Nella storia della Real Expedición Botánica a Nueva España l'arrivo di José Mariano Mociño segna uno spartiacque; grazie al suo dinamismo, alla sua conoscenza del territorio, alla sua curiosità insaziabile, dal Messico centrale dove fino ad allora si era mossa la spedizione, gli orizzonti si allargano. E proprio Mociño sarà il protagonista delle due tappe più lunghe e ambiziose: quella che nel 1792 lo porterà fino all'isola di Nootka (oggi nella canadese Columbia britannica) e quella, lunghissima e inedita, che tra 1796 e il 1799, lo vedrà esplorare la Capitania General de Guatemala, ovvero non il solo Guatemala, ma l'intera America Centrale, con un percorso di oltre 4000 miglia. Scienziato completo e vero figlio dei Lumi, Mociño fu anche un medico impegnato nel sociale, in Sudamerica come in Spagna, che pagò carissima la coerenza e la fedeltà alle proprie idee. Morto in povertà e in disgrazia, senza poter vedere pubblicati i risultati dell'immenso lavoro suo e dei compagni, fu anche sfortunato da un altro punto di vista. Per una ragione o l'altra, nessuno dei generi che gli furono dedicati al suo tempo è sopravvissuto; ma, per una volta, a rimediare a tanta ingiustizia ha provveduto poco più di vent'anni fa un botanico conterraneo, incoronandolo con gli allori del monospecifico Mocinnodaphne. Dal Messico al Canada Nel 1787, José Mariano Mociño, giovane creolo imbevuto di idee illuministe, si laureò in medicina. In quello stesso anno iniziarono le attività della Real Expedición Botánica a Nueva España, il cui primo atto fu la fondazione dell'Orto botanico di Città del Messico, con annessa cattedra di botanica. A seguire quei corsi, tenuti da Vincente Cervantes, tra i tanti giovani entusiasti c'era anche il nostro protagonista, che con l'amico José Maldonado si segnalò a tal punto che il maestro propose a Sessé di cooptarlo nella spedizione. Sessé accettò di buon grado, e, come ho già accennato in questo post, Mociño partì immediatamente con lui e i suoi compagni alla volta del Messico settentrionale; quando i naturalisti si divisero in due sottogruppi, insieme a Castillo e al pittore Echevarría visitò le zone più impervie e inesplorate del Messico nordoccidentale, negli attuali stati di Jalisco, Nayarit, Sinaloa e Sonora, raccogliendo vaste collezioni di piante e animali prima sconosciuti alla scienza. Quando si ricongiunse con Sessé a Aguascalientes, scoprì di essere stato designato, insieme a Maldonando e Echevarría, per accompagnare la spedizione dell'ammiraglio Bodega y Quadra all'isola di Nootka. La nomina, voluta dal viceré, veniva anche a rimediare un groviglio burocratico. In effetti, mentre Sessé aveva accolto con entusiasmo l'ingresso di Mociño e Maldonado, in sostituzione dell'inefficiente e incapace Senseve, quest'ultimo aveva fatto ricorso alla corona per essere reintegrato; inoltre era ostile alla nomina dei due messicani pure Longinos, che li considerava dei semplici e inadeguati studenti; e anche per questo motivo si era giunti a una rottura tra lui e Sessé. Mentre i membri della spedizione erano già nel nord del paese, arrivò da Madrid l'ordine di reintegrare Senseve e allo stesso tempo venne annunciata la spedizione dell'ammiraglio Bodega; ordinando che Mociño,Maldonado e Echevarría lasciassero la Real Expedición Botánica e si integrassero a quest'ultima, il viceré prendeva i classici tre piccioni con una fava: obbediva a Madrid, destituendo Mociño e Maldonado; essi però avrebbero continuato a percepire una paga come membri della nuova spedizione e, inoltre, i limiti della Real Expedición Botánica si sarebbero allargati alla California e all'isola di Nootka. Ho già raccontato altrove le circostanze che nell'estate del 1789 portarono la Spagna e la Gran Bretagna sull'orlo di una guerra per un lembo di terra nell'isola di Nootka (Nutca in spagnolo), di fronte all'attuale isola Vancouver, nella Columbia britannica (Canada). La crisi diplomatica più assurda della storia si risolse poi con un accordo, che doveva però essere perfezionato sul posto da due plenipotenziari, il capitano Vancouver per i britannici e l'ammiraglio Juan Francisco de la Bodega y Quadra per gli spagnoli. Bodega era il comandante della base di San Blas sul Pacifico e aveva una lunga esperienza di navigazione lungo le coste di quell'oceano; nel 1791 ricevette la nomina a Commissario per la questione di Nootka e nel 1792 salpò per l'isola con una piccola flotta che comprendeva due fregate, una scuna e due golette; a bordo, anche i nostri naturalisti, che da Aguascalientes si erano affrettati a raggiungere san Blas per l'imbarco. Il 29 aprile la flotta spagnola giunse a Nootka, dove si sarebbe trattenuta tutta l'estate; Vancouver a sua volta arrivò ad agosto. Sebbene sul piano diplomatico le trattative si fossero ben presto arenate, tra i due comandanti si strinse un'intesa personale, che portò spagnoli e britannici a collaborare nell'esplorazione dello Stretto di Juan de Fuca e dell'intrico di fiordi che si estende tra la Columbia britannica e l'Alaska. Per Mociño e i suoi compagni fu l'occasione per incrementare il loro bottino naturalistico (l'erbario di Mociño e i disegni di Echevarría destarono ammirazione e una punta d'invidia in Menzies, il botanico della spedizione Vancouver), ma l'inesauribile curiosità del naturalista messicano si volse anche alle questioni economiche, ai costumi degli indigeni e alla loro lingua. Trascorso l'inverno 1792-93 a Monterray in California (dove ancora una volta Bodega accolse e ospitò l'amico Vancouver), nella primavera del 1793 la Commissione rientrò a San Blas, dove Maldonado decise di stabilirsi come medico, uscendo così dalla Real Expedición Botánica. Insieme a Bodega e a un ufficiale inglese che doveva essere inviato in patria per avere istruzioni (mentre Vancouver proseguiva il giro del mondo) Mociño e Echevarría tornarono invece a Città del Messico. Qui nel 1794 Mociño pubblicò Noticias de Nutka, importante soprattutto per le informazioni sui costumi delle popolazioni dell'isola. L'esplorazione dell'America centrale Non rimase comunque a lungo inoperoso. Sessé era riuscito a convincere la corona spagnola a prolungare la spedizione e ad allargarla alla Capitanìa di Guatemala, ovvero all'intero Centro America. Più ancora del Messico, quest'area appariva promettente sul piano botanico, in quanto la più fertile del Viceregno, con molte specie medicinali di grande importanza anche per la bilancia dei pagamenti del Regno iberico. Era anche un territorio quasi inesplorato (solo l'area costiera intorno a Realejo era stata toccata nel 1791 dalla spedizione Malaspina). Mentre riservava a se stesso le isole delle Antille Sopravento, Sessé affidò il comando della sottospedizione in Guatemala a Longinos, con il quale si era in qualche modo rappacificato, e ordinò a Mociño e all'altro pittore, Vicente de la Cerda, di unirsi a lui. Mociño ne fu desolato e inizialmente cercò di sottrarsi: Longinos lo aveva sempre trattato con disprezzo, mai aveva avuto una parola di considerazione per lui; tuttavia alla fine, per amore della scienza, si convinse. In ogni caso, rimasero i contrasti con Longinos, che se ne andò direttamente in Guatemala in nave, mentre Mociño e de la Cerda, cui si era unito il farmacista Julian del Villar, si muovevano più lentamente via terra scendendo a sud lungo la strada del Pacifico. Partiti verso la metà del 1795, a novembre erano a Oaxaca (qui Mociño aveva vissuto a lungo in gioventù, sposando anche la nipote del vescovo della città) e a febbraio 1796 a Tehuantepec. Nel frattempo però erano rimasti in due: Julian del Villar, considerato privo di titoli sufficienti per partecipare alla spedizione, fu infatti richiamato a Città del Messico. In Chiapas (regione che faceva già parte della Capitanìa) furono poi trattenuti oltre il loro desiderio da un'epidemia di vaiolo. Giunsero finalmente a destinazione ad aprile. A Città di Guatemala si ricongiunsero con Longinos che, proprio come a Città del Messico, era intento a costituire un gabinetto naturalistico, in pieno accordo con le autorità locali. Si riprometteva a questo scopo una serie di viaggi che in realtà non poté affrontare per la salute sempre più declinante. I suoi occhi e le sue mani divennero così quelle di Mociño e la Cerda che all'inizio del 1797 lasciarono Città del Guatemala per esplorare in modo estensivo il Centroamerica. Iniziarono dall'area più popolata e meno rischiosa della spedizione, il settore sudoccidentale della Capitanìa lungo la costa del Pacifico. Di lì proseguirono verso sud lungo la cosiddetta "Via de Nicaragua" che congiungeva il Guatemala con la Costa Rica passando attraverso Salvador e Nicaragua, sempre muovendosi grossomodo lungo la costa. Benché frequentata da secoli, era tuttavia una strada accidentata, che attraversava paludi e aree selvagge. Lasciato l'attuale Guatemala, si mossero in territorio salvadoregno, poi, seguendo la costa del golfo di Fonseca, entrarono in Nicaragua, sempre muovendosi lungo la costa fino a Managua. Di qui si spostarono verso l'interno fino al lago Nicaragua, di cui percorsero la riva sudorientale fino all'isola Omeytepe. Proseguriono quindi verso Masaya e Granada, raggiungendo Nicaragua (oggi Rivas). Nel corso del viaggio, non solo incrementarono l'erbario e i disegni, ma realizzarono esperimenti scientifici e collaborarono in vari modi con le autorità locali. In Salvador e in Nicaragua Mociño si interessò della coltivazione dell'indaco, che rivestiva grande importanza economica, alla quale poi avrebbe dedicato un opuscolo. Non conosciamo esattamente l'itinerario successivo, ma le piante dell'erbario di Mociño fanno pensare che scendessero ancora più a sud, penetrando nell'attuale Costa Rica, fino a Cartago, punto più meridionale della spedizione. Da qui intrapresero la strada del ritorno; ma all'inizio del 1798 fecero una lunga tappa in Salvador, per studiare lo sciame sismico che aveva fatto seguito all'eruzione del vulcano Quzaltepec, avvenuta nel febbraio di quell'anno; gli esiti delle sue osservazioni saranno poi pubblicati da Mociño nella Gazeta de Guatemala. Ma intanto il tempo concesso dalla corona per l'esplorazione della Capatanìa era scaduto e alla fine del 1797 Sessé scrisse in tal senso a Longinos, ordinandogli di rientrare con i suoi compagni a Città del Messico. Mentre attendeva i salvacondotti necessari per il viaggio di ritorno, su sollecitazione dei commercianti locali, Mociño trovò ancora il tempo di redigere una memoria sulle potenzialità del commercio tra Messico e Guatemala. Infine, mentre Longinos, malato, si tratteneva ancora in Guatemala, Mociño e de la Cerda si incamminarono alla volta del Messico, muovendosi questa volta più all'interno. Toccata Huehuetenango, a giugno erano in Chapas, dove Mociño venne trattenuto dalle autorità locali, che gli chiesero aiuto prima per fronteggiare un'epidemia (forse di lebbra), poi per valutare la natura e il potenziale economico di alcuni minerali, mentre de la Cerda veniva sollecitato a rientrare a Città del Messico con gli esemplari e i disegni, in vista del ritorno a Madrid che si credeva imminente. Sarebbe arrivato a destinazione nel dicembre 1798; Mociño sarebbe stato di ritorno invece solo a febbraio dell'anno successivo, dopo un'assenza di oltre 4 anni. Portava con sé il manoscritto di una Flora de Guatemala, che tuttavia sarebbe stata pubblicata solo nel 1996. Epilogo: triste, solitario y final Contrariamente alle attese, dovevano ancora passare diversi anni prima che i membri superstiti della spedizione potessero lasciare il Messico, trattenuti dalla guerra e, nel caso di Mociño, anche da un complicato divorzio. Egli trascorse quegli anni sia a riordinare e classificare le collezioni in vista della pubblicazione, sia soprattutto lavorando come medico negli ospedali di Città del Messico, dove fu attivo sperimentatore degli effetti terapeutici delle piante indigene nei laboratori voluti da Sessé presso i principali nosocomi della capitale. Fu solo nel 1803 che Sessé si trasferì a Madrid, portando con sé l'immenso patrimonio delle collezioni naturalistiche e delle migliaia di tavole eseguite da de la Cerda e Echevarría. Mociño lo seguì poco dopo, e Sessé lo ospitò a casa sua. Pur continuando a lavorare con lui (e dopo la sua morte, avvenuta nel 1808, con l'allievo la Llave) alla redazione della Flora della Nuova Spagna e della Flora messicana, proprio come in Sud America, Mociño si lasciò coinvolgere in crescenti impegni medici e scientifici: nel 1804 lo troviamo a fronteggiare un'epidemia di febbre gialla nel sud del paese; divenne poi ispettore sanitario, professore e direttore del Gabinetto di storia naturale (tra i suoi allievi, appunto il botanico messicano Pablo de la Llave), presidente della Real Academia Medica Matritense. Benché fossero istituzioni prettamente scientifiche, bastò perché nel 1812, quando i francesi si ritirarono, fosse coinvolto nella caccia alle streghe contro i "collaborazionisti infranciosati". A settembre fu arrestato e rimase in carcere per circa due mesi; tornato a Madrid, riprese il suo lavoro al Gabinetto di Storia naturale, ma nel 1813, con la definitiva cacciata dei francesi dovette prendere la strada dell'esilio, portando con sé, in condizioni difficilissime, quanto poté salvare di disegni e manoscritti della Flora messicana. Con la salute rovinata per sempre, semicieco, raggiunse infine Montpellier dove strinse amicizia con il grande botanico Augustin Pyramus de Candolle. Disperando di poter rientrare in Spagna e di giungere mai a veder pubblicati i frutti di tanti anni di ricerche, decise di affidare allo svizzero i manoscritti e i meravigliosi disegni di de la Cerda e Echevarría. Nel 1816, quando a sua volta de Candolle cadde in disgrazia e dovette lasciare Montpellier per rientrare a Ginevra, avrebbe voluto restituirli all'amico messicano, ma Mociño rifiutò, convinto di essere troppo vecchio e malato per riuscire a pubblicarli. L'anno dopo, tuttavia, quando finalmente gli fu concesso di rientrare in Spagna, scrisse a de Candolle perché gli restituisse i materiali. Lo svizzero, che aveva già cominciato a lavorare alla Flore du Mexique, ne fu desolato. Gli pesava soprattutto essere privato delle tavole, uno strumento di lavoro insostituibile e di altissima qualità; gli vennero in soccorso le sue amiche, le "dame ginevrine"; in una vera e propria lotta contro il tempo, le signore riuscirono a realizzare le copie di circa 1300 tavole. E' per questo che l'opera di de Candolle, uscita nel 1819, è nota anche con il soprannome "Flore de Dames de Génève". Quanto a Mociño, nel 1818 ritornò in Spagna e visse ancora due anni, cieco, infermo e in grande povertà a Barcellona, dove morì nel 1820. Era stato il primo e il più grande naturalista ispano-americano della sua epoca e aveva pagato cara la sua fede nella scienza e nell'umanità. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Mocinnodaphne ovvero Mociño sugli allori Scopritore di dozzine di specie di animali e piante inediti per la scienza, Mociño ha lasciato il suo nome a specie come Croton mocinoi, Columnea mocinoana, Calceolaria mocinoana. Per volontà dell'amico la Llave, ha dato il nome specifico alla perla dell'avifauna messicana, il quetzal, Pharomachrus mocinno. Più sfortunate invece le vicende tassonomiche dei diversi generi che gli sono stati via via dedicati. Il primo giunse addirittura già nel 1798, da parte di Casimiro Gomez Ortega che battezzò Mozinna (la grafia del cognome del nostro protagonista era assai oscillante) un'Euphorbiacea, pochi decenni dopo confluita in Jatropha. Nel 1816 fu la volta di Mariano Lagasca che denominò Mocinna un genere di Asteraceae, poi confluito in Galinsoga. Lo stesso nome (non valido per la regola della prorità) fu proposto nel 1832 da la Llave per un genere di Caricaceae, oggi Jarilla e nel 1839 da Bentham (è una semplice variante grafica del genere di Ortega). Non più fortunata fu la denominazione Mocinia, proposta nel 1838 da de Candolle (nome non valido perché sinonimo del precedente Stifftia J.C. Mikan). Insomma, già nella seconda metà dell'Ottocento, il più grande dei botanici messicani rischiava di trovarsi senza un genere celebrativo valido. Un'ingiustizia, che per altro condividerebbe con alcuni dei più grandi - i primi che mi vengono in mente sono Ghini e Siebold, ma perché no anche Menzies, recentemente scippato di Menziesia - se non fosse per uno scatto di orgoglio nazionalista del botanico messicano F.G. Lorea-Hernández che nel 1995 nell'ambito della revisione delle Lauraceae messicane ha creato il nuovo genere Mocinnodaphe ("lauro di Mociño"). Bella infatti la dedica di Lorea-Hernández all'illustre predecessore: "Il nuovo genere è dedicato a José Mariano Mociño, illustre botanico messicano, che con impegno e dedizione diede impulso, ormai due secoli fa, all'importante progetto che anche noi perseguiamo: la conoscenza della flora messicana. Questo nome, con un gioco di parole, serva come riconoscimento degli allori che ha sempre meritato". Questo genere monotipico comprende un'unica specie, M. cinnamomoidea, un arbusto o piccolo albero sempreverde che vive come altre Lauraceae messicane nella foresta nebulosa, in una piccola area della Sierra Madre del Sud nello stato di Guerrero. Piccole differenze nelle caratteristiche degli stami lo distinguono da altri generi affini, come Ocotea o Cinnamomum. Differenze dunque minuscole, la cui validità come criterio distintivo è stata messa in discussione da altri studiosi. Ma al momento il genere resiste, almeno finché il destino di sventura che accompagna il grande Mociño non ritornerà a colpire. Qualche approfondimento nella scheda.
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Per Maya e Aztechi, il gioco del pallone era una cosa seria, molto seria: connesso con il mito, la religione e i riti di fertilità, veniva giocato in cortili lastricati annessi ai templi, e la partita terminava con un sacrificio umano (a perdere letteralmente la testa per il pallone era, si presume, il capo della squadra sconfitta). Nel corso dei secoli e da una cultura all'altra, variarono le tipologie e le regole di gioco, la forma e le dimensioni del campo, ma ovunque si giocava con una palla di gomma naturale, ricavata dal lattice di vari alberi, primo fra tutti Castilla elastica. Gli aztechi lo chiamavano olicuàhuitl, "albero della gomma"; nell'assegnargli un nome botanico, il capo della Real Expedicion Botanica Martin de Sessé e il suo collaboratore Vicente Cervantes vollero invece onorare la prima vittima della spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. Un pallone... elastico Nel 1493, ad Haiti, Cristoforo Colombo notò un gruppo d'indigeni che giocava "con un pallone che rimbalzava estremamente bene"; quanto a Hernàn Cortés, fu così impressionato dai giocatori di pallone aztechi da portarne alcuni con sè in Spagna, dove diedero spettacolo di fronte a Carlo V. A stupire, oltre all'abilità dei giocatori, erano proprio le stesse palle: quelle che si usavano all'epoca in Europa erano un involucro di cuoio, imbottito con capelli (donde la parola spagnola pelota, da pelo "capello") oppure vesciche vuote e rigonfie; quelle mesoamericane erano tanto elastiche, rimbalzavano tanto bene perché erano di gomma naturale, ricavata da lattice di alcuni alberi. A scoprire e a imparare come sfruttare questa risorsa naturale erano stati gli Olmechi (che ne hanno addirittura ricevuto il nome: in nahuatl, la lingua degli Aztechi, la parola per indicare il caucciù è ulli o olli, da cui Olmeca "popolo del caucciù"). In effetti, le foreste dell'area attorno al golfo del Messico erano ricche di alberi che secernono un lattice elastico, atto a fabbricare la gomma; le più importanti per l'abbondanza della secrezione e la qualità del materiale sono due specie del genere Castilla: in primo luogo C. elastica, distribuita dal Messico al Sud America settentrionale, ma anche, nelle aree più meridionali dove vivevano i Maya, C. tunu. I giochi di palla presso i popoli mesoamericani avevano un significato religioso e rituale. Venivano giocati anche per puro passatempo, ma i campi principali sorgevano presso i templi e le partite facevano parte di complesse cerimonie che si concludevano con un sacrificio umano. Gli alberi della gomma (in nauhatl olicuàhuitl) erano considerati un sacro dono degli dei; sacre erano le stesse palle di gomma, che, magari ornate con una preziosissima piuma del quetzal, l'uccello sacro al dio Quetzalcoatl - egli stesso non di rado raffigurato mentre gioca a palla; e quella palla, evidentemente, è il Sole - erano una comune offerta votiva; è così che nei depositi sacri ne sono stati trovati molti esemplari, presumibilmente modellini di dimensioni inferiori al reale. Qualche anno fa hanno fatto scalpore i risultati di una ricerca di alcuni studiosi del MIT di Boston che, esaminando questi reperti e interpretando i resoconti degli scrittori spagnoli del Cinquecento, sono giunti alla conclusione che non solo gli Olmechi avevano cominciato ad usare il lattice di Castilla elastica per ricavarne la gomma naturale (i reperti più antichi risalgono al 1800 a.C.), ma avrebbero anche scoperto un procedimento che in qualche modo avrebbe anticipato di secoli la vulcanizzazione, unendo al lattice di Castilla il succo di Ipomoea alba, una liana che spesso si arrampica proprio sui fusti di questi alberi. Benché manchino prove definitive, si tratta senza dubbio di un'ipotesi suggestiva. E' certo invece che il palo de hule (questo il nome spagnolo di C. elastica, un calco del nome azteco; hule è anche la parole che in spagnolo designa la gomma naturale o caucciù) era albero ben noto e l'estrazione del lattice continuò ad essere praticata anche nel periodo coloniale, quando era usato per scopi diversi, in particolare per produrre tele cerate; gli erano anche attribuite proprietà medicamentose, e come pianta medicinale, la specie non sfuggì ai primi studiosi della flora messicana, a cominciare da Francisco Hernandez. Tuttavia bisogna attendere la Real Expedición Botánica a Nueva España perché l'albero fosse descritto scientificamente e ricevesse un nome botanico. Per decisione comune del capo della spedizione, Martin de Sessé, e di Vicente Cervantes, professore di botanica presso l'orto botanico di Città del Messico, venne dedicato alla prima vittima della grande spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. Una partecipazione intensa pagata con la vita Poche senza dubbio le notizie che ci sono giunte su questo personaggio. E' possibile che quando si aggregò alla spedizione fosse già una vecchia conoscenza di Martin de Sessé, dato che entrambi erano aragonesi del circondario di Jaca. Anche la sua formazione e la sua carriera ricordano quelle del conterraneo (tuttavia più giovane di lui di parecchi anni). Tutte e due, infatti, dopo gli studi in patria, l'uno come medico, l'altro come farmacista, erano entrati al servizio dell'esercito, praticando nell'America coloniale, dove erano divenuti eminenti membri della società scientifica locale. Juan Diego José del Castillo y López, nato presumibilmente a Jaca, aveva studiato prima filosofia, poi farmacia, esercitando la professione dapprima nella città natale e a Almudévar; divenuto farmacista militare, aveva quindi prestato servizio a Cadice, per poi essere trasferito nel 1771 a Porto Rico, dove venne nominato farmacista capo presso dell'Ospedale Reale. Nei quasi vent'anni trascorsi nell'isola, studiò a fondo la flora portoricana e nel 1785 divenne corrispondente estero dell'Orto botanico di Madrid, cui inviò anche numerosi esemplari, conquistando la stima di Casimiro Gomez Ortega. Fu così che nel 1788 quest'ultimo decise di aggregarlo alla Real Expedición Botánica come botanico e farmacista, lodandone le conoscenze botaniche, l'intelligenza e la lunga esperienza di vita ai tropici. Castillo arrivò a Città del Messico nel luglio 1788 e già ad agosto prese parte alla cosiddetta "prima campagna" nella valle del Messico, che si prolungò fino alla fine dell'anno. L'anno successivo, prese parte alla seconda campagna, con meta finale Acapulco; di questo viaggio, Castillo ha lasciato una relazione manoscritta di una ventina di pagine che contiene la descrizione delle piante raccolte, con denominazione linneana, sinonimi, luogo di raccolta, data di fioritura; conservato presso l'Orto botanico di Madrid, fu pubblicato solo nel 1887 in Plantae Novae Hispaniae. Tra il 1790 e il 1792, fu tra i partecipanti della terza lunga e faticosa campagna nel Messico settentrionale; quando il gruppo si divise, insieme a Mociño e Echeverría, percorse le province di Querétaro, Guanajuato, Michoacán, Valladolid e Patzcuaro. Dopo aver attraversato gli attuali stati di Jalisco, San Luis de Potosí e Nayarit, i tre si soffermarono diversi mesi nell'area del Tepic, per poi spostarsi verso Sinaloa, Durango e Sonora. Giunsero fino a Alamos, all'epoca un minuscolo villaggio, sede di una missione quasi abbandonata, al confine tra gli attuali stati di Sinaloa e Sonora. Il viaggio, lungo e faticoso, in mezzo a montagne impervie e deserti, aveva messo a dura prova i tre naturalisti; durante il viaggio di ritorno, mentre attraversavano la Sierra Madre occidentale nella regione di Tarahuamara, Castillo si ammalò. Quando raggiunsero Aguascalientes, il punto di ritrovo con l'altro troncone della spedizione, era ormai prostrato. Fu così che si separò da Mociño e Echeverría, che insieme a Maldonado partirono alla volta di Nootka; egli invece, insieme a Sessé e agli altri, rientrò a Città del Messico, con un viaggio che si faceva sempre più penoso mano a mano che le sue condizioni peggioravano. Neppure in città poté recuperare la salute, morendo il 16 luglio 1793. Nel suo testamento, dimostrò ancora una volta la sua dedizione alla scienza con un lascito testamentario di 4000 pesos per la pubblicazione di Flora mexicana, l'opera collettiva dei botanici e dei disegnatori della spedizione; confermando quell'intelligenza e quella conoscenza del mondo che tanto lo aveva fatto apprezzare da Gomez Ortega, aggiunse però una clausola: se l'opera non fosse stata pubblicata entro sei anni, la somma doveva essere devoluta alla costruzione di un deposito di cereali nella città di Jaca, a vantaggio dei lavoratori poveri. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Castilla, un genere molto elastico La morte dell'amico e compagno colpì profondamente tanto Sessé quanto Cervantes, che avevano inutilmente cercato di curarlo (non giungendo, per altro, neppure alla stessa diagnosi: il primo attribuiva la malattia e la morte allo scorbuto, il secondo a un'ostruzione del piloro); di comune accordo, decisero di dare il suo nome a una pianta importante tra quelle raccolte durante la spedizione; forse proprio per il fascino della sua storia e il suo legame con le civiltà preispaniche, la scelta cadde sul palo de hule. Pochi giorni dopo la morte di Castillo, il 22 giugno 1793 Cervantes inaugurò l'anno accademico con una prolusione dedicata a “El Árbol del Ule”, che ribattezzò Castilla elastica in omaggio all'amico scomparso. Divisa in tre parti, dopo una trattazione delle piante che producono gomma, sulla scorta delle informazioni raccolte da Sessé, esponeva alcuni esperimenti sul lattice e i suoi usi noti, concludendo con un esame delle proprietà medicinali (che, detto per inciso, successivamente non hanno trovato conferma scientifica). L'anno successivo, il discorso venne pubblicato come supplemento della Gazeta de literatura de Mexico, segnando la nascita ufficiale del genere Castilla. Si trattava di una pubblicazione di difficile reperimento, oltretutto scritta in spagnolo; fu così che nel 1805 Charles Koenig del British Museum ne pubblicò una traduzione in inglese; commise però un errore, trascrivendo il nome generico come Castilloa, E come Castilloa fu descritto nell'edizione di Genera Plantarum curata da Endlicher (1837); il nome errato fu in uso per quasi un secolo, finché ne venne riconosciuta l'illegittimità. Il genere Castilla, della famiglia Moraceae, comprende tre specie di alberi di imponenti dimensioni, originari delle foreste pluviali di bassa quota dell'America centrale e meridionale: Sono spesso sorretti da robuste radici a contrafforte; una caratteristica peculiare è poi l'autopotatura dei ramoscelli, che cadono lasciando cicatrici lungo il tronco; secondo alcuni studiosi, si tratterebbe di un meccanismo di autodifesa contro il troppo affettuoso abbraccio dei rampicanti (come appunto Ipomoea alba). C. elastica e C. tunu hanno distribuzione più settentrionale (dal Messico all'Ecuador), mentre C. ulei è più meridionale (dalla Colombia al Brasile). La più importante dal punto di vista economico è C. elastica, che in Messico e in altri paesi dell'area è stata sfruttata a lungo per la produzione della gomma, che oggi permane a livello locale soprattutto per realizzare piccoli oggetti d'artigianato. Introdotta in altri paesi tropicali, in concorrenza con il più noto albero della gomma, Hevea brasiliensis, in alcune zone della Tanzania, come anche nelle isole del Pacifico, è diventata infestante, venendo inclusa nella lista delle specie invasive globali. Qualche approfondimento nella scheda. La Real Expedicion Botanica a Nueva España, l'ultima in ordine di tempo delle grandi spedizioni scientifiche promosse dalla corona spagnola nel Settecento, nasce da un ritrovamento e da una richiesta. Il ritrovamento è quello, parziale, dell'opera del botanico del Cinquecento Francisco Hernandez sulla natura messicana; la richiesta è quella del medico e botanico Martin de Sessé di creare a città del Messico un orto botanico con annessa cattedra universitaria. Ne nascerà una lunga avventura che, proprio negli anni a cavallo tra la rivoluzione francese e la nascita dell'Impero napoleonico, porterà un gruppo di avventurosi studiosi ispanici e messicani alla scoperta della flora e della fauna del Messico, con una sorprendente puntata in Canada e una coda in centro America, su un territorio che abbraccia 4 milioni di chilometri quadrati. Sorprendente per altro è anche il poco noto genere Sessea, dedicato al tenace Sessé, ideatore e capo della spedizione. Sulle tracce di un vecchio libro e di un nuovo orto botanico Fu intorno al 1780 che lo storico e cosmografo Juan Bautista Muñoz scoprì nella Biblioteca della Compagnia di Gesù di Madrid il manoscritto parziale della storia naturale del Messico di Francisco Hernandez; il re affidò la pubblicazione a Casimiro Gomez Ortega, direttore dell'orto botanico di Madrid. Era un compito complesso, vista la parzialità e la lacunosità del manoscritto; per venirne a capo, a parere di Ortega, sarebbero state opportune ulteriori ricerche nelle biblioteche messicane nella speranza di trovare altri manoscritti e disegni. Più o meno negli stessi anni, l'ex medico militare Martin de Sessé y Lacosta, che si era stabilito in Messico, scrisse a Ortega proponendo l'istituzione di un orto botanico a Città del Messico, con annessa cattedra di botanica, anche per rinfrescare la preparazione del personale sanitario del viceregno, spesso alle prese con preoccupanti epidemie. Unendo le due esigenze, nacque così il progetto, approvato dal re Carlo III nell'ottobre 1786, di una spedizione scientifica nel Viceregno di Nuova Spagna, che da una parte avrebbe dovuto gettare le basi delle due nuove istituzioni scientifiche proposte da Sessé, dall'altra avrebbe dovuto integrare il lascito di Hernandez con nuove ricerche e disegni dal vivo. Ortega curò personalmente la progettazione, inclusi gli aspetti finanziari, e scelse i partecipanti: lo stesso Sessé come capo della spedizione e direttore del futuro orto botanico, il naturalista José Longinos Martìnez e il botanico Jaime Senseve. La spedizione iniziò ufficialmente nel marzo 1787. Nel primo anno, le attività del gruppo furono rivolte essenzialmente alla creazione dell'Orto botanico, collocato in un piccolo giardino nel parco di Chapultepec e solennemente inaugurato di fronte alle autorità cittadine il 1 maggio 1788 con un discorso di Sessé. Contestualmente fu creata la cattedra di botanica, affidata allo stesso Sessé e al medico e farmacista Vicente Cervantes. Rimandando a un altro post le informazioni su queste istituzioni, seguiamo qui le vicende della spedizione sul campo. Mentre si dava da fare per creare l'orto e la cattedra, scontrandosi anche con l'ambiente scientifico messicano, che, ancora fedele al sistema di Tournefort, poco apprezzava quello di Linneo, nell'autunno del 1787 Sessé fece le prime escursioni nei dintorni della capitale; per la campagna del 1788, insieme a Longinos e Senseve, si stabilì prima nel villaggio di San Angel poi a San Augustin de las Cuevas, esplorando soprattutto le montagne in prossimità della capitale. Alla fine dell'anno il gruppo fu integrato da un altro botanico, Juan Diego del Castillo, farmacista dell'ospedale reale di Porto Rico, anch'egli scelto da Ortega, e da due pittori, due giovani messicani raccomandati dal direttore della Scuola di belle arti di San Carlos a Città del Messico: Juan de Dios Vicente de la Cerda e Atanasio Echevarría. La seconda campagna ebbe inizio nel marzo 1789 e portò i naturalisti ad esplorare il Messico centrale, con le aree di Cuernavaca, Tixla, Chilpazingo, Acapulco sull'Oceano Pacifico. Al rientro a dicembre, si registrò un cambio della guarda: Longinos, in disaccordo con Sessé, preferì fermarsi nella capitale per organizzare un Gabinetto di storia naturale, mentre Senseve fu distaccato presso l'università per aiutare Cervantes nelle dissezioni anatomiche. Al loro posto subentrarono due giovani messicani, il primo frutto dell'insegnamento dello stesso Cervantes: il botanico José Mariano Mociño e il chirurgo José Luis Maldonado Polo. Il loro ingresso diede al gruppo maggiori capacità di manovra, con la possibilità di dividersi in sottogruppi. I confini della spedizione si dilatano La terza campagna iniziò nel maggio 1790; questa volta i naturalisti si diressero a nord, esplorando ampie aree del paese, soprattutto nelle province di Michoacàn e Jalisco. Giunti a Gaudalajara, sostarono quattro mesi, sistemando e classificando il materiale raccolto: mentre i pittori realizzarono altre 100 tavole, i naturalisti sintetizzarono i risultati di tre anni di campagne nel manoscritto collettivo Plantas de Nueva España, che, nonostante il titolo, contiene anche importanti apporti sulla fauna, in particolare gli uccelli. A questo punto la spedizione si divise: Mociño, Castillo e Echeverría si incamminarono verso nord lungo le pendici della Sierra Madre, in direzione di Los Álamos; poi si addentrarono nella sierra di Los Tarahumaras , dove Castillo si ammalò gravemente, per proseguire nella provincia di Durango, fino a Aguascalientes, luogo fissato per l'incontro con l'altro gruppo. Quest'ultimo, formato da Sessé, de la Cerda e Maldonado, aveva invece percorso le province di Sinaloa e Ostumurí. Nuovamente riuniti a Aguascalientes, furono raggiunti dall'ordine del viceré di recarsi nell'isola di Nootka, di fronte all'odierna Vancouver; su questa parte della spedizione, che portò Maldonado, Echeverría e Mociño a percorrere il Pacifico fino al Canada, tornerò in un altro post. Sessé, Castillo e de la Cerda tornarono invece nella capitale, dove si fermarono più di un anno (dall'inizio del 1792 alla metà del 1793). A giugno morì Castillo, che non aveva mai recuperato la salute. Anche lui e il suo contributo alla spedizione meritano un post a parte, Da parte loro, anche i due "dissidenti" Longinos e Senseve nel 1791 avevano deciso di organizzare una spedizione in proprio; nel gennaio 1792 si imbarcarono alla volta della Bassa California, percorrendo poi l'intera penisola da Cabo San Lucas a Monterey; si reimbarcarono poi per la costa di Sinaloa e Sonora, da cui rientrarono a Città del Messico. In circa tre anni, percorsero così duemila leghe, raccogliendo importanti collezioni di piante, animali e minerali, nonché informazioni sulle popolazioni indigene. Al loro ritorno, i due dovettero in qualche modo rappacificarsi con Sessé, visto che li ritroveremo tra i partecipanti delle ultime fasi della spedizione. D'altra parte, dal gruppo uscì Maldonado che, dopo il rientro da Nootka, si stabilì nel dipartimento di San Blas dove divenne chirurgo. Intanto il gruppo di Sessé e Mociño nel 1793 aveva esplorato le regioni del sudest che si affacciano sul golfo del Messico, procedendo a volte insieme, a volte diviso in due squadre. Nel 1794 e in gran parte dell'anno successivo, Mociño e Echeverría sostarono nelle provincie di Tehuantepec e Tabasco, da cui inviarono a Città del Messico moltissimi esemplari di piante e animali. Nel giugno del 1794, con il rientro di Longinos e Senseve, gli effettivi era tornati al completo. Sessé riuscì ad ottenere dalla corona il permesso di prolungare la spedizione per altri due anni, visitando il Guatemala e le isole Sopravento. I naturalisti si divisero di nuovo in due sottogruppi: Mociño, Longinos e de la Cerda avrebbero esplorato il Guatemala, mentre Sessé, Senseve e Echeverría avrebbero visitato Cuba, Santo Domingo e Porto Rico. Arrivato a Cuba nella primavera del 1795, Sessé stabilì fecondi contatti con le istituzioni scientifiche dell'isola e propiziò la nascita di un giardino botanico all'Havana. Raggiunto poi Porto Rico, vi si trattenne con i suoi compagni fino al maggio 1797, a causa del blocco del porto di san Juan da parte della flotta inglese. Dopo un secondo soggiorno a Cuba, tornò definitamente in Messico nel 1798. Quanto all'altro gruppo, Longinos, di nuovo in dissidio con gli altri, se ne andò da solo in Guatemala dove, proprio come aveva fatto a Città del Messico, si dedicò alla creazione di un gabinetto di storia naturale; solo quando vi si trovava già da cinque mesi fu raggiunto da Mociño e de la Cerda, cui si era unito il dissettore Julian del Villar Pardo; partiti qualche giorno prima di Longinos, lungo la strada avevano esplorato il sudest del Messico. Longinos riuscì ad imporre ai compagni come prioritaria la costituzione del Gabinetto, che fu inaugurato in gran pompa nel dicembre 1796. Subito dopo Mociño e de la Cerda ripartirono esplorando gran parte dell'America centrale; ma anche su questo ritornerò nel post dedicato a Mociño. Ormai la spedizione volgeva al termine; esauriti i due anni concessi dal re, nel 1797 Sessé scrisse a Longinos di far rientrare il gruppo "guatemalteco". Ritornarono in ordine sparso: prima de la Cerda, nel dicembre 1798, portando con sé oltre 2000 disegni; poi nel febbraio 1799 Mociño che in Guatemala e in Chapas, come medico, era anche stato coinvolto in attività umanitarie; invece Longinos, malato di tubercolosi, fu costretto a rimanere in Guatemala fino alla primavera del 1801, quando partì alla volta del Messico, morendo però durante il viaggio. Finita ufficialmente la spedizione, i naturalisti avrebbero dovuto tornare in Spagna, ma la guerra lo rese impossibile fino al 1803; nel frattempo, oltre a riordinare le collezioni e a riorganizzare il manoscritti della futura Flora mexicana, Sessé si era dedicato a un'altra impresa: la costituzione presso i due principali ospedali di Città del Messico di "sale di osservazione" ovvero di laboratori per lo studio e la sperimentazione delle virtù terapeutiche delle piante indigene. Un lascito imponente I risultati della spedizione furono imponenti: le specie raccolte in oltre un decennio di attività ammontarono a circa 3500, con 200 nuovi generi e oltre 1000 specie prima ignote alla scienza. Enorme anche il lavoro dei disegnatori (anche loro meritano un post a parte), con migliaia di disegni e acquarelli, soprattutto di soggetto botanico. La fondazione di nuove istituzioni come l'orto botanico e la cattedra di botanica a Città del Messico e i gabinetti naturali (precursori dei Musei di storia naturale) voluti da Longinos a Città del Messico e Città del Guatemala può quasi essere considerata l'atto di nascita degli studi naturalistici indipendenti nell'America Latina. Non stupisce dunque che molti membri della spedizione siano celebrati dalla nomenclatura botanica; hanno dato il loro nome a almeno un genere non solo i capi riconosciuti, Sessé e Mociño, ma anche Castillo, de la Cerda e Echeverría, nonché Cervantes, che, per quanto non abbia partecipato al lavoro sul campo, con la sua attività all'Orto botanico di Città del Messico e il suo insegnamento può esserne considerato un membro a tutti gli effetti. Su di loro tornerò in altri post. Qui vorrei concludere la vicenda di Sessé (per la cui vita rimando alla sezione biografie): tornato a Madrid nel 1803 portando con sé i disegni e un erbario di circa 7500 esemplari (copie dei disegni e doppioni delle piante rimasero, come oggetto di studio e conservazione, all'Orto botanico messicano), lavorò intensamente alla pubblicazione della Flora mexicana, ma morì nel 1808 prima di poterla completare. Lo studio delle piante raccolte durante la spedizione, proseguito brevemente da Mociño, finché questi non abbandonò la Spagna nel 1812, fu continuato da botanici spagnoli come Casimiro Gomez Ortega e Mariano Lagasca, nonché dallo svizzero de Candolle, ma le turbolente vicende politiche del regno iberico ottocentesco fecero sì che si giungesse a una pubblicazione solo negli anni '80 dell'Ottocento; alcuni manoscritti della spedizione vennero anche pubblicati in Messico tra il 1887 e il 1894, in particolare la silloge Plantae novae hispaniae (1883). Una Solanacea arborea Il primo omaggio a Sessé venne già nel 1794 (quindi quando la spedizione era ancora in pieno svolgimento) da parte di Hipolito Ruiz e José Antonio Pavon, ovvero dai protagonisti di un'altra delle grandi spedizioni iberiche del secondo Settecento, quella in Perù, che gli dedicarono Sessea. In epoca molto posteriore, nel 1917, Emile Hassler ne staccò Sesseopsis (ma oggi entrambe le specie di questo genere sono state assegnate a Cestrum). Sessea è un genere della famiglia delle Solanaceae che comprende una ventina di specie distribuite soprattutto nell'America andina, in particolare in Perù, Ecuador e Colombia. Per le fioriture è molto simile a Cestrum, da cui si distingue per i frutti (bacche con semi angolati per quest'ultimo, capsule con semi alati per Sessea). Sorprendentemente per questa famiglia, comprende veri e propri alberi (in alcune specie raggiungono anche i 25 metri); rare e poco studiate, la maggior parte delle specie sono endemismi di limitatissime aree delle foreste nebulose delle Ande settentrionali; proprio per questo sono poco conosciute, oltre ad essere a rischio di estinzione, come S. sodiroi, un piccolo albero di cui sono note solo quattro stazioni in Ecuador. Altre specie si spingono invece nelle foreste umide della costa atlantica brasiliana. Qualche approfondimento nella scheda. Concludo con una curiosità: una ditta di distillati madrilena ha voluto dedicare a Martin Sessé un gin prodotto artigianalmente; è un voluto omaggio alla grande avventura della Real Expedicion Botanica, come si racconta in questa pagina. Le storie della botanica riservano continue sorprese. Nel periodo ancora eroico di inizio Ottocento poteva capitare che un giovane botanico, partito da Ginevra e dal lago Lemano, finisse la sua vita nel fiume San Fernando in Messico. Non senza avere cacciato, nel frattempo, orsi e bisonti insieme ai temibili indiani Comanche ed essere diventato consulente militare di un futuro presidente, grazie alla sua conoscenza ineguagliabile del territorio e ai suoi studi pionieristici sulle tribù indiane stanziate lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Questo fu il destino di Jean Louis Berlandier, allievo di de Candolle, trasformatosi per una serie di circostanze in un vero botanico della frontiera. E' giustamente endemico dell'area che esplorò il genere Berlandiera, la cui specie più nota, con il suo profumo di cioccolato, è perfetta per un ginevrino, anche se preferì dichiararsi prima francese, poi messicano. Incidenti di frontiera Nel 1821, al momento dell'indipendenza, faceva parte del territorio messicano anche il Texas, un'area tanto vasta quanto spopolata; i coloni non erano più di 3500, concentrati a San Antono e La Bahia. Per incoraggiare il popolamento, nel 1824 il governo messicano emanò la Ley General de Colonisation, che concedeva una terra a qualsiasi capo famiglia disposto a trasferirsi in Texas, quale che ne fosse la nazionalità, la religione, lo status di immigrazione. A rispondere all'appello furono sì messicani e spagnoli, nonché qualche altro europeo, ma soprattutto statunitensi. Bastarono pochi anni perché la crescente penetrazione di cittadini statunitensi, presto organizzata da imprenditori senza scrupoli, destasse la preoccupazione del governo messicano, tanto più che i confini stessi tra i due stati non erano ben definiti e si faceva sentire un'altra ingombrante presenza: quella dei nativi, in particolare i temibili Comanche. Questi ultimi, grazie alle superiori capacità militari ma anche all'abilità nel gestire i commerci a lunga distanza, avevano imposto il loro controllo sulle altre tribù; nei confronti dei coloni, alternavano l'approccio diplomatico con veri e propri attacchi, imposizione di tributi, sequestri di persona e saccheggi. Vista la scarsa presenza dell'esercito messicano, debole numericamente e privo di fondi, i coloni rivendicavano il diritto di creare proprie milizie di autodifesa contro gli attacchi indiani. Un altro motivo d'attrito con i coloni statunitensi era il possesso di schiavi, proibito o almeno ostacolato in Messico. Nel 1826, un impresario statunitense, H. Edwards, incominciò a sequestrare terre di messicani che non potevano esibire certificati di proprietà, per distribuirle ai coloni che faceva arrivare dagli Stati Uniti; di fronte alle rimostranze del governo messicano, con un gruppo di 30 coloni giunse a proclamare l'indipendenza. Il tentativo fu prontamente represso delle forze messicane, ma era un segnale decisamente preoccupante. In questa situazione esplosiva, fin dal 1825 fu decisa la creazione della Comision de Limites (Commissione della frontiera), con l'incarico di visitare il Texas per fare osservazioni astronomiche e meteorologiche, esplorare le risorse naturali, studiare la presenza indiana, censire gli insediamenti dei coloni nordamericani e determinare la linea di confine tra Messico e Stati Uniti tra i fiumi Sabina (Sabine) e Red River. Fortemente voluta dal ministro degli esteri Lucas Alamán, che aveva studiato in Europa e aveva una formazione scientifica, la commissione fu concepita come missione militare unilaterale, ma anche come una spedizione scientifica (la prima di uno dei neonati stati latinoamericani). Al comando vi era il generale Manuel de Mier y Terán, che, oltre ad essere un eroe della guerra d'indipendenza, era un uomo colto che ne curò attentamente la preparazione, procurando tra l'altro molti degli strumenti scientifici; oltre a una scorta militare, lo accompagnavano il suo segretario, il colonnello José María Díaz Noriega; il medico e tenente colonnello José Batres e il tenente colonnello del genio Constantino Tarnava, incaricati dei rilievi militari e geografici; un mineralogista, Rafael Chovell, un cartografo e disegnatore, José María Sánchez y Tapía e un medico-botanico, che avrebbe raccolto esemplari naturalistici e si sarebbe occupato della salute dei suoi compagni. Arrivava niente meno che da Ginevra; infatti Alamán, che aveva studiato con de Candolle, si era rivolto al suo maestro perché gli trovasse un naturalista che avesse anche competenze mediche; con il consenso della Società di storia naturale di Ginevra, la scelta di de Candolle cadde su Jean Louis Berlandier, allora ventitreenne, che aveva collaborato al suo Prodromus con un saggio sulle Grossulariaceae. Farmacista di formazione, Louis (come preferiva firmarsi) aveva conoscenze di base di medicina, una buona preparazione in sistematica ed era anche un ottimo disegnatore. Partito da Le Havre il 14 ottobre 1826, Berlandier circa due mesi dopo sbarcava nel porto di Tampico. Dopo circa quattro mesi trascorsi sulla costa del Golfo del Messico, da cui inviò due casse di esemplari a de Candolle, a maggio 1827 si spostò a Città del Messico, passando dalla regione di Huasteca. In attesa della partenza della spedizione, ne esplorò i dintorni, inviando ulteriori materiali a Ginevra. Nelle pianure del Texas La Commissione lasciò Città del Messico il 10 novembre 1827 per dirigersi verso i "paesi del nord". A febbraio raggiunse Laredo, sulla riva sinistra del Rio Bravo, dove era atteso dal Comandante delle Province interne del Nord, Anastasio Bustamante. Il gruppo iniziò a esplorare il territorio texano, arrivando alla fine del mese al fiume Medina, dove incontrò il generale Elosúa, che lo guidò fino a Béjar (oggi San Antonio), dove venne fissato il quartier generale. Tra marzo e maggio Berlandier raccolse esemplari botanici intorno a Béjar, Gonzales e San Felipe, quindi, dopo un breve viaggio nell'interno, durante il quale contrasse la malaria, ritornò a San Antonio. La sua attenzione si concentrò soprattutto sulle piante utilizzate dagli indigeni nell'alimentazione quotidiana o come medicinali, come Terania (oggi Leucophyllum) frutescens, che gli indiani usavano contro la sifilide, dedicata al capo della spedizione. Sviluppò anche un forte interesse per la vita e la cultura delle tribù indiane (ce n'erano circa una quarantina), in particolare per i due gruppi maggiori, gli Apache Lipane e i Comanche; con questi ultimi furono stretti rapporti cordiali, tanto che a novembre, con un gruppo di trenta soldati comandati dal colonnello José Francisco Ruiz, Berlandier poté partecipare a una battuta di caccia all'orso e al bisonte a nord ovest di San Antonio, accompagnato dai capi Comanche Reyuna e El Ronca. Alla fine dell'anno accompagnò Ruiz ad esplorare le miniere d'argento presso il fiume San Saba. Intanto il generale Mier y Terán si occupava della parte politica della missione: stabilire la linea di frontiera con gli Stati Uniti e, ancor più, visitare gli insediamenti degli immigrati statunitensi per valutare se la loro presenza fosse legale. Il risultato fu desolante: la popolazione messicana era in netta minoranza rispetta a quella anglosassone, costantemente accresciuta da un flusso di emigrati illegali, e tra i due gruppi c'era uno stato di tensione permanente. Quando, nel gennaio 1829 il generale rientrò a Città del Messico (fu richiamato per bloccare un tentativo di invasione spagnola), nel suo rapporto raccomandò di mettere fine all'immigrazione di statunitensi, costruire forti di confine, rafforzare le guarnigioni militari attorno agli insediamenti già esistenti, incoraggiando al contrario l'arrivo di coloni messicani e europei. Le misure vennero adottate troppo timidamente per essere efficaci: gli insediamenti statunitensi continuarono a crescere in modo esponenziale e nel 1836, dopo insurrezioni e battaglie, il Texas si rese indipendente, per poi aderire un decennio dopo agli Stati Uniti. Ma torniamo a Berlandier, che durante l'assenza di Mier y Terán capeggiò di fatto la commissione. A febbraio si unì a un distaccamento comandato da Antonio Elosúa, inviato a reprimere una sommossa contro il presidio militare di Goliad. Poi, in base agli ordini ricevuto da Mier y Terán, tornò a San Antonio per sistemare le proprie raccolte, da spedire a New Orleans e da qui in Europa. Secondo alcuni biografi, lo stesso Berlandier si sarebbe recato a New Orleans per mare per curare la spedizione; il viaggio è però negato da altri studiosi. Certi invece sono due fatti: il materiale giunto a Ginevra era immenso (tra il 1827 e il 1831, circa 52.000 esemplari di piante essiccate), ma invece degli elogi che si aspettava, dai de Candolle (Augustin Pyrame e suo figlio Alphonse) giunsero aspre critiche sul cattivo stato di conservazione dei materiali, a loro parere non adeguatamente preparati da Berlandier. Sarò stato forse questo a spingere il nostro botanico a decidere di rimanere in Messico; contò sicuramente anche il legame personale con il generale Terán, che, dopo aver respinto gli spagnoli a Tampico divenne un eroe nazionale; nominato comandante generale delle Province interne orientali, fissò il suo quartiere generale a Matamoros, nello stato di Tamaulipas. Qui lo raggiunse Berlandier che almeno fino al 1831 fu coinvolto in alcune missioni per conto del generale (come un'ispezione dello stato delle strade). Dopo la tragica scomparsa di Terán (che nel 1832 morì suicida), divenne medico e farmacista. Nella sua casa di Matamoros, custodì la monumentale collezione raccolta da lui stesso e dai suoi compagni, che includeva piante essiccate, animali imbalsamati, minerali, note naturalistiche sul campo, osservazioni meteorologiche e astronomiche, dati etnografici e oggetti materiali delle culture indigene del Texas e del Messico nordorientale, diari di viaggio, mappe e disegni (alcuni dei quali di sua mano). Lui vivo, a parte alcuni brevi articoli, venne pubblicato solo il diario di viaggio (Diario de viaje de la Comisión de Límites, 1850), scritto insieme a Chovell. Berlandier divenne cittadino messicano, si sposò con una messicana, da cui ebbe diversi figli, e anche dopo la rottura con de Candolle continuò i suoi viaggi e le sue raccolte, visitando sia il Texas (fu di nuovo a Goliad nel 1834) sia altre aree del paese. La sua profondissima conoscenza dei territori di frontiera divenne una risorsa strategica nel 1846, quando scoppiarono le ostilità tra Messico e Stati Uniti. Arruolato nell'esercito messicano con il grado di capitano, servì come cartografo e aiuto di campo del generale Mariano Arista (futuro presidente del Messico), disegnando le carte preparatorie della battaglia di Palo Alto (8 maggio 1846, la prima del conflitto), Terminata la guerra nel febbraio 1848 con la sconfitta messicana, nel 1850 Berlandier fu di nuovo nominato membro della commissione (questa volta internazionale) che doveva definire la frontiera tra i due stati nordamericani. Ma un incidente tragico mise fine alla sua vita nella primavera del 1851: annegò infatti mentre attraversava il fiume San Fernando. Una sintesi della sua vita, che conosciamo in realtà molto poco, nella sezione biografie. Con la sua morte, l'importantissimo materiale di cui era stato raccoglitore e custode rischiò di andare perduto. A salvarlo dall'oblio fu un ufficiale americano, Darius Nash Couch, che aveva partecipato alla guerra messicano-americana e nel 1853 era ritornato in Messico per contro dello Smithsonian Institute per esplorare la flora e la fauna del nordest messicano. Attraverso uno degli aiutanti di Berlandier, ne rintracciò la vedova, Beatriz María Concepción Villaseñor, e riuscì ad acquistare la collezione per 500 dollari per conto dello Smithsonian. Tuttavia, poiché l'istituzione statunitense era in un momento di difficoltà finanziaria e non si trovarono altri finanziamenti (un appello rivolto a Asa Gray cadde nel vuoto, poiché il celebre botanico condivideva i pregiudizi dei de Candolle sulla cattiva qualità degli esemplari di Berlandier), egli ne consegnò solo una parte allo Smithsonian - le note meteorologiche, le collezioni di minerali, piante e animali, nonché i manoscritti - rivendendo il resto a privati. Di grande importanza storica, oltre agli scritti di storia naturale, le osservazioni sulle tribù indiane, che fanno di Berlandier uno dei precursori dello studio etnografico di quelle culture; saranno pubblicate solo nel 1969 con il titolo The Indians of Texas in 1830. Un fiore dal profumo di cioccolato Nonostante le critiche, i de Candolle furono abbastanza generosi da dedicare all'infaticabile esploratore della flora texana il genere Berlandiera (nel quinto volume del Prodromus, 1836). A ricordare il botanico franco-messicano è anche il nome specifico di piante come Echinocereus berlandieri o Vitis bertlandieri e di animali come Gopherus berlandieri, la tartaruga del Texas. Il genere Berlandiera, della famiglia Asteraceae, comprende otto specie (inclusi tre ibridi naturali) di erbacee perenni o suffrutici distribuiti nelle aree aride degli Stati Uniti sudorientali e del Messico nordorientale. Morfologicamente molto variabili per dimensioni (da pochi centimetri a un metro) e forma delle foglie, sono caratterizzati da capolini i cui flosculi ligulati solitamente gialli contrastano con il disco di colore scuro. La specie più nota e più coltivata è B. lyrata, nota come chocolate flower per i suoi capolini gialli intensamente profumati di cioccolato. Molto decorativi sono anche i boccioli verde chiaro, il calice persistente dopo la caduta dei fiori e i frutti secchi. Qualche informazione in più nella scheda. Andrea Vesalio è noto come il padre dell'anatomia moderna: la sua spettacolare Fabrica segnò la rottura con la tradizione galenica e l'inizio dello studio del corpo umano basato sull'osservazione diretta e la dissezione. Gli interessi per la botanica furono marginali nella sua carriera scientifica, tutta rivolta all'anatomia, ma come medico di successo ebbe sicuramente a che fare con le piante medicinali, come dimostra nell'unica opera che dedicò all'argomento, da cui emerge come anche in questo campo si fece guidare dall'esperienza e da un cauto scetticismo. Per celebrare uno dei più grandi conterranei, a pochi anni dall'indipendenza nazionale, con un sussulto nazionalistico due botanici belgi gli dedicarono il genere Vesalea, cancellato appena due anni dopo la creazione, ma recentemente riportato in auge. Anatomia, farmaci esotici e un tragico pellegrinaggio Il recente recupero del genere Vesalea per accogliere le specie americane di Abelia mi dà il destro di parlare di uno dei più grandi protagonisti della rivoluzione scientifica del Rinascimento, Andrea Vesalio. La sua Fabrica (De humani corporis fabrica libri septem) esce in quello stesso 1543 in cui Copernico termina, poco prima di morire, De Rivolutione orbium celestium e ha nel campo della medicina lo stesso significato di svolta e di rottura dell'opera copernicana in quelo dell'astronomia. Con questo libro, che unisce la descrizione del corpo umano basata sull'osservazione diretta a tavole spettacolari disegnate da allievi di Tiziano, nasce l'anatomia moderna. Rompendo con la tradizione galenica (di Galeno nell'edizione del 1555 elencherà 200 errori, dimostrando che le sue descrizioni anatomiche si basavano sulla dissezione di animali, non di esseri umani), Vesalio si procurerà fama, il prestigioso incarico di medico imperiale, ma anche irriducibili nemici. Il più accanito sarà il suo stesso maestro, Jacques Dubois detto Sylvius, che nel suo pamphlet "Confutazione delle calunnie rivolte contro l'anatomia di Ippocrate e Galeno da un pazzo furioso" (il pazzo furioso, in latino vesanus, è un gioco di parole per Vesalius) non esiterà a rivolgere questo appello a Carlo V: "Imploro sua Maestà l'imperatore di punire, con la severità che merita, questo mostro nato e allevato nella sua stessa casa, questo perniciosissimo esemplare di ignoranza, impudenza, arroganza e empietà, di sopprimerlo completamente, prima che possa ammorbare il resto d'Europa con il suo fiato pestilenziale". E per respingere le evidenze di Vesalio, arriverà a sostenere che Galeno aveva dato una descrizione del corpo umano perfetto, com'era ai suoi tempi, ma quest'ultimo nei secoli intercorsi si era corrotto e degenerato. Quali furono i rapporti tra il padre dell'anatomia e la botanica? Ovviamente, come tutti i medici del suo tempo Vesalio conosceva a fondo le erbe medicinali che fornivano la stragrande maggioranza dei medicamenti, tanto più che discendeva da una famiglia di illustri medici e farmacisti; inoltre divise buona parte della sua vita tra i due principali centri dell'innovazione botanica del Cinquecento: da una parte le natie Fiandre, dall'altra l'Italia (insegnò all'università di Padova, fece dimostrazioni anatomiche a Bologna e fu in contatto con l'ambiente mediceo). Quanto all'ambiente tedesco, documentati sono i rapporti personali con Fuchs, cui inviò un semplice all'epoca molto celebrato, il rhaponticum (forse Rhaponticum arthamoides); il botanico tedesco non solo utilizzò il libro di Vesalio come principale fonte del proprio manuale di anatomia (in alcune parti, un vero e proprio plagio), ma ebbe a definirlo frutto dell'illuminazione divina. La grande importanza delle immagini per la conoscenza e la diffusione del sapere ma anche come strumento argomentativo è comune ai due studiosi, come è stato sottolineato da S. Kusakawa nel suo importante saggio Picturing the nature. Image, text, and argument in sixteenth century human anatomy and medical botany, che mette a confronto l'uso delle immagini in De corporis humani fabrica di Vesalio e in De historia stirpium di Fuchs. Nei suoi difficili anni alla corte spagnola come medico di Filippo II, in cui Vesalio dovette affrontare un ambiente ostile e la rivalità dei colleghi, ebbe rapporti amichevoli con il medico e botanico Francisco Hernandez e poté approfondire la sua conoscenza dei semplici che affluivano dalle Indie. Verso questi ultimi il suo approccio fu allo stesso tempo aperto e cauto, come possiamo ricavare dall'unica sua opera dedicata alla botanica medica, Epistola, rationem modumque propinandi radicis Chynae decocti [...] pertractans (1546). A offrire il pretesto per quest'operina (che nella seconda parte si trasforma in una risposta alle accuse di Sylvius) fu un amico di Malines, Joachim Roelant, che gli chiese la sua opinione su un farmaco alla moda, la radice china (scritto in vari modi, anche radix Chyna, radix Chyna, radix Cynna); questa radice medicamentosa, a quanto pare tratta da una specie di Smilax (quella che Linneo denominerà appunto Smilax china, ma forse semplicemente una varietà cinese della nostra Smilax aspera, la salsapariglia) intorno al 1525 era stata portata a Goa da mercanti cinesi e da qui importata in Europa dai portoghesi; aveva conosciuto un immediato successo, affermandosi come specifico contro la sifilide (un suo estimatore per questo impiego fu ed esempio Mattioli) ma anche contro altre malattie, in particolare la gotta; la moda dilagò quando la adottò lo stesso imperatore Carlo V. La risposta di Vesalio è molto prudente e pacata (non può certo mettere in discussione il parere dell'imperatore, e suo datore di lavoro), ma ferma. Basandosi sulla propria esperienza medica, nega che la radix china abbia particolare efficacia contro la sifilide, preferendole di gran lungo il guaiaco (legno di Guaiacum sanctum e G. officinale); lo considera invece efficace per la cura della gotta e delle artriti, per le sue proprietà sudorifere. D'altra parte, mette in guardia contro l'idolatria per i rimedi esotici: oltre ad essere costosi, venduti sotto forma di polveri e parti essiccate, senza che se ne possa verificare la provenienza, sono spesso oggetto di contraffazioni e soperchierie. Meglio dunque rivolgersi a semplici nostrani, di altrettanta comprovata efficacia. Ricorda di aver curato un grave attacco di gotta del suo illustre paziente utilizzando un decotto a base di camedrio (Teucrium chamaedrys) e altre erbe; consiglia anche la tormentilla (Potentilla erecta). Un ultimo legame con la botanica ci riporta all'estremo, tragico viaggio di Vesalio. Nella primavera del 1564, egli lasciò la corte di Filippo II per un pellegrinaggio in Terra Santa. Su questo episodio sono fiorite le più incredibile leggende (tra la più gettonata quella secondo la quale, mentre dissezionava un nobiluomo o una nobildonna, fu evidente che il cuore batteva ancora; condannato a morte dall'inquisizione per aver praticato la vivisezione, fu graziato dal re, che commutò la pena nel pellegrinaggio); molto più probabilmente, secondo la testimonianza di Clusio, che giunse a Madrid proprio il giorno dopo la sua partenza, Vesalio, malato nel corpo e insofferente dell'atmosfera ostile della corte, aveva ottenuto il permesso di recarsi in pellegrinaggio per motivi di salute. Oltre alla devozione, tra le motivazioni del viaggio c'era anche il desiderio di esplorare le piante medicinali della pianura di Gerico. In effetti, alcuni contemporanei lo accusarono, una volta in Palestina (ma nel caso di Vesalio, mito e realtà, o se volete fatti e fake news, si mescolano continuamente), di aver dedicato più tempo alle piante che alla visita dei luoghi santi. Ma di queste eventuali ricerche non è rimasta traccia; Vesalio infatti durante il viaggio di ritorno morì a Zante, in circostanze, tanto per non smentirsi, ancora una volta misteriose. Una sintesi della sua vita di cortigiano, ma anche di "uomo contro" nella sezione biografie. A chi desidera approfondire il contributo del grande padre dell'anatomia, consiglio il bellissimo sito vesaliusfabrica.com, pubblicato in occasione del cinquecentesimo anniversario della nascita e ricchissimo di contributi (incluso l'accesso alla prima edizione digitalizzata di De corporis humani fabrica). Vesalea, Abelia, Vesalea? o magari Linnaea? Nel 1842, il raccoglitore belga A. B. Ghiesbreght, che esplora la flora del Messico insieme a H.G. Galeotti e J.J. Linden, nelle montagne degli stati di Veracruz e Oaxaca raccoglie due nuove specie di arbusti; importate in Belgio (dove Galeotti ha fondato un proprio vivaio per la diffusione delle piante messicane), vengano subito immesse nel mercato con il nome un po' fantasioso di fuchsia messicana. Due anni dopo lo stesso Galeotti, insieme a M. Martens, riconoscerà la loro appartenenza alla famiglia delle Lonicerae (oggi Caprifoliaceae) e l'affinità con Abelia; sulla base di alcune particolarità dell'ovario i due creano il nuovo genere Vesalea, in onore del grande conterraneo, l'anatomista belga Andrea Vesalio. Il nuovo genere ha però vita brevissima: due anni dopo, il francese J. Decaisne, rilevando un errore nella descrizione dei due colleghi, lo fa confluire in Abelia. Questa è la situazione per circa 160 anni, finché le ricerche filogenetiche (come abbiamo visto in questo post) mettono in crisi lo stesso genere Abelia; due le possibili soluzioni: la confluenza di Abelia in Linnaea (la linea seguita da Plants of the World); la sua divisione in generi più piccoli monofiletici (la linea seguita da Plants List). Così, i sostenitori di questa posizione resuscitano Vesalea, che va ad accogliere le specie messicane prima appartenenti ad Abelia. Poche le differenze, a dire la verità, tra i due generi; le due principali sono le caratteristiche delle infiorescenze, brevi racemi con pochi fiori, da uno a tre; il numero dei sepali, sempre cinque; la disposizione delle ghiandole del nettario. Per noi profani, la differenza pratica più evidente è la diversa rusticità: al contrario delle sorelline asiatiche, le Vesaleae sono poco rustiche. Le specie attribuite al genere sono presumibilmente cinque (ma le differenze tra una specie e l'altra sono sottili); una è piuttosto nota anche nei nostri giardini. Siamo abituati a chiamarla Abelia floribunda; dobbiamo abituarci a ribattezzarla Vesalea floribunda (a meno che si imponga Linnaea floribunda). Comunque la si chiami, è un arbusto di grande bellezza, con eleganti rami arcuati e fiori penduli dalla lunga corolla tubolare rosa acceso (che ci fanno capire perché furono inizialmente commercializzate come fuchsie). Di non difficile coltivazione, devono essere protette dove le temperature vanno sotto zero. Qualche particolare in più nella scheda. Hans Sloane fu una delle figure più influenti della scienza britannica della prima metà del Settecento. Non tanto per le sue opere scientifiche (che in sostanza si riducono a una sola, per quanto importante) quanto per la sua passione di raccogliere cose e per la capacità di coltivare relazioni. Di lui è stato detto che non c'era personalità scientifica, soprattutto nel campo della botanica, che non conoscesse o con cui non corrispondesse. Inoltre la sua lunghissima vita - nato nel 1660, morì a 93 anni, nel 1753 - gli permise di attraversare profonde trasformazioni, politiche, economiche e ovviamente scientifiche. Che il figlio di un modesto funzionario irlandese sia diventato il medico di nobili e sovrani, baronetto, presidente prima del Collegio reale dei medici poi della Royal Society, ricchissimo grazie alla sua professione ma anche ai proventi di piantagioni lavorate da schiavi neri, principe dei collezionisti e padre del British Museum, sta lì a dimostrarlo. Tra suoi ammiratori, anche Plumier e Linneo, che cooperarono alla creazione del genere Sloanea. Sloane il raccoglitore Nel 1684, al suo rientro dalla Francia, dove si era laureato in medicina dopo aver seguito i corsi di Tournefort e Magnol, il giovane Hans Sloane si presentò al celebre medico Thomas Sydenham (che, va sottolineato, non era un tradizionalista). Quando mostrò orgoglioso il suo curriculum, si sentì dire: "Ottimo, ma non serve a niente. Anatomia! Botanica! Non ha senso! Caro signore, conosco una vecchietta al Covent Garden che di botanica ne sa molto di più. Quanto poi all'anatomia, il mio macellaio può dissezionare un'articolazione in modo perfetto. No, giovanotto; è tutta robaccia. Deve andare al capezzale dei malati; è solo lì che si impara qualcosa sulle malattie". La congiunzione tra la pratica empirica e gli studi scientifici non era ancora avvenuta. Eppure Sydenham stimava abbastanza il "giovanotto" da farne il suo protetto, aiutandolo a inserirsi nell'ambiente medico londinese. Sloane da parte sua fin da studente aveva saputo stringere legami anche d'amicizia con personaggi del calibro di John Ray e Robert Boyle; nel 1685, fu ammesso alla Royal Society (nata proprio l'anno della sua nascita) e nel 1687 nel Collegio reale dei medici. Lo stesso anno, accettò di accompagnare in Giamaica il nuovo governatore, il secondo duca di Abermale, come medico personale e chirurgo della flotta. Con il fiuto per gli affari che l'avrebbe sempre contraddistinto, contrattò un ottimo trattamento economico, che una volta arrivato a destinazione investì nell'acquisto di zucchero e corteccia di china. Per un giovane medico appassionato di botanica un viaggio in Giamaica era l'occasione della vita. Oltre all'eccellente salario e all'appoggio di una nobile famiglia, ad attrarlo fu un ambiente naturale ricchissimo, ancora in gran parte inesplorato; a spingerlo ad accettare l'incarico fu in particolare John Ray, che contava sulle sue scoperte per risolvere i problemi posti dalla classificazione delle piante. Da questo punto di vista, era una scelta felice: la Giamaica è, tra le isole delle Antille, quella più ricca di biodiversità vegetale; il suo patrimonio di angiosperme è stimato a circa 2800 specie, 500 sono le felci, con più del 20% di specie endemiche (per fare un confronto, nelle piccole Antille sono il 13%). La piccola flotta del duca salpò da Portsmouth il 12 settembre 1687, toccando Madeira, Barbados, diverse isole delle piccole Antille, Haiti e raggiungendo la Giamaica il 19 dicembre. Durante il viaggio (come faranno dopo di lui tanti altri scienziati viaggiatori) Sloane fece osservazioni sulla fosforescenza e gli uccelli marini, approfittando delle poche soste per erborizzare. Ad esempio, a Madeira, dove si fermarono solo tre giorni, riuscì a raccogliere esemplari di ben 38 diverse specie e sottospecie. Quando vi giunsero Sloane e il suo datore di lavoro, la Giamaica era all'inizio di una profonda trasformazione economica, sociale e demografica. Strappato agli spagnoli nel 1655 con un colpo di mano, per qualche decennio questo avamposto della guerra coloniale tra monarchia britannica e spagnola aveva prosperato grazie alla guerra da corsa (famosa è rimasto il corsaro Henry Morgan che, per qualche anno, ne fu anche il governatore). Nel 1670, tuttavia, erano giunti la pace e il riconoscimento della sovranità inglese; i proventi delle spedizioni corsare incominciavano a passare in secondo piano rispetto all'economia di piantagione, basata sul lavoro degli schiavi neri importati dall'Africa. Al momento il processo era solo agli inizi (nel 1672 le piantagioni erano 70, nel 1770 sarebbero divenute 680; gli schiavi neri, circa 9500 negli anni '70 del Seicento, erano già 45.000 nel 1700, per toccare 300.000 nel 1800). Inoltre, gli inglesi controllavano di fatto solo i territori costieri; l'interno era il rifugio dei maroons, ex schiavi neri che erano stati liberati dagli spagnoli al momento dell'invasione inglese e avevano formato delle comunità indipendenti, fondendosi in parte con la popolazione indigena degli Arawak. Il governatore si stabilì nella vecchia capitale spagnola, Santiago de la Vega (oggi Spanishtown). Sloane, che prestava i suoi servizi anche ai ricchi piantatori bianchi, poté però visitare anche altre comunità dell'isola, passando da una piantagione all'altra. Durante il suo soggiorno di circa quindici mesi, tenne un diario di campo in cui annotò scrupolosamente osservazioni sulla fauna, la flora, i costumi della popolazione locali e fenomeni naturali, come un terremoto. Raccolse un'importante collezione di piante (circa 800 specie), insetti, molluschi, conchiglie, pesci, nonché oggetti di interesse etnografico. Poiché nel clima tropicale era spesso difficile o anche impossibile conservare gli esemplari (una parte della sua collezione fu divorata dalle formiche), si assicurò la collaborazione di un pittore locale, il reverendo Garrett Moore, che disegnò piante e animali dal vivo. Dopo poco più di un anno, il governatore (un pessimo paziente, che indulgeva al bere nonostante le rimostranze del suo medico) morì. La vedova, ottenuto il permesso da Londra - dove nel frattempo Giacomo II era stato rovesciato dalla Gloriosa rivoluzione - rientrò in patria nel maggio 1689, accompagnata dal cadavere imbalsamato del marito, dal dottor Sloane e dalla sua vasta collezione, inclusi alcuni animali vivi tra cui un'iguana, un alligatore e un serpente lungo sette piedi, che movimentarono il viaggio di ritorno. L'iguana cadde dal ponte, l'alligatore morì di morte naturale, il serpente fu ucciso da un terrorizzato servitore della duchessa. Sloane il medico e lo scienziato Sul quel viaggio Sloane seppe edificare la sua fortuna, professionale, economica, scientifica. Dopo essere rimasto per qualche anno al servizio della vedova di Abermale, divenne un medico alla moda con una clientela altolocata (inclusi i sovrani britannici, Anna, Giorgio I e Giorgio II). Nel 1716 fu fatto baronetto; nel 1719 divenne presidente del Collegio dei medici (incarico che resse per sedici anni); nel 1727 protomedico di Giorgio II. Altra fonte di proventi furono anche le sue ricette mediche, tra cui una pomata per gli occhi e una bevanda che sarebbe rimasta legata al suo nome (almeno nei paesi anglosassoni): la cioccolata calda. Durante il soggiorno in Giamaica, Sloane aveva osservato i vari modi in cui le diverse comunità dell'isola consumavano il cioccolato: i neri se ne servivano per svezzare i neonati; i nativi lo bevevano amaro e reso piccante dal pepe; gli spagnoli vi aggiungevano il peperoncino e ne consumavano anche 5 o 6 tazze al giorno. Quanto lui, lo trovava stomachevole, amaro e difficile da digerire. Ma diventava leggero e benefico se zuccherato e diluito con latte. Ecco la famosa formula della cioccolata di Sloane, un tonico venduto in farmacia che talvolta prescriveva ai suoi pazienti. Ma egli non fu affatto l'inventore di questa bevanda; non era l'unica formula del genere in commercio; a sfruttarla commercialmente e a legarla al nome di Sloane (un personaggio molto noto e universalmente stimato) fu, dopo la sua morte, un droghiere di nome Nicholas Sanders che creò probabilmente il primo marchio commerciale di cioccolata, sostenendo di rifarsi alla ricetta originale di Sloane; l'idea venne ripresa in più grande stile all'inizio dell'Ottocento dai fratelli Cadbury che finirono per imporre il mito di Sloane inventore della cioccolata in tutto il mondo anglosassone. Al di là della fortunata professione di medico, la ricchezza di Sloane aveva però anche altre basi. In Giamaica aveva incontrato Elizabeth Langley Rose, figlia di un facoltoso mercante londinese e moglie di uno dei più ricchi piantatori dell'isola. Quando Elisabeth rimase vedova, sposò in secondo nozze Sloane, portandogli in dote le piantagioni ereditate dal marito. E' dunque allo zucchero, e agli schiavi neri che lo coltivavano, che egli dovette la sua fortuna più volte milionaria. Membro attivo e influente della Royal Society, nel 1695 ne divenne segretario. In quel periodo, la società era in difficoltà economiche e amministrative; Sloane vi applicò il suo talento organizzativo, promuovendo la società attraverso la ripresa della pubblicazione delle Philiosophical Transactions (di cui fu curatore per circa vent'anni), l'assidua corrispondenza con studiosi di tutto il mondo, il risanamento finanziario ottenuto incoraggiando le donazioni e espellendo i soci morosi. Dopo la morte del Newton, nel 1727 divenne Presidente della Società, carica che resse fino al 1741, quando si ritirò ottantunenne per problemi di salute. I rapporti epistolari intessuti con gli scienziati di tutto il mondo (che continuò a coltivare anche dopo il ritiro) furono essenziali per ridare prestigio all'istituzione. Proprio nelle Philosphical Transactions comparve nel 1696 il catalogo delle piante giamaicane (Catalogus Plantarum quae in Insula Jamaica sponte proveniunt). Scritto in latino, e quindi destinato agli studiosi, è un'opera scarna, priva di illustrazioni, che elenca e descrive succintamente le circa 800 specie raccolte principalmente in Giamaica, ma anche durante le altre tappe del viaggio; segue l'indicazione del luogo di raccolta e, per le piante già note, i riferimenti bibliografici e i sinonimi. Ben accolta negli ambienti scientifici, era solo un'anticipazione della sua opera maggiore, Voyage to the Islands Madera, Barbados, Nieves, S. Christophers, and Jamaica, with the natural history . . . of the last of those islands, in due splendidi volumi illustrati, usciti rispettivamente nel 1707 e nel 1725. Scritti in inglese, in uno stile spesso brillante, si rivolgevano a un pubblico più largo anche di appassionati, ma divennero anche un'opera di riferimento, utilizzata anche da Linneo. Il primo volume si apre con una storia della Giamaica a partire da Cristoforo Colombo, seguita da una dettagliata descrizione dell'isola e delle varie comunità che vi vivevano: spagnoli e inglesi, nativi, africani. Uomo del suo tempo, Sloane descrive la schiavitù senza né giustificarla né condannarla, registrandola semplicemente come un dato di fatto, anche quando si sofferma sulle atroci punizioni inferte agli schiavi "ribelli". D'altra parte, ha un atteggiamento di rispetto verso le altre culture. Riconosce che le abitudini di vita degli amerindi e degli africani sono più sane di quelle degli europei (molti, come il duca di Abermale, morivano precocemente per gli eccessi nel bere) e più adatte al clima tropicale. Trascrive canzoni e ricette (compreso il Jerk chicken, un pollo speziato che è ancora uno dei piatti più celebri della cucina giamaicana), analizza le malattie più frequenti e i modi per curarli. La seconda e più ampia parte del volume è dedicata alle piante erbacee e i mammiferi, descritti in modo molto dettagliato e accurato. Il secondo volume (uscito, come si è visto, 18 anni dopo il primo), dopo un'introduzione in cui Sloane risponde ai suoi critici, passa in rassegna gli alberi, i pesci e altri animali marini, gli insetti, gli uccelli, la geologia dell'isola con sezioni sulle pietre, le terre e i minerali. Le bellissime illustrazioni a grandezza naturale contribuirono grandemente al successo dei volumi. In parte furono tratte dai disegni eseguiti in loco da Moore, in parte furono eseguite dall'artista scozzese di origini olandesi Everjardius Kickius sulla base degli esemplari essiccati. Le incisioni sono di Michiel van der Guscht. Il primo volume comprende 256 tavole, prevalentemente botaniche, il secondo 80 tavole di piante e 42 di animali. Sloane il collezionista Gli animali, le piante e gli altri oggetti raccolti in Giamaica furono il primo nucleo di una vastissima collezione, dedicata soprattutto agli oggetti naturali, che Sloane andò ampliando per tutta la vita, investendovi le sue cospicue fortune nell'acquisto delle raccolte di altri collezionisti. Così, nel 1701 ereditò - in cambio del pagamento dei suoi debiti - quella di William Corten, che si stima comprendesse 50.000 pezzi; acquisì la collezione d'arte del cardinale Gualterio, ma soprattutto le collezioni di storia naturale e gli erbari di botanici britannici e stranieri, che includono James Petiver, Nehemiah Grew, Leonard Plukenet, Adam Buddle, Paul Hermann e Herman Boerhaave. Il suo erbario, che inizialmente era formato dagli otto volumi con le piante raccolte durante il viaggio in Giamaica, giunse a comprenderne 265. Inizialmente la collezione era ospitata nella casa di Sloane al n. 3 di Bloomsbury Place; quando divenne troppo grande, Sloane risolse il problema acquistando il palazzo accanto, al n. 4. Ma neppure questo bastò. Così nel 1712 acquistò una proprietà a Chelsea, Chelsea Manor, dove si trasferì quando, superati gli ottant'anni, si ritirò dalla professione. Grazie a questo acquisto, la sua vita si intrecciò ancora in un altro modo con la storia della botanica. Fin dal 1673, sul quel terreno sorgeva il giardino dell'ordine dei farmacisti, ovvero il Chelsea Physic Garden (negli anni '80, prima di andare a studiare in Francia, il giovane Hans Sloane vi si era formato come apprendista) che al momento versava in grandi difficoltà economiche. Sloane risolse il problema affittando in perpetuo il terreno alla Società dei farmacisti per la cifra simbolica di 5 sterline l'anno. Inoltre, il giardino era tenuto a cedere alla Royal Society un certo numero di piante. Si interessò anche alla gestione, scegliendo personalmente come Capo giardiniere Philip Miller, che a partire dal 1722 avrebbe diretto il giardino per quasi mezzo secolo. Sloane desiderava che la sua collezione non fosse dispersa e potesse essere usufruita da tutti. Decise di lasciarla in eredità alla nazione, a condizione che venisse pagato un lascito di 20.000 £ ai suoi eredi (il valore reale superava il milione di sterline). Alla sua morte nel gennaio 1753, il parlamento con una legge apposita accettò la donazione. Nacque così il British Museum, le cui collezioni di storia naturale nell'Ottocento andarono poi a formare il Natural History Museum. Grazie alla passione e alla lungimiranza di Sloane si è così conservato un patrimonio inestimabile per la storia della botanica, costituito in particolare dagli erbari e dai manoscritti di numerosi scienziati. Una sintesi della sua lunga e attiva vita nella sezione biografie. L'imponente Sloanea A un personaggio di tale calibro non mancarono (e non mancano) i riconoscimenti. In primo luogo, a ricordarlo c'è la stessa topografia di Londra, dove abbiamo Sloane Square, Sloane Street, Sloane Gardens, Hans Place, Hans Crescent, Hans Road; gli sono stati dedicati monumenti, come la statua che campeggia al Chelsea Physic Garden; nel suo villaggio natale, Killyleagh, gli è stato intitolato un festival, ovviamente all'insegna della cioccolata (Hans Sloane Chocolate & fine Food Festival); non manca un marchio di cioccolato che si fregia del suo nome. In rete numerosi siti gli sono dedicati; forse il più interessante è The Sloane letters project, il progetto nato attorno alla sua corrispondenza, una fonte straordinaria per ricostruire la scienza e la società del primo Settecento. Nella nomenclatura scientifica, a ricordarlo sono il batrace Crinia sloanei, la splendida farfalla Urania sloanus e il genere botanico Sloanea. Quest'ultimo fu creato da Plumier nei suoi Nova plantarum americanarum genera (1703). E' un omaggio diretto al suo predecessore nell'esplorazione delle Antille; fu probabilmente proprio il fortunato esito del viaggio di Sloane in Giamaica a indurre la corona francese a finanziare le spedizioni di Plumier alla ricerca di piante medicinali, tra cui quella corteccia di china di cui il medico irlandese fu un convinto sostenitore. Il genere venne poi validato da Linneo nel 1753. Sloanea è un genere della famiglia Elaecarpaceae che comprende 130-150 specie di alberi e arbusti tropicali, diffusi soprattutto nelle Americhe tropicali, ma anche in Asia e Australia; assente nell'Africa continentale, è presente in Madagascar. Comprende alcuni degli alberi più belli e imponenti della foresta pluviale dell'America tropicale. Alti anche più di 40 metri, sono sostenuti da radici tabulari che disponendosi a raggiera intorno all'albero formano quasi un contrafforte. Alte fino a 10 metri, possono estendersi tutto attorno anche per una trentina di metri. E' un'ottima scelta per commemorare Sloane, viste che diverse specie vivono anche nelle Antille, compresa la Giamaica, con la specie S. jamaicensis. Qualche approfondimento nella scheda. Nella maggior parte dei casi, i nomi delle piante vengono dedicati da botanici a altri botanici; non sono i rari i casi di dediche a sovrani, mecenati, scienziati celebri in altri campi. Ma qualche volta anche un nome botanico può essere un atto politico. Ce lo dimostra la storia del genere Casimoroa e del suo dedicatario, Casimiro Gomez. Ma in questo post faremo anche un po' di backstage su come nasce questo blog. Sulle tracce di Casimiro Per una volta parlo di me (i blogger lo fanno, ma qui in genere non succede). Qualche giorno fa, in un gruppo Internet di appassionati, ho visto la fotografia di un frutto esotico che non conoscevo, quello di Casimiroa edulis, o sapote bianco. Il primo impulso per la sottoscritta è scoprire qualcosa di più su questa pianta; ma il secondo (è ormai un riflesso condizionato) è chiedersi: "Ma chi è questo Casimiro?" E così inizia la ricerca. Il primo passo è consultare l'ottimo Verzeichnis eponymischer Pflanzennamen (Index of Eponymic Plantes Names) di Lotte Burkhardt. Leggo che il nome è stato creato nel 1825 da La Llave, che l'ha dedicato a un combattente per la libertà del Messico, Casimiro Gomez, fucilato nel 1815. Navigo un po' in Internet, e trovo informazioni contraddittorie: la maggior parte dei siti indica come dedicatario Casimiro Gomez de Ortega (importantissimo botanico spagnolo a cavallo tra Sette e Ottocento); una minoranza conferma il messicano Casimiro Gomez; qualche fantasioso tira fuori un fantomatico cardinale Casimiro Gomez Ortega. Aggiungo che l'attribuzione a Gomez de Ortega è data anche da un repertorio autorevolissimo ( di cui non faccio il nome per carità di patria). Come si scopre chi ha ragione? Semplice: si cerca di risalire alla fonte primaria. Nel caso dei nomi botanici, la fonte primaria è la pubblicazione scientifica (rivista, libro, atti di un società scientifica) in cui è comparsa l'attribuzione; spesso, anche se non sempre, gli autori spiegano le motivazioni dei nomi che creano. Nel nostro caso la fonte primaria è il secondo fascicolo di Novorum vegetabilium descriptiones, pubblicato da Pablo La Llave e Juan Martinez de Lexarza a Città del Messico nel 1825. Si tratta di un'opera importantissima, in cui vennero pubblicati generi oggi molto noti come Mina, Calibrachoa o Montanoa. C'è quindi una buona probabilità che sia disponibile in rete. Mi metto alla ricerca, ma prima di trovarlo, mi imbatto in una fonte secondaria, ovvero in uno studio scientificamente fondato che, incidentalmente, analizza alcuni aspetti del libro di La Llave e Lexarza; si tratta di un'articolo M.C. Cuevas Cardona e C. López Ramírez, Cambios de gobierno en la vida de un botanico mexicano: Maximino Martinez. Leggo con grande interesse (ne parlo sotto) in che modo i due botanici messicani giunsero a dedicare un certo numero di nuovi generi a diverse personalità, tra cui il nostro Casimiro (indubbiamente messicano, indio e martire della guerra d'indipendenza). C'è anche la traduzione in spagnolo della nota dedicatoria. Poco dopo trovo anche il fascicolo di La Lave e Lexarza (è lì, scaricabile gratuitamente, a disposizione di tutti, come Google Books). E' l'ultima conferma: ora so su quale Casimiro concentrare la ricerca. E cercando notizie su di lui, scopro anche perché per qualche sprovveduto si sia potuto trasformare in un cardinale: il povero Casimiro (povero vedrete tra poco perché) era nato in un paesino dello stato messicano di Hidalgo, El Cardonal. Basta cambiare una lettera e "Casimiro Gomez di El Cardonal" si trasforma in "El Cardenal Casimiro Gomez". Tutti i dubbi sono fugati, tranne uno: perché la gente che ha a disposizione la più grande biblioteca che mai l'umanità abbia avuto (sto parlando della rete, con migliaia e migliaia di testi, incluse le fonti primarie) la usa così male, facendo solo del copia incolla? Un martirologio botanico Il 28 settembre 1821, dopo una lotta decennale, il Messico ottiene l'indipendenza. Nel 1824 si dota di una costituzione e nasce la repubblica. Quello stesso anno Pablo La Llave e Juan Martinez de Lexarza pubblicano il primo fascicolo di Novorum vegetabilium desciptiones, cui l'anno successivo fa seguito il secondo. I due botanici vi descrivono per la prima volta diverse piante della flora messicana, tra cui anche una trentina di nuovi generi. Ferventi patrioti, intendono il loro lavoro come un atto politico: fino ad allora, la flora del nuovo mondo è stata per lo più studiata e descritta da botanici europei; una flora messicana scritta da messicani è un segnale di emancipazione, di "indipendenza" anche a livello scientifico (tanto che i due botanici non esitarono a polemizzare con un mostro sacro come Alexander von Humboldt). Ma l'intento politico e patriottico è anche più esplicito: il primo fascicolo è aperto dalla dedica all' "eterna memoria" di Miguel Hidalgo e di altri tredici patrioti morti per dare la libertà alla patria; e sono proprio loro i dedicatari della maggior parte dei nuovi generi (altri si aggiungeranno nel secondo fascicolo, tra cui proprio il nostro Casimiro Gomez). Certo ci sono anche, più tradizionalmente, un esploratore e botanico come José Mariano Mociño (dedicatario dell'oggi non più valido Mocinia), un botanico e farmacista come Antonio de la Cal y Bracho (dedicatario di Calibrachoa) oppure qualche personalità del Messico indipendente come lo storico José de Mier, autore dell'Historia de la revolución de Nueva España. Ma la parte del leone la fanno i martiri, gli eroi della patria, famosi come Hidalgo o oscuri come Casimiro Gomez. E veniamo finalmente a Casimiro. Era un indio otomì, nato a El Cardonal nello stato di Hidalgo; di famiglia poverissima, da bambino accompagnava i mulattieri che trasportavano vari tipi di materiali a Città del Messico. Adattato da uno spagnolo, visse nella capitale fino al 1810, quando, scoppiata la guerra di indipendenza, ritornò nel villaggio natale e organizzò la lotta degli indigeni contro gli spagnoli. Rivelò notevoli doti militari nelle azioni di guerriglia, tanto da vedersi riconosciuto il grado di colonnello. Tuttavia nel 1813, come luogotenente di Villagrán, quando questi venne sconfitto preferì arrendersi in cambio dell'indulto per sé e i suoi uomini. Appena liberato, ritornò sulle montagne e riprese la lotta, ma fu catturato e sconfitto dagli spagnoli nel 1815; questa volta, i realisti non ebbero pietà: Casimiro Gomez fu fucilato, quindi decapitato; il suo capo, come macabro monito e trofeo, fu esposto a un albero del burrone di Santa Monica, teatro di alcune delle sue imprese. Ma lasciamo la parola a La Llave e Lexarza e leggiamo la dedica: "A Casimiro Gómez, nato a El Cardonal, della tribù otomì. uomo sobrio e temperato, sagace e coraggiosissimo in guerra, che disprezzando le comodità e vestendosi umilmente come i suoi soldati, unicamente con un pugno di guerriglieri otomì condusse innumerevoli e gloriosissime azioni per il bene della patria". Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La dolce (e soporifera) Casimiroa Certo non conciliava il sonno delle truppe realiste spagnole il glorioso guerrigliero indio Casimiro Gomez, come fanno i frutti di una delle piante che ne portano il nome. Il genere Casimiroa appartiene alla famiglia delle Rutaceae come gli aranci e i limoni, tuttavia i suoi frutti non sono esperidi (come nel genere Citrus), ma drupe. Comprende una decina di specie arboree native dell'America centrale e dell'altopiano messicano. La più nota è C. edulis, nota come sapote bianco (sapote blanco) o matasano; quest'ultimo nome ("uccide le persone sane") fa riferimento ad alcune tossine presenti nei semi, che contengono alcaloidi dall'effetto sedativo. Il frutto, più o meno della dimensione di un'arancia, ha una polpa estremamente zuccherina, con un sapore che viene descritto come simile a quello del mango o della pesca, con sentori di mandorla. Oltre che in Messico e in America centrale, è coltivato commercialmente in Florida e in California (dove fu introdotto da monaci francescani), nei Caraibi, alle Hawaii, in Sud Africa, in Nuova Zelanda e in Australia. Relativamente rustico, di crescita veloce e decorativo per il bel fogliame sempreverde, con una buona resa di frutti, è occasionalmente coltivato anche da noi. Qualche approfondimento nella scheda. Perché mai un botanico scozzese dell'Ottocento dedicò un genere che vive solo in America settentrionale a una regina di Siria del III secolo (che non sembra aver coltivato alcun rapporto con le piante)? Sarà stata una reminiscenza degli studi classici, o la semplice suggestione di un nome sonoro? Per capirlo, facciamo un passo indietro e ci addentriamo nelle paludi lapponi in compagnia di Linneo. Il colpo di fulmine di Linneo e i nomi classici di Don Un nome botanico può anche nascere da un colpo di fulmine. Almeno è quel che accadde a Linneo nel corso della spedizione lappone del 1732, di fronte all'irresistibile charme di un piccolo arbusto di palude. Lasciamoglielo raccontare con le sue parole: "Ho notato che prima di fiorire è rosso sangue, ma non appena fiorisce i petali diventano color carne. Dubito che qualsiasi artista possa riuscire a riprodurre questo incarnato nel ritratto di una giovane donna, o ad adornarne le guance con le sue bellezze che nessun belletto potrebbero prestarle. Appena l'ho vista mi sono ricordato di Andromeda come viene descritta dai poeti, e più ci rifletto più trovo somiglianze con la pianta. Se Ovidio avesse voluto descrivere la pianta simbolicamente non avrebbe potuto trovare maggiore affinità. E' ancorata lontana nell'acqua, come se fosse incatenata a una roccia in mezzo al mare. L'acqua le arriva alle ginocchia, sopra le radici; ed è sempre circondata da mostri velenosi - rospi e rane - che in primavera, quando si accoppiano, la inzuppano d'acqua. Lei sta in piedi e inchina il capo per il dolore. Poi i suoi piccoli grappoli di fiori con le loro guance rosa cadono e lei diventa sempre più pallida". Decise così di chiamare quella pianticella Andromeda e, per rendere ancora più evidente l'analogia che lo aveva tanto colpito, volle accompagnare quelle note con un disegno (non certo un capolavoro artistico): sulla sinistra una fanciulla nuda, incatenata a una roccia, assediata da un drago (ovvero la principessa Andromeda del mito, offerta in pasto a un drago inviato da Nettuno); dall'altra l'Andromeda della botanica, con la corolla graziosamente reclinata, assediata da un più prosaico tritone. La scritta recita: "Andromeda fittizia e vera; mistica e genuina; immaginata e ritratta". Questa storia non avrebbe diritto di cittadinanza in questo blog (qui i nomi sono sempre tratti da persone vere, non da figure immaginarie) se non fosse per il botanico scozzese David Don, a lungo curatore dell'Orto botanico di Edimburgo. Nel 1834 egli pubblicò A New Arrangement of the Ericaceae, in cui tra l'altro rivide il genere Andromeda separandone diversi nuovi generi, che naturalmente avevano bisogno di un nome. Per assegnarglielo, seguì da vicino le orme di Linneo, ripescando alcuni nomi femminili dalla mitologia classica: in primo luogo Cassiope (ovvero la madre di Andromeda); Leucothoe (figlia di un re di Babilonia che fu trasformata da Apollo in un arbusto profumato), Cassandra (la figlia di Priamo inascoltata profetessa di sciagure; inascoltata anche nella botanica, visto che oggi è sinonimo di Chamaedaphne). Ma in un caso fece eccezione: per il genere Zenobia non scelse una figura mitologica, ma storica, niente meno che la celebre regina Zenobia di Palmira, capace di tenere testa all'esercito romano. Una figura che in quegli anni doveva essere abbastanza nota, se pensiamo che nel 1813 andava in scena l'opera rossiniana Aureliano in Palmira, di cui Zenobia è la protagonista femminile. Le ragioni della scelta di Don rimangono misteriose. La motivazione non dice molto: "Da Zenobia, l'onoratissima regina di Palmira, che si distinse per la sua virtù, il suo valore e la sua sapienza, e fu celebre per le sue sventure". Forse, nonostante si sia ormai nel pieno del Romanticismo, la suggestione dell'antichità rimaneva forte; oppure nella scelta il botanico scozzese si è fatto guidare dal puro piacere del suono, assegnando alle sue piante bei nomi evocativi, senza alcun legame razionale con ciò che designano; o forse, un legame sottile c'è. Tutte queste figure, sia le quattro immaginarie - Andromeda, Cassiope, Leucothoe, Cassandra - sia l'unica storica, Zenobia, sono fanciulle e donne infelici, sventurate; adatte, quindi, come aveva suggerito Linneo, a prestare il loro nome a questi gentili arbusti che piegano le loro corolle in basso, come un capo reclinato in segno di dolore. Naturalmente è solo un'ipotesi. Il dato certo, l'unico, è che grazie a Don una donna interessante e eroica è entrata nella storia della botanica. Vissuta nel III secolo, in uno dei momenti di maggior decadenza dell'Impero romano, minacciato a est dai Parti e a ovest dai barbari germani, Zenobia ne approfittò per ritagliarsi un regno indipendente, estendendo le sue conquiste alla Siria, alla penisola anatolica, al Libano, alla Palestina e all'Egitto. Donna colta e raffinata, fece della sua corte un centro di incontro tra le diverse culture che convivevano in Oriente; chissà se tra le scienze coltivate a Palmira non ci fosse anche la botanica? Non ne sappiamo nulla; sappiamo solo che, dopo aver fatto tremare Roma, fu sconfitta dall'Imperatore Aureliano che la umiliò portandola nella capitale e ostentandola nel suo trionfo (e saranno queste, insieme alla morte del marito e del figlio, le "sventure" cui allude Don). Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Zenobia, bellezza delle paludi Il genere Zenobia, come Andromeda e le sue sorelle Cassiope e Leucothoe, appartiene alla famiglia Ericaceae; comprende da una a tre specie di arbusti originari delle zone sabbiose umide e delle paludi degli Stati Uniti sudorientali. Stando a Plant List, comprende tre specie (Z. cassinefolia, Z. pulverulenta, Z. speciosa), ma il più aggiornato Plants of World ne riconosce una sola (gli altri sono sinonimi), Z. pulverulenta, una specie abbastanza polimorfa, il che spiega queste incertezze tassonomiche. Nativa delle pianure costiere degli Stati Uniti sudorientali (North Carolina, South Carolina e Virginia), fu "scoperta" a fine Settecento nelle paludi della Florida dal celebre raccoglitore William Bartram, che la ritrasse dal vivo; sul suo disegno si basa la prima descrizione scientifica, sotto il nome di Andromeda pulverulenta, da parte di Willdenow (1799). E' un arbustino eretto con piccoli fiori campanulati, reclinati, delicatamente profumati; come si è accennato, presenta diverse forme. Nelle dune costiere (Sandhills) delle due Caroline, le foglie e i ramoscelli sono glauchi; più a est sono invece verdi; alcune varietà hanno foglie particolarmente decorative in autunno. Per il dolce profumo dei fiori, che alcuni accostano a quello dell'anice, altri a quello dei fiori degli agrumi, negli Stati Uniti è detta Honeycup, "coppa di miele". Qualche approfondimento nella scheda. Se quest'estate sui vostri balconi coltiverete petunie e verbene, rivolgete un pensiero a John Tweedie: senza i suoi semi quelle magnifiche e coloratissime varietà orticole non sarebbero mai state create. Né sarebbero arrivate nei nostri giardini l'erba delle Pampas e il Solanum jasminoides. A ricordare questo scozzese fattosi argentino, Tweedia, un genere dell'Argentina e del Chile, di cui fu il primo raccoglitore. Una colonia agricola scozzese in Argentina Nel 1825, quando decise di dare una svolta alla sua vita, John Tweedie aveva già cinquant'anni; un'età avanzata, per gli standard dell'epoca (la speranza di vita per un uomo della sua classe sociale era intorno ai quarant'anni). Invece Tweedie non esitò a lasciare una carriera di successo come giardiniere paesaggista, che lo aveva visto giardiniere capo dell'Orto botanico di Edimburgo e progettista e direttore di diversi parchi in Scozia e Inghilterra, per unirsi a un gruppo di 200 coloni in partenza per l'Argentina. A organizzare l'emigrazione in massa erano stati i due intraprendenti fratelli Parish Robertson, che negli anni della lotta per l'indipendenza erano riusciti ad arricchirsi con il contrabbando e finanziando i ribelli ora al potere. Furono particolarmente vicini a Rivadavia (al momento Ministro degli esteri, più tardi presidente della repubblica) che si rivolse a loro per il suo progetto di attirare capitali stranieri per diversificare e sviluppare l'economia del paese, creando tra l'altro colonie agricole, affidate a coloni venuti dall'Europa cui sarebbero state concesse terre in enfiteusi. I Roberston proposero a Tweedie di unirsi agli emigranti come agronomo e progettista giardiniere; egli accettò, forse insoddisfatto della sua posizione, solida ma pur sempre subordinata, forse affascinato dalla possibilità di conoscere una natura ancora largamente ignota alla scienza europea. Del gruppo, per lo più scozzese, che salpò da Leith il 22 maggio 1825 a bordo del veliero Simmetry, facevano parte anche un architetto inglese (insieme a sei fornaciai) e un medico, oltre alla famiglia Tweedie al gran completo (lo accompagnavano la moglie e sei figli). All'arrivo, ad agosto, una prima momentanea delusione: il governo aveva cambiato idea e non concesse le terre; i fratelli Robertson risolsero la situazione affittando ai coloni la loro grande tenuta di Monte Grande, a una trentina di km da Buenos Aires. Tweedie, attivissimo, inventò una macchina per estirpate i cardi selvatici, che abbondavano nei campi abbandonati; introdusse la pratica di creare siepi vive per separare i campi dalle aree lasciate a pascolo e impedire le incursioni del bestiame; a Santa Catalina, un'altra tenuta dei Robertson, notando che in Argentina non esisteva legname adatto alle costruzioni. creò il primo bosco artificiale del paese, facendo arrivare dalla Gran Bretagna olmi, robinie, frassini, lecci, querce. Questo bosco esiste ancora ed è stato dichiarato Monumento nazionale. I primi tre anni furono favorevoli ai coloni e assicurarono attimi raccolti; poi incominciarono ad accumularsi le difficoltà: la guerra con il Brasile per il controllo dell'Uruguay, le dimissioni di Rivadavia, l'inflazione, la siccità, l'ostilità dei vicini che non potevano più far pascolare il loro bestiame sulle terre di Monte Grande. Nel 1829, la colonia si sciolse. Tweedie si trasferì con la famiglia a Buenos Aires, dove creò un vivaio con un negozio; il suo obiettivo era riprendere per clienti argentini la sua attività scozzese, progettando giardini per i più ricchi. Ma in mancanza di una clientela solida e solvente, il progetto fallì. Allora Tweedie, a quasi 55 anni, decise di cambiare ancora una volta vita: sarebbe diventato cacciatore di piante, mantenendosi con i semi e agli esemplari che avrebbe raccolto e inviato agli orti botanici, ai vivai e ai collezionisti britannici. Un "vecchio" raccoglitore instancabile Fin dall'arrivo a Monte Grande, Tweedie era stato affascinato dall'esotica flora argentina e aveva inviato molti esemplari in Gran Bretagna per l'identificazione; era in contatto con diversi orti botanici, in particolare Kew, Edimburgo, Glasgow e Dublino. Grazie al lui, tra il 1830 e il 1831 arrivarono all'orto botanico di Glasgow i semi di due petunie, Petunia integrifolia e P. violacea, che incominciarono ad essere incrociate tra loro, creando un vera e propria mania delle ibridazioni e contribuendo a determinare il tramonto del giardino paesaggistico, sostituito dalla nuova passione per le bordure di annuali dai colori sgargianti. Nel 1832 (qualche mese prima aveva incontrato un giovane Charles Darwin, di passaggio in Argentina nel viaggio di andata della Beagle), Tweedie partì per la sua prima vera spedizione, unendosi a un convoglio inglese, capeggiato dal diplomatico H.S. Fox, che rimontò il fiume Uruguay per 60 miglia; scese poi lungo il Rio Negro e dalla foce del fiume risalì verso nord, attraverso il Rio grande del Sud fino a Rio de Janiero, da dove poi rientrò a Buenos Aires in nave. L'area, nota come Banda Oriental, tra Argentina, attuale Uruguay e Brasile meridionale, caratterizzata da foreste pluviali a galleria, era ricchissima di biodiversità e praticamente sconosciuta alla scienza europea. Qui Tweedie incontrò un altro botanico, il belga Louis van Houtte, con il quale fece diversi viaggi. Il bottino fu immenso: almeno 1000 esemplari, con un'alta percentuale di specie mai descritte prima. La più bella di tutte è forse Calliandra tweediei, una spettacolare leguminosa con fiori scarlatti simili a piumini (il nome volgare infatti è plumerillo). Un secondo viaggio, del 1835, fu meno fortunato. Uscendo da Montevideo, la nave su cui era imbarcato naufragò, e Tweedie si salvò aggrappandosi al velame. La terra ferma sembrava più affidabile; fu così che a marzo si unì a una grossa carovana diretta a Tucuman, nel nord ovest del paese. Un viaggio lungo, lento e disagevole, che di solito richiedeva una quarantina di giorni; questa volta, ne occorsero più del doppio. Ogni possibile disagio rallentò il viaggio: indigeni ostili, animali selvaggi, fiumi in secca o in piena (uno fu superato in piccole canoe manovrate da robuste donne indigene che trattenevano le funi di traino con i denti). Da Tucuman Tweedie fece anche una puntata sulla cordigliera, dove nonostante la stagione avanzata riuscì a raccogliere una scatola di semi che spedì a W.J. Hooker a Glasgow. Tra gli apporti di questo viaggio Passiflora tucumanensis. Nel 1837 (aveva ormai 62 anni) si accontentò di una breve escursione di un mese nelle colline nei dintorni della capitale, che con il loro paesaggio mosso e desolato gli ricordavano le highlands scozzesi. Più tardi (non conosciamo le date esatte di questo e del seguente viaggio) ripartì verso sud con l'intenzione di raggiungere la Patagonia; la piccola nave su cui era imbarcato, con provviste solo per cinque giorni, si arenò a Cabo San Antonio; dopo un inutile tentativo di proseguire via terra, alleggerendo il carico riuscirono a salpare, raggiungendo Bahia Blanca dopo 19 giorni. Neppure questo scoraggiò il tenace scozzese, che tentò nuovamente di raggiungere la Patagonia; anche questa volta rischiò di morire di fame e si salvò nutrendosi di pinoli. Quando rientrò a Buenos Aires, era così stracciato e sporco che i suoi stessi amici non lo riconobbero. Altre spedizioni, sulle quali siamo meno informati, le intraprese fino all'età di settant'anni. Negli anni '40 Tweedie contribuì all'ibridazione di un'altra annuale da giardino molto popolare, inviando a Niven dell'Orto botanico di Glasnevin a Dublino i semi di diverse specie di verbena: Verbena tweediana e V. teucrioides, antenate delle verbene ibride (oggi classificate come Glandularia x hybrida, genere cui sono state assegnate molte verbene sudamericane, comprese ovviamente Glandularia tweediana e G. teucrioides). Altre introduzioni dovute a lui sono Mandevilla laxa (così chiamata in onore di H.J. Mandeville, console britannico a Buenos Aires), Solanum laxum (spesso più noto come S. jasminoides), e Cortaderia selloana, l'erba delle Pampas. Non provato da tante avventure, morì a 87 anni, nel 1862. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. In corrispondenza con molti botanici, vivaisti e appassionati, il suo contatto più assiduo fu con William Jackson Hooker, professore di botanica all'Università di Glasgow, poi direttore dei Kew Gardens, che pubblicò molte delle specie raccolte da Tweedie nel celebre Botanical Magazine di Curtis; le specie di Tweedie furono poi essenziali per la compilazione di Contributions towards a flora of South America and the islands of the Pacific, scritto in collaborazione con W. Arnold (1834). Tweedia, un genere a cavallo della Cordigliera In quest'opera Hooker non mancò di rendere omaggio al formidabile raccoglitore, dedicandogli almeno una trentina di nomi specifici: oltre a Calliandra tweedii e Verbena (= Glandularia) tweediana, tra gli altri Capparicordis tweediana, Bignonia tweediana (oggi Macfadyena ugnis-catis), Ruellia tweediana, nonché il genere Tweedia. Delimitato e ridotto da successive revisioni, Tweedia, della famiglia Apocynaceae, è oggi un piccolo genere di solo sei specie, distribuite equamente a est e a ovest delle Ande, con due specie argentine, una boliviana e argentina, tre cilene. Sono erbacee prevalentemente sarmentose, che si distinguono dai numerosi generi affini per i lobi della corona in genere liberi che si innestano in alto sul tubo della corolla; spesso il fiore ha la forma di una stella a cinque raggi, con punte ricurve e andamento elicoidale. Molto simili tra loro, le sei specie si sono tuttavia adattate ad ambienti molto diversi; le due specie argentine, T. aucarensis e T. echegaray, vivono in zone aride e rocciose della pre-cordigliera; la specie argentina e boliviana, T. brunonis, è nativa di un'area subtropicale, monsonica, con violente piogge estive; le tre specie cilene (T. andina, T. birostrata e T. stipitata) sono originare del Cile centrale, con clima di tipo mediterraneo, a piogge invernali. Recentemente è stata staccata dal genere T. australis, ora Diplolepis australis. Ma soprattutto non è più una Tweedia quella che gli appassionati di giardinaggio ancora chiamano T. caerulea, oggi Oxypetalum caeruleum (una perdita grave per il buon Tweedie: uno degli azzurri più belli dell'intero regno vegetale). Qualche approfondimento nella scheda. Da qualche tempo si è affermata tra i cosiddetti dolcificanti naturali la Stevia (più esattamente Stevia rebaudiana), nota per il potere dolcificante 300 volte superiore rispetto allo zucchero, senza calorie. Ma forse non a tutti è noto che il suo nome celebra un interessante personaggio del Rinascimento spagnolo, il medico e umanista Pedro Jaime Esteve. La battaglia contro i barbari e una flora pionieristica Nel Medioevo, la Spagna aveva contribuito alla conoscenza dei grandi testi medici (e botanici) dell'antichità grazie alla mediazione degli studiosi arabi: fu infatti attraverso le loro traduzioni che si conobbero, tra gli altri, Dioscoride, Galeno e Ippocrate. Se per secoli questo aveva posto la penisola iberica all'avanguardia negli studi medici, con l'Umanesimo anche qui si sentiva il bisogna di tornare alle fonti, leggendo i testi degli antichi direttamente sui manoscritti originali. Ma, vista l'autorevolezza della tradizione araba, il ritorno all'antico avvenne non senza polemiche. Gli innovatori, che spesso avevano studiato all'estero o erano in contatto con la rete di umanisti europei, si contrapponevano ai tradizionalisti, da loro soprannominati "barbari", che ancora controllavano i posti chiave della professione medica e dell'insegnamento universitario. Tra i più notevoli e tenaci sostenitori della nuova scuola, troviamo anche Pedro Jaime Esteve, che alla latina si firmava Petrus Jacobus Stevus. Secondo la tradizione avrebbe studiato a Parigi e a Montpellier, dove avrebbe appreso la materia medica (cioè la botanica farmaceutica) da Guillaume Rondelet; maggiore di età del francese, quando questi cominciò a insegnare, Esteve era già vicino ai quarant'anni; ma non sarebbe l'unico caso, in epoca umanistica, di personaggi di età matura che, attratti dalla fama di un grande maestro, lasciavano la patria e magari una carriera per seguirne l'insegnamento. In ogni caso, negli anni '40 del Cinquecento lo troviamo a Valencia, sia come medico sia come versatile professore universitario (insegnò greco, anatomia, chirurgia, materia medica, matematica). Insieme all'amico e concittadino Miguel Jeronimo Ledesma, fu uno degli esponenti più attivi dell'umanesimo iberico, tanto da essere espulso per un anno (1548) dall'Università per aver pronunciato "parole irrispettose" nei confronti di Juan de Celaya, rettore dell'Università di Valencia e uomo di punta dei "barbari". Come medico-umanista, i suoi maggiori contributi sono la traduzione latina e i commenti del secondo libro del trattato sulle Epidemie di Ippocrate (1551) e la traduzione della Teriaca (1552) di Nicandro (la riscoperta dei veri ingredienti della teriaca, considerato un potentissimo antiveleno, fu uno degli argomenti che più appassionarono - e divisero - i medici rinascimentali). Ancora a metà strada tra tradizione medievale e nuova scienza, fu un seguace della teoria galenica degli umori (il che lo portò a interessarsi anche di astrologia) e nel suo insegnamento dell'anatomia mantenne una posizione ambigua, di solo parziale accettazione, nei confronti di Vesalio. In ogni caso, non era un acritico difensore degli antichi; commentando la descrizione dell'anatomia delle vene e dei nervi periferici nel suo commento a Ippocrate, osserva che è tanto rozza e tanto lontana da ciò che chiunque può osservare nelle dissezioni anatomiche, da fargli pensare che si tratti di un'interpolazione (venerava troppo il nome di Ippocrate per metterlo in discussione direttamente). Tra i suoi molteplici interessi, c'era anche, come abbiamo visto, la botanica; dal suo maestro Rondelet aveva appreso i metodi e la passione della ricerca sul campo; già nei suoi commenti al testo di Nicandro (dedicato essenzialmente ai veleni animali) inserì informazioni su alcune piante, fornendo i nomi volgari e informazioni sulla loro localizzazione nell'area valenciana. Ma la sua opera più importante in questo campo fu un manoscritto, intitolato Diccionario de las yerbas y plantas medicinales que se hallan en el Reino de Valencia, "Dizionario delle erbe e delle piante medicinali che si trovano nel Regno di Valencia". L'opera, scritta presumibilmente tra il 1545 e il 1556, fu una delle prime flore regionali d'Europa; tuttavia, non fu mai stampata e andò perduta. Ne conosciamo parzialmente il contenuto grazie a un riassunto incluso nelle Décadas de la Historia de Valencia (1610) di Gaspar Escolano. Escolano fornisce una lista di 120 specie, di cui dà il nome in valenciano e spagnolo, e, solo per alcune, brevi indicazioni sulla localizzazione, sull'uso medico o alimentare, sulle proprietà. Una sintesi della vita di Esteve nella sezione biografie. La dolce erba dei Guaranì Nonostante ciò che si favoleggia in diversi siti internet, non c'è alcuna relazione diretta tra Esteve e la Stevia. Non la conobbe, né tanto meno fu il primo a studiarla o addirittura a raccoglierla. L'omaggio si deve a Cavanilles che, egli stesso valenciano, volle riconoscere i meriti di un conterraneo di cui erano ancora ben note e apprezzate le traduzioni, autore soprattutto della prima flora della sua regione, che, benché perduta, ne faceva comunque un precursore. Partendo dalla forma latinizzata del nome dell'illustre predecessore, nel 1797 egli creò il genere Stevia (famiglia Asteraceae) sulla base di quattro specie messicane, giunte all'Orto botanico di Madrid grazie alla Real Expedición Botánica a Nueva España. Stevia è un genere piuttosto diffuso, distribuito dal Sud degli Stati Uniti, fino al Sud America meridionale, presumibilmente con massimo centro di diversità in Messico; erbacee annuali e perenni, suffrutici e arbusti, molte specie sono estremamente variabili, causando notevoli problemi di classificazione; lo stesso numero delle specie è dunque incerto (da 350 a 220, di cui almeno una settantina in Messico) e abbondano i sinonimi. Hanno foglie semplici, opposte, raramente alternate, e capolini raccolti in corimbi, con flosculi ligulati assenti e cinque flosculi del raggio tubolari, solitamente bianchi. Si tratta sopratutto di piante di montagna (tra 1000 e 3000 metri), che vivono nel sottobosco di aree fresche e umide. Tra tutte, l'unica a destare sensazione è S. rebaudiana, un arbusto che cresce in un alcune aree del Paraguay. Le proprietà dolcificanti delle sue foglie erano sfruttate dagli indios Guaranì per attenuare il sapore amaro del mate; nel 1887, Moses Bertoni, un eclettico personaggio di origine svizzera che aveva fondato una comunità anarco-socialista e fu un pioniere degli studi etnografici sui Guaranì, identificò per primo la pianta (assegnandola inizialmente al genere Eupatorium), mentre il primo a studiarne le proprietà chimiche fu il chimico paraguayano Olidio Rebaudi, in onore quale nel 1899 Bertoni la battezzò Eupatorium rebaudianum. A riconoscerne l'appartenenza al genere Stevia fu qualche anno più tardi il botanico di Kew W. B. Hemsley. Il suo successo come dolcificante al di fuori del Paraguay (dove vengono usate le foglie fresche) e del Sud America, dove è stato usato dall'industria alimentare almeno dagli anni '40, inizia solo intorno al 1970, grazie ai Giapponesi. E iniziano anche le polemiche. Ma se volete saperne di più, leggete i particolari nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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