle streghe contro i "collaborazionisti infranciosati". A settembre fu arrestato e rimase in carcere per circa due mesi; tornato a Madrid, riprese il suo lavoro al Gabinetto di Storia naturale, ma nel 1813, con la definitiva cacciata dei francesi dovette prendere la strada dell'esilio, portando con sé, in condizioni difficilissime, quanto poté salvare di disegni e manoscritti della Flora messicana. Con la salute rovinata per sempre, semicieco, raggiunse infine Montpellier dove strinse amicizia con il grande botanico Augustin Pyramus de Candolle. Disperando di poter rientrare in Spagna e di giungere mai a veder pubblicati i frutti di tanti anni di ricerche, decise di affidare allo svizzero i manoscritti e i meravigliosi disegni di de la Cerda e Echevarría. Nel 1816, quando a sua volta de Candolle cadde in disgrazia e dovette lasciare Montpellier per rientrare a Ginevra, avrebbe voluto restituirli all'amico messicano, ma Mociño rifiutò, convinto di essere troppo vecchio e malato per riuscire a pubblicarli. L'anno dopo, tuttavia, quando finalmente gli fu concesso di rientrare in Spagna, scrisse a de Candolle perché gli restituisse i materiali. Lo svizzero, che aveva già cominciato a lavorare alla Flore du Mexique, ne fu desolato. Gli pesava soprattutto essere privato delle tavole, uno strumento di lavoro insostituibile e di altissima qualità; gli vennero in soccorso le sue amiche, le "dame ginevrine"; in una vera e propria lotta contro il tempo, le signore riuscirono a realizzare le copie di circa 1300 tavole. E' per questo che l'opera di de Candolle, uscita nel 1819, è nota anche con il soprannome "Flore de Dames de Génève". Quanto a Mociño, nel 1818 ritornò in Spagna e visse ancora due anni, cieco, infermo e in grande povertà a Barcellona, dove morì nel 1820. Era stato il primo e il più grande naturalista ispano-americano della sua epoca e aveva pagato cara la sua fede nella scienza e nell'umanità. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Mocinnodaphne ovvero Mociño sugli allori Scopritore di dozzine di specie di animali e piante inediti per la scienza, Mociño ha lasciato il suo nome a specie come Croton mocinoi, Columnea mocinoana, Calceolaria mocinoana. Per volontà dell'amico la Llave, ha dato il nome specifico alla perla dell'avifauna messicana, il quetzal, Pharomachrus mocinno. Più sfortunate invece le vicende tassonomiche dei diversi generi che gli sono stati via via dedicati. Il primo giunse addirittura già nel 1798, da parte di Casimiro Gomez Ortega che battezzò Mozinna (la grafia del cognome del nostro protagonista era assai oscillante) un'Euphorbiacea, pochi decenni dopo confluita in Jatropha. Nel 1816 fu la volta di Mariano Lagasca che denominò Mocinna un genere di Asteraceae, poi confluito in Galinsoga. Lo stesso nome (non valido per la regola della prorità) fu proposto nel 1832 da la Llave per un genere di Caricaceae, oggi Jarilla e nel 1839 da Bentham (è una semplice variante grafica del genere di Ortega). Non più fortunata fu la denominazione Mocinia, proposta nel 1838 da de Candolle (nome non valido perché sinonimo del precedente Stifftia J.C. Mikan). Insomma, già nella seconda metà dell'Ottocento, il più grande dei botanici messicani rischiava di trovarsi senza un genere celebrativo valido. Un'ingiustizia, che per altro condividerebbe con alcuni dei più grandi - i primi che mi vengono in mente sono Ghini e Siebold, ma perché no anche Menzies, recentemente scippato di Menziesia - se non fosse per uno scatto di orgoglio nazionalista del botanico messicano F.G. Lorea-Hernández che nel 1995 nell'ambito della revisione delle Lauraceae messicane ha creato il nuovo genere Mocinnodaphe ("lauro di Mociño"). Bella infatti la dedica di Lorea-Hernández all'illustre predecessore: "Il nuovo genere è dedicato a José Mariano Mociño, illustre botanico messicano, che con impegno e dedizione diede impulso, ormai due secoli fa, all'importante progetto che anche noi perseguiamo: la conoscenza della flora messicana. Questo nome, con un gioco di parole, serva come riconoscimento degli allori che ha sempre meritato". Questo genere monotipico comprende un'unica specie, M. cinnamomoidea, un arbusto o piccolo albero sempreverde che vive come altre Lauraceae messicane nella foresta nebulosa, in una piccola area della Sierra Madre del Sud nello stato di Guerrero. Piccole differenze nelle caratteristiche degli stami lo distinguono da altri generi affini, come Ocotea o Cinnamomum. Differenze dunque minuscole, la cui validità come criterio distintivo è stata messa in discussione da altri studiosi. Ma al momento il genere resiste, almeno finché il destino di sventura che accompagna il grande Mociño non ritornerà a colpire. Qualche approfondimento nella scheda. Per Maya e Aztechi, il gioco del pallone era una cosa seria, molto seria: connesso con il mito, la religione e i riti di fertilità, veniva giocato in cortili lastricati annessi ai templi, e la partita terminava con un sacrificio umano (a perdere letteralmente la testa per il pallone era, si presume, il capo della squadra sconfitta). Nel corso dei secoli e da una cultura all'altra, variarono le tipologie e le regole di gioco, la forma e le dimensioni del campo, ma ovunque si giocava con una palla di gomma naturale, ricavata dal lattice di vari alberi, primo fra tutti Castilla elastica. Gli aztechi lo chiamavano olicuàhuitl, "albero della gomma"; nell'assegnargli un nome botanico, il capo della Real Expedicion Botanica Martin de Sessé e il suo collaboratore Vicente Cervantes vollero invece onorare la prima vittima della spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. ![]() Un pallone... elastico Nel 1493, ad Haiti, Cristoforo Colombo notò un gruppo d'indigeni che giocava "con un pallone che rimbalzava estremamente bene"; quanto a Hernàn Cortés, fu così impressionato dai giocatori di pallone aztechi da portarne alcuni con sè in Spagna, dove diedero spettacolo di fronte a Carlo V. A stupire, oltre all'abilità dei giocatori, erano proprio le stesse palle: quelle che si usavano all'epoca in Europa erano un involucro di cuoio, imbottito con capelli (donde la parola spagnola pelota, da pelo "capello") oppure vesciche vuote e rigonfie; quelle mesoamericane erano tanto elastiche, rimbalzavano tanto bene perché erano di gomma naturale, ricavata da lattice di alcuni alberi. A scoprire e a imparare come sfruttare questa risorsa naturale erano stati gli Olmechi (che ne hanno addirittura ricevuto il nome: in nahuatl, la lingua degli Aztechi, la parola per indicare il caucciù è ulli o olli, da cui Olmeca "popolo del caucciù"). In effetti, le foreste dell'area attorno al golfo del Messico erano ricche di alberi che secernono un lattice elastico, atto a fabbricare la gomma; le più importanti per l'abbondanza della secrezione e la qualità del materiale sono due specie del genere Castilla: in primo luogo C. elastica, distribuita dal Messico al Sud America settentrionale, ma anche, nelle aree più meridionali dove vivevano i Maya, C. tunu. I giochi di palla presso i popoli mesoamericani avevano un significato religioso e rituale. Venivano giocati anche per puro passatempo, ma i campi principali sorgevano presso i templi e le partite facevano parte di complesse cerimonie che si concludevano con un sacrificio umano. Gli alberi della gomma (in nauhatl olicuàhuitl) erano considerati un sacro dono degli dei; sacre erano le stesse palle di gomma, che, magari ornate con una preziosissima piuma del quetzal, l'uccello sacro al dio Quetzalcoatl - egli stesso non di rado raffigurato mentre gioca a palla; e quella palla, evidentemente, è il Sole - erano una comune offerta votiva; è così che nei depositi sacri ne sono stati trovati molti esemplari, presumibilmente modellini di dimensioni inferiori al reale. Qualche anno fa hanno fatto scalpore i risultati di una ricerca di alcuni studiosi del MIT di Boston che, esaminando questi reperti e interpretando i resoconti degli scrittori spagnoli del Cinquecento, sono giunti alla conclusione che non solo gli Olmechi avevano cominciato ad usare il lattice di Castilla elastica per ricavarne la gomma naturale (i reperti più antichi risalgono al 1800 a.C.), ma avrebbero anche scoperto un procedimento che in qualche modo avrebbe anticipato di secoli la vulcanizzazione, unendo al lattice di Castilla il succo di Ipomoea alba, una liana che spesso si arrampica proprio sui fusti di questi alberi. Benché manchino prove definitive, si tratta senza dubbio di un'ipotesi suggestiva. E' certo invece che il palo de hule (questo il nome spagnolo di C. elastica, un calco del nome azteco; hule è anche la parole che in spagnolo designa la gomma naturale o caucciù) era albero ben noto e l'estrazione del lattice continuò ad essere praticata anche nel periodo coloniale, quando era usato per scopi diversi, in particolare per produrre tele cerate; gli erano anche attribuite proprietà medicamentose, e come pianta medicinale, la specie non sfuggì ai primi studiosi della flora messicana, a cominciare da Francisco Hernandez. Tuttavia bisogna attendere la Real Expedición Botánica a Nueva España perché l'albero fosse descritto scientificamente e ricevesse un nome botanico. Per decisione comune del capo della spedizione, Martin de Sessé, e di Vicente Cervantes, professore di botanica presso l'orto botanico di Città del Messico, venne dedicato alla prima vittima della grande spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. ![]() Una partecipazione intensa pagata con la vita Poche senza dubbio le notizie che ci sono giunte su questo personaggio. E' possibile che quando si aggregò alla spedizione fosse già una vecchia conoscenza di Martin de Sessé, dato che entrambi erano aragonesi del circondario di Jaca. Anche la sua formazione e la sua carriera ricordano quelle del conterraneo (tuttavia più giovane di lui di parecchi anni). Tutte e due, infatti, dopo gli studi in patria, l'uno come medico, l'altro come farmacista, erano entrati al servizio dell'esercito, praticando nell'America coloniale, dove erano divenuti eminenti membri della società scientifica locale. Juan Diego José del Castillo y López, nato presumibilmente a Jaca, aveva studiato prima filosofia, poi farmacia, esercitando la professione dapprima nella città natale e a Almudévar; divenuto farmacista militare, aveva quindi prestato servizio a Cadice, per poi essere trasferito nel 1771 a Porto Rico, dove venne nominato farmacista capo presso dell'Ospedale Reale. Nei quasi vent'anni trascorsi nell'isola, studiò a fondo la flora portoricana e nel 1785 divenne corrispondente estero dell'Orto botanico di Madrid, cui inviò anche numerosi esemplari, conquistando la stima di Casimiro Gomez Ortega. Fu così che nel 1788 quest'ultimo decise di aggregarlo alla Real Expedición Botánica come botanico e farmacista, lodandone le conoscenze botaniche, l'intelligenza e la lunga esperienza di vita ai tropici. Castillo arrivò a Città del Messico nel luglio 1788 e già ad agosto prese parte alla cosiddetta "prima campagna" nella valle del Messico, che si prolungò fino alla fine dell'anno. L'anno successivo, prese parte alla seconda campagna, con meta finale Acapulco; di questo viaggio, Castillo ha lasciato una relazione manoscritta di una ventina di pagine che contiene la descrizione delle piante raccolte, con denominazione linneana, sinonimi, luogo di raccolta, data di fioritura; conservato presso l'Orto botanico di Madrid, fu pubblicato solo nel 1887 in Plantae Novae Hispaniae. Tra il 1790 e il 1792, fu tra i partecipanti della terza lunga e faticosa campagna nel Messico settentrionale; quando il gruppo si divise, insieme a Mociño e Echeverría, percorse le province di Querétaro, Guanajuato, Michoacán, Valladolid e Patzcuaro. Dopo aver attraversato gli attuali stati di Jalisco, San Luis de Potosí e Nayarit, i tre si soffermarono diversi mesi nell'area del Tepic, per poi spostarsi verso Sinaloa, Durango e Sonora. Giunsero fino a Alamos, all'epoca un minuscolo villaggio, sede di una missione quasi abbandonata, al confine tra gli attuali stati di Sinaloa e Sonora. Il viaggio, lungo e faticoso, in mezzo a montagne impervie e deserti, aveva messo a dura prova i tre naturalisti; durante il viaggio di ritorno, mentre attraversavano la Sierra Madre occidentale nella regione di Tarahuamara, Castillo si ammalò. Quando raggiunsero Aguascalientes, il punto di ritrovo con l'altro troncone della spedizione, era ormai prostrato. Fu così che si separò da Mociño e Echeverría, che insieme a Maldonado partirono alla volta di Nootka; egli invece, insieme a Sessé e agli altri, rientrò a Città del Messico, con un viaggio che si faceva sempre più penoso mano a mano che le sue condizioni peggioravano. Neppure in città poté recuperare la salute, morendo il 16 luglio 1793. Nel suo testamento, dimostrò ancora una volta la sua dedizione alla scienza con un lascito testamentario di 4000 pesos per la pubblicazione di Flora mexicana, l'opera collettiva dei botanici e dei disegnatori della spedizione; confermando quell'intelligenza e quella conoscenza del mondo che tanto lo aveva fatto apprezzare da Gomez Ortega, aggiunse però una clausola: se l'opera non fosse stata pubblicata entro sei anni, la somma doveva essere devoluta alla costruzione di un deposito di cereali nella città di Jaca, a vantaggio dei lavoratori poveri. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Castilla, un genere molto elastico La morte dell'amico e compagno colpì profondamente tanto Sessé quanto Cervantes, che avevano inutilmente cercato di curarlo (non giungendo, per altro, neppure alla stessa diagnosi: il primo attribuiva la malattia e la morte allo scorbuto, il secondo a un'ostruzione del piloro); di comune accordo, decisero di dare il suo nome a una pianta importante tra quelle raccolte durante la spedizione; forse proprio per il fascino della sua storia e il suo legame con le civiltà preispaniche, la scelta cadde sul palo de hule. Pochi giorni dopo la morte di Castillo, il 22 giugno 1793 Cervantes inaugurò l'anno accademico con una prolusione dedicata a “El Árbol del Ule”, che ribattezzò Castilla elastica in omaggio all'amico scomparso. Divisa in tre parti, dopo una trattazione delle piante che producono gomma, sulla scorta delle informazioni raccolte da Sessé, esponeva alcuni esperimenti sul lattice e i suoi usi noti, concludendo con un esame delle proprietà medicinali (che, detto per inciso, successivamente non hanno trovato conferma scientifica). L'anno successivo, il discorso venne pubblicato come supplemento della Gazeta de literatura de Mexico, segnando la nascita ufficiale del genere Castilla. Si trattava di una pubblicazione di difficile reperimento, oltretutto scritta in spagnolo; fu così che nel 1805 Charles Koenig del British Museum ne pubblicò una traduzione in inglese; commise però un errore, trascrivendo il nome generico come Castilloa, E come Castilloa fu descritto nell'edizione di Genera Plantarum curata da Endlicher (1837); il nome errato fu in uso per quasi un secolo, finché ne venne riconosciuta l'illegittimità. Il genere Castilla, della famiglia Moraceae, comprende tre specie di alberi di imponenti dimensioni, originari delle foreste pluviali di bassa quota dell'America centrale e meridionale: Sono spesso sorretti da robuste radici a contrafforte; una caratteristica peculiare è poi l'autopotatura dei ramoscelli, che cadono lasciando cicatrici lungo il tronco; secondo alcuni studiosi, si tratterebbe di un meccanismo di autodifesa contro il troppo affettuoso abbraccio dei rampicanti (come appunto Ipomoea alba). C. elastica e C. tunu hanno distribuzione più settentrionale (dal Messico all'Ecuador), mentre C. ulei è più meridionale (dalla Colombia al Brasile). La più importante dal punto di vista economico è C. elastica, che in Messico e in altri paesi dell'area è stata sfruttata a lungo per la produzione della gomma, che oggi permane a livello locale soprattutto per realizzare piccoli oggetti d'artigianato. Introdotta in altri paesi tropicali, in concorrenza con il più noto albero della gomma, Hevea brasiliensis, in alcune zone della Tanzania, come anche nelle isole del Pacifico, è diventata infestante, venendo inclusa nella lista delle specie invasive globali. Qualche approfondimento nella scheda. |
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Da gennaio è in libreria La ragione delle piante, che costituisce l'ideale continuazione di Orti della meraviglie. L'avventura delle piante continua! CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
May 2023
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