Tra l'esimio anatomista Johann Goffried Zinn e il genere Zinnia, che Linneo gli dedicò nel 1759 come omaggio postumo, il legame è semplice e trasparente: nel catalogo dell'orto botanico di Gottinga, curato da Zinn, compare - anche se con altro nome - la prima immagine a stampa di quella che noi chiamiamo Zinnia peruviana. Ma forse tra Zinn e le zinnie c'è anche un secondo filo rosso, più sottile e misterioso, che ha che fare con gli occhi, lo sguardo e, forse, persino il malocchio. Una Zinnia sotto mentite spoglie Formatosi a Gottinga alla scuola di Albrecht von Haller, Johann Gottfried Zinn era un giovane e brillante anatomista; tuttavia, dopo essersi perfezionato a Berlino, dove divenne uno specialista della struttura anatomica dell'occhio, quando ritornò a Gottinga non gli fu possibile ottenere la cattedra di anatomia; grazie all'interessamento del suo influente maestro, nel 1753 gli fu tuttavia assegnata quella di professore straordinario di medicina, che includeva la direzione dell'orto botanico dell'università. Zinn prese molto sul serio l'incarico, cercando di stringere rapporti personali con i maggiori botanici europei, tra cui lo stesso Linneo, allo scopo di arricchire le collezioni del giardino. Del suo carteggio con Linneo ci rimangono sette lettere (non ci sono pervenute le risposte dello svedese), che testimoniano un attivo scambio di semi, piante essiccate, pubblicazioni, nell'arco di circa due anni e mezzo (febbraio 1756-settembre 1758). Zinn è particolarmente interessato al genere Salvia, a cui pensa di dedicare una pubblicazione (progetto mai realizzato probabilmente per la sua morte precoce); segnala a Linneo piante coltivate a Gottinga di cui non trova menzione in Speces plantarum; discute su alcune piante, tra cui - nella lettera del 1 ottobre 1757 - Chrysogonum peruvianum. Racconta del suo impegno per la stesura del catalogo dell'orto botanico di Gottinga, Catalogus plantarum Horti academici et agri gottingenis (1757), che sta assorbendo tutto il suo tempo. E' questa in effetti l'opera botanica più importante di Zinn (i restanti contributi sono brevi articoli, pubblicati sotto forma di memorie delle varie accademie di cui faceva parte). Si tratta della continuazione e dell'aggiornamento dell'analoga opera di Haller, Enumeratio plantarum hortii regii et agri gottingensis; entrambi non sono solo un catalogo delle piante coltivate nell'orto botanico universitario, ma anche una flora della regione. Lo scrupolosissimo lavoro di Zinn offre una bella testimonianza dello stato dell'arte, almeno in area tedesca, alla vigilia dell'affermazione del sistema linneano: è evidente che il giovane botanico tedesco ha letto con attenzione Systema naturae (moltissimi generi sono presi da Linneo), ma allo stesso tempo è rimasto fedele all'insegnamento del maestro von Haller, di cui adotta il metodo di classificazione (essenzialmente basato sul numero dei petali e sulle caratteristiche dei frutti) e mantiene i nomi-descrizione. La descrizione di ciascuna specie è in genere brevissima, essendo per lo più limitata al nome-descrizione (intorno a una riga di testo), seguito dai sinonimi usati da altri autori. A fare eccezione, quasi sul finire del libro, è una specie della classe delle Radiatae (uno dei diversi gruppi in cui nel sistema di Haller sono divise le nostre Asteraceae). Dopo il nome-descrizione Rudbeckia foliis oppositis hirsutis, calyce imbricato cilindrico, radii petalis pistillatis "R. con foglie opposte pelose, calice cilindrico imbricato, petali del raggio pistillati", Zinn aggiunge "così possiamo provvisoriamente definire una pianta che presumibilmente merita il nome di nuovo genere". Nel dubbio che si tratti non solo di una specie, ma di un genere nuovo (egli stesso afferma che è ben diverso dalle altre Rudbeckiae), aggiunge una descrizione dettagliata, l'unica del libro, come unica è l'immagine che l'accompagna (che a noi, con il senno di poi, toglie ogni dubbio; quella che vediamo è indubbiamente una Zinnia). Due anni dopo aver licenziato questo lavoro, Zinn morì appena trentaduenne presumibilmente di tubercolosi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Linneo volle ricordarlo nella decima edizione di Systema naturae (1759) battezzando Zinnia peruviana la pseudo-Rudbeckia di Zinn, che presumibilmente coincide con la pianta che in Species Plantarum (1753) egli aveva chiamato Chrysogonum peruvianum. Zinn non fu dunque, come alcuni sostengono, il primo botanico ad aver descritto una Zinnia (che è lo stesso Linneo), ma il primo ad averne pubblicato un'immagine. L'anatomia dell'occhio e la pianta del malocchio Qualcuno però, forse poco soddisfatto di un legame in fondo così poco romanzesco, ha voluto trovare tra il medico-botanico tedesco e il genere che gli è stato dedicato una connessione più sfuggente, ma anche più affascinante. Ho già anticipato che Zinn, anche se dal momento in cui divenne direttore dell'orto di Gottinga si convertì in un botanico appassionato, era in primo luogo un grande anatomista. Prima a Berlino, poi a Gottinga continuò i suoi studi sulla struttura dell'occhio, pubblicando nel 1755 Descriptio oculi humani iconibus illustrata, un'opera capitale nella storia della medicina, in cui presentò la prima descrizione completa dell'occhio umano, tanto che rimangono legate al suo nome alcune delle sue strutture: la zonula di Zinn, ovvero l'apparato di legamenti sospensori del cristallino, e i legamenti stessi, noti come legamenti di Zinn. Importantissimo è anche l'apparato iconografico, di una bellezza e di una precisione a lungo insuperata. Ora, a quanto pare, anche la Zinnia avrebbe qualcosa a che fare con l'occhio, o lo sguardo. Zinnia peruviana, la specie di cui Zinn pubblicò per primo un'immagine, in Messico è nota con molti nomi, tra cui mal de ojo. Moltissimi testi - tutti anglosassoni - riportano questa storia: quando i conquistadores arrivarono in Messico, trovarono che questa pianta fosse molto brutta, quindi la chiamarono mal de ojo, ovvero "che fa male agli occhi"; altri aggiungono che sarebbe stato il calco del nome indigeno, in inglese eyesore, ovvero "obbrobrio". Non so a voi, ma a me questa storia sembra molto strana, per non dire sospetta. Tra le decine di testi che la ripetono (che includono siti on-line, libri a stampa, ma anche articoli scientifici) non uno cita la fonte originale; chi sarebbero questi "spagnoli" o "conquistadores" che trovarono tanto brutta questa pianta? quale era il nome azteco (nahuatl?) che corrisponderebbe a eyesore? D'altra parte mal ojo, mal de ojo non significa né obbrobrio, né male agli occhi, ma, come a noi italiani è chiarissimo, "malocchio", ovvero quel nefasto potere dello sguardo che, secondo una diffusa superstizione, sarebbe in grado di seminare disgrazie e malasorte. E' infatti in questa credenza popolare, e non nella pretesa bruttezza della calunniata zinniuccia (mi permetto di chiamarla così, come fanno in Perù dove la chinita - diminutivo di china, zinnia - è stata dichiarata patrimonio naturale della nazione) che va cercata l'etimologia del nome popolare messicano. Z. peruviana è un'annuale i cui piccoli capolini, con fiori ligulati rossi vivo che circondano un disco scuro, possono ricordare un occhio circondato dalle ciglia. E proprio come gli antichi greci - e i marinai di oggi - dipingevano un occhio sulla prua delle navi per difenderle dal malocchio, gli aztechi coltivavano questi fiori nei loro giardini come difesa dal malocchio, che temevano soprattutto nei confronti dei neonati e dei bambini piccoli. La credenza nel malocchio era ben nota anche agli spagnoli, che adottarono il nome e l'usanza. Dunque, non pianta orribile, la cui bruttezza fa male agli occhi, ma pianta protettrice, apotropaica, che combatte il malvagio potere dello sguardo nemico. D'altra parte, è assai improbabile che Linneo abbia scelto questa pianta per onorare Zinn come specialista dell'occhio, come qualcuno ha sostenuto. Come abbiamo già visto, il motivo è molto più semplice e prosaico. Zinnia, un'affermazione difficile Il genere Zinnia, della famiglia Asteraceae, comprende 22 specie di erbacee annuali, perenni e suffruttici originari delle radure e delle praterie aride di un'area che va dagli Stati Uniti Sudoccidentali all'Argentina, con maggiore centro di diversità in Messico. Oggi è tra le più note annuali da giardino, ma la strada per tanta gloria fu lunga e tortuosa. Z. peruviana, la prima specie descritta da Linneo, è anche quella con l'aerale maggiore, spaziando dallo stato di Chihuahua in Messico al Paraguay, passando dalle Antille e dalle Galapagos; fu inoltre la prima ad arrivare in Europa; sappiamo con certezza che 1753 il Jardin des Plantes ne distribuì i semi a molti botanici, tra cui presumibilmente Haller a Gottinga, Philipp Miller a Londra e Linneo a Uppsala (come e da dove fossero giunti a Parigi non sappiamo, forse dal Messico, forse dal Sud America, visto che Linneo la chiama "calendula del Brasile"). A fine secolo, la specie è coltivata sotto vari nomi anche a Kew e dai vivai Lee & Kennedy. Ma con i suoi piccoli fiori e il portamento da erbaccia non è certo popolare e passa piuttosto inosservata in mezzo a tante novità giunte da oltre oceano. A fine secolo entra in scena la messicana Z. elegans; descritta per la prima volta con questo nome da Sessé e Mociño nel 1789, e formalmente da Cavanilles come Z. violacea nel 1791, quindi di nuovo come Z. elegans l'anno successivo da Jacquin. In ogni caso, i semi arrivano a Madrid e Gomez Ortega ne dona alcuni alla marchesa di Bute, la moglie dell'ambasciatore britannico in Spagna (John Stuart, primo marchese di Bute, figlio di lord Bute, il primo creatore di Kew). Ed è proprio la marchesa a introdurne la coltivazione in Inghilterra intorno al 1796. Il successo non è immediato; in natura, anche questa specie non è molto appariscente, con un singolo giro di fiori del raggio di colore violaceo. Tuttavia nel 1829 un certo J.S. Mill presenta alla Horticultural Society una varietà a fiori rossi da lui ottenuta da semi che gli sono giunti direttamente dal Messico, nota come Z. violacea var. coccinea. In Inghilterra come in Francia e in Belgio incominciano ad interessarsene i vivaisti, per soddisfare la crescente domanda di semi a buon prezzo di piante di facile coltivazione. Nel 1858, grazie a semi attenuti dalle Antille, Grazau di Bagneres ottiene la prima varietà doppia fertile, che due anni dopo è commercializzata dal celebre vivaio Vilmorin. Il successo è notevole, ma di breve durata, tanto che già a fine secolo le zinnie sono considerate demodé. Negli ultimi decenni del secolo vengono selezionate molte nuove varietà, destinate però ad essere soppiantate dalle ricerche dell'ibridatore californiano John Bodger che a partire dagli anni '20 del Novecento crea varietà a grandi fiori come 'Giant Dahlia' e 'Mammoth', che domineranno la scena per qualche decennio, grazie a una scelta sempre più ampia di forme e colori. In anni più vicino a noi, a rinnovare le vecchie varietà sarà invece l'irruzione di altre specie dal portamento meno rigido e monumentale, in particolare Z. angustifolia e Z. haageana. Qualche approfondimento, come sempre, nella scheda.
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Nell'Ottocento, più che mai, l'esplorazione geografica e la ricerca scientifica si intrecciano con le vicende coloniali. Così, nel 1828, la spedizione della corvetta Triton e della goletta Isis ha l'obiettivo fondamentale di rivendicare il possesso olandese dei territori della Nuova Guinea ad occidente del 141 meridiano est (prima che lo faccia l'Inghilterra), ma a bordo ci sono anche cartografi e un gruppetto di naturalisti della Natuurkundige Commissie. La loro missione otterrà rilevanti risultati scientifici, ma porterà al sacrificio di quasi tutte le loro vite. Il primo a morire sarà il giardiniere e botanico Alexander Zippelius, dedicatario del genere Zippelia. 1826-1827: Giava L'esito tragico della prima spedizione della Natuurkundige Commissie olandese, con la morte di tre su quattro membri (ne ho parlato in questo post), non scoraggiò il professor Temminck, direttore del Museo di Scienze naturali di Leida, che cominciò immediatamente a pensare ai rimpiazzi. La sua scelta cadde su due brillanti giovani collaboratori, entrambi tedeschi: Heinrich Boie, zoologo e curatore del settore dei vertebrati del Museo, e Heinrich Christian Macklot, chirurgo e curatore della collezione osteologica. Proprio come Kuhl e van Hasselt, i due erano stati compagni di studi (entrambi avevano studiato all'Università di Heidelberg) ed erano legati da una profonda amicizia. Il 5 dicembre 1823 entrarono a far parte della Natuurkundige Commissie, il primo come capo della futura spedizione, il secondo come assistente. Prima di partire per Giava, la meta scelta anche questa volta, ci furono diversi viaggi preparatori; una tappa li portò a Heidelberg, dove alloggiarono in una locanda. Mentre parlavano tra loro, con presumibile entusiasmo, della spedizione che li aspettava, i loro discorsi furono captati dal figlio del locandiere, Salomon Müller, che si mostrò assai interessato: aveva seguito come uditore qualche corso di zoologia all'Università, era un cacciatore di uccelli e un capace tassidermista. Boie e Macklot senza esitare gli proposero di unirsi a loro; convinsero Temminck a ingaggiarlo e in tal modo Müller divenne il terzo membro della compagnia, completata poi dal pittore Pieter van Oort. I quattro si imbarcarono per Giava alla fine di novembre 1825, raggiungendo la loro destinazione a giugno dell'anno seguente. Proprio come i predecessori Kuhl e van Hasselt, i naturalisti fecero base all'orto botanico di Buitenzorg/Bogor, dove conobbero l'unico membro sopravvissuto della spedizione precedente, van Raalten, al momento ancora impegnato a preparare le collezioni di van Hasselt per l'invio in Olanda. Inizialmente esplorarono l'area attorno a Bogor, deve Boie studiò soprattutto gli uccelli. Quindi si spostarono a Karawang, dove intendevano prepararsi per passare a Sumatra. Ma Boie contrasse la malaria e morì nel settembre 1827; anch'egli come Kuhl e van Hasselt venne sepolto nel cimitero olandese dell'orto botanico di Bogor. Fu un durissimo colpo per Macklot, che così scrisse al professor Temminck: " Oh, non inviate più qui degli uomini, a meno che siano dei bruti. Altrimenti saranno perduti senza alcuna speranza di riscatto". Oltre ad aver perso un amico carissimo, egli non si riteneva in grado di assumerne il ruolo; suggerì così di invitare lo zoologo francese Pierre-Médard Driard a unirsi alla Commissione, prendendone la guida. Driard, allievo di Cuvier, aveva un'esperienza più che decennale di lavoro sul campo in Oriente e aveva lavorato anche per Raffles; sarebbe poi rimasto per un ventennio a Giava, inviando molti esemplari al Museo di Leida, ma svolgendo compiti fondamentalmente amministrativi. Altri viaggi e altri pericoli attendevano invece Macklot, Müller e van Oort. 1828-32: Nuova Guinea, Timor e ritorno Fin dal XVII secolo, gli olandesi erano presenti nell'arcipelago delle Molucche e rivendicavano la sovranità sulla parte occidentale della Nuova Guinea, con la quale commerciavano senza tuttavia disporre di basi permanenti. Nel 1825, il luogotenente D.H. Kolff aveva esplorato e mappato la costa meridionale dell'isola, individuando un luogo adatto a un insediamento presso la foce di quello che credeva un fiume, da lui battezzato Dourga dal nome della sua nave. Temendo di essere preceduto dai britannici - molto attivi nel Sud est asiatico, come dimostra la fondazione di Singapore - nel 1828, il governatore delle Molucche, Pieter Merkus, sollecitò il governo olandese a inviare una spedizione che creasse un avamposto e prendesse possesso formale della parte occidentale della grande isola (fino al 141 meridiano est, secondo l'accordo spartitorio con la Gran Bretagna). L'ultimo giorno del 1827 il re diede la sua autorizzazione all'invio di un piccolo corpo di spedizione, al comando dal Luogotenente C.J. Boers, nominato Commissario generale delle Indie olandesi. Anche ai nostri naturalisti venne ordinato di unirsi alla missione. A Macklot, Müller e van Oort si aggiunsero van Raalten (che avrebbe coadiuvato Müller come tassidermista e van Oort come disegnatore) e Alexander Zippelius. Quest'ultimo era uno dei giardinieri di Bogor e aveva una certa esperienza di lavoro sul campo, avendo erborizzato con i suoi colleghi e avendo accompagnato più volte Blume. Divenne così il botanico della spedizione. Alla fine di febbraio 1828, insieme a Boers, il gruppo si imbarcò sul mercantile Minerva. Partiti da Batavia, raggiunsero Makassar, nell'isola di Celebes, dove si imbarcarono sulla corvetta Triton, che li portò Ambon, nelle Molucche, tappa di partenza della spedizione vera e propria. Con la scorta della goletta Isis, la Triton partì da Ambon il 21 aprile 1828; a bordo, poche decine di soldati, tra europei e indonesiani (questi ultimi erano accompagnati da mogli e figli) e dieci lavoratori forzati giavanesi. Facendo rotta per le isole Banda e Aru, puntarono direttamente alla supposta "foce del Dourga", dove secondo gli ordini del governatore intendevano creare una base militare. La raggiunsero dopo circa un mese, scoprendo che il luogo non era adatto: era basso, paludoso, soggetto ad allagamenti; l'interno era una foresta impenetrabile; l'acqua scarseggiava; l'atmosfera era così nebbiosa e densa di umidità che qualcuno la paragonò una tazza di zuppa di piselli; subirono anche un attacco di nativi. Decisero così di lasciare il fiume Dourga (in realtà, lo stretto di Muli che separa l'isola di Yos Sudarso dalla Nuova Guinea) per cercare un luogo più adatto risalendo la costa verso nord ovest. Dopo aver scartato per una ragione o l'altra altri siti, solo all'inizio di giugno fu individuata una piccola baia protetta (che venne immediatamente ribattezzata Triton Bay), nella regione del Lobo a est dell'attuale città di Kaimana. Qui gli olandesi costruirono un forte (Fort du Bus) e il 14 agosto 1828, compleanno del re, piantarono la bandiera nazionale, prendendo formalmente possesso della costa sud occidentale della Nuova Guinea a nome del sovrano. Intanto, però, le malattie tropicali dilagavano; già erano morti 20 membri dell'equipaggio e molti altri erano ammalati. Il 29 agosto la Triton lasciò il piccolo avamposto (che sarebbe vissuto stentatamente fino al 1835, per poi essere abbandonato), trasferendo all'ospedale di Ambon i numerosi malati, tra i quali i nostri naturalisti. Quando, circa un mese dopo, la Triton ripartì per Giava, si erano ripresi abbastanza da imbarcarsi, ma chiesero di essere sbarcati a Kupang, nell'isola di Timor, dove intendevano proseguire le ricerche. Fallita sul piano politico, la spedizione del Triton fu importante per i risultati scientifici: le rilevazioni dei cartografi fornirono la prima mappatura della costa sud occidentale della Nuova Guinea; nei tre mesi trascorsi nel Lobo, i naturalisti misero insieme una imponente collezione di oggetti etnografici, minerali, animali, piante, disegni. Particolarmente rilevanti i risultati zoologici; tra l'altro, Macklot e Müller furono i primi scienziati a vedere dal vivo e a descrivere i canguri arboricoli, descrivendo il nuovo genere Dendrolagus. Ma anche Zippelius non perse tempo: le sue raccolte ammontarono a 4000 esemplari di 500 specie diverse, tra cui 600 crittogame. Anche Timor era praticamente sconosciuta agli scienziati occidentali. Qui i membri della Natuurkundige Commissie si trattennero per circa un anno, spostandosi inizialmente verso est fino a Manikie e soggiornando a Babao e Pariti. Ma a dicembre, in seguito alla malaria contratta in Nuova Guinea, Zippelius morì. Sfortunato in vita (tuttavia la morte in giovane età fu sorte comune anche dei suoi compagni, ad eccezione del solo Müller), lo fu ancora di più dopo la morte. Quest'uomo taciturno e solerte, forse mai davvero integrato nel gruppo dei giovani naturalisti, legati tra loro da rapporti di amicizia cameratesca, era un grande lavoratore e un botanico dotato; non solo mise insieme una raccolta imponente, ma le sue note manoscritte brillano per l'esattezza delle descrizioni e la capacità di collocare le piante nel loro ambiente naturale. Eppure non ebbe il riconoscimento che avrebbe meritato come pioniere dello studio della flora della Nuova Guinea; i manoscritti inizialmente andarono perduti, e solo una ventina di anni dopo finirono in possesso del medico P. Bleeker, che li presentò alla Società di Storia naturale di Batavia, la quale ne curò l'invio all'Erbario nazionale di Leida, dove, secondo gli accordi, Blume avrebbe dovuto assicurarne la pubblicazione; questo non avvenne mai, mentre i materiali di Zippelius vennero utilizzati da altri studiosi, incluso lo stesso Blume. Una sintesi delle poche notizie su di lui nella sezione biografie. Ma torniamo ai nostri naturalisti. Essi continuarono ad esplorare l'area di Pariti, facendo diverse escursioni sulle montagne circostanti. Ad aprile, durante uno spostamento in barca, si spense anche van Raalten; Macklot lo seppellì amorevolmente sulla spiaggia di Oecusse, a Timor Est. Membro e unico superstite della prima Natuurkundige Commissie, inizialmente come tassidermista, era diventato un bravissimo pittore, i cui disegni sono ora conservati al Naturalis Biodiversity Center di Leida. Dopo la sua morte, Macklot, Müller e van Oort si spinsero nell'interno di Timor, visitando larga parte delle regioni sudoccidentali e settentrionali. Non avevano più con loro un botanico, e le loro ricerche si rivolsero soprattutto alla fauna, con importanti scoperte zoologiche, tra cui il pitone acquatico di Timor, detto anche pitone di Macklot (Liasis macklotii). Alla fine del 1830 gli amici tornarono quindi a Giava; nel 1831 esplorarono ancora insieme la costa nord e a luglio scalarono il monte Salak. Nel maggio 1832 Macklot si trovava nel distretto di Krawang, a Purwakarta, quando scoppiò una rivolta dei cinesi che diedero fuoco a tutte le case degli europei; nell'incendio andarono perduti i manoscritti di Macklot stesso e di Boie, che egli aveva religiosamente conservato per cinque anni. Furioso, il naturalista si unì alle forze che cercavano di ristabilire l'ordine, e pochi giorni dopo venne ucciso. Quanto a van Oort e Müller (l'unico a sopravvivere e a rivedere l'Europa), li ritroveremo in una prossima avventura. La poco nota Zippelia Macklot, l'ho già anticipato, pur essendo originariamente un farmacista poi diventato chirurgo, era soprattutto uno zoologo; lo ricordano i nomi specifici di diversi animali; tra gli altri, oltre il già citato Liasis macklotii, diversi uccelli (Pitta macklotii, Erythropitta macklotii), il pipistrello Acerodon macklotii. Nel 1847 Korthals (lo conosceremo molto presto) gli dedicò il genere Macklottia (oggi confluito in Leptospermum, famiglia Myrtaceae). A onorare Alexander Zippelius con il genere Zippelia fu invece Blume, nel 1830 (tuttavia, non pubblicandone i manoscritti lo condannò al quasi oblio); a ricordare lo sfortunato giardiniere-botanico sono anche i nomi specifici zippelianus, zippelii (che designano almeno una ventina di specie, a riprova dell'importanza del suo contributo). Zippelia, della famiglia Piperaceae, è un genere monotipico, rappresentato dall'unica specie Z. begoniifolia. E' molto affine al genere Piper (sotto il quale a volte è stata trattata), ma ne differisce per il numero di cromosomi e per il frutto con peli barbati, unico nella famiglia. E' un'erbacea perenne o un suffrutice eretto, che cresce nel sottobosco delle foreste tropicali, in una vasta area che comprende la Cina (Guangxi, Hainan, Yunnan), il Vietnam, il Laos, la Malaysia, diverse isole indonesiane (Giava, Sumatra e Borneo), le Filippine. Genere poco noto, anche se le foglie sono ricche di oli essenziali, non se ne conoscono usi particolari. Qualche informazione in più nella scheda. All'ombra di altissimi bambù, nell'Orto botanico di Bogor nell'isola di Giava c'è un angolo singolare: è un antico cimitero (la prima tomba fu eretta nel 1784, 33 anni prima che Reiwardt fondasse il giardino) con 41 tombe. In una delle più modeste - un semplice cippo parallelepipedo sormontato da una colonna - riposano insieme due amici che condivisero gli studi, la passione per la scienza, gli entusiasmi e le fatiche della prima missione scientifica ufficiale nelle Indie orientali olandesi, la morte precoce. Sono il tedesco Heinrich Kuhl (morto a 24 anni) e l'olandese Johan Coenraad van Hasselt (morto a 26). Erano soprattutto zoologi, il cui contributo, in particolare all'ornitologia e all'erpetologia, fu di enorme valore; ma non disdegnarono la botanica, raccogliendo molte nuove specie di orchidee. Con una scelta toccante e felice, sono ricordati insieme dal genere Kuhlhasseltia, che comprende piccole ma graziose orchidee terrestri endemiche dell'Asia orientale. Una Commissione dagli esiti tragici A cavallo degli anni '20, il nuovo regno unito dei Paesi Bassi (era stato creato nel 1815 dal Congresso di Vienna, unendo i Paesi Bassi e il Belgio, come stato cuscinetto in funzione antifrancese) sembra percorso da un nuovo entusiasmo per le antiche colonie dell'Asia orientale. In effetti, dopo la sconfitta di Napoleone, il paese si trovava in un grave stato di decadenza economica, culturale e scientifica; i territori delle Indie orientali olandesi, che adesso, dopo lo scioglimento della Compagnia olandese delle Indie Orientali, erano passati sotto amministrazione statale, potevano offrire un contributo decisivo per risollevarne le sorti. Fu così che, senza neppure attendere gli esiti della missione di Reinwardt, il neo re Guglielmo I decise di fondare due nuove istituzioni destinate allo studio e alla valorizzazione delle loro risorse naturali. Nel maggio 1820 nacque la Natuurkundige Commissie voor Nederlandsch-Indië (Commissione di Scienze Naturali per le Indie Olandesi) cui sarebbe stata affidata l'esplorazione di quei territori, con compiti tanto economici quanto scientifici: da una parte il rilevamento delle risorse minerarie, dall'altra la schedatura della flora e della fauna dell'arcipelago. Ad agosto, seguì la creazione del Rijks Museum voor Natuurlijke Historie (Museo di Stato di Storia naturale), destinato a studiare e ospitare le collezioni raccolte in Indonesia. A presiedere entrambe, un eminente zoologo e collezionista, Coenraad Jacob Temminck. La Commissione era costituita da quattro membri (scelti tra naturalisti, geografi, geologi, pittori e tassidermisti) che venivano inviati nelle isole per un periodo di quattro anni. Nei suoi trent'anni di vita (1820-1850) coinvolse complessivamente diciotto persone, dodici delle quali perirono nel corso delle missioni, finché quest'alto tasso di perdite convinse il governo a sciogliere l'istituto. Nel frattempo, erano state organizzate spedizioni a Giava, Sumatra, Nuova Guinea, Borneo e Timor, con risultati impressionanti per quantità e qualità, che tra il 1839 e il 1847 vennero pubblicati in Verhandelingen over de natuurlijke geschiedenis der Nederlandsche Overzeesche bezittingen ("Rendiconti di storia naturale dei possedimenti olandesi d'oltremare"). In questo post racconterò la storia, tragicissima, dei primi quattro membri della Commissione, nessuno dei quali rivide mai la patria. All'atto dell'istituzione della Commissione, Temminck, su raccomandazione del Professor van Swinderen dell'Università di Groninga, propose la candidatura di un brillantissimo giovane scienziato tedesco, che si era perfezionato a Groninga dove era diventato assistente di Swinderen: Heirich Kuhl. Ma era impossibile ingaggiare Kuhl senza coinvolgere il suo migliore amico, l'olandese Johan Coenraad van Hasselt. I due si erano conosciuti all'Università di Groninga nel 1816 - coetanei, all'epoca avevano diciannove anni - ed erano diventati inseparabili. Entrambi appassionati di scienze naturali (anche se, di formazione, Hasselt era un fisiologo), nell'estate del 1818 avevano fatto insieme un viaggio di studio in Germania dove avevano visitato le principali istituzioni scientifiche; nell'aprile del 1819, già pensando a una possibile missione in Oriente, il solo Kuhl era andato a Londra, dove era stato amabilmente accolto da James Edward Smith, presidente della Linnean Society, e dallo stesso Banks; a novembre, di nuovo con van Hasselt, aveva visitato Parigi, incontrando Geoffroy de Saint-Hilaire e Jean-Baptiste de Lamarck. Ma l'incontro più appassionante era stato quello con Humboldt, che aveva loro aperto le porte dell'Accademia delle scienze e di molte collezioni private. I due amici, evidentemente, sognavano di emulare il loro idolo von Humboldt e non vedevano l'ora di partire, ma insieme. Grazie a un'efficace azione di lobbing di Swinderen e Temminck, il ministro dell'Istruzione accolse anche van Hasselt nella Commissione, che fu poi completata dal tassidermista Gerrit van Raalten e dal pittore Gerrit Laurens Keultjes. Come meta per la prima missione fu scelta Giava, di cui le esplorazioni di Reinwardt stavano dimostrando la grande potenzialità. Le collezioni raccolte sarebbero state inviate al Museo di storia naturale di Leida (anche se, come si è visto sopra, sarebbe stato fondato ufficialmente solo qualche mese dopo), di cui Kuhl venne nominato curatore. Due amici divisi e riuniti dalla morte Il 10 luglio 1820 i quattro lasciarono l'Olanda a bordo della Nordloh, che dopo un viaggio di sei mesi, nel corso del quale toccarono Madeira, Città del Capo e le Isole Cocos, li portò a Batavia, dove sbarcarono a dicembre. Il governatore generale Van der Capellen assegnò loro un alloggio a Buitenzorg (oggi Bogor), che sarebbe diventato il loro quartier generale. Entusiasti e instancabili, i ragazzi (è il caso di dirlo: il pittore, con i suoi 34 anni, era quasi un papà per i suoi tre compagni, tutti coetanei, che di anni ne avevano solo 23) si misero immediatamente al lavoro, abusando sicuramente delle proprie forze. I primi quattro mesi vennero trascorsi nei dintorni di Buiterzorg che offrivano ad ogni passo una messe di specie nuove per la scienza; oltre a decine di animali, raccolsero 185 specie di felci, 70 di muschi, 100 di funghi; non passava giorno che non trovassero qualche nuova specie di orchidea. All'attività sul campo seguiva l'esame dei materiali raccolti, accompagnato dall'attento studio dei disegni e degli erbari di Reinwardt. L'esplorazione a tappeto dell'area di Buitenzorg permise, secondo Kuhl, di raggiungere "una conoscenza tanto completa quanto quella che si possiede per qualsiasi parte d'Europa". I due amici progettarono quindi una spedizione a Bantam, una provincia allora poco nota, ma un'epidemia di colera li convinse a spostarsi sulle montagne; nell'estate, scalarono il Gunung Salak, il Gunung Gede e il Gunung Pangrango, dove raccolsero molti rettili e anfibi. Alla base del Pangrango, visitarono anche le fonti termali situate tra Rompin e Waroe, dove trovarono una flora interessante e ancora poco nota. Sorpresi da violenti temporali, entrambi contrassero la polmonite; complicazioni epatiche aggravarono le condizioni di Kuhl che, dopo quattro settimane di sofferenze, morì il 14 settembre 1821; van Hasselt, che era medico, lo curò amorevolmente, sconvolto dalla serenità e dalla calma con la quale l'amico accettava la propria sorte. Fu così grande il dolore di perdere colui con il quale per cinque anni aveva diviso gli studi e la vita che cadde in un profondo stato di prostrazione, tanto che van Capellen lo fece trasportare nella propria residenza. Due giorni dopo, moriva anche il pittore Keultjes. L'avventura indonesiana di Kuhl e Keultjes era durata appena nove mesi. Una sintesi della breve ma intensa vita di Kuhl nella sezione biografie. Dopo un lento recupero, van Hasselt e van Raalten (che aveva assunto anche il compito di pittore) dedicarono il 1822 all'esplorazione della zona costiera nei pressi di Batavia, quindi alla costa occidentale, nei dintorni di Anyer. Nel 1823 ripresero il progetto di visitare la provincia di Bantam e scalarono il monte Karang; tuttavia van Raalten si ammalò e fu sostituito dai pittori Janus Theodor Bik (che già aveva accompagnato Reiwardt) e Antoine Maurevert; conosciamo i particolari di questa spedizione grazie al diario di viaggio di Bik, che venne pubblicato qualche anno più tardi. I tre esplorarono la provincia vistandone tanto le zone costiere quanto le catene montuose; verso la metà di agosto, van Hasselt fu colpito da una violenta infezione addominale (presumibilmente amebiasi); tra riprese e ricadute, venne riportato in portantina a Buitenzorg, dove però si spense due giorni dopo l'arrivo, l'8 settembre 1823. Anche per la vita di van Hasselt, rimando alla sezione biografie. Per volontà di van der Capellen, egli fu sepolto nella tomba dove già da quasi due anni esatti riposava Kuhl. Su una faccia del cippo, il governatore fece incidere queste parole: "Come divisero ogni cosa in vita, rimangono insieme dopo la morte, come esempio di devozione, amicizia e amore per la scienza". Sulla faccia opposta, l'epitaffio recita: "In memoria di H. Kuhl, di Hanau, e di J.C. van Hasselt, di Groninga, dottori in medicina, che, sotto gli auspici del re, furono inviati qui a studiare la natura, entrambi dotati di mente eccellente e industriosi nei loro studi, ma soprattutto congiunti da una speciale amicizia fin dalla giovinezza, mentre assolvevano ai loro compiti con grande dedizione soccombettero a una morte precoce, dovuta all'esaurimento per un lavoro strenuo e una fatica eccessiva". Strenuo davvero era stato il loro lavoro: in soli nove mesi Kuhl e in meno di tre anni van Hasselt inviarono al Museo di Leida 200 scheletri, 200 pelli di mammiferi di 65 specie, 2000 uccelli, 1400 pesci, 300 rettili e anfibi, oltre a insetti, crostacei e altri animali marini. Quelli raccolti nell'ultimo viaggio di van Hasselt, per ordine del governatore furono affidati a van Raalten, che li catalogò e li preparò per l'invio in Olanda. Gigantesco fu anche il contributo di Keultjes che lasciò circa 1200 disegni. Anche il materiale botanico fu inviato in in Olanda, dove confluì in gran parte nelle collezioni dell'Erbario nazionale. L'unico sopravvissuto, van Raalten, sarebbe andato incontro al suo destino qualche anno più tardi. Rimasto a Giava, nel 1827 accompagnò Heinrich Christian Macklot in un viaggio attraverso il Preanger (Giava occidentale), dove fu ferito da un rinoceronte. Nel 1828 partecipò alla spedizione della Commissione in Nuova Guinea (insieme a Macklot, Müller, Zippelius e van Oort) nel corso della quale morì a Timor. Congiunti nella tomba, congiunti nella denominazione L'importanza del contributo di Kuhl e van Hasselt alla conoscenza della fauna di Giava è testimoniato dalle dozzine di specie di animali che portano il loro nome: tra gli altri, i pipistrelli Pipistrellus kuhlii e Myotis hasseltii, i batraci Limnonectes kuhlii e Leptobrachium hasseltii, moltissimi pesci tra cui il genere Kuhlia, Pangio kuhli e Callogobius hasseltii; e ancora uccelli, insetti, molluschi. Numerose sono anche le piante che li ricordano nel nome specifico, ad esempio Hoya kuhlii e Dyospiros hasseltii. Nel 1825, appena seppe della morte dei due giovani, Kunth (il collaboratore di Humboldt che li aveva conosciuti in occasione del loro viaggio a Parigi) volle celebrarli con una dedica gemella, intitolando a ciascuno di loro due alberelli sudamericani piuttosto affini, Kuhlia glauca e Hasseltia floribunda. Entrambi i generi, un tempo assegnati alla eterogenea famiglia della Flacourtiaceae, sono ora confluiti nelle Salicacae; il primo tuttavia non è più riconosciuto (è sinonimo di Banara). Hasseltia Kuhn comprende quattro specie di arbusti e piccoli alberi delle foreste tropicali del Centro e del Sud America. La specie più diffusa è proprio Hasseltia floribunda, presente nelle foreste tropicali umide di Panama e Costa Rica; è caratterizzata da infiorescenze bianche a ombrella molto ramificata. Nel Novecento da Hasseltia sono dati distaccati inoltre due generi monotipici molto affini: Hasseltiopsis (creato da H.O. Sleumer nel 1938) il cui unico rappresentante è H. dioica, un albero piuttosto raro delle foreste nebulose del Messico e della Costa Rica; Macrohasseltia (creato da L.O. Williams nel 1961), rappresentato da M. macroterantha, relativamente diffuso nelle foreste umide dal Messico a Panama. Qualche approfondimento su Hasseltia, Hasseltopsis, Macrohasseltia nelle rispettive schede. Ma la dedica più bella e più poetica è giunta nel 1910 grazie al grande esperto di orchidee Johannes Jacobus Smith, che come i due amici esplorò la flora di Giava e dal 1913 al 1924 fu direttore dell'orto botanico di Bogor. Ricordando la loro amicizia e il loro amore per le orchidee, volle congiungere i loro nomi in Kuhlhasseltia. Si tratta di un piccolo genere (5-8 specie) di minute orchidee terrestri che crescono nel sottobosco delle fitte foreste dell'Asia orientale su muschi e detriti di foglie; di piccole dimensioni e per nulla vistose, sono rarissimamente coltivate e assai rare anche in natura. Per la loro bellezza delicata, fanno parte delle cosiddette "orchidee gioiello". Così discrete e gentili, mi sembrano molto adatte a ricordare i due amici, pionieri degli studi sulle orchidee del Sud est asiatico. Qualche notizia in più nella scheda. Proprio l'anno scorso ha celebrato il suo duecentesimo anniversario l'Orto botanico di Bogor, nei pressi di Giakarta, il più antico del Sud est asiatico e uno dei più importanti per la conservazione, lo studio e la diffusione delle piante tropicali. Nacque infatti ufficialmente il 18 maggio 1817 su suggerimento di Caspar Georg Carl Reinhardt, botanico tedesco naturalizzato olandese. Nel suo breve soggiorno a Giava, Reinhardt proseguì, anche se meno di quanto avrebbe desiderato, le ricerche botaniche iniziate da Horsfield; a celebrarlo i generi Reinwardtia e Reinwardtiodendron. Con un'appendice sull'hortulanus Willem Kent, il genere Kentiopsis, l'(ex) genere Kentia e la viscosità della nomenclatura botanica. Il rilancio dell'impero coloniale olandese Nell'ambito delle complesse trattative diplomatiche che ridisegnano l'Europa postnapoleonica, nell'agosto 1814 l'Olanda e la Gran Bretagna sottoscrivono il Trattato di Londra, con il quale i britannici restituiscono agli olandesi parte del loro impero coloniale: tenuti per sé la Colonia del Capo, Ceylon e gli insediamenti in India e nei Caraibi, ritornano ai Paesi Bassi il Suriname, Giava, Sumatra e le Molucche. Per riprenderne il controllo, con qualche ritardo causato dalle convulsioni dei Cento giorni, nell'ottobre 1815 una piccola flotta parte infine dall'Olanda alla volta dell'Indonesia: agli ordini del governatore van der Capellen, 3000 soldati e un gruppo di funzionari che dovranno costituire il nuovo governo coloniale (durante gli anni rivoluzionari, la Compagnia olandese delle Indie Orientali, che aveva retto le isole per oltre duecento anni, è stata sciolta). A bordo della nave da guerra Admiral Evertsen c'è anche il botanico Caspar Georg Carl Reinhardt, cui con l'altisonante titolo di Direttore dell'Agricoltura, delle Arti e delle Scienze di Giava e delle isole vicine sono affidati tre compiti principali: studiare e valutare le potenzialità economiche delle isole, in vista di uno sfruttamento più razionale; migliorare l'educazione dei funzionari europei e i servizi sanitari offerti da ospedali e farmacie; raccogliere animali, piante e minerali destinati al Cabinetto nazionale di Amsterdam. Ad assisterlo in questo ultimo compito, un piccolo staff formato da due pittori, i fratelli Bik, e da un giardiniere, Willem Kent, che ha già lavorato per Reinwardt quando questi dirigeva l'orto botanico di Harderwijk. Farmacista di formazione, ma anche appassionato di botanica e di coltivazione di piante esotiche, Reinwardt ha infatti insegnato per alcuni anni storia naturale all'Università di Harderwijk e poi ad Amsterdam; sotto Luigi Bonaparte, ha diretto il progetto di creazione di uno zoo reale. Ammiratore di Humboldt, nei suoi studi botanici è particolarmente attento alla correlazione tra flora, clima, natura del suolo. Dopo otto mesi di navigazione, Reinwardt arriva a Giava nell'aprile 1816. Nell'attesa del passaggio di consegne da parte dell'amministrazione britannica, visita piantagioni di caffè, indaco, canna da zucchero nei dintorni di Batavia. Incontra Nikolaus Engelhardt, ex governatore della costa settentrionale di Giava, che gli mostra la sua notevole collezione di oggetti naturali, antichità, disegni, libri e manoscritti (tra i quali forse le note di campo del francese Jean Baptiste Leschenault de la Tour che era stato suo ospite tra il 1803 e il 1806). Entra in contatto con il presidente della Società di Arte e di Scienze di Batavia, che aveva sponsorizzato e pubblicato le ricerche di Horsfield. Incomincia anche a studiare il malese e, assistito da Kent, a raccogliere e descrivere erbe, licheni, alberi e fiori. A giugno, annota nel suo diario che hanno già raccolto 160 esemplari. La nascita del primo orto botanico del Sudest asiatico L'amministrazione olandese si installò ufficialmente ad agosto e anche Reinwardt assunse il suo incarico; i doveri amministrativi (il più pressante era la riorganizzazione delle scuole e della sanità) gli lasciavano poco tempo per gli studi naturalistici. Fu tuttavia in quei mesi che maturò l'idea di fondare un Orto botanico nei pressi del Palazzo del Governatore Generale a Buitenzorg (oggi Bogor). Il clima favorevole, il suolo vulcanico, la disponibilità d'acqua ne facevano il luogo ideale per coltivare piante di interesse economico raccolte in tutto l'arcipelago. Inoltre proprio qui, negli anni in cui governava Giava, Raffles aveva creato un giardino all'inglese. Il governo coloniale accolse la proposta di Reinwardt e mise a disposizione un terreno adatto; venne anche assunto un secondo giardiniere ad affiancare Kent, l'inglese Thomas Hooper, formatosi a Kew e giunto a Giava in circostanze rocambolesche: come assistente di Abel, aveva fatto parte della missione Amherst in Cina. A febbraio, si era ritrovato a Batavia tra i superstiti dell'Alceste, naufragata sugli scogli dell'arcipelago giavanese. Anziché tornare in patria, grazie all'allettante offerta di un salario mensile di 150 guilders, decise di rimanere a lavorare al neonato Orto botanico di Buitenzorg. L'anno successivo, l'équipe scientifica fu completato dall'arrivo a Giava di un altro botanico, il tedesco Carl Ludwig Blume. La costruzione del giardino iniziò nel maggio 1817. Comprendeva diverse aree: aiuole e campi per la coltivazione di piante da reddito, erbacee, fiori e alberi, granai per la conservazione dei raccolti, magazzini per gli attrezzi, stalle per i bufali e i buoi impiegati nei lavori, case per il personale indigeno (nel 1822 impiegava 65 aiutanti). Con il duplice obiettivo di presentare un panorama il più possibile completo della flora dell'Indonesia e di fungere da giardino di acclimatazione per piante tropicali di alto potenziale economico o decorativo, crebbe rapidamente. A cinque anni dalla fondazione, nel 1823, sulla base del catalogo redatto da Blume, vi si coltivavano circa 900 specie di piante, la maggior parte provenienti dalle montagne di Giava e dalle Molucche, ma anche da scambi con altri orti botanici (tra i più assidui, quelli di Calcutta e di Rio de Janeiro). In questo modo, l'orto di Buitenzorg diventò ben presto un nodo di rilievo nella grande rete che intrecciava conoscenza scientifica, sfruttamento coloniale, introduzione di nuove piante. Non a caso, avrebbe giocato un ruolo importante nelle sperimentazioni su varie specie di Cinchona destinate ad assicurare all'Olanda il monopolio della produzione del chinino. Ma torniamo a Reinwardt. La sua passione per le scienze naturali e la stessa attività scientifica devono passare in secondo piano rispetto alle attività amministrative. Riesce a creare una rete di raccoglitori, che coinvolge cacciatori indigeni, marinai e militari, funzionari e residenti olandesi, che gli procurano esemplari dalle diverse isole dell'arcipelago, destinate sia alla sua collezione privata sia al Gabinetto reale, ma deve ridurre a ben poco l'attività sul campo. A parte alcune escursioni minori, partecipa solo a due spedizioni scientifiche di una certa importanza: nel 1818, insieme a Kent e ai Bik, cui si è aggiunto un terzo pittore, Antoine Payen, i residenti generali e altri funzionari, nonché ben 130 portatori, intraprende un ampio tour di Giava; tra la fine del 1821 e il marzo 1822, visita le Molucche e altre isole orientali. Intanto in Olanda, in seguito alla morte di Brugmans, si è resa vacante la cattedra di botanica a Leida. Il re, soddisfatto dei servizi di Reinwardt (anche se molti dei suoi invii di curiosità naturali sono andati perduti nelle vicissitudini dei viaggi), lo nomina "Cavaliere dell'ordine del leone d'Olanda" e approva la sua nomina a successore di Brugmans. Reinwardt, che pensa di non aver concluso i suoi compiti a Giava, tergiversa e riesce a rimanere ancora un anno; poi, convinto anche da problemi di salute, il 15 giugno 1822 lascia Batavia per fare rientro in Olanda. Lo attende ancora una lunga carriera accademica (morirà nel 1854) durante la quale pubblicherà tuttavia soltanto tre brevi monografie sulla flora delle Indie orientali olandesi; la sua collezione di piante indonesiane sarà pubblicata solo dopo la sua morte dal suo successore alla cattedra di Leida, Willem Hendrik de Vriese. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La romantica storia di Pyoli, ovvero Reinwardtia A Reinwardt non sono mancati gli onori postumi. Nei Paesi Bassi lo ricorda l'Accademia Reinwardt, il dipartimento di museologia e conservazione dei beni culturali della Scuola d'Arte di Amsterdam; in Indonesia, Reinwardtia, la rivista dell'Orto botanico di Bogor, dove qualche anno fa gli è anche stata eretta una stele. Nella nomenclatura scientifica, lo celebrano il nome specifico di diversi animali (il più noto è il trogone di Giava, Apalharpactes reinwardtii), i generi Reinwardtoena (uccelli della famiglia dei colombi), Reinwardia (famiglia Linaceae), Reinwardtiodendron (Meliaceae). Reinwardtia Dumor. fu creato nel 1822 da B.C.J. Dumortier. E' un genere monotipico che comprende un'unica specie, Reinwardtia indica, un piccolo arbusto dai magnifici fiori giallo vivo. Di origine himalayana, fu inizialmente descritta da Roxburgh come Linum tryginum. Nella dedica, Dumortier, che scrive proprio mentre Reinwardt era in viaggio per tornare nei Paesi bassi, ricorda soprattutto le sue attività come divulgatore di piante rare negli anni di Amsterdam e, informato del suo soggiorno di cinque anni a Giava, si limita ad auspicare che pubblichi quanto prima i risultati delle sue ricerche. R. indica è una pianta graziosissima che non passa inosservata. Nota come Pyoli in India, è legata a una romantica leggenda. Pyoli era una fanciulla selvaggia che viveva nella foresta, dove era stata allevata dagli animali; non aveva mai incontrato nessun essere umano prima di imbattersi in un principe che vi si era perduto durante la caccia. Ovviamente i due si innamorarono e il principe persuase Pyoli a seguirla nel suo palazzo; nonostante l'amore, la ragazza cominciò a languire per la nostalgia della foresta. Sul punto di morire, chiese all'amato come ultimo desiderio di essere sepolta tra i suoi amici. Il principe la seppellì dove l'aveva incontrata per la prima volta. Poco dopo, in quel luogo sorse il fiore che porta il suo nome. Estremamente decorativa sia per il fogliame sempreverde sia per i grandi fiori a campana giallo puro (che sbocciano anche d'inverno), è coltivata da secoli nei giardini indiani e cinesi; non rustica può essere coltivata all'aperto nelle regioni dal clima mite oppure in vaso come pianta da serra o appartamento. Altre informazioni nella scheda. Negli anni successivi, altri botanici dedicarono a Reinwardt un genere Reinwardtia: Blume nel 1824, Sprengel nel 1825, Korthals nel 1841; tutti sono illegittimi in base alla regola dell priorità. E' invece entrato stabilmente nella nomenclatura botanica il genere Reinwardtiodendron (letteralmente "albero di Reinwardt") dedicatogli da S.H. Koorders nel 1898, sulla base di Reinwardtiodendron celebicum, raccolto da Reinwardt nell'isola di Celebes durante il suo viaggio alle Molucche, quindi da lui introdotto a Bogor. Reinwardtiodendron, della famiglia Meliaceae, è un piccolo genere che comprende sei/sette specie di alberi e arbusti dioici, per lo più sorretti da radici a contrafforte; hanno piccoli fiori globosi raccolti, quelli maschili, in pannocchie lasche, quelli femminili, in racemi o spighe, seguiti da bacche carnose. Affini ai generi Aglaia e Lansum (da cui tuttavia sono distinti, come hanno confermato anche le indagini genetiche) sono un gruppo di piante poco noto, esclusivo di un'area dell'Asia orientale compresa tra i Ghati a ovest, lo Yunnan a Nord, le Filippine e le isole della Sonda a est, con maggiore centro di diversità nelle Molucche (con cinque-sei specie). La più diffusa e anche più nota è R. humile, che è presente nelle macchie delle foreste subtropicali e tropicali dell'intero areale del genere. Qualche informazione in più nella scheda. Kentia ovvero la viscosità delle denominazioni botaniche Prima di chiudere questo post, torniamo a un personaggio che finora ha avuto solo il ruolo di comparsa: Willem Kent. Come ho già accennato era un giardiniere (hortulanus) che aveva lavorato sotto Reinwardt a Harderwijk, per poi passare a Leida. Lo seguì a Giava e rimase a lavorare all'Hortus di Bogor fino al 1825, quando divenne aiuto ispettore della coltivazione del caffè. Morì a Giava nel 1827. Un cenno biografico nella sezione biografie. Blume, che succedette a Reinwardt come direttore del giardino botanico di Bogor e lo ebbe come collaboratore, nel 1830 gli dedicò un genere di palme (Arecaceae), Kentia. Benché questa denominazione sia illegittima (il nome era già stato usato quasi settant'anni prima di Adanson per un genere di Fabaceae, dedicato a tutt'altra persona), ebbe grande fortuna e rimase in uso per circa un secolo, giungendo ad annoverare più di 50 specie. In realtà si trattava di un genere artificiale, che raccoglieva specie abbastanza diverse ma accomunate dalle grandi foglie pennate e dai fiori dei due sessi disposti a triade. Con il progresso della conoscenza delle palme (le Arecaceae sono una famiglia molto vasta che presenta particolari difficoltà di classificazione) è stato soppresso e le specie che ne facevano parte sono state assegnate a diversi altri generi. Nel frattempo però la denominazione Kentia aveva fatto in tempo sia a entrare indirettamente nella nomenclatura botanica (compare nella seconda parte del nome di almeno cinque generi di palme, per lo più appartenenti alla tribù Areceae, ad esempio Actinokentia o Physokentia), ma soprattutto a incollarsi a una delle palme più coltivate nei nostri appartamenti; anche se nel 1877 il grande botanico italiano Odoardo Beccari lo separò da Kentia, assegnandola al genere Howea, Howea fosteriana continua ad essere coltivata e commercializzata come Kentia o kenzia, per quella stessa viscosità dei nomi botanici che fa sì che si continui a chiamare gerani i Pelargonium o amarillis gli Hyppeastrum. In ogni caso, anche l'oscuro Willem Kent continua ad essere celebrato da un genere valido, sebbene in modo indiretto. Nel 1873 Brongniart denominò Kentiopsis (ovvero "simile a Kentia") un genere di palme endemiche della Nuova Caledonia. Diffuse in aree molto limitate, le sue quattro specie sono piante rare, a rischio di estinzione. Bellissime, leggere e d'aspetto veramente tropicale, sono talvolta coltivate nei giardini dei paesi a clima mite. Un approfondimento nella scheda. Il giurista amburghese Johann Heinrich von Speckelsen, proprietario di un giardino molto ammirato, in questa storia deve condividere la scena non solo con Linneo, ma con un'idra a sette teste. E il modo con cui è riuscito a dare il suo nome alla sfolgorante Sprekelia è quanto meno tortuoso. Le vacanze intelligenti del giovane Linneo Nella primavera del 1735, il ventottenne Linneo parte per l'Olanda (dove, condizione imposta dal futuro suocero per concedergli la mano della figlia, dovrà conseguire un dottorato in medicina). Nei bagagli, una collezione di quasi mille insetti raccolti in Lapponia e Dalecarlia, e il famoso costume lappone con tanto di tamburo, con i quali conta di far colpo su eventuali protettori. Lungo la strada, si ferma due settimane ad Amburgo, dove viene accolto a braccia aperte da molti esponenti del vivace ambiente intellettuale della grande città anseatica. Il suo punto di riferimento è Johann Peter Kohl, slavista e redattore di un noto periodico di divulgazione scientifica, Hamburgischen Berichte von neuen Gelehrten Sachen, in cui aveva dato conto del viaggio di Linneo in Lapponia. Grazie alla raccomandazione di Kohl, al giovane svedese si aprono tutte le porte: si esibisce persino in un'imitazione di cerimonia sciamanica lappone, suscita interesse e ammirazione per il suo acume, la sua profonda cultura scientifica, l'atteggiamento modesto. Il celebre bibliografo J. A. Fabricius lo accoglie nelle sue stanze tappezzate di libri; il mercante di spezie Natorp gli mostra la sua collezione di lucertole, serpenti e altre rarità; il medico G. J. Jaenisch diventa un amico e un futuro corrispondente. Ma sicuramente l'incontro più fruttuoso per Linneo è quello con il collezionista e botanico dilettante Johann Heinrich von Spreckelsen; laureato in diritto, avvocato, membro di una famiglia di ricchi mercanti ben inserita nell'establishment amburghese, di lì a qualche anno diverrà segretario del Consiglio della città. Ma soprattutto è il proprietario di una fornitissima biblioteca ricca di testi di botanica (che presta liberalmente al nuovo amico) e di un ammirevole orto botanico privato, dove coltiva aranci e molte piante esotiche (a sentire Linneo, ci sono almeno 45 tipi di Aloe e 56 di Mesembryanthemum), soprattutto americane (grazie ai legami commerciali dei mercanti di Amburgo con le Americhe); possiede anche una collezione di cose naturali, tra cui una raccolta di fossili che lo svedese giudica la più grande che abbia mai visto. Oggi è difficile trovare informazioni su di lui, ma al tempo dovette essere ben inserito negli ambienti botanici europei: nel 1729 pubblicò un foglio con la figura della Yucca draconis (oggi Yucca aloifolia var. draconis), che nel 1732 fu ripreso da Dillenius in Hortus Elthamensis; più tardi sarà tra i corrispondenti di Collinson. Linneo stesso lo definirà botanicus doctissimus. L'idra smascherata Sicuramente lo svedese avrebbe prolungato il piacevole soggiorno, se non fosse stato per uno sgradevole incidente. Tra le curiosità della città, c'era anche una celebre idra a sette teste, che proprio l'anno prima l'olandese Albertus Seba, collezionista e cultore di cose naturali, aveva descritto e fatto ritrarre nella sua Locupletissimi rerum naturalium thesauri accurata descriptio, assicurandone l'autenticità. Linneo non poteva farsi scappare l'occasione di darle un'occhiata; vi riuscì grazie ai buoni uffici di Kohl. Ma gli bastò ben poco per capire che quella vantata meraviglia era una frode: si trattava di un grossolano artefatto, creato rivestendo ossa di donnola con pelli di serpente. Piuttosto sicuro del fatto suo, non tenne per sé la scoperta, anzi la annunciò sulle Hamburgischen Berichte. Gli sarebbe piaciuto anzi smascherare quel falso in un pubblico dibattito, ma un amico gli fece capire che era meglio tagliasse la corda: rischiava addirittura di essere messo ai ferri. E Linneo lasciò la città in fretta e furia. Ma da dove arrivava l'idra, e soprattutto di chi era? L'orgoglio della città d'Amburgo aveva già tutta una storia alle sue spalle: nel 1648, in seguito alla battaglia di Praga, l'ultima della guerra dei Trent'anni, sottratta a quanto si dice da una chiesa della città, era finita come bottino di guerra nella mani del comandante svedese, il conte di Königsmarck; poi, attraverso eredità e vendite, era passata di mano in mano fino ad approdare ad Amburgo. E qui le nostre fonti si dividono: secondo Seba, apparteneva ai mercanti Dreyern e Handel; secondo la maggior parte degli autori, faceva parte della collezione di curiosità del borgomastro Johann Anderson; secondo il biografo di Linneo D. C. Carr, che scriveva nella prima metà dell'Ottocento, apparteneva invece proprio al nostro von Spreckelsen. L'oggetto in ogni caso era considerato di grande valore: un tempo il re di Danimarca aveva cercato di aggiudicarselo per 30.000 ducati; ora il suo valore di mercato era molto inferiore, ma certamente l'incursione di Linneo si risolse in un danno non solo d'immagine per il proprietario. D'un tratto quel mirabile oggetto senza uguali non valeva più nulla; e capiamo perché secondo le fonti che identificano in Anderson il proprietario, questi fosse furioso e volesse far arrestare Linneo. Secondo Carr, invece, von Spreckelsen aveva contratto un prestito di 10.000 talleri dando come garanzia l'idra, e si trovò del tutto rovinato. Sono convinta che questa versione sia infondata: a smentirla sono gli ottimi rapporti che rimasero tra Linneo e von Spreckelsen dopo la partenza precipitosa dello svedese da Amburgo. Non solo egli elogia più volte il collezionista amburghese in diverse opere e non manca di ringraziarlo per avergli messo a disposizione i suoi libri, ma soprattutto ci sono rimaste due lettere di von Spreckelsen a Linneo (una del 1737, l'altra del 1755), in cui egli si esprime in termini di amicizia e di ammirazione nei suoi confronti. Un breve sunto della sua vita nella sezione biografie. E finalmente... chiamiamola Sprekelia! Ma è ora che faccia il suo ingresso la protagonista verde di questa storia. Tra le rarità che von Spreckelsen coltivava nel suo giardino di Amburgo c'era anche quello che al tempo era noto come Lilio-narcissus o Narcissus jacobeus. Egli ne cedette qualche esemplare al medico e botanico Lorenz Heister, che a Helmstedt dirigeva uno degli orti botanici più celebrati della Germania. Come ringraziamento, questi ribattezzò la pianta Sprekelia (1753). Una denominazione che, come vedremo, dovette aspettare quasi settant'anni per entrare nell'uso. Se era una pianta rara, non era certo una novità nei giardini europei. Coltivata già dagli aztechi con il nome di atzcalxóchitl o “fiore di splendore rosso”, è citata da Hernández in Historia natural de Nueva España, scritta durante il suo viaggio in Messico tra il 1571 e il 1576. Secondo Linneo, arrivò in Europa nel 1593. Non sappiamo da dove egli derivasse questa notizia; sappiamo invece dalla corrispondenza del medico Simon de Tovar che quest'ultimo la coltivava nel suo giardino di Siviglia; nel 1595 ne inviò tre bulbi nelle Fiandre al conte di Arenberg; l'anno dopo ne inviò una dettagliata descrizione a Clusius, in cui per la prima volta ne associò il fiore alla spada dei cavalieri di San Giacomo, in base alla forma (ancora oggi, in inglese è detto Jacobean lily e in spagnolo è flor de Santiago). Si devono proprio a Clusius (in Rariorum plantarum Historia, 1601) la prima descrizione scientifica e la prima immagine. Nel corso del Seicento, viene riprodotta molte volte, ad esempio nelle opere di Vallet, Parkinson, Ferrari, de Bry, Morison, e così nel Settecento, per lo più come Narcissus indicus, Narcissus jacobaeus o Lilio-narcissus. Qualcuna di queste immagini in questa pagina. Linneo lo descrisse in Species plantarum, assegnandolo al genere Amaryllis come A. formosissima. Il nome Sprekelia rimase dunque inutilizzato, finché nel 1821 William Herbert in An Appendix. Preliminary Treatise, un lavoro propedeutico alla sua fondamentale opere sulle Amaryllidaceae, separò A. formosissima da Amaryllis e lo assegnò a un genere proprio; inizialmente aveva pensato di battezzarlo Jacobaea, rifacendosi al nome volgare, ma poi ragionò così: "Era stato chiamato Sprekelia da Heister, sebbene io creda che il nome non sia mai stato adottato, e io ho sempre pensato che è giusto aderire a un nome che è già stato dato". Noto anche con il nome di giglio azteco, Sprekelia è considerato uno dei fiori più belli; come si è anticipato, appartiene alla famiglia Amaryllidaceae, è originario del Messico e del Guatemala. Fino a pochi anni fa, era considerato un genere monotipico, con l'unica specie S. formosissima, caratterizzata da singolari fiori rosso brillante con tepali posti a croce a simmetria assiale. Oggi si riconosce una seconda specie, S. howardii, scoperta nel Messico meridionale e descritta nel 2000 da D. Lehmiller, più piccola della precedente e con tepali strettissimi. Qualche informazione in più nella scheda. Nel corso di quella che è considerata la prima spedizione scientifica dell'età moderna, Joseph Pitton de Tournefort, insieme ai suoi compagni Andreas Guldelsheimer e Claude Aubriet, esplora le isole greche del mare Egeo, visita Costantinopoli, per poi raggiungere Trebisonda navigando lungo la costa meridionale del mar Nero, e di qui l'Armenia ottomana, la Georgia e l'Armenia persiana. Ovunque, raccoglie preziose informazioni geografiche, archeologiche, etnografiche. E, ovviamente piante. Alla fine il bottino ammonterà a oltre 1300 specie, di cui un terzo ignote alla scienza, e 25 nuovi generi. Uno sarà dedicato al compagno di viaggio Gundelsheimer, ribattezzato alla latina Gundelius per fare da padrino a Gundelia. Quanto a Claude Aubriet e al genere che lo celebra, aspettate il prossimo post. In viaggio per la gloria del Re Sole E' con entusiasmo che, sul finire del 1699, Joseph Pitton de Tournefort accoglie l'ordine reale di partire per il Levante. Tuttavia, due preoccupazioni lo convincono che è meglio trovare dei compagni di viaggio: da una parte, la prospettiva di cadere malato lontano da casa, in un paese di cui non conosce la lingua, dove vengono praticate chissà quali barbare cure; dall'altra, la consapevolezza che, tra le sue tante abilità, non c'è quella del disegno. Ad accompagnarlo saranno uno dei suoi allievi, il medico tedesco Andreas Gundelsheimer, e Claude Aubriet, il pittore che aveva illustrato i suoi Elements de botanique. A volere fortemente il viaggio e a convincere il re sono stati il protomedico Fagon, protettore e estimatore di Tournefort, e il segretario di stato, il conte di Pontchartrain; e qualche parte nel progetto l'ha giocata anche l'abate Bignon, nipote del ministro e segretario dell'Accademia delle scienze. Il principale obiettivo scientifico è identificare sul campo le specie descritte da Teofrasto e Dioscoride, ancora così importanti per la medicina del tempo; ma si dovranno anche raccogliere ogni genere di notizie sulla geografia antica e moderna, gli usi e i costumi, la religione, i commerci, a maggior gloria del re e a beneficio degli interessi anche economici della Francia. Le informazioni raccolte, insieme al resoconto del viaggio, raggiungeranno periodicamente la Francia sotto forma di 22 ampie lettere inviate da Tournefort al ministro; è su questa base che al rientro in patria egli stenderà Relation d'un voyage du Levant fait par ordre du roy . Anche nella redazione finale questo bellissimo racconto di viaggio mantiene in molte sue parti la freschezza della forma epistolare, che, al là di un certo sovraccarico di erudizione, trasmette viva al lettore la personalità del suo autore, osservatore attento e lucido, ma anche uomo di spirito sempre pronto a ironizzare in primo luogo su stesso. Alla scoperta delle isole greche Il tre amici il 9 marzo 1700 si mettono in viaggio alla volta di Marsiglia; il 23 aprile si imbarcano sulla nave commerciale L'Esprit, che con una navigazione fortunata e rapidissima, senza scali, in una settimana li porta a La Canea, nell'isola di Creta. All'esplorazione dell'isola (celebrata nei testi antichi per la sua ricchezza di specie officinali) dedicano tre mesi, per poi spostarsi nell'arcipelago delle Cicladi. Seguendo in itinerario condizionato dagli imbarchi (approfitteranno anche di una nave corsara) e dalle condizioni meteorologiche, in circa otto mesi visiteranno ben 34 tra isole e isolotti, quasi tutte quelle all'epoca permanentemente abitate. E' un viaggio naturalistico (raccolgono centinaia di piante, esplorando anche montagne e luoghi impervi, interrogano la popolazione sui nomi locali, nella speranza di ritrovare qualche traccia delle denominazioni antiche), un'esplorazione geografica (non mancano mai di ascendere alla cima più alta di ciascuna isola, per fare il punto e correggere le carte), un viaggio turistico e archeologico (visitano ogni curiosità degna di nota, dai resti della civiltà greca ai monasteri, dal presunto labirinto di Gortyna a Creta alla splendida grotta di Antiparo). Tournefort raccoglie notizie sulle produzioni locali (come la resina di terebinto e il ladanum, una sostanza usata in profumeria estratta dal Cistus ladanifer), sulle risorse economiche, sull'amministrazione turca, sulla religione ortodossa, sulla composizione delle comunità locali e persino sugli abiti delle donne; non mancano mai informazioni sul cibo e sui vini. E' la prima vasta ricognizione delle isole greche di epoca moderna: con il viaggio di Tournefort, all'immagine idealizzata della Grecia sorta dalla lettura dei classici, incomincia a sostituirsi quella della Grecia reale, un mondo spesso miserabile, ignorante, superstizioso; Tournefort osserva con occhio impietoso e giudica lucidamente con un pizzico di sciovinismo l'arroganza e la rapacità dei funzionari turchi, la passività dei greci, la sporcizia, le campagne devastate dalla guerra, la miseria che regna quasi ovunque, in contrasto con la ricchezza della Chiesa che, grazie alla manomorta, possiede quasi sempre le terre migliori. Gli intrepidi viaggiatori sopportano con buon umore le vicissitudini del viaggio: a Thermia, scambiati per banditi, rischiano il linciaggio; a Raclia, poco più di uno scoglio, rimangono bloccati senza né cibo né acqua; a Stenosa sono ridotti a nutrirsi di lumache di mare; a Joura non osano chiudere gli occhi per il terrore che i topi che infestano la cappella dove si sono ritirati per la notte gli mangino le orecchie; a Zia il loro sonno è interrotto da lamenti angosciosi (non sono né fantasmi né pirati, ma una colonia di foche); a Nio sono abbandonati dai marinai, timorosi di una presunta incursione corsara; più volte rischiano il naufragio. Dall'Anatolia all'Armenia e ritorno Nel marzo 1701, dopo aver svernato tre mesi a Mykonos, si rimettono in viaggio verso Istanbul. Qui, grazie all'ambasciatore francese, si aggregano alla carovana di un pasha turco diretto a Erzrum, capitale dell'Armenia ottomana. Navigando lungo la costa meridionale del mar Nero (ma i pernottamenti a terra e le lunghe soste permettono di erborizzare e di fare qualche puntata all'interno) dopo un mese esatto (23 maggio 1701) raggiungono Trebisonda. Mentre la carovana riposa, i tre infaticabili botanici vanno alla ricerca di piante rare al monastero di Sumela: costruito su uno strapiombo che "metterebbe in difficoltà il più abile dei funamboli", nonostante le vertigini li delizia con le sue foreste di conifere che non hanno nulla da invidiare a quelle delle Alpi. Ma non possono trattenersi, perché il visir è già ripartito alla volta di Erzrum; si affrettano a raggiungerlo: viaggiare da soli sarebbe troppo pericoloso, perché le strade sono infestate dai briganti. Superando le montagne della Catena Pontica, penetrano nell'Armenia ottomana. Per la prima volta, Tournefort ha l'impressione di essere davvero in Levante. E' un paesaggio aspro e roccioso dove, nonostante la stagione avanzata, domina ancora la neve. Durante la marcia, suscitando lo stupore e l'ilarità dei mercanti che seguono la carovana, scendono spesso da cavallo per raccogliere ogni erba interessante; capita persino di erborizzare al lume della luna. Il 15 giugno sono a Erzrum, dove si fermeranno tre settimane. Le sorgenti dell'Eufrate, dove si sono spinti in compagnia di un vescovo armeno, nonostante l'area sia infestata da bande curde, fanno da scenario all'avventura più esilarante; mentre bevono quelle freschissime acque, mescolate con il vino per mitigarne il gelo, i temuti curdi si manifestano e sembrano moltiplicarsi. Sarà vero o sono loro che ci vedono doppio, tanto più che la paura spinge a replicare le bevute? I curdi ci sono davvero, ma sono amici del vescovo e tutto finisce bene. Quando sentono che una carovana di mercanti è in partenza per Tiflis, la capitale della Georgia, allora sotto l'impero persiano, afferrano l'occasione al volo e, muniti di un salvacondotto dell'amico pasha, si aggregano. A Kars, la frontiera tra i due imperi, sono trattenuti per due giorni da un funzionario che li scambia per spie russe; superato quest'ultimo ostacolo, entrano in territorio persiano, dove sono deliziati dalla disponibilità degli abitanti, tanto diversi dai sospettosi e rigidi turchi. Le ubertose e ben coltivate campagne georgiane, tanto in contrasto con la rocciosa e spoglia Armenia ottomana, fanno loro pensare di essere nel più bel paese della Terra, anzi in un lembo del Paradiso terrestre. Da Tiflis proseguono per l'Armenia: a Echmiadzin rendono omaggio al patriarca armeno, poi continuano fino a Erevan. A dominare il paesaggio è la cima dell'Ararat: secondo le voci che raccolgono, è negata all'uomo per volere divino perché, sotto cumuli di neve, ancora vi giace l'arca di Noè. Ma la montagna sembra a due passi, e come potrà resistere al suo richiamo quell'alpinista ante litteram che è Tournefort? I tre, concordi, giurano che devono arrivare almeno a toccarne le nevi; e, nonostante una scalata difficilissima, ci riusciranno. Sulla strada del ritorno, diretti di nuovo a Erzrum dove hanno lasciato quasi tutti i bagagli, poco dopo aver superato la frontiera turca, al passaggio di un guado Tournefort rischia di annegare. Dopo un breve soggiorno a Erzrum, dedicato soprattutto alla raccolta di semi, è ora di tornare a casa. Il cammino sarà lungo, ma a Tournefort pare già di vedere i campanili della dolce terra di Francia. Partiti a fine settembre, dopo aver attraversato l'intera Anatolia, passando da Tokat, Ankara e Bursa, arriveranno a Smirne a metà dicembre. L'inverno è dedicato a escursioni archeologiche e alla visita di alcune isole del Dodecanneso. E' soltanto il 23 aprile 1702 che si imbarcano sulla Soleil d'oir: al contrario di quello d'andata, il viaggio di ritorno sarà reso lungo e penoso dal maltempo; costretti prima a uno scalo a Malta, dopo 40 giorni di navigazione devono sbarcare a Livorno, da cui una feluca li porterà a Marsiglia. E' il 3 giugno 1702. Il bottino botanico (per tacere dell'enorme mole di notizie di altro genere) è immenso: 1356 specie, un terzo delle quali non ancora descritte, e 25 nuovi generi. I semi di molte germineranno e prospereranno al Jardin des plantes; vorrei ricordarne almeno tre, oggi molto amate nei giardini: i due rododendri originari delle rive del mar Nero, Rhododendron ponticum e R. luteum, e il popolarissimo Papaver orientale. Gundelsheimer e la Gundelia Tra i generi nuovi c'è anche Gundelia, e questa è la storia del suo "battesimo". Durante la marcia da Trebisonda a Erzrum, i tre botanici sono colpiti da un bellissimo cardo; il primo a segnalarlo è Andreas Gundelsheimer. E' dunque giusto che la nuova pianta porti il suo nome. Ma come trasformare il suo barbarico cognome in un accettabile nome latino? Gli amici discutono un po', finché si convincono che il nome giusto è Gundelia. E proprio mentre i musicisti che accompagnano il pasha intonano una marcia (certo di buon auspicio) si brinda al nuovo genere, ma solo con acqua: cosa opportuna e benvenuta, aggiunge Tournefort, per una pianta che vive nei luoghi più aridi e rocciosi. Prima di congedarci dai tre allegri viaggiatori, due parole su Gundelsheimer. Bavarese, aveva studiato in Olanda e in patria, dove si era laureato in medicina. Aveva vissuto per qualche tempo anche in Italia, per trasferirsi a Parigi proprio per frequentare le lezioni di Tournefort. Dopo il viaggio in Oriente, divenne medico militare e servì dapprima nell'esercito francese (combatté anche in Piemonte durante la guerra di successione spagnola). Tornato in Germania, divenne medico personale dell'elettore di Brandeburgo. Fu tra gli ideatori del Museo di anatomia di Berlino. Morì in ancora giovane età durante l'assedio di Stettino. Qualche informazione in più nella biografia. Ma torniamo a Gundelia (il genere è stato accettato e ufficializzato da Linneo in Species plantaurm 1753). Anche se in epoca recente sono state avanzate altre proposte, la maggior parte degli studiosi lo considera un genere monotipico con una sola specie molto variabile, G. tournefortii. E' un'Asteracea spinosa che assomiglia molto a un cardo, diffusa in una vasta area che dal Medio Oriente arriva all'Asia centrale e all'Afghanistan. In primavera germoglia da una rosetta di foglie; poi, man mano che la stagione avanza, la pianta ingiallisce e diventa sempre più spinosa; quando è quasi secca, basta un soffio di vento per staccarla dalle radici: è una strategia per favorire la diffusione dei semi. Per questa particolarità, in Palestina è soprannominata "cardo che rotola". I germogli giovani e i capolini immaturi sono molto apprezzati nella cucina di diversi paesi; il sapore viene descritto come intermedio tra l'asparago e il carciofo. Nella medicina tradizionale, le sono attribuite anche diverse proprietà officinali. Qualche approfondimento nella scheda. Situato all'estrema periferia occidentale dell'Impero russo, l'orto botanico di Tartu, in Estonia, nell'Ottocento giocò un sorprendente ruolo di primo piano nella conoscenza della flora russa e asiatica. Il merito di aver fondato quella importante scuola botanica fu di un baltico di lingua tedesca, Carl Friedrich von Ledebour. A celebrarne il ricordo, il genere africano Ledebouria. Rinasce un'Università, nasce un Giardino botanico Tartu, all'epoca meglio nota con il nome tedesco Dorpat, vantava una prestigiosa università di lingua tedesca e confessione luterana, fondata nel 1632 dal re di Svezia Gustavo Adolfo come baluardo conto il controriformismo polacco. Dopo diverse vicissitudini, già prima del passaggio dell'Estonia sotto il dominio russo, nel 1721, aveva cessato di esistere. Sotto l'impulso degli intellettuali baltici di lingua tedesca venne rifondata nel 1798 e consolidata nel 1802; dal punto di vista amministrativo e finanziario, dipendeva dalla corona russa, ma sul piano culturale era un'istituzione tedesca; in tedesco venivano impartite le lezioni e tedeschi, spesso balto-tedeschi, erano gli insegnanti. Nel 1803, ad affiancare l'insegnamento della medicina, delle scienze naturali e della farmacia, venne creato un orto botanico, inizialmente collocato in via Vanemuise, sotto la direzione di Gottfried Albrecht Germann; nel 1806 lo stesso Germann, con l'aiuto del capo giardiniere J. A. Weinmann, curò il trasferimento in una sede più idonea, sull'antico bastione di via Lai (dove il giardino si trova tuttora). Il duplice legame - da una parte con la Russia, protagonista in quegli anni di molte spedizioni scientifiche, con il suo immenso territorio in gran parte ancora inesplorato, dall'altra con la Germania e più un generale con la rete degli studiosi, degli orti botanici e delle università europee - fece dell'Università di Tartu/Dorpat un importante luogo di interscambio culturale e permise all'orto di crescere rapidamente. Un primo catalogo indica un patrimonio di 4300 specie. Germann era uno studioso polivalente, interessato soprattutto alla botanica e all'ornitologia. All'Università di Dorpat insegnava storia naturale, botanica, zoologia, mineralogia, entomologia e ornitologia. Come strumento didattico, creò anche un gabinetto di storia naturale, con collezioni di insetti, minerali e un erbario. Anche Weinmann era un personaggio notevole: prima di arrivare a Tartu aveva lavorato a Würzburg e Vienna, dopo Tartu lavorerà a San Pietroburgo e sarà ammesso all'Accademia delle scienze. Dalle rive del Baltico ai monti dell'Asia centrale Ma la vera svolta fu impressa dal secondo curatore dell'orto ( e secondo professore di botanica dell'Università). Morto Germann nel 1809, per qualche tempo i due incarichi rimasero vacanti, finché venne nominato a sostituirlo il giovane e dinamico Carl Friedrich Ledebour; nato a Stralsund, da parte di madre era anche lui un tedesco del Baltico, ma da parte di padre era svedese. E in Svezia era entrato in contatto con la scuola linneana nella persona di Carl Peter Thunberg. Arrivato a Tartu nel 1811, in piene guerre napoleoniche, dopo un avventuroso viaggio da Berlino, dimostrò subito la sua intraprendenza, riuscendo a ottenere dalle autorità russe la costruzione di una nuova serra, un notevole aumento dei fondi e l'ampliamento del giardino, che sotto la sua gestione raggiunse le dimensioni attuali di circa tre ettari. Ottimo didatta, riuscì a creare intorno a sé una prestigiosa scuola botanica, introducendo di fatto in Russia l'insegnamento della botanica sistematica; tra gli esponenti più noti, Johann Friedrich von Eschscholtz, che ritroveremo in questo blog come naturalista della spedizione Kotzebue; e i suoi stretti collaboratori Carl Anton von Meyer e Alexander Bunge. Era un eccellente tassonomista, ma non disdegnava la ricerca sul campo. Nel 1815 avrebbe desiderato partecipare come naturalista alla spedizione di Kotzebue nel mar Glaciale Artico e nel Pacifico, insieme al suo allievo Eschscholtz, ma dovette rinunciare per motivi di salute. Nel 1818 visitò brevemente la Crimea insieme a un altro allievo, Carl Anton von Meyer. Ma la grande avventura di Ledebour iniziò nel 1826, quando diresse una grande spedizione nei monti Altai e nelle steppe del Kirghizistan, questa volta con Meyer e Bunge. Per due anni, muovendosi separatamente, i tre botanici esplorarono a fondo una regione ancora poco nota, raccogliendo oltre 1600 specie di fanerogame; se la botanica costituiva il loro interesse principale, non mancarono raccolte di minerali e animali. Ledebour riservò a se stesso la parte orientale della catena; visitò Ridder, Zyryanovsk, esplorò la valle dell'Irtysh e raggiunse e sorgenti dei fiumi Uby, Charysh e Yeni. Quindi visitò Katun e si spinse fino ai confini con la Cina. Una relazione del viaggio è contenuta in Reise durch die Altaigebirghe und die Soongorische Kirgisen-Steppe ("Viaggio nei monti Altai e nella steppa del Kirgizistan), pubbicato in tedesco a Berlino tra il 1829 e il 1830. Al loro rientro a Tartu, i tre naturalisti scrissero insieme l'importante Flora Altaica, in quattro volumi, uscita tra il 1829 e il 1833, considerata la prima flora regionale del secolo. Tra le specie descritte per la prima volta Malus sieversii (con il nome di Pyrus sieversii) e Larix sibirica. Dei risultati della spedizione usufruì anche l'orto di Dorpat, che si arricchì di molte specie di piante siberiane e centro-asiatiche, divenendo anche il principale tramite per la loro conoscenza e diffusione in Europa, grazie agli scambi con la rete europea degli orti botanici. In tal modo furono gettate le besi della particolare vocazione dei botanici dell'Università di Dorpat, che in un certo senso si specializzarono nello studio della flora della Russia orientale e dell'Asia. Insieme ai due collaboratori e ad altri allievi, Ledebour iniziò quindi a studiare i materiali botanici raccolti da Chamisso, Wormskjold e Eschscholtz durante le spedizioni di Kotzebue (1815–1818 e 1823–1826), nonché i materiali raccolti nella Russia meridionale da Carl Eduard Eichwald (1825–1826) e da von Nordmanne e Th. Döllinger nel 1836. Su questa base, Ledebour iniziò a scrivere un'opera complessiva sulla flora russa: un' impresa impegnativa, che lo spinse nel 1836 a lasciare l'incarico universitario (lo sostituì Bunge) per dedicarsi ad essa a tempo pieno. Il risultato fu Flora Rossica, in quattro volumi, uscita tra il 1841 e 1853, la prima che copre l'intero territorio dell'Impero russo (Russia europea, Asia, Caucaso, Alaska), per un totale di circa 6500 specie; nonostante sia priva di immagini, questa prima descrizione completa della flora russa rimase per decenni un'opera di riferimento. Pur avvalendosi ancora una volta della collaborazione di diversi altri studiosi, Ledebour realizzò il grosso del lavoro, che completò letteralmente pochi giorni prima della morte. Qualche approfondimento sulla sua vita nella sezione biografie. Ledebouria, minuscoli gigli tigrati A ricordare Ledebour sono in primo luogo numerose piante da lui descritte per la prima volta (Lilium ledebourii, Trollius ledebourii, Lonicera ledebouri, Rhododendron ledebourii, Artemisia ledebouriana, ecc). Ma soprattutto, a questo grande esperto della flora siberiana e asiatica, è toccato di essere celebrato da un genere soprattutto africano. Fu Albrecht Wilhelm Roth nel 1821 (quando Ledebour era un apprezzato studioso dell'Università di Dorpat, ma non aveva ancora affrontato né la grande spedizione negli Altai né scritto le sue due opere principali) a dedicargli il genere Ledebouria, descrivendo la specie tipo, l'indiana L. hyacinthina. Il genere Ledebouria, della famiglia Asparagaceae, sottofamiglia Scilloideae (un tempo Hyacinthaceae) ha avuto una storia tassonomica complessa, venendo assegnata da botanici diversi successivamente ad altri generi affini (Hyacinthus, Lachenalia, Drimia, Scilla); nel 1970 è stato ristabilito da Jessop. Ancora incerto rimane il numero di specie assegnate (da circa 40 a 60); sono bulbose soprattutto sudafricane (almeno una trentina di specie), con qualche rappresentante anche in Madagascar e in India. Di dimensioni molto variabili, da minuscole a relativamente grandi, sono spesso caratterizzate da foglie più o meno carnose vistosamente macchiettate. Probabilmente la specie più nota da noi, spesso offerta da Garden center e specialisti di succulente, è la graziosa L. socialis (spesso commercializzata con il vecchio nome di Scilla socialis o S. violacea), originaria di aree sabbiose ma ricche di humus della zona di transizione tra il Capo orientale il Capo Occidentale in Sud Africa. E' caratterizzata da bulbi che crescono sopra il livello del suolo, protetti da tuniche di consistenza cartacea, da cui spuntano ciuffi di foglie oblunghe da verde a argentee, spesso densamente macchiettate, che le hanno guadagnato il nome inglese di Tiger lily, "Giglio tigre". Un'altra specie abbastanza diffusa in coltivazione è L. cooperi, con foglie lineari, lucide, erette, rigate, e graziose spighe di fiori rosa brillante. Per qualche informazione in più su qualche altra specie meno nota si rimanda alla scheda. Più che gli esseri umani - rappresentati dallo sfortunato farmacista e botanico Johann Sievers che, al servizio di Caterina II, negli ultimi anni del Settecento visitò la Siberia, la Mongola, il Kirghizistan e il Kazakhstan - le protagoniste di questa storia sono le piante. Una cercata appassionatamente e non trovata, il rabarbaro cinese; l'altra scoperta quasi per caso: il Malus siversii, ovvero il "papà delle mele". Ovviamente c'è anche il genere Sieversia e l'ormai obsoleto Novosieversia. Dal re dei lassativi... Come sa ogni spettatore del Malato immaginario di Molière, due erano le cure fondamentali della medicina del Sei-Settecento: i salassi e le purghe. Il purgante più ricercato, perché allo stesso tempo efficace e non drastico, privo di sgradevoli effetti collaterali, era il rabarbaro. Importato dalla lontana Cina, era apprezzatissimo e costosissimo: nell'Inghilterra del Seicento era tre volte più caro dell'oppio. Per giungere in Occidente, infatti, doveva fare una lunga strada; parte giungeva dall'impero Ottomano attraverso l'India, ma il migliore di tutti era il "rabarbaro russo", che in realtà era cinese. Il commercio del rabarbaro cinese attraverso le steppe russe datava fin dall'antichità, tanto che il nome stesso della pianta, in greco e latino Rheum, deriva da Rha, l'antico nome del fiume Volga, lungo le cui rive si trovavano i punti di smistamento delle vie carovaniere. Ma a farne una voce decisiva del bilancio russo fu Pietro il Grande. Nel 1696 impose su di esso il monopolio statale; dal 1727, come tutte le transazioni commerciali sino-russe, il suo commercio fu regolato dal trattato di Kiakhta. Dal 1730 l'importazione fu assegnata in esclusiva a una famiglia di Bukhari, che trasportavano fino a Kiakhta il rabarbaro acquistato in Cina; qui veniva esaminato da un farmacista russo: tutto quello di cattiva qualità era immediatamente bruciato, mentre quello che aveva passato la selezione veniva avviato a Mosca e a San Pietroburgo, dove era ulteriormente esaminato prima di essere esportato in Occidente. Grazie a questa trafila il rabarbaro "russo" si impose sul mercato come il migliore, sebbene gli alti prezzi ne facessero una medicina solo per ricchi. I profitti erano così alti che il ricavo di una sola transazione permetteva di mantenere l'esercito russo per un anno. Ai tempi di Caterina II - lei stessa fu curata con efficacia con il rabarbaro in seguito a una grave costipazione causata da una scorpacciata di ostriche - la situazione cominciò a mutare. Intorno al 1745, Olandesi e Inglesi invasero il mercato vendendo a prezzi stracciati il rabarbaro "indiano", certamente di qualità inferiore ma molto più abbordabile. Inoltre le relazioni con la Cina erano soggette ai malumori e alle scelte spesso xenofobe del Celeste impero; così, in seguito a incidenti di frontiera, tra 1764 e il 1768 la Cina ruppe le relazioni diplomatiche e proibì le esportazioni verso la Russia. Negli stessi anni, la grande spedizione dell'Accademia, guidata da Pallas, aprì nuove prospettive. Nel 1772 lo stesso Pallas visitò Kiakhta, ricavandone l'impressione negativa che, nel gioco commerciale, i soli a guadagnarci fossero i cinesi, che potevano imporre i loro prezzi a piacimento. Nella sua esplorazione delle regioni siberiane, inoltre, il naturalista tedesco scoprì diverse specie di Rheum; egli era convinto che il rabarbaro cinese fosse ottenuto da varie specie e che non fosse né diverso né superiore rispetto a quello reperibile sul territorio russo, che era di cattiva qualità solo perché coltivato e conservato con metodi sbagliati. Propose dunque un ambizioso piano di raccolta di semi, da coltivare negli orti botanici di Mosca, San Pietroburgo e eventualmente Irkutsk, selezionando le varietà migliori da ridistribuire per creare un'industria russa del rabarbaro. ... al papà delle mele Nel 1781 Caterina II eliminò un monopolio ormai in declino, liberalizzando il commercio del rabarbaro e puntando sulla sua coltivazione nel territorio nazionale. Ma prima bisognava scoprire se aveva ragione Pallas, e quale specie convenisse coltivare. L'imperatrice stabilì un premio per chi avesse scoperto la pianta del "vero" rabarbaro e nel 1790 l'Accademia delle Scienze russa inviò alla sua ricerca il botanico e farmacista di origine tedesca Johann Erasmus (August Carl) Sievers. Egli doveva anche individuare le aree più adatte a un'eventuale coltivazione. La spedizione durò cinque anni. Nel 1791 Sievers esplorò i monti Yablonoi, una catena montuosa del sud-est della Siberia, situata tra la Mongolia e il lago Baikhal. Individuò le specie di rabarbaro segnalate da Pallas (oggi Rheum rhabarbarum e R. nanum), provò a seminarle, ma con risultati che lo convinsero che non si trattava del vero rabarbaro, a suo parere una specie esclusivamente cinese di cui al momento non erano note le caratteristiche. Nel 1792 proseguì le sue ricerche più a occidente, al di là del fiume Irtys, esplorando i monti Altai e la valle del fiume Bukhtarma. Nel 1793 fu il primo botanico a visitare i monti Tarbagatai, dove rischiò di morire di inedia; a salvarlo fu l'incontro con i membri di alcune tribù turco-mongole che lo ospitarono e lo guidarono alla scoperta delle valli e degli impervi versanti della catena; qui Sievers scoprì boschetti di alberi di mele, che all'assaggio si rivelarono dolcissime. Ne scrisse entusiasta a Pallas, che informava puntigliosamente delle sue scoperte botaniche e etnologiche. Raggiunto il lago Alakol, nel 1794 Sievers riuscì a passare in Cina, ma, presto rimandato indietro, non poté trovare l'oggetto delle sue ricerche. Nel 1795, a soli 33 anni, morì improvvisamente. Una sintesi della sua breve vita nella sezione biografie. Dopo la sua morte, Pallas pubblicò le sue lettere sotto il titolo Briefe auf Sibiren, "Lettere dalla Sibera", importanti sia per le notizie etnografiche, sia per il contributo alla conoscenza dalla flora di aree largamente inesplorate prima della spedizione di Sievers. Sulla base dell'erbario e delle note del naturalista defunto, più tardi Pallas pubblicò Plantae novae ex herbario et schedis defuncti Botanici Ioanni Sievers, Hannoverani, descriptae, "Nuove piante descritte sulla base dell'erbario e delle note del defunto botanico hannoveriano Johann Sievers". Sono numerose le specie raccolte o descritte per la prima volta: tra le altre, Ribes fragrans, Rheum nanum, Picea schrenkiana, Asclepias rubra, Bassia (=Kochia) scoparia, Artemisia sieversiana, e soprattutto Malus sieversii, il melo che Sievers aveva incontrato sulle pendici dei monti Tarbagatai. Questa particolare specie di melo ha acquisito grande notorietà qualche anno fa quando, in seguito alla descrizione completa del genoma delle mele coltivate e allo studio comparativo di tutte le specie del genere Malus, si è scoperto che proprio M. sieversii è il progenitore della maggior parte delle cultivar domestiche. Il "papà" delle mele (del resto, Alma-Ata, il nome sovietico della capitale del Kazakhstan, significa "padre delle mele") ha frutti particolarmente gustosi e grandi (diametro fino a 7 cm). All'origine delle mele, potrebbe anche essere il loro futuro: la ricchezza genetica e l'eccezionale resistenza alle malattie potrà essere utile per produrre nuove cultivar che non necessitino di pesticidi. Le aree del Kazakhstan, dove si trovano le foreste di meli di Sievers, gravemente minacciate dalla deforestazione, sono state proposte come patrimonio dell'umanità Unesco. La Sieversia, bellezza glaciale Per onorare lo sfortunato botanico, che quanto meno le pubblicazioni di Pallas avevano salvato dall'oblio, nel 1811 Willdenow creò il genere Sieversia, della famiglia Rosaceae, molto affine a Geum, da cui lo distingue lo stilo deciduo piumoso e privo di uncino. Per duecento anni, i botanici si sono divertiti ora a considerarlo un genere autonomo, ora un sottogenere o una sezione di Geum; a questo pingpong ha messo fine nel 2002 uno studio che, sulla base di dati genetici, ha stabilito l'indipendenza di Sieversia, ridotto tuttavia a due sole specie. Del resto lo stesso Geum è un gruppo geneticamente eterogeneo, un complex, che raggruppa presumibilmente più generi e deve essere indagato da studi più approfonditi. Le specie superstiti sono Sieversia pentapetala e S. pusilla. La prima è una graziosa perenne erbacea della tundra e degli ambienti montani, presente nella Siberia orientale, in Giappone e in Alaska, con cinque petali candidi che contrastano con gli stami giallo brillante; può essere una specie dominante che forma dense colonie. La seconda è un endemismo della Siberia orientale e della Kamchatka, simile alle precedente ma di dimensioni minori. Con le sue origini siberiane e montane, Sieversia è un omaggio quanto mai adatto a Sievers, esploratore della flora siberiana e tra i primi descrittori di Sieversia pentapetala (allora Dryas anemonoides). Qualche approfondimento nella scheda. Nel 1933 F. Bolle sottopose a revisione il genere Geum e ne distaccò diversi generi, tra cui Novosieversia, che includeva una sola specie, N. glacialis, una specie circumboreale con fiori gialli e stili piumosi. Oggi è per lo più considerato sinonimo di Geum glaciale. Ma, come si è detto, lo stesso genere Geum è tutt'altro che compatto, e non sappiamo quale svolta terminologica ci riserverà il futuro. Non affrontò viaggi avventurosi; non gli si devono ricerche originali e innovative. Al bavarese Andreas Ernst Etlinger è bastata una tesi di laurea per entrare negli annali della botanica e assicurarsi un genere celebrativo. Ma ha dovuto pazientare duecento anni perché quel tributo fosse riconosciuto. Oggi si fregiano del nome Etlingera piante con magnifiche infiorescenze, tra le più belle del regno di Flora. Laurearsi con una tesi sulla salvia Oggi le salvie sono di moda; ci sono vivai specializzati nella loro coltivazione, giardini-collezione in cui la fanno da protagoniste, gruppi di discussione in rete. Del resto, il genere Salvia è un piccolo mondo: il più vasto della sua famiglia, conta tra le 700 e le 1000 specie. Fa quasi tenerezza pensare che 240 anni fa, quando gli venne dedicata la prima monografia, se ne conoscessero meno di cinquanta. A scriverla fu Andreas Ernst Eltinger, giovanissimo dottorando tedesco, che nell'estate del 1777 discusse presso l'Università Friedrich-Alexander di Erlangen una tesi di medicina dal titolo De Salvia dissertatio inauguralis. L'operina - conta in tutto 68 pagine - venne stampata e dovette riscuotere un certo successo. Oltre che come curiosità pionieristica, il De Salvia di Etlinger vale come testimonianza di quello che doveva essere il livello medio degli studi botanici nell'ultimo quarto del Settecento in area tedesca: l'ottimo Etlinger, da bravo studente che vuole fare bella figura con il relatore, ha letto diligentemente tutte le pubblicazioni disponibili, è aggiornato (conosce a menadito Linneo e non ignora le più recenti ricerche chimiche), ma allo stesso tempo sfoggia le sue conoscenze classiche e erudite con un'attenta disamina di Teofrasto, Plinio e Dioscoride, inserisce ricette erboristiche e sfata vecchie leggende (come quella che la salvia diventi velenosa se contaminata dai rospi). Oggi la definiremmo una buona tesi compilativa, non basata su ricerche originali ma su una rassegna puntigliosa della letteratura precedente. Del resto, l'autore aveva poco più di vent'anni. Dopo una pomposa introduzione, un inno al rigoglio del mondo vegetale, e alla sua ancella, la piacevolissima scienza della botanica, il libro esordisce con una breve rassegna storica degli studi precedenti sulla salvia: cinque pagine dedicate agli antichi, di cui si discutono (proprio come si faceva nei testi del Cinquecento) denominazioni e attribuzioni, seguite da tre pagine per gli autori di Cinquecento e Seicento, con particolare attenzione a Tournefort, che divise le specie tra tre generi: Salvia, Horminum e Sclarea. Poi, dice Etlinger, "sorse la gloria della Svezia, il cavaliere von Linné, che contrasse in uno solo tutti i generi proposti dai botanici precedenti". Infatti Linneo, e in particolare il suo Species plantarum, sono la fonte principale della parte centrale dell'opera, che contiene, dopo la descrizione dei caratteri generali del genere, la trattazione di 49 specie, raggruppate nei tre gruppi definiti da Tournefort. Per ciascuna specie è fornita la denominazione, gli eventuali sinonimi con i riferimenti bibliografici, l'habitat, la descrizione, le eventuali varietà. La terza e ultima parte è quella propriamente medica, con una discussione delle proprietà farmaceutiche essenzialmente di Salvia officinalis, incluse le ricette di vari preparati. Ma torniamo alla sezione centrale, quella più interessante per noi. La grande maggioranza delle specie è ripresa da Linneo; fanno eccezione tre specie (tuttora valide) pubblicate da Nikolaus Joseph von Jacquin nell'allora recentissimo Hortus Botanicus Vindebonensis, a confermare il buon livello di aggiornamento del nostro dottorando. Il quale, in dieci casi, osa proporre denominazioni proprie; quasi sempre esagerando (sette su dieci sono oggi considerate sinonimi di specie linneane; un peccato veniale, visto che anche ai nostri giorni la grande variabilità di molte specie di salvia mette in imbarazzo i tassonomisti), ma in tre casi vedendoci giusto. De Salvia è così l'atto di battesimo ufficiale di S. barrelieri, S. coccinea, S. tingitana. Due erano già state descritte da autori prelinneani, ma non erano state prese in considerazione dallo svedese. S. barrelieri è una specie della penisola iberica descritta nel Seicento dal domenicano padre Barrelier con il nome di Horminum silvestre maius, cui la denominazione di Etlinger rende giusto omaggio. S. coccinea (oggi una star delle bordure estive) è attribuita a un botanico francese contemporaneo, Pierre-Joseph Buc'hoz, ma non compare in nessuna delle opere a stampa di quest'ultimo; inoltre, anche se si tratta di una specie americana, curiosamente viene indicato come habitat l'Etiopia, da cui - si aggiunge - i semi sarebbero stati portati dal cavaliere scozzese Bruce. Quest'ultimo andrà identificato in James Bruce, che negli anni 1768-1773 esplorò Etiopia e Abissina alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Insomma, qualcuno (Etlinger o Buc'hoz) ha fatto un po' di confusione sulla provenienza di una specie conosciuta presumibilmente attraverso il Jardin des plantes di Parigi, dove S. coccinea, a quanto sembra, fu coltivata per la prima volta in Europa. S. tingitana risale invece a Tournefort, che l'aveva descritta come Sclarea tingitana; il nome specifico dovrebbe richiamare un'origine nordafricana (significa "di Tangeri"), ma in effetti non è presente in natura in quell'area. Probabilmente da identificare con una specie coltivata all'Orto botanico di Padova all'inizio del Seicento e segnalata nei secoli successivi in altri giardini botanici, a lungo si è pensato non esistesse più in natura. Soltanto nel 1989 ne è stata scoperta una popolazione allo stato selvatico in Arabia Saudita. Rimane un mistero come e dove l'avesse conosciuta Tournefort. Per concludere, il dottorando Etlinger nell'agosto 1777 presentò e discusse la sua tesi e divenne dottore. Con orgoglio si affrettò a ristampare il libricino, identico, ma con un altro titolo, Commentatio botanico-medica de salvia, e un nuovo frontespizio con il sospirato doc. med., "dottore in medicina". Dopo di che uscì dagli annali della botanica, per dedicarsi alla carriera medica, fino a diventare medico cittadino della città natale, Kulmbach, in Baviera, dove morì in giovane età di una malattia polmonare. Cenni sulla sua breve vita nella sezione biografie. Etlingera, un nome ripescato Fu forse proprio la sua morte precoce a spingere un altro botanico tedesco, Paul Dietrich Giseke, a dedicargli un genere di nuova scoperta. Entrambi probabilmente facevano parte dell'ambiente dei linneani tedeschi: come abbiamo visto, Etlinger, pur non risultando contatti diretti con Linneo, ne conosceva bene e ammirava l'opera; Giseke invece fu allievo dello svedese, e corrispondente suo e del figlio Carl jr. Inoltre l'Università di Erlangen, di fondazione recente, era uno dei centri di diffusione del metodo linneano: tra i maestri di Etlinger, il più noto è J.C. D. von Schreber, autore di un importantissima opera sui mammiferi in cui si avvalse del sistema dello svedese. Nel 1779, un altro allievo di Linneo, Johann Gerhard König, un botanico baltico di lingua tedesca al servizio della Danimarca, raccolse in Tailandia una specie sconosciuta. Nel 1792, in Icones plantarum (un'opera di stretta osservanza linneana, che si presenta come un'appendice di Species plantarum) Giseke la denominò Etlingera littoralis. Curiosamente per quasi due secoli la denominazione passò inosservata e la specie (e le sue consorelle scoperte nel frattempo) venne attribuita a molti generi creati successivamente: Geanthus, Diracodes, Achasma, Nicolaia, Phaeomeria. Soltanto nel 1986 fu scoperto che Etlingera era il nome legittimo perché precedeva cronologicamente tutti gli altri. In epoca ancora più recente, nel 2004, uno studio basato su dati molecolari ne ha definito con maggiore precisione i confini, attribuendogli alcune specie prima assegnati ad altri generi. Oggi Etlingera è uno dei più vasti della famiglia Zingiberacae, con 100-150 specie, distribuite tra l'India, l'Indocina, l'Indonesia e le isole del Pacifico, dove cresce nel sottobosco della foresta pluviale tropicale e equatoriale. Si tratta di aree molto ricche di biodiversità, ancora poco esplorate e conosciute; perciò il numero di specie potrebbe essere molto maggiore. Lo farebbero pensare i risultati di una campagna di ricerca internazionale condotta nell'isola di Sulawesi, nell'arcipelago indonesiano: nel 2008 le specie note di Etlingera nel suo territorio erano 4, oggi sono 40! E' un genere notevole per la bellezza davvero esotica delle infiorescenze, che talvolta crescono rasoterra, talvolta sulla cima di lunghi steli rigidi, cui si deve il nome inglese torch ginger, "zenzero torcia"; si tratta di grandi o grandissime erbacee rizomatose (che possono raggiungere anche i 10 metri) con alti steli simili a canne e attraenti infiorescenze dalle forme molto variabili (a coppa, a cono, a stella), caratterizzati da più o meno numerosi giri di brattee concentriche molto colorate e vistose. La specie più nota è la spettacolare E. elatior, con enormi infiorescenze rosa carico o rosse, originaria della Malaysia e dell'Indonesia, ma naturalizzata in diversi paesi tropicali, dove è stata introdotta come ornamentale. I suoi boccioli sono anche ricercati dai buongustai, come prelibato ingrediente di piatti esotici. Di altre specie si consumano invece i frutti o i turioni; molte hanno proprietà medicinali; altre sono note come spezie; altre ancora sono utilizzate nella cosmesi, e persino nella fabbricazione di tappeti e cesti. Poco conosciute da noi, queste splendide e utili tropicali meritano dunque di essere conosciute più di vicino; qualche informazione in più nella scheda. Perché un botanico olandese ha dedicato una specie sudafricana a un botanico tedesco che lavorava in Russia? Un mistero mai risolto; ma la storia di Traugott Gerber, attivo e sfortunato pioniere delle ricerche botaniche in Russia, vale la pena di essere raccontata. E con i suoi fiori solari, la Gerbera, regina dei fiori recisi, continua a perpetuarne il nome, tanto che un grande coltivatore e collezionista di gerbere ha voluto dedicargli un piccolo museo. Un giardino dei semplici e tre spedizioni botaniche Il più antico orto botanico russo nacque nel 1706 per volontà dello zar Pietro il grande che, secondo la tradizione, sarebbe stato coinvolto di persona nell'impianto, mettendo a dimora tre alberi tra cui un Larix sibirica che ancora sopravvive. Sorgeva alla periferia settentrionale della città, presso la torre Suchareva, e fortunatamente, sebbene profondamente alterato, si è conservato fino ad oggi, come parte dell'Orto botanico dell'Università di Mosca. Come dice chiaramente il nome Moskovskij apotekarskij ogorod, "Orto moscovita dei farmacisti" , inizialmente apparteneva all'ordine dei farmacisti ed era destinato alla coltivazione dei semplici da utilizzare per la preparazione dei medicinali. Per alcuni anni, il giardino non ebbe una direzione scientifica, finché nel 1735, sotto la zarina Anna Ivanovna, venne assunto un giovane medico e botanico tedesco, Traugott Gerber, con l'incarico di dirigere e ampliare il giardino, trasformandolo in un'istituzione educativa. In quanto dimostratore dell'orto, Gerber doveva infatti illustrare le piante e le loro proprietà medicinali ai futuri medici e farmacisti. Egli ampliò notevolmente le collezioni, aggiungendo alla coltivazione dei semplici quella di piante locali e esotiche, sia nelle parcelle esterne sia nelle serre. Molti semi e piante gli giunsero attraverso contatti e scambi con botanici francesi, tedeschi e olandesi. Altre specie furono raccolte nelle spedizioni botaniche capeggiate dalle stesso Gerber, finalizzate alla ricerca di piante utili e medicinali. Il lavoro sul campo iniziò con l'esplorazione dei dintorni di Mosca; il frutto fu Flora Mosquensis, un manoscritto che descrive circa 200 piante. Nel 1739 guidò una spedizione lungo il bacino del Volga, seguendo l'itinerario Mosca–Murom–Nizny Novgorod– Kazan’–Samara– Saratov–Tsaritsyn (oggi Volgograd)– Voronez–Tambov–Ryazan’– Mosca; ne diede conto in Flora Wogensis, che include 225 specie. Infine nel 1741 organizzò una spedizione nel bacino del Don e in Ucraina, che fruttò 280 specie, descritte in Flora Tanaicensis (tutte queste opere non furono mai pubblicate e rimasero allo stadio di manoscritto). L'anno successivo, in seguito alla morte della zarina e alle complicate vicende della sua successione, il posto di curatore del giardino dei farmacisti fu soppresso (sarà ripristinato solo nel 1786). Gerber divenne medico militare e si trasferì a Vyborg nella Carelia russa, a nord di Pietroburgo, dove morì l'anno successivo all'età di soli 33 anni. Dopo la sua morte, il suo grande erbario (circa 2400 taxa) andò disperso. Una sintesi della sua vita breve ma intensa nella sezione biografie. Per iniziativa del vivaista, ibridatore e ricercatore tedesco Peter Ambrosius (che ha probabilmente creato la più vasta collezione di Gerberae del mondo), a Zodel, il villaggio della Slesia tedesca al confine con la Polonia dove Gerber nacque nel 1710, nel 2002 è stato fondato il Trautgott Gerber Museum, che raccoglie testimonianze sulla sua vita e sul suo tempo e comprende anche un piccolo giardino di erbe. Perché la Gerbera? Per un curioso scherzo del destino, il nome di questo botanico nato in Slesia, vissuto nella fredda Russia e morto nella glaciale Carelia, è oggi legato a un fiore che arrivò in Europa dal Sud Africa, la solare Gerbera. A dedicargliela fu, nel 1737, il botanico olandese J.F. Gronovius; il perché è un rebus per gli studiosi. E' assai probabile che i due si scambiassero piante (dall'Olanda arrivarono a Gerber piante per l'orto moscovita, e Gronovius era un accanito collezionista con una enorme rete di corrispondenti); secondo il sito ZAfrica, la dedica avrebbe coinvolto anche un fratello di Gerber (di cui si conoscono solo le iniziali, Fr.), a sua volta raccoglitore di piante nelle Antille; anche questa notizia è plausibile: Gronovius aveva molti corrispondenti che operavano in centro e nord America; ma non ne ho trovato conferma in altre fonti. Le prime ad essere descritte (non da Gronovius, ma dal suo amico Burman, in Rariorum africanarum plantarum decades) furono due specie sudafricane (oggi note come Gerbera linnaei e G. crocea). Linneo riprese e validò il genere nel 1758, ma più tardi cambiò idea e lo unì al panboreale Arnica. Il genere Gerbera fu ripristinato soltanto nel 1817 da H. Cassini, in uno dei primi studi complessivi sulla famiglia Asteraceae. Benché le specie più note (e quelle da cui sono nati gli ibridi oggi in commercio) siano sudafricane, il genere Gerbera, che comprende una trentina di specie, è presente anche in altre aree: l'Africa subsahariana tropicale, il Madagascar, la regione sino-hymalaiana, mentre l'attribuzione dell'unica specie sudamericana è discussa. L'area sudafricana è tuttavia quella di maggiore biodiversità, con 14 specie. Quelle che troviamo dai fiorai e che alimentano il mercato dei fiori recisi (è la quinta specie più venduta) sono per lo più gerbere ibride; la prima fu ottenuta nel 1890 da R. I. Lynch del Giardino botanico di Cambridge incrociando G. jamesonii con G. viridifolia. Da allora sono state prodotte e selezionate centinaia e centinaia di cultivar, variabili per dimensioni, forma (singole, semidoppie, doppie), colore del disco centrale e dei "petali" radiali (in realtà, come nelle altre Asteraceae, entrambi sono flosculi) in infinite sfumature di bianco, crema, giallo, rosa, violetto, rosso, arancio. Praticamente l'intero arcobaleno, eccetto il blu. Approfondimenti sulle altre specie e sulla storia degli ibridi nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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