Svoltasi tra il 1803 e il 1806, la prima circumnavigazione russa mancò totalmente i troppo ambiziosi obiettivi politici e raggiunse solo parzialmente quelli economici, ma segnò una pietra miliare nella conoscenza del Pacifico settentrionale. Fu una scuola di navigazione alla quale si formò un'intera generazione di navigatori russi, tra i quali Otto von Kotzebue, a sua volta protagonista di due giri del mondo, e Fabian von Bellingshausen, lo scopritore del continente antartico. Oltre ai progressi nell'idrografia e nella cartografia, notevoli furono gli apporti della sua équipe scientifica a campi che vanno dall'astronomia, all'etnografia, alla biologia marina. Mentre l'astronomo e geografo svizzero Johann Kaspar Horner collaborava con gli ufficiali in rilevazioni e misurazioni, i medici e naturalisti tedeschi Wilhelm Gottilieb Tilesius e Georg Heinrich Langsdorff approfittarono di ogni occasione per raccogliere e studiare gli animali e le piante marine, e più limitatamente, terrestri. A Tilesius, che per una serie di circostanze divenne anche l'illustratore ufficiale della spedizione, questa avventura guadagnò un titolo nobiliare e l'ingresso nella nomenclatura botanica, con la dedica del genere Tilesia. Nei mari del Sud: 1803-1804 La prima circumnavigazione russa coinvolse due navi, Nadežda e Neva, 129 persone tra ufficiali, marinai, diplomatici, agenti della Compagnia russo-americana e scienziati, e durò quasi esattamente 3 anni (agosto 1803 - agosto/settembre 1806). Per gli standard dell’epoca, fu caratterizzata da una navigazione senza troppi intoppi, nonostante qualche incidente (incluso un incagliamento nella barriera corallina). Al di là del valore simbolico (per la prima volta navi russe si spingevano nell’Oceano aperto, superavano la linea dell’equatore e tornavano a casa dopo aver fatto il giro del mondo) portò a una migliore conoscenza delle Marchesi e delle Hawaii e alla mappatura di diversi settori del Pacifico settentrionale; fu un’esperienza straordinaria per gli ufficiali che vi presero parte, alcuni dei quali sarebbero stati protagonisti di altre spedizioni, come Otto von Kotzebue (che comandò due circumnavigazioni tra il 1823 e il 1826) e Fabian von Bellingshausen, lo scopritore dell’Antartide. A condizionare negativamente la spedizione fu piuttosto il sovrapporsi di obiettivi scientifici, economici e politici e soprattutto la decisione di inviare in Giappone una missione diplomatica, capeggiata in veste di ambasciatore dal conte Rezanov, che era anche uno dei dirigenti della Compagnia russo-americana. Ne risultarono conflitti continui tra Adam von Krusenstern, il comandante della spedizione, e lo stesso Rezanov, che sulla base di istruzioni ambigue credette di aver autorità non solo sul corpo diplomatico, ma sull’intera spedizione. Nella rivalità tra i due uomini si riflettevano intenti e personalità opposte: Krusenstern era un tedesco del Baltico, un luterano con un forte senso del dovere, un ufficiale educato nella Royal Navy, ammiratore di Cook, per il quale prima di tutto venivano i suoi uomini e il successo della missione di esplorazione; Rezanov era un nobile russo, un cortigiano e un imprenditore dalla morale elastica, per il quale contavano soprattutto il potere e la ricchezza. La Nadežda e la Neva, comandate rispettivamente da Krusenstern e dal suo secondo Lisjanskij, salparono da Kronstadt il 7 agosto 1803, facendo rotta per Copenhagen dove si imbarcò la piccola équipe scientifica, formata dall'astronomo e geografo svizzero Johann Kaspar Horner e dai medici e naturalisti tedeschi Wilhelm Gottilieb Tilesius e Georg Heinrich Langsdorff. A bordo c’erano anche un botanico russo, Brinkin o Brinken, che però fu emarginato dagli studiosi teutonici, e il disegnatore Stepan Kurljancev. Dopo una seconda sosta a Falmouth e un breve scalo a Tenerife, le due navi si diressero alla volta del Brasile; il 26 novembre venne superata la linea dell'equatore, la prima volta nella storia della marina russa. Si festeggiò con salve di cannone, fuochi d'artificio e bevute di vodka, offerta dal quartiermastro nei panni di Nettuno. Il 21 dicembre le navi ancorarono di fronte all'isola di Santa Catarina in Brasile, dove si trattennero circa un mese e mezzo, per sostituire alcuni alberi e carenare la Neva. Horner fin dal giorno del suo arrivo si trasferì nell'isolotto di Atomiris per allestire un osservatorio portatile. Langsdorff, che ancora non sapeva di aver incontrato il suo destino (come scopriremo in un prossimo post, sarà un grande esploratore della natura brasiliana), osservò: "la ricchezza e la varietà di animali e piante potrebbe tenere occupati centinaia di naturalisti per anni". Scoppiò anche il primo grave conflitto di autorità tra Krusenstern e Rezanov, provocato da un curioso personaggio, il conte Fedor Tolstoj, che passava il tempo a giocare d’azzardo, fare scherzi di dubbio gusto e seminare zizzania. Ebbe anche un diverbio con l’artista Kurljancev, che insultò il comandante e di conseguenza fu escluso dalla mensa degli ufficiali e degli scienziati. Le navi russe lasciarono Santa Catarina il 2 febbraio 1804. Le attendeva il difficile passaggio di Capo Horn, che venne doppiato il 21 marzo. Poco dopo, a causa della forte nebbia, i due vascelli persero il contatto visivo. La Neva fece rotta per l'Isola di Pasqua, raggiunta il 16 aprile, mentre Krusenstern preferì puntare direttamente sull'isola di Nuku Hiva nell’arcipelago delle Marchesi; vi approdò il 10 maggio e il giorno successivo fu raggiunto da Lisjanskij. Gli indigeni avevano fama di cannibali, e ai naturalisti fu concesso di lasciare le navi solo sotto scorta; poterono però studiarne i costumi, rimanendo particolarmente affascinati dall’arte dei tatuaggi. Lo stesso capitano si fece tatuare su un braccio il nome dell’adorata moglie. Ma la sosta nell’isola fu tutt’altro che una vacanza tropicale; il suo scopo era rinnovare le scorte, procurandosi tra l’altro un certo numero di maiali. Sapendo che l’unico bene che interessava agli indigeni erano gli oggetti di ferro, Krusenstern proibì di scambiarli con ogni altra cosa; Rezanov disobbedì e, facendo incetta di oggetti etnografici per la Kunstkammer imperiale, provocò il crollo del valore degli oggetti di ferro, rendendo impossibili gli approvvigionamenti. Nel chiarimento pubblico che seguì, non solo Rezanov contestò l’autorità del comandante, ma cercò di scavalcarlo, provocando un ammutinamento. Nessuno degli ufficiali lo seguì. Intanto Tilesius, ingaggiato come medico e naturalista esperto di biologia marina, cambiava mestiere. Il pittore Kurljancev infatti diede di matto e distrusse a colpi d’ascia la sua cabina, non risparmiando neppure le icone. Fu così che il medico tedesco, che era anche un eccellente disegnatore, divenne l’illustratore ufficiale della spedizione. Per completare le scorte le due navi si diressero quindi alla maggiore delle isole Hawaii. Qui si separarono, dandosi appuntamento l’autunno dell’anno successivo a Macao: il 10 giugno la Nadežda salpava alla volta della Kamčatka, mentre qualche giornp dopo la Neva partiva per l’Alaska. La Nadežda in Kamčakta e Giappone: 1804-1805 Dopo un viaggio senza incidenti di 35 giorni, il 15 luglio la Nadežda attraccò a Peterpavlovsk; immediatamente Rezanov fece appello al governatore Košelev perché mettesse sotto accusa Krusenstern e i suoi ufficiali per insubordinazione. Dopo aver sentito entrambe le campane, il generale capì perfettamente di trovarsi in un ginepraio e rifiutò di pronunciarsi, dichiarando che in quella faccenda era testimone e non giudice. Alla fine si giunse a una riconciliazione e il 6 settembre la Nadežda ripartiva alla volta di Nagasaki. Rimanevano a terra lo scapestrato Tolstoj e i due paria di bordo, il pittore Kurljancev e il botanico Brinkin. La missione giapponese fu un totale fallimento; le trattative si trascinarono per sei mesi, mentre la Nadežda era posta in disarmo, i cannoni e la polvere da sparo sequestrati, gli uomini confinati in un piccolissimo spazio. Gli unici a trarne profitto furono Tilesius e Langendorff che riuscirono a convincere i pescatori che rifornivano la squadra di pesce a procurare specie sempre nuove; fu così che poterono studiare 400 specie di pesci di 180 generi diversi. Insieme a Horner, allestirono anche un piccolo spettacolo per i loro ospiti nipponici, costruendo e facendo volare una mongolfiera in seta e carta di riso. La risposta ufficiale giunse il 7 aprile 1805: il governo giapponese respingeva i doni, rifiutava ogni rapporto diplomatico o anche solo commerciale con i russi, cui era ingiunto di lasciare il paese al più presto. Lasciata Nagasaki il 18 aprile, Krusenstern, nonostante la contrarietà delle autorità giapponesi, anziché seguire la rotta diretta, costeggiò Honshu e Hokkaido, fino a raggiungere lo stretto che separa quest'ultima da Sakhalin, di cui vennero mappate le coste. Dopo aver scoperto alcune isole del gruppo delle Curili, rientrò infine a Petropavlovsk il 5 giugno. Ad attenderlo trovarò un rescritto dello zar che gli conferiva la croce dell'ordine di Sant'Anna di Prima Classe; per Rezanov c'erano una tabacchiera e l'ordine di andare a ispezionare l'Alaska russa. Langsdorff decise di approfittare dell'occasione per visitare anche quelle contrade. Krusenstern dedicò il resto dell'estate a esplorare le coste di Sakhalin e le Curili, ma dovette rinunciare a cercare la foce dell'Amur per non mancare l'appuntamento con Lisjanskij a Macao. Partita da Peterpavlovsk il 5 ottobre, la Nadežda rischiò subito di arenarsi, quindi affrontò una navigazione molto difficile per le temperature rigide e le continue tempeste, raggiungendo infine Macao il 20 novembre. La Neva non c'era ancora. La Neva in Alaska e il viaggio di ritorno Scopriamo insieme perché. Il 10 luglio 1804 la Neva giunse nell'isola di Kodiak, in Alaska. Poco dopo, il governatore della colonia Baranov chiese a Lisjanskij di aiutarlo a liberare Sitka dai Tlingit, che, dopo aver cacciato i russi, vi avevano costruito un fortino. L'intervento della Neva, con i suoi 14 cannoni, fu determinante per il successo russo nella cosiddetta "battaglia di Sitka" (1-4 ottobre 1804). Lo scontro fu comunque molto duro, tra i marinai ci furono tre morti e diversi feriti. L'inverno era ormai alle porte e la Neva lo trascorse a Kodiak. Soltanto ad aprile il disgelo rese possibile mappare il golfo di Chiuniat e l'arcipelago Kodiak. Intanto le stive della nave si riempivano delle provviste per il viaggio e di 440.000 tra pellicce e pelli di tricheco da rivendere in Cina. Lasciato il porto di Pavlovsk sull'isola Kodiak il 13 giugno, arrivarono il 22 a Novo-Arckangelsk, come i russi avevano ribattezzato Sitka, dove nel frattempo il governatore Baranov aveva fatto costruire otto grandi edifici in legno che a Lisjanski apparvero "abbastanza decenti anche per l'Europa". Prima di lasciare l'Alaska, insieme a un compagno, egli volle scalare e esplorare il Monte Edgecumbe, il magnifico vulcano che domina Sitka. Il 1 settembre la Neva lasciò l'Alaska. Lungo la rotta per la Cina, secondo le istruzioni, avrebbero anche dovuto cercare terre sconosciute a est del Giappone; non ne incontrarono nessuna fino al 15 ottobre quando, proseguendo verso sudovest, si arenarono sulla barriera corallina. Gettando fuori bordo tutto il possibile, riuscirono a liberare la nave, che però rimase fortemente danneggiata. Fu così scoperta l'isola Lisianski (una scoperta di cui il dedicatario avrebbe fatto volentieri a meno). Mentre le provviste cominciavano a scarseggiare, la navigazione proseguì in condizioni difficili, peggiorate il 22 novembre da una tempesta al largo delle Marianne che mise in forse la sopravvivenza della nave. L'acqua penetrata nella stiva causò il deterioramento di molte pellicce, che dovettero essere gettate fuori bordo. Ecco i motivi del ritardo della Neva. Ricongiunte, la Nadežda e la Neva si trasferirono sull'isola di Wampoa, dove attraccavano le navi europee autorizzate a commerciare negli empori di Canton. I russi non erano tra questi (tanto che, dopo la loro partenza, i funzionari che avevano autorizzato le transazioni furono severamente puniti); inoltre stava per iniziare la stagione dei tifoni e, per non rischiare di rimanere bloccati per un altro anno, i funzionari della Compagnia accettarono la mediazione di una ditta inglese, cui dovettero versare una generosa commissione, vendendo infine le pellicce a un prezzo assai inferiore al previsto. Mentre le laboriose trattative commerciali proseguivano, la Neva venne riparata e messa in condizione di riprendere il viaggio. Il 31 gennaio 1806 le due navi lasciarono la Cina, fissando come eventuale punto d'incontro l'isola di Sant'Elena; viaggiarono insieme fino al 15 aprile, quando furono separate dalla nebbia e dall'oscurità. In una tacita gara con l'amico-rivale Krusenstern, Lisjanski decise di fare tutto il possibile per arrivare per primo. Procedendo a vele spiegate, doppiò il Capo di Buona Speranza il 20 aprile e, valutando di avere provviste sufficienti, proseguì direttamente per l'Inghilterra. Con una velocità senza riscontri per l'epoca, in soli 180 giorni raggiunse il porto di Portsmouth (28 giugno), da dove, dopo una sosta di due settimane, fece vela per Kronstadt, dove attraccò la mattina del 6 agosto, a tre anni esatti dalla partenza. Al contrario del suo secondo, Kruzenstern tenne fede ai patti. Doppiato il Capo di Buona Speranza, si diresse a Sant'Elena, dove giunse il 3 maggio. Quindi, facendo rotta verso l'Europa, toccò alcune isole scozzesi e Copenhagen, rientrando a Kronstadt il 19 agosto. Un versatile zoologo si trasforma in illustratore Sul piano scientifico la spedizione fu un indubbio successo. Le rilevazioni delle squadre della Nadežda e della Neva permisero di correggere le carte di Cook e La Pérouse, mappando varie aree del Pacifico settentrionale; vennero scoperte alcune isole, in Alaska, nelle Curili e nell'arcipelago hawaiiano. Inoltre Krusenstern fu il primo a dimostrare che Sakhalin non è collegata alla terra ferma. Con il rilevante contributo dell'astronomo Horner (1774-1833), vennero effettuate osservazioni e misurazioni oceanografiche, tra cui l'analisi della correlazione tra profondità, temperatura e peso specifico dell'acqua. Le soste sempre troppo brevi e la difficoltà di procurarsi e conservare gli esemplari senza alcun aiuto furono sicuramente una fonte di frustrazione per Tilesius e Langsdorff; forzatamente, i loro studi dovettero concentrarsi sulla biologia marina, che, per altro, era anche il settore di specializzazione di Tilesius. Mentre la Nadežda attraversava l'Atlantico in direzione del Brasile, studiarono e scoprirono la causa della luminescenza marina; in Giappone, come abbiamo già visto, scoprirono numerose specie di pesci. Come ho già anticipato, tornerò su Langsdorff in un prossimo post. Per concludere, quindi, qualche parola su Wilhelm Gottlieb Tilesius (1769-1857). Studente di medicina a Lipsia, seguì anche i corsi del pittore e scultore Adam Frederick Oeser, divenendo un eccellente disegnatore e incisore. Nel 1795-96, ancora studente, accompagnò Hoffmannsegg in Portogallo, dove si occupò soprattutto di animali marini. L'eccellente lavoro che ne ricavò, accompagnato da ottime illustrazioni di sua mano, attirò l'attenzione dell'Accademia delle Scienze russe, che lo propose come medico di bordo e naturalista della spedizione Krusentern. Il più vecchio e il più autorevole dei tre naturalisti, tendeva a comportarsi come il capo dell'équipe scientifica (creando una certa tensione con Langsdorff). Era soprattutto uno zoologo; tra le sue scoperte più rilevanti il granchio reale, Paralithodes camtschaticus. Soprattutto durante l'esplorazione di Sakhalin ebbe però occasione anche di studiarne la flora; tra le sue scoperte Artemisia sachaliensis, Artemisia tilesii e Serratula tilesii. Come abbiamo già visto, a partire dalla sosta nelle Marianne, divenne anche l'illustratore ufficiale della Nadežda . L'Atlante della Circumnavigazione pubblicato da Krusenstern nel 1813 è illustrato da 109 sue tavole, precise nei tratti ma non prive di efficacia evocativa. Le più celebri sono senza dubbio quelle dedicati ai guerrieri tatuati di Nuku Hiva. Dopo il rientro in Russia, fu nobilitato dallo zar (divenne così Tilesius von Tilenau) e ammesso all'Accademia delle scienze, che lo incaricò di ricostruire lo scheletro del mammut riportato dalla Siberia da Adams, il più completo conosciuto all'epoca. Tuttavia la sua carriera accademica non decollò e nel 1814 decise di tornare in Germania, dove, benché fosse membro di moltissime società scientifiche e continuasse a pubblicare molti articoli, soprattutto sugli animali marini, non riuscì mai ad ottenere una cattedra universitaria. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Gli strani frutti di Tilesia Il suo nome tuttavia era abbastanza noto. Nel 1818 G.F.W. Meyer gli dedicò il genere Tilesia, appartenente alla famiglia Asteraceae. Solo a inizio '900 il suo rilevante contributo allo studio degli animali marini fu premiato con la dedica di un genere di pesci, Tilesina. Tilesia Mey. comprende tre specie di erbacee o arbusti rampicanti diffusi nelle Antille, in Centro America e nel Sud America tropicale, caratterizzati da frutti carnosi simili a drupe, una particolarità quasi unica in questa famiglia. Infatti, a differenza delle altre Asteraceae sudamericane, che vivono in habitat aperti e hanno frutti secchi dispersi dal vento, le Tilesiae sono piante delle foreste semidecidue i cui semi sono dispersi da vari uccelli che si cibano delle bacche. La specie più nota, T. baccata, è una liana che vive lungo i corsi d'acqua o al margine delle foreste, con capolini terminali all'ascella delle fronde superiori, con flosculi del disco bisessuali arancioni e flosculi ligulati sterili, giallo vivo, spesso con apice trilobato. E' l'unica specie a fiori gialli, mentre le altre due (diffuse in aree ristrette) li hanno rossi. Qualche approfondimento nella scheda.
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Linneo trascorse l'estate del 1736 in Inghilterra. Lo scopo ufficiale del viaggio, finanziato dal suo datore di lavoro George Clifford, era procurarsi piante rare per arricchire le collezioni del suo mecenate; ma per il giovane studioso svedese era soprattutto l'occasione per conoscere i "colleghi" britannici e propagandare il suo nuovo sistema. Contrariamente alle aspettative, fu tutt'altro che una tournée trionfale. A Londra, i big della botanica inglese, da Sloane a Miller, lo accolsero con freddezza; né meglio andò ad Oxford, dove Dillenius, il primo titolare della cattedra di botanica sherardiana, lo apostrofò come "l'uomo che ha messo l'intera botanica in confusione". A sentire Linneo e i suoi biografi, quello che era iniziato come un increscioso incidente diplomatico si risolse tuttavia in una vittoria dello svedese e in una dimostrazione luminosa dell'efficacia del suo metodo, tanto che alla fine l'arcigno tedesco l'avrebbe pregato in lacrime di diventare il suo assistente. Probabilmente non andò davvero così, ma è certo che da quel momento tra i due ci fu reciproca stima; l'anno successo, Linneo dedicò a Dillenius la sua Critica botanica e creò in suo onore il genere Dillenia. Del resto, il botanico tedesco era uno studioso di grande valore, la cui Historia muscorum segnò una tappa decisiva nello studio delle cosiddette "piante inferiori". Linneo a Londra: una fredda accoglienza Come ho raccontato in questo post (a proposito, era il centesimo e questo è il numero duecento!), tra il 1735 e il 1737 Linneo lavorò per il ricchissimo George Clifford, borgomastro di Amsterdam e direttore della Compagnia olandese delle Indie orientali, riorganizzando e catalogando il suo orto botanico privato di Hartekamp. Clifford desiderava ardentemente arricchire le sue collezioni con qualcuna delle rarità esotiche di provenienza americana coltivate nelle serre di Londra e Oxford; per questo accettò di privarsi per qualche settimana del "suo" botanico, inviandolo in Inghilterra a far incetta di piante. Per Linneo, che nel 1735 aveva pubblicato proprio in Olanda la prima edizione di Systema naturae, era l'occasione per conoscere di persona i big della botanica britannica, di cui sperava di ottenere il riconoscimento, proprio come aveva ottenuto quello di studiosi olandesi del calibro di Gronovius e Boerhaave. Gli esiti, tuttavia, furono molto lontani dalle speranze. Freddissima fu l'accoglienza di Hans Sloane, il presidente della Royal Society, cui Linneo si era presentato munito di una lettera proprio di Boerhaave, in cui quest'ultimo invitava l'illustre collezionista ad accogliere quel giovane degno di lui, aggiungendo che "chi vi vedesse insieme, vedrà una coppia di cui il mondo difficilmente potrà vedere l'uguale". Sloane, che aveva 77 anni ed era abituato ad essere universalmente riconosciuto e riverito, non gradì per nulla l'accostamento a quell'ignoto neolaureato svedese trentenne, e si degnò appena di mostrargli le sue collezioni e il suo erbario. Le cose non andarono meglio con Philip Miller, il capo giardiniere del Chelsea Physic Garden, da cui Linneo sperava di ottenere piante rare per il suo mecenate. Dopo la brutta esperienza con Sloane, egli, che aveva sentito dire che Miller era uno scozzese piuttosto scorbutico, pensò che fosse meglio comportarsi con prudenza. Quando quest'ultimo lo accompagnò a visitare il giardino e incominciò a illustrare le piante usando i prolissi nome-descrizione e le classificazioni di Ray e Tournefort, per non irritarlo rimase in silenzio. Il giorno dopo, venne a sapere che Miller si era fatto beffe di lui con i suoi amici dicendo che "quel botanico del borgomastro di piante non sa un'acca". Era troppo per Linneo che, quanto a brutto carattere, non era da meno di Miller. Alla sua seconda visita a Chelsea, quando il giardiniere gli mostrò l'erbario, contestò le sue denominazioni, sostenendo che "se ne possono usare di migliori e più sintetiche" e cercò in ogni modo di fare sfoggio delle sue competenze. Il risultato fu di far imbufalire Miller, che non amava essere contraddetto e giudicava Linneo un arrogante presuntuoso, il cui sistema non aveva nulla a che fare con la realtà delle piante, serviva solo a mettersi in mostra e non avrebbe avuto futuro; egli avrebbe cambiato idea solo molti anni dopo, nel 1768, quando nell'ottava edizione del suo Gardeners Dictionary si convinse finalmente ad adottare il sistema linneano. Gli errori di Linneo... e quelli di Dillenius Linneo non fu accolto a braccia aperte neppure ad Oxford, dove era andato appositamente per incontrare Johann Jacob Dillenius, lo scienziato di origine tedesca che da qualche anno era il titolare della prima cattedra di botanica presso quell'università, nonché curatore dell'orto botanico. Durante il primo incontro Linneo mantenne una condotta cortese e deferente. Esordì scusandosi di dover parlare in latino, visto che non conosceva l'inglese. Dillenius bruscamente si rivolse a un altro gentiluomo che assisteva al colloquio (secondo i biografi di Linneo, si tratterebbe di James Sherard) che gli aveva chiesto chi fosse quel giovanotto, dicendo: "E' l'uomo che ha messo l'intera botanica in confusione". Poiché aveva parlato in inglese, pensava che Linneo non avrebbe capito; lo svedese, invece, non solo capì che si parlava di lui, ma anche la sostanza delle parole di Dillenius (l'inglese confusion è simile al latino confusio), ma al momento decise di abbozzare. I tre quindi si spostarono in giardino; Linneo notò una pianta che non aveva mai visto: "Che pianta è?" "Dovreste dirlo voi a me!" "Certamente, se mi permettete di esaminare un fiore." "Avanti, lo faccia." Linneo eseguì e, contando gli stami e il pistillo, ne diede il nome corretto, ma non per questo Dillenius si sciolse. Linneo era ormai convinto che il suo viaggio fosse stato inutile e, visto che incominciavano anche a scarseggiare i soldi, il giorno dopo tornò da Dillenius per congedarsi. Questa volta il cattedratico era solo. Linneo lo pregò di inviare un servitore a fissare per lui la carrozza di posta che l'avrebbe riportato a Londra, quindi, con la massima cortesia di cui era capace, gli domandò: "Perché ieri avete detto all'uomo che era con voi che sono quello che porta confusione nell'intera botanica?" Dillenius, molto imbarazzato, cercò di cambiare argomento, ma Linneo insisteva. "Venite con me", disse allora il tedesco e lo portò nella sua biblioteca. Da uno scaffale estrasse una copia di Systema naturae che aveva ricevuto da Gronovius e mostrò quelle pagine costellate della sigla NB. "Che significa?" domandò Linneo. "Sono gli errori del vostro libro" "Non sono errori, ma se lo fossero, insegnatemi meglio. Riceverò con gratitudine le vostre correzioni". "Benissimo, proviamo. Ecco, ad esempio, il genere Blitum. Lei pretende che abbia un solo stame, ma ne ha tre". Linneo e Dillenius si spostarono in giardino, Linneo esaminò un fiore di Blitum e mostrò che lo stame era effettivamente uno. "Bah, è un esemplare anomalo". Li osservarono tutti e risultò che aveva ragione Linneo. L'esame continuò con altri generi, sempre dimostrando che le descrizioni di Linneo erano corrette. A questo punto, Dillenius cambiò totalmente atteggiamento, e, stando alla versione diffusa da Linneo, l'avrebbe addirittura supplicato in lacrime di non partire ma di fermarsi ad aiutarlo a classificare l'erbario di Sherard, in cambio di metà del suo salario. E' probabile che le cose non siano davvero andate così se poco dopo Dillenius scrisse a un collega "Linneo ha certamente una conoscenza approfondita della botanica, ma il suo metodo non funziona"; e qualche anno dopo avrebbe scritto allo stesso Linneo: "Non ha dubbi che voi stesso, un giorno, rigetterete il vostro sistema". In ogni caso tra i due si era stabilita una stima reciproca; iniziarono a scriversi e a scambiarsi esemplari e le rispettive pubblicazioni. Nel 1738 Linneo dedicò a Dillenius Critica botanica e tenne poi sempre in grande considerazione le opere del collega tedesco, da cui riprese diversi generi in Species plantarum. Un grande tassonomista e l'inizio dello studio scientifico delle crittogame Per quanto ritoccato da Linneo e dai suoi biografi, l'aneddoto assume quasi il valore di un metaforico passaggio di testimone tra la vecchia scuola tassonomica di Ray e Tournefort, di cui Dillenius fu un esponente di primo piano, e il nuovo sistema linneano. Del resto, tra i due protagonisti di questa storiella, curiosamente, c'è più di una affinità. Come Linneo si era trasferito in Olanda e aveva iniziato la sua carriera classificando le collezioni di un mecenate, lo stesso aveva fatto Dillenius, spostandosi dalla nativa Germania in Inghilterra al servizio del botanico e collezionista William Sherard. Nato nel 1684 a Darmstadt, si formò e insegnò medicina e botanica all'università di Giessen; nel 1719 pubblicò una flora dei dintorni di questa città, Catalogus plantarum sponte circa Gissam nascentium, che illustrò di propria mano, essendo anche un eccellente disegnatore e incisore. E' un'opera notevole perché, accanto alle fanerogame, tratta anche le crittogame e presenta uno dei primi tentativi di classificazione dei funghi; delle 160 specie di funghi descritte, 90 erano inedite; delle 200 specie di muschi, erano sconosciute ben 140. Questo lavoro diede fama europea a Dillenius e attrasse l'attenzione di William Sherard che nel 1721 lo invitò a trasferirsi in Inghilterra per aiutarlo a catalogare il suo immenso erbario e ad allestire il catalogo del giardino di Eltham nel Kent, dove suo fratello James (anche lui appassionato botanico) coltivava piante rare. Lavorando fianco a fianco con William Sherard, che aveva studiato a Parigi con Tournefort, Dillenius divenne uno dei migliori tassonomisti della sua generazione, con un'approfondita conoscenza anche del sistema di Ray, di cui nel 1724 curò la terza edizione di Synopsis Methodica Stirpium Britannicarum, incorporandovi tra l'altra l'opera sui muschi del reverendo Adam Buddle. Stabilitosi a Eltham, Dillenius divenne il curatore di quel magnifico orto botanico privato, di cui documentò le collezioni in Hortus elthamensis, uscito infine dopo una lunga rielaborazione nel 1732; in due spettacolari volumi in folio, con 324 tavole disegnate e incise dallo stesso Dillenius, è uno dei capolavori della botanica prelinneana, per la precisione delle descrizioni (la parte tassonomica è per lo più dovuta allo stesso Sherard) e la bellezza delle immagini, in cui vengono trattate e illustrate 417 piante rare e esotiche; di grande importanza storica la trattazione delle succulente sudafricane, che fu ampiamente riutilizzata da Linneo. Catalogare l'immenso erbario del maggiore dei fratelli Sherard richiedeva un impegno anche più gravoso: rendendosi conto che non gli restava molto da vivere, nel suo testamento William lasciò all'università di Oxford la sua biblioteca, il suo erbario e un lascito di 3000 sterline, a condizione che venisse istituita una cattedra di botanica da affidare al professor Dillenius, che avrebbe dovuto completarne lo studio e la catalogazione. Sherard morì nel 1728, ma Dillenius, ancora impegnato a Eltham, poté assumere il nuovo incarico solo nel 1734. Possiamo credere che non gli sarebbe davvero spiaciuto essere affiancato da Linneo, come lui aveva affiancato il vecchio Sherard; nelle sue lettere, spesso lamenta di aver perso tempo e denaro (sembra che i fratelli Sherard lo pagassero molto poco) in quel compito immane, di cui non venne mai a capo, anche perché, probabilmente, preferiva ricerche più originali, in particolare lo studio delle sue amate crittogame. Frutto di un lavoro ventennale, il suo capolavoro è infatti Historia muscorum (1741), in cui vengono trattati, oltre ai muschi, altri gruppi di "piante inferiori": funghi, alghe, licheni, epatiche, antocerote e licopodi, per un totale di 661 taxa. Anche in questo caso, le 85 tavole che illustrano il grosso volume di 576 pagine sono di sua mano. I funghi sono classificati sulla base delle caratteristiche del corpo fruttifero (criterio poi fatto proprio da Linneo) e vengono creati numerosi generi, che poi furono mantenuti dallo svedese. Ogni voce comprende una dettagliata descrizione, la lista dei sinonimi e l'indicazione degli eventuali usi. Era un'opera costosa, di cui furono stampate solo 250 copie, vendute al prezzo di una ghinea l'una, che si rivelò un insuccesso finanziario; per recuperare almeno in parte le spese, Dillenius ne preparò una versione abbreviata, priva di illustrazioni, che conteneva solo i nomi, l'habitat e una breve descrizione, rimasta però allo stadio di manoscritto. Per raccogliere il materiale necessario, nel 1726, egli aveva fatto una lunga escursione in Galles, ma soprattutto ricorse al contributo di numerosissimi corrispondenti in Inghilterra e all'estero. Morì nel 1747 in seguito a un colpo apoplettico. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Dillenia ovvero una chicca per elefanti Nel 1736 Clifford ottenne alcuni semi di una pianta indiana detta syalita; seminati a Hartekamp, germinarono, ma le pianticelle sopravvissero solo due settimane. Quanto bastava perché Linneo potesse includere anche questa specie nel catalogo del giardino, Hortus Cliffortianus (1737), traendo la descrizione da Hortus Malabaricus e da Herbarium Amboinense di Rumphius; stando a queste fonti, si trattava di un albero di notevole bellezza; Linneo ritenne capitasse proprio al momento giusto per ingraziarsi il bisbetico professore tedesco e la denominò Dillenia indica, con queste parole: "Ho nominato questo albero dai bellissimi fiori e dai frutti enormi in onore di Dillenius, dottore in medicina, botanico incomparabile dei tempi nostri, professore sherardiano a Oxford e membro dell'Accademia Leopoldina". Confermò poi il genere in Species Plantarum, 1753. Dillenia L, che dà il nome alla famiglia Dilleniaceae, comprende un centinaio di specie di alberi, arbusti e liane tropicali, diffusi tra il Madagascar, l'India, il sud-est asiatico e l'Oceania occidentale. La specie più nota è proprio D. indica; è un grande arbusto o un piccolo albero con chioma tendenzialmente tondeggiante e spettacolari fiori candidi che possono ricordare quelli di Magnolia grandiflora, seguiti da enormi frutti tondeggianti giallo-verdastro. Di sapore tra l'acido e l'amarognolo, in India sono aggiunti ai curry o usati per preparare marmellate e gelatine. A esserne ghiotti sono soprattutto gli elefanti (i frutti crescono molto in alto, dove non sono raggiungibili da animali più piccoli), tanto da essere noti come "mela degli elefanti". Di grande valore ornamentale e talvolta usata in giardini e alberate in aree a clima tropicale è D. philippinensis, endemica delle Filippine; simile alla precedente, ha fiori con cinque sepali candidi che circondano una doppia corona di stami rossi e porpora, seguiti da frutti globosi. Di quest'albero, detto catmon, viene utilizzato tutto: il legname; la corteccia da cui si ricava un colorante rosso; i sepali carnosi eduli; i frutti, il cui sapore dovrebbe ricordare quello di una mela acida, usati per preparare salse e confetture e aromatizzare il pesce; corteccia e foglie hanno proprietà astringenti, antinfiammatorie, antimicrobiche e analgesiche. Può essere coltivata come pianta da interni o da serra in grandi contenitori. Qualche notizia in più nella scheda. Nel Cinquecento il mercato editoriale tedesco è uno dei più vivaci centri della produzione di testi di botanica e "materia medica". Da una parte ci sono le opere in latino, spesso innovative e scritte da studiosi con una preparazione filologica o medica come Brunfels e Fuchs, che si rivolgono soprattutto a medici e studenti di medicina; dall'altra c'è una vasta produzione di Krauterbucher, "libri di erbe", che a parte qualche eccezione (come il New Kreütter Büch di Bock), sono per lo più rifacimenti di erbari manoscritti medievali, dal contenuto ben poco originale; di carattere eminentemente pratico, ma anche ricchi di curiosità, soddisfano un pubblico molto più ampio e poco esigente, che comprende farmacisti, padri di famiglia, semplici curiosi. Requisito essenziale del loro successo sono le illustrazioni xilografiche che, proprio come i testi, passano disinvoltamente da un'edizione all'altra. Tra i protagonisti di questo mondo editoriale di riedizioni, rifacimenti, riscritture, maestro del copia-incolla, è il medico e botanico Adam Lonitzer; nella maturità, divenuto egli stesso editore dopo aver sposato la figlia di uno dei maggiori stampatori e editori tedeschi, seppe fare del suo Kräuterbuch un long seller che gli sopravvisse per due secoli: uscito per la prima volta nel 1557, raggiunse infatti 27 edizioni, l'ultima delle quali è del 1783. Come gli altri autori di questo tipo di prodotto, fu anch'egli poco più di un abile compilatore; il genere Lonicera, dedicatogli da Linneo raccogliendo un suggerimento di Plumier, non premia dunque né l'originalità né la profondità di pensiero, ma il successo di un libro che ancora nel Settecento non mancava nella biblioteca di ogni studioso di botanica. Successi commerciali e una causa per plagio Con l'invenzione della stampa, i libri si fanno più accessibili e incominciano a raggiungere un pubblico più ampio. Accanto alla Bibbia e ai classici, tra i primi testi a suscitare l'interesse di stampatori e lettori ci sono anche i manuali di medicina pratica e i libri di erbe. Particolarmente vivace è il mercato tedesco, dove il primo erbario (noto come Herbarius latinus o Herbarius moguntinus, "erbario di Magonza") venne stampato nel 1484 da Peter Schöffer, il principale collaboratore di Gutenberg; entro il 1499 giunse a toccare undici edizioni. L'anno successivo lo stesso Schöffer dava alle stampe il primo Krauterbuch ("libro d'erbe") in lingua tedesca, Gart der Gesundheit (corrispettivo del latino Hortus sanitatis), attribuito al medico della città di Francoforte Johann Wonnecke von Kaub, anche noto con il nome latinizzato Johannes de Cuba. Anche quest'opera nell'arco di pochi anni ebbe molteplici edizioni nonché adattamenti e traduzioni. Mentre l'erbario latino si rivolgeva al pubblico più tradizionale dei medici e dei farmacisti, quello in lingua locale rispondeva alle esigenze e alle curiosità di una sempre più vasta fascia di lettori che non conoscevano il latino. Né l'uno né l'altro erano opere dal contenuto originale, ma compilazioni basate sugli erbari manoscritti medievali, risalenti a loro volta ai rifacimenti medievali di Dioscoride, magari attraverso la mediazione araba. A costituire un valore aggiunto erano soprattutto le illustrazioni xilografiche, apprezzate anche dagli illetterati. A capirlo perfettamente fu il tipografo-editore Christian Egenolff (1502-1555), che operava sulla importante piazza di Francoforte sul Meno. Dotato di grande fiuto commerciale, era un editore eclettico che pubblicava di tutto, incluse partiture musicali. Nel 1533 entrò nel mercato degli erbari illustrati pubblicando Kreutterbuch von allem Erdtgewächs, un rifacimento del libro di Johannes de Cuba curato dal medico cittadino Eucharius Rösslin. Per illustrarlo, fece eseguire solo poche nuove xilografie, prendendo le altre (rimpicciolite e ruotate di 180 gradi) da Vivae icones herbarium di Brunfels, pubblicata l'anno prima a Strasburgo dell'editore Schott. Quest'ultimo, che aveva ottenuto un privilegio imperiale che gli concedeva l'esclusiva dell'opera per sei anni, lo citò in giudizio presso la Suprema corte di giustizia dell'Impero. In quella che può essere considerata la prima causa per plagio della storia dell'editoria, Egenolff si difese sostenendo in primo luogo che copiare da un libro vecchio di trenta o quarant'anni è lecito, anzi in questo caso benemerito, considerando i benefici che ne derivano per la salute pubblica; in secondo luogo, la sua non poteva considerarsi una copia del volume di Brunfels, visto che, oltre ad avere un testo completamente diverso, conteneva anche immagini originali; in terzo luogo, il privilegio editoriale riguardava la trattazione delle piante, non le loro forme: queste le impone la natura, e qualsiasi illustrazione delle piante non potrà che assomigliarsi. Un argomento specioso, ma che ben testimonia il nuovo modo rinascimentale di concepire la natura e la sua rappresentazione. Non sappiamo come finì la causa, ma è certo che Egenolff continuò imperterrito a illustrare i suoi numerosi libri di medicina e botanica con xilografie altrui. Erano pubblicazioni pensate per grandi tirature, né innovative né originali nei contenuti, ma perfette per il gusto del largo pubblico. Insomma, una specie di Reader's Digest del Rinascimento. Inoltre, per conquistare un'ulteriore fetta di mercato, Egenolff, seguendo l'esempio di Isengrin, l'editore di Fuchs, nel 1546 pubblicò un album costituito unicamente da immagini, prevalentemente di piante ma anche di animali, minerali e manufatti utilizzati in farmacia con il titolo Herbarum, arborum, fruticum, frumentorum ac leguminum... iconae. Non c'è bisogno di dire che anche in questo caso si trattava di xilografie pirata (copiate tra l'altro anche da opere di Fuchs). Sebbene non sia indicato il nome del curatore del testo, limitato all'indice e ai nomi latini e tedeschi dei semplici, gli studiosi lo identificano in Adam Lonitzer, all'epoca insegnante di matematica e promettente studente di medicina. Un insuccesso editoriale e un long seller Figlio di un filologo e docente universitario di lingue classiche, Adam Lonitzer (Lonicerus nella forma latinizzata) aveva probabilmente familiarità con il mondo editoriale fin dall'infanzia. Dopo aver studiato filosofia e medicina nella sua città natale, Marburg, per completare gli studi nel 1545 si trasferì a Francoforte, dove probabilmente poco dopo entrò in contatto con Egenolff, con cui collaborò come correttore di bozze e curatore di volumi di medicina. Egenolff, che continuava a sfruttare il successo commerciale del vecchio testo di Johannes de Cuba (dopo il rifacimento di Rösslin, nel 1540 ne aveva pubblicato un'ulteriore edizione, con il titolo Botanicon, firmata da Theodor Dorstein), pensò di affidargli un'opera decisamente più ambiziosa. In effetti quel filone d'oro stava ormai esaurendosi, reso obsoleto dalle opere dei grandi botanici del Rinascimento come Mattioli, Gessner, Bock e Fuchs. Lonitzer, pur basandosi ancora una volta su quel vecchissimo testo, avrebbe dovuto attualizzarlo, dandogli una patina di novità grazie alle informazioni attinte dai più affermati moderni. Egenolff puntò su un'edizione di lusso: in lingua latina, con il titolo pliniano Naturalis historia, erano due grossi volumi in folio di 744 pagine con oltre 700 xilografie; inoltre, a quanto pare, fu messa in commercio solo la versione con le tavole acquarellate a mano (che mediamente costava il doppio di quella in bianco e nero). Per una volta, il fiuto commerciale di Egenolff sembrò venuto meno. Fu un clamoroso flop, se ancora quattordici anno dopo, nel 1565, i suoi eredi cercarono di liberarsi delle copie invendute cambiando il frontespizio per spacciarle per un'opera nuova intitolata Botanicon. In effetti, il vecchio Egenolff aveva sbagliato il target: un'opera così costosa, scritta in latino, avrebbe dovuto trovare il suo pubblico tra i dotti, agli occhi dei quali, per abile che fosse stato Lonitzer nel suo copia-incolla, si palesava immediatamente per quello che era: un centone, un patchwork con ben poca originalità. Nessuna originalità neppure nelle tavole, riciclate da opere precedenti della casa editrice e in buona parte piratate. Intanto Lonitzer faceva carriera. Nel 1553 ottenne una cattedra di matematica a Marburg e nel 1554 conseguì il dottorato in medicina; lo stesso anno fu nominato medico della città di Francoforte (incarico che avrebbe mantenuto fino alla morte, nel 1586) e sposò Magdalena, una delle figlie di Egenolff, legando per sempre le sue sorti alla casa editrice di cui, dopo la morte del suocero, nel 1555, divenne una specie di direttore editoriale. E in tale veste riuscì ad ottenere il più grande e più duraturo successo della ditta: il suo Kräuterbuch, prima edizione 1557, cui avrebbero fatte seguito altre tre durante la sua vita (1564, 1573, 1578); con rifacimenti e riadattamenti, questo long seller avrebbe totalizzato ventisette edizioni, l'ultima delle quali nel 1783. E che cos'era questo prodotto editoriale di successo? Nient'altro che la catastrofica Historia naturalis che, tradotta in tedesco, aveva finalmente trovato il suo pubblico: non più i facoltosi, dotti e smaliziati ma riluttanti acquirenti della versione latina, ma lettori di media cultura, più interessati a informazioni pratiche esposte in modo chiaro che a disquisizioni filologiche sull'identificazione delle piante di Dioscoride e Teofrasto. Del resto, sebbene sia fondamentalmente il frutto di un abile lavoro di copia-incolla, l'opera di Lonitzer ha il pregio della chiarezza e, soprattutto nella parte botanica, contiene anche qualche informazione tratta dall'esperienza diretta di medico e osservatore della natura. Ad esempio, egli fu il primo a segnalare e descrivere l'agente dell'ergotismo, il fungo parassita della segale Claviceps purpurea. Tra le parti più apprezzate del suo erbario, il primo ampio capitolo, dedicato alla distillazione. L'arte della distillazione, sconosciuta agli antichi, era un'invenzione araba che si era diffusa in Occidente nel corso del Medioevo; era dunque ancora relativamente recente e quanto mai necessaria a medici e farmacisti, perché permetteva di ricavare gli estratti alcoolici poi utilizzati per la preparazione dei farmaci. Intendiamoci, neppure qui non c'è nulla di nuovo o originale: Lonitzer riprese le sue informazioni da fonti precedenti, in particolare dal Liber de arte distillandi de simplicibus di Hyeronimus Braunswig. Tuttavia la sua esposizione e le immagini che accompagnano il testo sono tanto chiare e dettagliate che un'équipe internazionale di ricercatori le ha utilizzate per ricostruire sperimentalmente il processo di distillazione del XVI secolo. Sicuramente proprio questa parte contribuì non poco al successo del libro, tanto più che Lonitzer seppe valorizzarla fin dal frontespizio dove, sulla sinistra, in primo piano è rappresentato un farmacista che, assistito da un aiutante, sta distillando i semplici. Inoltre, c'erano anche informazioni sulla coltivazione dei giardini, anch'essa raffigurata nel frontespizio, in secondo piano sulla destra, dietro a un gruppo di dottori a consulto. Una sintesi della vita di Lonitzer come sempre nella sezione biografie. Lonicera: bellezza e profumo Campione di vendite, il nome di Lonitzer era dunque ben noto ai cultori di botanica; grazie a questa fama Plumier gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, battezzato Lonicera sulla base del cognome latinizzato Lonicerus. D'altra parte, è probabile che egli conoscesse solo i titoli dei suoi libri, visto che nella nota che accompagna la dedica cita come tre opere distinte Historia naturalis, Botanicon e un "herbarium vernacula lingua", ovvero il Krauterbuch. Il genere Lonicera di Plumier non è per altro quello a noi oggi familiare: appartenente alla famiglia Loranthaceae, corrisponde all'attuale genere Psittacanthus, che riunisce alcune piante parassite delle Antille e del Centro America affini al vischio. Se non fosse in contrasto con la candida personalità del buon padre Plumier, si potrebbe sospettare uno di quei ritratti vegetali al vetriolo che tanto deliziavano Linneo. Invece quest'ultimo, che aveva una copia del Krauterbuch nella sua biblioteca, volle dedicare al nostro protagonista un genere diverso e ben più importante, forse riconoscendo l'apporto di Lonitzer alla divulgazione del sapere botanico tra il vasto pubblico. Lo scrittore tedesco ci guadagnò immensamente nel cambio, aggiudicandosi Lonicera L., famiglia Caprifoliaceae, un vastissimo genere di oltre 180 specie, molte delle quali sono tra i rampicanti e gli arbusti più coltivati nei nostri giardini. Finalmente possiamo parlare di un genere anche europeo, anzi di uno di più ricchi di specie del nostro continente (ma presente anche in America settentrionale e in Asia; la sola Cina, centro di diversità del genere, ne vanta un centinaio). E quindi abbiamo a disposizione anche un nome comune, caprifoglio (dalla credenza che le capre si nutrissero delle sue foglie). In Italia ne abbiamo una dozzina di specie spontanee, legate ad ambienti diversi, le più note delle quali sono probabilmente la mediterranea L. caprifolium, la madreselva o caprifoglio comune (che dà anche il nome alla famiglia), diffusa in tutta la penisola, ma non nelle isole; l'atlantica L. periclymenum, presente solo nelle regioni settentrionali, il caprifoglio europeo più coltivato, con diverse pregevoli varietà da giardino; la montana L. xylostemum, il caprifoglio peloso, che non è un rampicante, ma un arbusto. Se infatti nell'immaginario collettivo tendiamo ad associare al nome caprifoglio a rampicanti dalle copiose e profumate fioriture, in realtà la maggior parte delle specie sono arbustive. I nostri caprifogli sono coltivati da secoli immemorabili e hanno lasciato la loro impronta anche in letteratura, ad esempio nel Lai du chievrefoil di Marie de France o nella poesia di Shakespeare. Hanno anche ispirato l'arte pittorica, dalle miniature medievali stile mille fleurs alle carte da parati di Morris. A partire dal Settecento, alle europee si è anche aggiunta la popolosa legione straniera delle asiatiche, come la profumatissima L. fragrantissima dalle fioriture precoci; la bella ma iperinfestante L. japonica; le arbustive L. nitida e L. pileata, la prima ottima pianta da siepe, la seconda eccellente tappezzante; L. tatarica, un grande arbusto dalla fioritura abbondante e prolungata. Già da un secolo era arrivata L. sempervirens, il caprifoglio della Virginia, con brillanti fiori tubolari che nel paese d'origine sono la delizia dei colibrì. Ma l'elenco potrebbe continuare, tanto più che alle già numerose specie si sono aggiunti molti ibridi orticoli. Su almeno qualcuno troverete qualche informazione nella scheda. Anche se per volontà dell'imperatrice, dell'ammiragliato e dell'Accademia delle Scienze, si era trasformata in una impresa monstre con molti obiettivi collaterali, lo scopo principale della Grande spedizione del Nord era pur sempre riprendere e completare quanto era stato fatto da Bering con la prima spedizione in Kamčatka: confermare che non c'era continuità territoriale tra Asia e America e raggiungere il continente americano, in vista di un possibile insediamento russo. Affidata a Bering in persona, l'impresa, dopo una preparazione decennale, per una serie di coincidenze, errori e fatalità si volse tuttavia in catastrofe, con la morte di ben 30 dei 74 membri dell'equipaggio della nave ammiraglia. Tra i sommersi, lo stesso Bering, morto nell'isola che oggi porta il suo nome insieme a un terzo dei suoi uomini. Tra i salvati, il naturalista tedesco Georg Wilhelm Steller, il primo scienziato ad esplorare la fauna e la flora dell'Alaska (sia pure per sole dieci ore); come medico di bordo, se non riuscì a salvare il capitano, strappò alla morte molti compagni, senza mai smettere, in condizioni difficilissime, di studiare e catalogare la natura dell'isola dove erano stati gettati dalla malasorte. Sono celebri soprattutto le sue scoperte zoologiche, con la prima segnalazione della lontra marina e di vari animali che oggi portano il suo nome. Fu tuttavia anche un grande botanico, con notevoli contributi anche alla conoscenza delle flore della Siberia e della Kamčatka. A ricordarlo nella tassonomia botanica fu Linneo, che volle dedicargli il genere Stellera, che oggi comprende una sola specie, l'asiatica S. chamaejasme. Ma, dato che anche i botanici giocano con gli anagrammi, va aggiunto l'indiretto omaggio di Restella. Dieci anni di preparazione... Nel 1728, appena rientrato dalla prima spedizione in Kamčatka, Vitus Bering propose di organizzarne una seconda, con l'obiettivo di raggiungere le coste americane. Dopo alcuni anni di dilazioni, in cui la lista degli scopi da perseguire non fece che crescere, infine nel 1732 fu posto a capo della gigantesca Grande spedizione del Nord, di cui coordinò tutti i distaccamenti. A lui in persona fu affidato il comando di quello più importante, il cui compito, facile a dirsi e difficile da conseguire, era appunto navigare verso est partendo dalla Kamčatka fino ad incontrare le coste americane. Rinunciando all'idea (che comunque venne messa in campo) di raggiungere la penisola circumnavigando il globo per la via di Capo Horn, si decise di inviare uomini e mezzi via terra, attraversando la Siberia. Le navi necessarie alla spedizione sarebbero state costruite sul posto, ovvero a Okhotsk, l'unico porto russo sul Pacifico. Guidati da Bering e dai suoi secondi Spanberg e Čirikov, i distaccamenti che avrebbero esplorato il Pacifico si misero in marcia tra febbraio e aprile 1733; a percorrere l'enorme distanza ci vollero oltre due anni. Dopo un primo inverno trascorso a Tobolsk, Bering stabilì infine il suo quartier generale a Yakutsk. Dovendo fare i conti, oltre che con la mancanza di strutture, con l'inerzia quando non con l'ostilità delle autorità locali, dovette trattenersi qui circa tre anni per predisporre le attrezzature e le provviste e sorvegliare la costruzione delle imbarcazioni che avrebbero risalito il fiume Lena e l'allestimento dei collegamenti con Okhotsk, dove già era stato spedito Spanberg. Solo nell'estate del 1737, dopo essere stato raggiunto anche dal distaccamento dell'Accademia, Bering partì per Okhotsk. Ma il naturalista che lo avrebbe accompagnato nell'ultimo viaggio non fu uno dei professori dell'Accademia, bensì il medico tedesco Georg Wilhelm Steller, aggregatosi alla spedizione come membro aggiunto solo in un secondo tempo. E' ora dunque di fare entrare in scena il nostro protagonista, e che protagonista! Figlio di un organista e cantore luterano, nato nel 1709 a Windsheim in Franconia con il nome di Georg Wilhelm Stöller, fu destinato dalla famiglia a divenire pastore; dapprima seguì i corsi di teologia a Wittenberg, ma ben presto li abbandonò per la sua vera vocazione, le scienze naturali. Si spostò così a Berlino dove si laureò in medicina presso l'Obercollegium. Fresco di laurea, nel 1734, inseguendo il suo "desiderio insaziabile di visitare paesi stranieri", si imbarcò come medico di bordo su una nave militare russa; si racconta che, giunto a san Pietroburgo senza un soldo e senza appoggi, fosse caduto in tale miseria da essere costretto a dormire nei portoni. Un giorno, mentre visitava l'orto botanico, si sarebbe imbattuto per caso nell'arcivescovo Feofan Prokopovič, stretto collaboratore di Pietro il Grande e uno dei fondatori dell'Accademia delle scienze, che, colpito dal suo fluente latino, lo assunse come medico personale. Ma la storia vera è probabilmente meno romantica: forse quell'incontro casuale ci fu davvero, ma a conquistare la fiducia dell'ecclesiastico contribuirono le lettere di raccomandazione del professore di Berlino di Stöller, Friedrich Hoffmann, membro corrispondente dell'Accademia russa delle Scienze. Il giovane medico tedesco, che nel frattempo aveva cambiato il cognome da Stöller a Steller (più facile da trascrivere in cirillico), lavorò per due anni per l'ecclesiastico che lo introdusse negli ambienti accademici; un altro tedesco, Johann Amman, che insegnava botanica all'Accademia, lo prese come proprio assistente. Con il titolo di membro aggiunto, Steller poté così presentare la sua candidatura per partecipare come volontario alla spedizione in Kamčatka, che venne accettata nel gennaio 1737. Prima di partire per l'Oriente, egli si sposò con la giovane vedova di un altro studioso tedesco, Daniel Gottlieb Messerschmidt, che aveva esplorato la Siberia per sette anni, non sappiamo se più attratto dalle grazie di lei o da quelle dei quaderni di campo che il primo marito le aveva lasciato in eredità. Poté partire solo un anno dopo, nel gennaio 1738; aveva sperato di avere la compagnia della sposa Brigitta, ma, giunta a Mosca, la giovane donna rifiutò di proseguire. Steller si rassegnò così a continuare il viaggio da solo. Al contrario dei professori dell'Accademia, che viaggiavano in comode e calde carrozze o slitte, riveriti e serviti da decine di servitori, si muoveva con un piccolo calesse, con un equipaggiamento spartano, provvedendo a tutto da sé. Ma in questo modo era anche molto più veloce e dopo un anno e mezzo li raggiunse a Enisejsk. Steller era un ottimo naturalista, che si era preparato al suo compito leggendo tutto il leggibile sulla natura siberiana, ma era anche uno spirito libero e un caratteraccio, dipinto da qualche biografo come un attaccabrighe per non dire un asociale; Gmelin fu ammirato dalla sua preparazione e dal suo ardore scientifico, ma anche scioccato dalle sue abitudini e dal suo aspetto poco presentabile: "Non si preoccupava certo dei suoi vestiti. Dato che in Siberia è necessario portare con sé il proprio equipaggiamento, lo aveva ridotto a una bussola. Aveva rinunciato al vino e beveva tanto la birra quanto l'acquavite nella medesima tazza. Aveva un solo piatto dal quale mangiava qualsiasi cibo. Per questo non aveva bisogno di un cuoco e cucinava tutto da sé, accontentandosi di pochissimo e magari cucinando insieme zuppa, verdure e carne. Non usava né parrucca né cipria e qualsiasi tipo di calzatura gli andava ugualmente bene. Le più povere condizioni di vita non sembravano dargli fastidio, anzi più c'erano contrattempi, più sembrava contento. D'altra parte, nonostante il completo disordine del suo modo di vivere, si è sempre dimostrato estremamente meticoloso nelle sue osservazioni e instancabile in tutte le sue imprese". Gmelin fu dunque felicissimo di spedirlo immediatamente in Kamčatka, dove non aveva alcuna intenzione di andare di persona e già aveva inviato il suo allievo Krašeninnikov. Dopo solo sette settimane trascorse con Gmelin e Müller a Eniseisk, nel marzo 1739 dunque Steller ripartì: dedicò la primavera e l'estate all'esplorazione della regione del Baikal e, dopo aver trascorso l'inverno a Irkutsk, si unì al gruppo accademico che doveva esplorare la Kamčatka; oltre a lui ne facevano parte l'astronomo Louis de l'Isle de la Croyère, l'artista Johann Christian Berkan (1709-1751) e lo studente A. P. Gorlanov. Nell'agosto 1740, il gruppo arrivò infine a Okhotsk dove Steller incontrò per la prima volta Bering e gli comunicò il suo vivo desiderio di esplorare terre sconosciute. Dieci ore di esplorazione e un tragico epilogo Torniamo dunque a Bering e ai suoi lunghissimi preparativi. Quando egli giunse a Okhotsk, nel corso del 1737, dovette subito far fronte ai soliti problemi logistici; il più grave era la mancanza di legname, visto che negli anni precedenti erano già state costruite, oltre alla nave appoggio Fortuna, che assicurava il collegamenti con la Kamčatka, i vascelli Gavril, Nadezda e Arkangel Mikhail, che sotto il comando di Spanberg sarebbero stati inviati ad esplorare le Curili. Non mancavano anche fibrillazioni nell'ammiragliato, visto che i costi e gli anni (inizialmente ne erano stati preventivati quattro) erano lievitati a dismisura. Soltanto nel 1740 furono infine pronte le due navi destinate al viaggio americano: la San Pietro (Sv. Petr) comandata dallo stesso Bering e la San Paolo (Sv. Pavel), affidata a Čirikov. Nel frattempo, Steller era arrivato in Kamčatka, dove un po' bruscamente aveva imposto la sua autorità a Krašeninnikov. Giunto qui nel settembre 1740, trascorse l'inverno nel forte di Bolšeretsk, dove, oltre a dedicarsi a studi naturalistici e etnografici, aprì la prima scuola destinata alla popolazione locale, verso la quale, al contrario dell'"imperialista" Krašeninnikov, aveva un atteggiamento aperto e solidale. Insieme a lui, nel febbraio 1741 fece una spedizione in slitta fino al Capo Lopatka, nel corso della quale ebbe a scoprire il primo degli animali marini che porta il suo nome, il leone marino di Steller, Eumetopias jubatus. Intanto Bering con la San Pietro e la San Paolo si era spostato nella baia dell'Avača sulla costa pacifica della Kamčatka, dove su suo ordine era stata creata una base con infrastrutture portuali, abitazioni e magazzini (dal nome delle due navi sarebbe stata chiamata Petropavlovsk; oggi è la capitale e la principale città della penisola). A febbraio scrisse a Steller, invitandolo a unirsi alla sua spedizione come medico di bordo e mineralista; non c'è bisogno di dire che Steller accettò con entusiasmo e all'inizio della primavera raggiunse la baia dell'Avača in slitta. Dopo dieci anni di preparativi, la seconda spedizione in Kamčatka stava finalmente per cominciare, segnata fin da subito da contrattempi e errori che si rivelarono fatali. In primo luogo, la partenza fu ritardata dall'attesa della nave d'appoggio Nadezda, prima trattenuta in porto da una tempesta poi incagliata in un banco di sabbia (privando in tal modo la spedizione dei biscotti che avrebbero permesso di svernare in America). Questo primo incidente ne causò un secondo: le provviste rimanenti dovettero essere trasportate via terra da Bolšeretsk; mancando di uomini, slitte e cani, Bering obbligò al servizio forzato alcuni Coriachi che, allontanati da casa e costretti a una semi schiavitù, si ribellarono, uccidendo sette russi. Seguì una spaventosa spedizione punitiva, che comportò la deportazione dei maschi adulti, l'uccisione di donne e bambini, la fuga o il suicidio di chi non voleva cadere in schiavitù. Uno choc per Steller, un luterano educato al pietismo, che perse ogni stima e rispetto per il comandante. Aggiungiamo un'ultima circostanza. Come vedremo, molti giorni preziosi furono sprecati su una rotta sbagliata, alla ricerca della mitica Terra di Joao da Gama (o Gamaland), un inesistente territorio che avrebbe dovuto trovarsi a nord tra l'Asia e l'America; inesistente ma indicato nella mappa predisposta dal geografo ufficiale della spedizione, Louis de l'Isle de la Croyère, e dai suoi fratelli Guillaume e Joseph-Nicolas. Finalmente le due navi partirono da Petropavlovsk il 4 giugno 1741. Dopo aver seguito per nove giorni una rotta in direzione sudest, dove si supponeva trovarsi Gamaland, virarono verso nordest. Il 20 giugno si imbatterono in una fitta nebbia in cui si persero di vista. Čirikov, mantenendo la rotta a nordest, dopo circa un mese avvistò terra (presumibilmente una piccola isola di fronte all'isola Principe di Galles, nell'Alaska sudorientale); inviati a terra successivamente due uomini, che non fecero ritorno, rinunciò a sbarcare, e, dopo aver avvistato la penisola di Kenai e l'isola di Afognak, dal momento che a bordo incominciava a imperversare lo scorbuto, attraverso le isole Aleutine fece rotta per la Kamčatka, dove era di ritorno in ottobre. Pochi giorni dopo, proprio di scorbuto morì de l'Isle de la Croyère, che era imbarcato sulla San Paolo. Al contrario del suo secondo, dopo la separazione delle due navi, Bering si ostinò a ricercare la Terra di Joao da Gama, indotto in errore anche da Steller che, osservando le alghe portate dalla corrente e la presenza di uccelli terrestri, credette prossima una terra in direzione sudest. Dopo altri quattro giorni perduti, cambiata finalmente rotta, la San Pietro il 16 luglio avvistò in lontananza un'alta montagna coronata di neve, che il capitano chiamò Monte Sant'Elia in onore del santo la cui festa cadeva il 20 luglio, giorno in cui finalmente toccarono terra in una piccola isola, che è stata identificata con Kayak Island, nel golfo d'Alaska. Bering intendeva fermarsi solo il tempo necessario per rinnovare le provviste di acqua dolce; Steller, incredulo, lo pregò prima con le buone poi con le cattive di permettergli di esplorare l'isola. Dopo un violento diverbio, in cui il naturalista minacciò Bering di deferirlo al senato di San Pietroburgo, il comandante si piegò e gli concesse... dieci ore! Dieci ore di esplorazione scientifica costate dieci anni di preparazione, come ebbe più tardi a scrivere l'amareggiato Steller. Come non capirlo! Ma proviamo a metterci nei panni di Bering: sapeva che il tempo per completare il viaggio senza mettere a repentaglio la nave e i suoi uomini era ormai agli sgoccioli. Bisognava rientrare alla base entro ottobre, per evitare di incappare nelle tempeste che a partire da quel mese rendevano impossibile la navigazione nel Pacifico settentrionale; inoltre ogni viaggio per mare che si prolungasse per più di due mesi metteva gli uomini a rischio di ammalarsi di scorbuto (una malattia devastante causata dalla carenza di vitamina C, le cui cause all'epoca erano ancora ignote o mal comprese). Dunque la sua fretta è più che comprensibile. In ogni caso, il nostro naturalista mise a frutto il poco tempo a disposizione e in quella mezza giornata si diede alla raccolta frenetica di piante, minerali e animali. L'incontro con quella che sarebbe stata chiamata ghiandaia di Steller (Cyanocitta stelleri) gli confermò che avevano toccato il continente americano, per la sua somiglianza con la ghiandaia americana (Cyanocitta cristata), che gli era nota grazie alle sue letture. Fu anche il primo scienziato europeo a vedere le lontre marine (che, come scopriremo nei prossimi post, occuperanno un ruolo importante nella storia dell'esplorazione russa del Pacifico settentrionale). Durante la sua escursione, Steller vide anche in lontananza i fumi di un insediamento indigeno e chiese al capitano di inviare una barca ad esplorarla; la risposta di Bering fu assai poco diplomatica: "Porta subito il tuo culo a bordo, se non vuoi che ti lasci a terra". Steller dovette ubbidire. Una volta salito sulla nave con le sue preziose raccolte, dovette subire un ultimo oltraggio: senza fare una piega, Bering fece voltare fuori bordo un esemplare di Rubus spectabilis (salmonberry), che gli sembrava perfettamente identico ai lamponi di casa. Il viaggio di ritorno cominciò così con il comandante e il suo naturalista ai ferri corti, potremmo dire separati in cabina, visto che Steller condivideva la cabina di Bering. Dopo aver costeggiato l'Alaska meridionale, la rotta seguì la cresta delle isole Aleutine, dove in brevissime soste Steller ebbe modo di raccogliere altri esemplari naturalistici e oggetti etnografici. Poté anche osservare molti animali marini. Intanto, uno dopo l'altro, gli uomini cominciarono ad ammalarsi di scorbuto. Il primo a morire fu il marinaio Nikita Šumagin, che venne sepolto in una di quelle che Bering in suo ricordo battezzò isole Šumagin. Mentre l'autunno incombeva e i venti battevano la nave, le condizioni a bordo erano sempre più drammatiche. Quando raggiunsero quella che credevano la costa della Kamčatka, su 78 uomini, 12 erano già morti e 49 ammalati; solo una decina di uomini aveva forze sufficienti per manovrare la nave, che il 10 novembre fece naufragio sulle scogliere in un'isola sconosciuta (oggi porta il nome di Bering). Lotta per la sopravvivenza e scoperte scientifiche Il primo a scoprire che non si trattava della Kamčatka fu proprio Steller, vedendo piante e animali che non aveva incontrato nel continente. Grazie a ciò che aveva appreso sia dalle letture sia dai contatti con le popolazioni native, incominciò subito a cercare piante capaci di combattere lo scorbuto; con un miscuglio di erbe, foglie e bacche, riuscì a mantenere in buona salute se stesso e il proprio servitore, mentre gli ufficiali rifiutavano di cibarsi di quell'intruglio. E così, si continuava a morire. Allo scorbuto e alla scarsità di cibo, si aggiungeva l'inclemenza del clima invernale, con temperature sempre più basse e tempeste devastanti (una delle quali finì di distruggere la San Pietro) e le incursioni degli animali selvatici, come le volpi artiche che non esitavano a penetrare nell'accampamento di quegli sventurati e ad azzannare quelli che lottavano tra la vita e la morte, come Bering (che morì l'8 dicembre; altri 17 uomini subirono la stessa sorte). Vedendo che si manteneva in buona salute, i suoi compagni incominciarono a prendere sul serio Steller e ad accompagnarlo a caccia o alla ricerca di erbe. Insieme a tre di loro, egli scavò nella sabbia dei rifugi dove dormire al riparo delle volpi; riuscì a cacciare queste ultime dal campo e a salvare i superstiti nutrendoli con biscotti intinti in grasso di foca e carne di lontra (efficace contro lo scorbuto perché relativamente ricca di vitamina C). Durante l'inverno, diresse la costruzione di un accampamento scavato nella neve. Nonostante tutte queste incombenze, non tralasciò le osservazioni naturalistiche; ad esempio, costruì un capanno proprio nel mezzo di una colonia di foche, dove poté osservarle non visto per sei giorni. La scoperta più sensazionale fu certamente la ritina di Steller (Hydrodamalis gigas), un gigantesco sirenide lungo fino a 8 metri, un esemplare del quale fornì abbondante cibo e calorie ai naufraghi. Purtroppo, per la caccia eccessiva, questa specie si estinse pochi anni dopo. Quando riconobbe in alcuni uccelli una specie che aveva già notato in Kamčatka (un altro degli animali che porta il suo nome, l'edredone di Steller, Polysticta stelleri) capì che la terra ferma non doveva essere lontana e stimolò i compagni a raddoppiare gli sforzi per mettersi in salvo. A primavera l'abilissimo carpentiere della San Pietro, utilizzando quanto rimaneva della nave, riuscì a costruire un battello più piccolo, battezzato con lo stesso nome. Lasciata l'isola Bering il 14 agosto 1742, dodici giorno dopo i 46 superstiti toccavano in salvo la baia dell'Avača. Le avventure di Steller non erano finite: mentre lavora ai suoi manoscritti (la relazione di viaggio, il trattato sugli animali marini De bestiis marinis, la descrizione delle numerose specie di animali e piante raccolte durante il viaggio e nell'isola Bering), continuò ad esplorare la Kamčatka e alcune delle isole Curili; in urto con l'amministrazione locale per le sue simpatie verso i nativi, fu posto sotto accusa e richiamato a San Pietroburgo; mentre era già sugli Urali, fu arrestato e ricondotto a Irkutsk. Scagionato, riprese il viaggio verso occidente ma morì a Tyumen a soli 37 anni. Una sintesi della sua vita avventurosa e travagliata nella sezione biografie. Stellera, una bellezza pericolosa Steller è noto soprattutto per le importanti scoperte zoologiche, ma quelle botaniche non sono ttrascurabili. Nelle poche ore trascorse in Alaska (durante la sosta a Kayak il 20 luglio e anche più brevemente tra il 30 e 31 agosto a Nagai Island) raccolse e descrisse 143 piante. Non meno significative sono le sue ricerche botaniche nell'isola Bering, in Kamčatka e in Siberia. Tra le piante che lo ricordano nel nome specifico Arabis stelleri, Cassiope stelleriana, Lagotis stelleri, Veronica stelleri, Limnas stelleri, Cryptogramma stelleri. Anche se Steller non poté pubblicare né le sue ricerche né il racconto del proprio viaggio, dopo la sua morte i suoi diari furono pubblicati da Pallas (Reise von Kamtschatka nach Amerika mit dem Commandeur-Capitän Bering) e gli diedero fama europea. Tra i suoi ammiratori, lo stesso Linneo che in Species plantarum (1753) gli dedicò il genere Stellera. Molto più tardivo l'omaggio del botanico russo Nikolaj Turčaninov che nel 1840 lo omaggiò con un secondo genere Stellera; poiché non valido per la regola della priorità, nel 1849 lo sostituì con l'anagrammatico Rellesta (oggi considerato un sinonimo di Swertia). Stellera L. (famiglia Thymelaeaceae) è un genere monospecifico, rappresentato unicamente da S. chamaejasme. Originaria delle regioni montane dell'Asia centrale e meridionale (inclusa la Siberia) è una perenne semilegnosa o un arbustino che, almeno nelle fioriture, ricorda l'affine Edgeworthia con infiorescenze globose assai decorative in diverse sfumature di colori (solitamente rosa, ma anche bianche o gialle). Molto attraente, è adatta ai giardini rocciosi, sebbene la sua coltivazione sia tutt'altro che facile. L'intera pianta è tossica, tanto che anche i suoi fiori sono evitati dagli insetti e nei pascoli di alta montagna del Tibet cinese la sua diffusione è considerata un problema per gli animali. Nonostante ciò, la medicina tradizionale cinese la utilizza da secoli come antinfiammatorio e oggi se ne studiano le proprietà antitumorali. Inoltre in Tibet dalle sue radici si ricava una carta di alta qualità, sottile e allo stesso tempo robusta, oltre che inattaccabile da muffe e insetti. Qualche approfondimento nella scheda. Restella: un anagramma vegetale La storia tassonomica del genere Stellera è assai travagliata; Linneo gli aveva assegnato due specie (S. chamaejasme e S. passerina, oggi Thymelaea passerina) cui se ne aggiunsero via via altre, fino a raggiungere una dozzina di specie. Più recentemente, con l'eccezione appunto di S. chamaejasme, sono state tutte riassegnate ad altri generi. Uno di essi, indirettamente, si ricollega ancora una volta al nostro eroe. Nel 1886 Eduard August von Regel aveva denominato Stellera alberti un arbusto raccolto da suo figlio Johann Albert durante una spedizione in Asia centrale; nel 1941, la botanica russa Evgenija Pobedimova la separò da Stellera e la attribuì al nuovo genere Restella (anagramma di Stellera). Anche Restella Pobed. appartiene ovviamente alla famiglia Thymelaeaceae, e anch'esso comprende una sola specie, appunto R. alberti. E' un bellissimo arbusto dagli sfolgoranti fiori giallo zolfo, endemico di poche località della catena del Tien Shan in Uzbekistan; benché raro, non è a rischio perché le aree in cui vive sono protette. Anche in questo caso, qualche informazione in più nella scheda. Per completezza d'informazione, segnalo che a Steller sono state dedicati indirettamente altri due generi: nel 1893 da van Thiegem Dendrostellera e nel 1950, nuovamente da Pobedimova, Stelleropsis; entrambi oggi sono confluiti in Diathron. La "Grande spedizione del Nord", promossa dalla zarina Anna Ivanovna, fu una delle maggiori imprese scientifiche del Settecento, secolo per altro così ricco di grandi viaggi di scoperta. Nell'arco di dieci anni (1733-1743), mobilitò direttamente oltre cinquecento persone, chiamate in primo luogo a mappare le coste settentrionali e orientali dell'Impero russo, ma anche a esplorare le risorse umane e naturali del vastissimo territorio al di là degli Urali. In questo primo post dedicato alla grande impresa, seguiremo le avventure di uno dei "distaccamenti" di terra, quello che sotto la guida di tre professori dell'Accademia russa delle scienze fu incaricato di studiare le regioni interne della Siberia fino alla penisola di Kamčatka, dove i russi avevano iniziato la loro penetrazione da pochi decenni. Il nostro primo protagonista è il giovane professore tedesco Johann Georg Gmelin (quando iniziò la spedizione aveva appena 23 anni), i cui studi sulla geologia, la meteorologia, i fossili, la fauna e la flora siberiana segnarono una tappa fondamentale della conoscenza dell'Asia settentrionale. Scienziato poliedrico, fu un grande botanico, cui si deve la scoperta di almeno 500 specie nuove per la scienza; la sua fondamentale Flora sibirica è importante anche per molte intuizioni che fanno del suo autore uno dei precursori della fitogeografia e dell'evoluzionismo. La Russia esce dall'isolamento: una spedizione titanica La politica dello zar Pietro il Grande (1672-1725) fu guidata dalla ferma volontà di fare uscire la Russia dall'isolamento, inserendola stabilmente tra le grandi potenze europee. Nell'ambito di questo grande progetto, essenziale fu la creazione di una flotta che garantisse all'impero russo nuovi sbocchi sul mare, fin ad allora limitati al mar Bianco, inagibile per quasi metà dell'anno a causa dei ghiacci. A sud, il mare d'Azov, porta del Mar Nero, fu oggetto di una lunga contesa con l'impero ottomano; a nord-ovest, il Baltico fu strappato al dominio svedese e Pietro volle vi si affacciasse la sua capitale, san Pietroburgo, la "finestra della Russia sull'Europa". Ma lo zar era deciso anche ad esplorare le potenzialità del mare orientale, ovvero del lontanissimo oceano Pacifico. I russi erano giunti sulle sue sponde per via terra, navigando lungo i fiumi siberiani, e nel 1647 vi avevano fondato il primo avamposto, Okhotsk; era poi iniziata, tra mille difficoltà, la penetrazione nella regione e l'esplorazione della penisola di Kamčatka. Diverse domande rimanevano ancora senza risposta: in primo luogo, l'Asia e l'America erano separate o erano collegate in qualche modo? in secondo luogo, se erano separate, esisteva una via di comunicazione tra l'Oceano Artico e l'Oceano Pacifico? Insomma, il famoso passaggio a nord-est era leggenda o realtà? Infine, era possibile trovare una via di comunicazione diretta con il Giappone e magari la Cina? Per rispondere a questi interrogativi, nel 1724, Pietro incaricò Vitus Bering (1681-1741), un abile navigatore danese al servizio della Russia, di guidare la prima spedizione navale russa, passata alla storia con il nome di "Prima spedizione in Kamčatka" (1725-30). Muovendo da Okhostk, dove erano state costruite le navi che parteciparono alla missione, Bering esplorò le coste settentrionali del Pacifico fino alla penisola dei Ciukci e attraversò lo stretto che porta il suo nome; anche se non aveva avvistato la costa americana, ritenne di avere prove sufficienti per affermare che i due continenti non erano collegati. Proseguì quindi l'esplorazione verso sud, mappando le coste meridionali della Kamčatka. I risultati erano incoraggianti, ma non definitivi. Era dunque il caso di allestire una seconda spedizione, molto più ampia e ambiziosa; a ordinarla, riprendendo il progetto del grande zio, fu la zarina Anna Ivanovna (che regnò del 1730 al 1740). Nuovamente sotto il comando di Bering, è nota come "Seconda spedizione in Kamčatka", ma anche, per le sue proporzioni colossali, "Grande spedizione del Nord". Durò infatti dieci anni (1733-1743), coinvolse direttamente circa 500 persone tra ufficiali, marinai, scienziati, geodeti, militari e personale di servizio, ma indirettamente forse 3000; fu allo stesso tempo una spedizione navale, geografica, naturalistica e etnografica. Le sue implicazioni politiche erano tali che i progressi e i risultati vennero considerati segreto di stato. Grandiosa negli obiettivi e nei mezzi finanziari, si articolò in otto distaccamenti indipendenti, sei marittimi e due di terra. I primi quattro (distaccamenti del Nord) percorsero e tracciarono la costa russa e siberiana dell'Oceano Artico dal mar Bianco alla foce del fiume Kolyma; condotti con grande impiego di uomini e mezzi, produssero risultati straordinari, in particolare la mappatura di 13.000 km di costa, ma costarono anche enormi perdite, come la morte per fame e scorbuto, nell'inverno del 1735, di 40 su 53 uomini del distaccamento del tratto Lena-Kolyma. Inoltre i ghiacci impedirono ai navigatori russi di spingersi oltre il Capo Baranov, facendo fallire il progetto di ricongiungersi al distaccamento di Bering. A questo ultimo era stato infatti assegnato il comando, oltre che dell'intera spedizione, del quinto distaccamento (primo distaccamento del Pacifico), che doveva riprendere e completare gli obiettivi della prima spedizione, tracciando la rotta per il nord America; sulle sue drammatiche vicende, che coinvolsero anche alcuni naturalisti, tornerò in un altro post. Più felici furono invece gli esiti del secondo distaccamento del Pacifico, guidato da Martin Spanberg, con i compiti di esplorare le isole Curili e cercare una rotta diretta per il Giappone: gli obiettivi vennero brillantemente completati e si aggiunse l'esplorazione della costa di Sakhalin. Il primo distaccamento di terra aveva il compito di testare la navigabilità dei fiumi da Verchneudinsk a Okhotsk; il secondo, guidato da tre professori dell'Accademia delle Scienze russa, doveva studiare le popolazioni e le risorse naturali della Siberia e della Kamčatka e raccogliere esemplari per la collezione privata (Kunst kamera) dell'imperatrice. Gmelin e il Distaccamento dell'Accademia Seguiamo dunque le avventure di questo ultimo gruppo, il più importante per la storia della botanica, poiché segnò l'esordio dello studio della flora siberiana. Ne facevano parte tre professori, cinque studenti, quattro geodeti, un interprete, due pittori e dodici soldati - compreso un tamburino - comandati da un caporale. I professori, tutti stranieri, erano l'astronomo francese Louis de l'Isle de la Croyère (1685-1741), lo storico tedesco Gerhard Friedrich Müller (1705-1783) e il naturalista e botanico Johann Georg Gmelin, anch'egli tedesco (1709-1755). In un secondo momento, oltre a un terzo pittore e un secondo interprete, si aggregarono alla spedizione anche lo storico Johann Eberhard Fischer (1697-1771) e il naturalista Georg Wilhelm Steller (1709-1746). Partiti da San Pietroburgo l'8 agosto 1733, vi rientrarono quasi dieci anni dopo, il 17 febbraio 1743 (diversi membri rimasero anzi in Siberia fino al 1746-47). Va ancora sottolineato che, con l'eccezione del "maturo" de l'Isle, erano tutti giovani o giovanissimi: al momento della partenza, Müller e Steller avevano 27 anni, Gmelin 23, Krasheninnikov, il più dotato degli studenti, 21. Dei novellini rispetto allo sperimentato de l'Isle, che aveva già partecipato a esplorazioni astronomiche e geodetiche nella Russia settentrionale e almeno inizialmente guidò il gruppo; tuttavia Müller e Gmelin sollevarono critiche sulla correttezza delle sue osservazioni, al punto che nel 1737 egli si separò dagli altri per unirsi a Steller nell'esplorazione della Kamčatka. Li ritroveremo entrambi come membri della tragica ultima missione di Bering. Fu dunque l'energico e carismatico Müller a imporsi come leader, tanto più che trovò nel conterraneo (e quasi coetaneo) Gmelin più un amico fraterno che un collaboratore. Il distaccamento esplorò la vastissima area che si estende da ovest a est dagli Urali centrali e meridionali alla Jakuzia e alla Transbaikalia, e da sud a nord dalla Siberia meridionale ai bacini dei fiumi Irtyš, Ob', Enisey e Lena. Müller, il solo dei capi ad aver percorso l'intero itinerario, dichiarò di aver coperto in dieci anni 35.000 verste (ovvero circa 37.000 km). I risultati, in termini di rilievi topografici, osservazioni meteorologiche, informazioni sulla cultura materiale e spirituale delle popolazioni native, valutazione delle risorse economiche e umane, documentazione dei monumenti archeologici, raccolta di esemplari naturalistici e artefatti etnografici, sono incalcolabili e esulano dagli scopi di questo blog. Mi limiterò dunque alla botanica, dunque alle ricerche del naturalista ufficiale del gruppo, Johann Georg Gmelin. Va comunque detto subito che, scienziato completo, anche se il suo compito principale era studiare la flora e la fauna siberiane, si interessò ugualmente di rilevazioni meteorologiche, di geologia e in particolare dei fenomeni carsici e delle rocce vulcaniche e metamorfiche, dello studio dei fossili (elaborando anche una procedura per l'osservazione e la raccolta dei resti di mammut), nonché della popolazione locale e della sua interazione con l'ambiente. Determinò le coordinate di diverse località e soprattutto fornì la prima descrizione dell'ambiente naturale siberiano; fu il primo naturalista a studiare gli effetti sulla flora e sulla fauna delle temperature sottozero e a descrivere il permafrost. Inoltre seppe affrontare con coraggio e determinazione una delle peggiori disavventure che possa capitare a un botanico. Nel novembre 1736, mentre si trovava a Jakutsk, sul fiume Lena, dove Bering aveva fissato il suo quartier generale, la casa dove abitava bruciò, mandando in fumo le sue raccolte e i suoi quaderni di campo; senza lasciarsi scoraggiare, Gmelin a partire dall'estate seguente ricostruì le collezioni, esplorando prima i bacini della Lena e dello Enisej, poi, tornando verso occidente, la Siberia meridionale e il versante asiatico degli Urali. Tornato a Pietroburgo nel 1743, poi in Germania nel 1747, poté così esporre le sue osservazione nella fondamentale Flora sibirica (1747-1769), la prima in assoluto dedicata a questa vasta regione, dove descrisse 1178 specie, 500 delle quali nuove per la scienza. L'opera è importante anche per le numerose conclusioni innovative: Gmelin sottolineò da una parte la cesura tra la flora europea e quella siberiana, dall'altra l'analogia tra la flora asiatica e quella nordamericana, individuando nel fiume Enisej la frontiera naturale tra le due regioni. La grande varietà delle piante e degli animali nei vari ambienti siberiani, in un'epoca in cui nessuno metteva in dubbio che le specie fossero immutabili e create una volta per tutte da Dio, lo spinse a postulare la variazione delle specie come adattamento alle condizioni ambientali, anticipando tanto la fitogeografia quanto l'evoluzionismo. Scritta in latino e pubblicata a San Pietroburgo, Flora sibirica comprende quattro volumi; gli ultimi due uscirono postumi a cura del nipote di Gmelin, Samuel Gottilieb, a sua volta botanico e esploratore (morto tragicamente nel corso della spedizione di Pallas, come ho raccontato in questo post). Un quinto volume, dedicato alle crittogame, fu scritto dall'allievo Stepan Petrovič Krašeninnikov, ma rimase manoscritto. Inoltre Gmelin raccontò il suo viaggio in Reise durch Sibirien von dem Jahr 1733 bis 1743 (1751–1752), pubblicato a Tubinga dove era professore di medicina e direttore dell'orto botanico. Il lavoro, molto importante anche per le numerose proposte innovative in campo economico e sociale, ispirate a uno spirito già illuministico, venne tradotto in molte lingue europee, ma non in russo, dal momento che gli ambienti di corte non apprezzarono le sue critiche all'arretratezza, all'ingiustizia sociale, alla corruzione generalizzata e alla gestione farraginosa che caratterizzavano l'impero russo, bollando il libro come "antirusso". Una sintesi della vita di Gmelin nella sezione biografie. Gmelina: bellezza e utilità Anche se, avendo utilizzato la nomenclatura prelinneana, poche delle denominazioni introdotte da Gmelin sono tuttora valide, la sua importanza come padre fondatore della flora siberiana fu immediatamente riconosciuta. Sono almeno una sessantina le piante che lo ricordano nel nome specifico; tra le altre, Larix gmelinii, Angelica gmelinii, Centaurea gmelinii, Tussilago gmelinii. Linneo aveva in grande stima del collega tedesco, che fu anche suo corrispondente; di lui disse che aveva scoperto più piante di ogni altro botanico. Nella prima edizione di Species Plantarum (1753) volle dunque onorarlo dedicandogli Gmelina, sulla base dell'indiana G. asiatica. Egli, dunque, non scelse una delle numerose specie "scoperte" da Gmelin, ma una pianta che il nostro mai vide o conobbe. Il genere Gmelina, della famiglia Lamiaceae (precedentemente Verbenaceae) comprende una trentina di specie distribuite tra l'India e la Cina meridionale e l'Australia settentrionale e le Fiji. La maggior parte sono alberi di alto fusto, spesso con radici a contrafforte, ma le specie più note sono arbusti o piccoli alberi. Molto apprezzate per la crescita veloce e l'eccellente legname, alcune sono anche state importate in altri paesi tropicali sia come ornamentali sia come alberi da legname. La più importante è sicuramente G. arborea, presente in natura in gran parte dell'India, ma anche in Cina meridionale e nel sud est asiatico ed introdotta in paesi africani come Nigeria e Sierra Leone. Il suo legname è infatti leggero ma robusto, facilmente lavorabile, e adatto alla fabbricazione di oggetti di varia natura, inclusi alcuni strumenti musicali. Per il notevole impatto estetico delle fioriture, che avvengono prima che la pianta rimetta le foglie, e per la gradevole ombra, viene spesso utilizzata anche nei giardini e nelle alberate cittadine. I frutti, prodotti in abbondanza, sono eduli e hanno proprietà medicinali. Due specie di dimensioni contenute, G. ellittica e G. philipinnensis, occasionalmente anche usate come arbusti ornamentali per climi caldi, sono utilizzate come bonsai. Presentano infatti diversi motivi di interesse: il contrasto tra le foglie giovanili trilobate e quelle mature obovate; la bella forma espansa della chioma; la spettacolare fioritura con lunghe infiorescenze pendule giallo brillante che qualcuno paragona al becco di un pappagallo (da cui il nome inglese di G. philippinensis, Parrot's Beak Tree). Decorative sono anche le bacche, prima verdi poi giallastre, Qualche approfondimento sul genere e cenni ad altre specie nella scheda. Con milioni di esemplari venduti ogni anno e sempre nuove varietà immesse sul mercato, Weigela va sicuramente annoverata tra gli arbusti da fiore più popolari, grazie alla facilità di coltivazione e al notevole impatto estetico. Questo genere, che talvolta qualcuno si ostina a chiamare Weigelia, è originario dell'Estremo oriente e fu creato da Carl Peter Thunberg che ne raccolse una specie durante il suo soggiorno in Giappone. Il nome è un omaggio a uno dei suoi corrispondenti, il medico e docente universitario Christian Ehrenfried Weigel, tedesco di lingua e cultura, ma suddito svedese, perché nato in quella parte di Pomerania che per due secoli fece parte del Regno di Svezia. L'Università di Greifswald, dove egli studiò e insegnò per molti anni e dove numerosissimi erano gli studenti svedesi, fu un vero ponte culturale tra i due paesi, nonché uno dei principali poli di diffusione del sistema linneano in Germania. Benché nella maturità Weigel si sia distinto soprattutto come chimico, negli anni giovanili, oltre a dirigere l'orto botanico di Greifswald, scrisse una flora della Pomerania svedese e alcune interessanti osservazioni botaniche. Una regione contesa e una brillante carriera accademica Per circa duecento anni, dal 1630 al 1805, c'è stata una enclave svedese in territorio tedesco: la Pomerania occidentale, occupata durante la Guerra dei Trent'anni da Gustavo Adolfo Vasa e poi trasformata prima in un feudo reale, quindi dal 1648 in un territorio del Regno di Svezia, retto da un governatore svedese. Per le città pomerane, alcune delle quali in passato erano state città libere appartenenti alla Lega anseatica, non fu certo un buon affare, perché significò una sequela di guerre e distruzioni. Per la sua posizione di confine con il regno di Polonia, quella che più ebbe a soffrirne fu sicuramente Greifswald. Nel Medioevo, quando la regione faceva parte del ducato di Pomerania, era un fiorente centro mercantile, con una borghesia di origine per lo più tedesca; nel 1456 vi fu fondata una prestigiosa università di lingua tedesca, la quarta nell'area germanica (dopo Heidelberg, Lipsia e Rostock), che fu anche all'avanguardia nella diffusione del protestantesimo, con un'influente facoltà di teologia luterana. Durante la guerra dei Trent'anni, Greifswald fu dapprima occupata dalle forze imperiali, quindi subì un lungo assedio svedese; nell'arco di pochi anni, perse così due terzi dei suoi abitanti. Seguirono bombardamenti da parte delle truppe del Brandeburgo nel 1659 e nel 1678; durante la Grande guerra del Nord fu trasformata in un accampamento militare; nel 1713 e nel 1736 fu in gran parte distrutta da due devastanti incendi. Nonostante il governo svedese avesse esonerato dalle tasse chi costruisse o ricostruisse una casa, divenne una città fantasma. In tanta distruzione, un faro di civiltà rimaneva l'Università che, soprattutto nella seconda metà dl Settecento, quando finalmente tornò la pace, pur mantenendo il suo carattere tedesco, risentì positivamente del clima di rinnovamento pedagogico della Svezia illuminista; divenne così un ponte culturale tra Germania e Svezia che attirava numerosi studenti svedesi (oltre 1500 nell'arco di un cinquantennio) e favoriva l'interscambio di idee tra le due aree. In questo contesto, giocò un ruolo importante nella diffusione del sistema di Linneo, che dapprima era stato accolto con ostilità in Germania, in particolare dai botanici luterani che consideravano "oscene" le sue basi sessuali (ne ho parlato in questo post). A cancellare questi pregiudizi diede un valido contributo il pastore Samuel Gustav Wilcke (1736-1791); allievo di Linneo a Uppsala, venne a Greifswald a completare gli studi di teologia, vi tenne conferenze di storia naturale e nel 1763 vi fondò l'orto botanico universitario. Divenuto l'anno successivo pastore della Altkirche della limitrofa isola di Rügen, dove visse fino alla morte, fu autore della prima flora dell'area pomerana, Flora gryphica, exibens plantas circa Gryphiam intra miliare sponte nascentes (1765), dedicata alle piante spontanee che crescevano nell'arco di un miglio nelle campagne attorno a Greifswald. Tra i più entusiasti seguaci di Wilke vi fu certamente un giovane studente di medicina, Christian Ehrenfried Weigel, nato a Stralsund, un'altra città della Pomerania svedese, e arrivato a Greifswald sedicenne nel 1764 per iniziare gli studi di medicina e scienze naturali; nel 1769, come tesi di baccalaureato, scrisse un saggio sulla flora locale, poi pubblicata a Berlino con il titolo Flora Pomerano-Rugica, Exibens plantas per Pomeraniam anteriorem svecicam et Rugiam sponte nascentes methodo linneana secundum systema sexuale digestas. Concepito come un supplemento all'opera di Wilke (il raggio si amplia dai dintorni di Greifswald all'intera Pomerania svedese, compresa l'isola di Rügen), il lavoro si segnala in primo luogo per l'ortodossia linneana, esibita orgogliosamente fin dal titolo che fa piazza pulita di ogni remora moralistica. Frutto di molte escursioni e dell'osservazione diretta della flora locale, è un'opera notevole per uno studente ventenne; di ciascuna pianta vengono indicati anche i nomi comuni, la localizzazione, il periodo di fioritura, gli eventuali usi medici. Al momento della stampa di Flora Pomerano-Rugica, Weigel si era già trasferito a Gottinga, dove seguì tra l'altro i corsi di botanica di un altro linneano, lo svedese Johan Andreas Murray, e conseguì il dottorato in medicina nel 1771. Anche se non aveva abbandonato lo studio delle piante, compiendo anche diverse escursioni botaniche in Sassonia e in Assia, il centro dei suoi interessi andava spostandosi verso altri soggetti, in particolare la mineralogia e la chimica. Visitò infatti le miniere dello Harz e come tesi di dottorato presentò una dissertazione di chimica mineralogica. Dopo la laurea, tornò brevemente a Stralsund, dove esercitò la professione medica e continuò le ricerche di chimica nel laboratorio del padre, un medico con forti interessi per la chimica farmaceutica. Nel 1772 tornò a Greifswald come lettore aggiunto e direttore dell'orto botanico fondato da Wilcke (incarico che mantenne fino al 1781); in questa occasione, tenne una prolusione che, stampata con il titolo Observatones botanicae, costituisce il suo maggiore contributo alla studio delle piante. Non si tratta di un'opera organica, ma di una sequenza di 31 capitoletti (observationes) da brevi a brevissimi in stile aforistico di argomento vario: la segnalazione della presenza in Pomerania di specie precedentemente non segnalate; annotazioni sulle variazioni morfologiche di alcune specie in natura e in coltivazione; analisi della letteratura e discussione di specie oggetto di controversia tra i botanici. Il capitolo più ampio (Observatio I), e sicuramente il più interessante, è costituito da una rassegna del genere linneano Bromus, di cui Weigel, sulla base di un'attenta analisi morfologica, propone undici specie; va però notato che la botanica successiva ha ricondotto molte di esse a quelle linneane e nessuna delle sue denominazioni per questo genere è ora accettata. Lo sono invece tra le spontanee Juncus capitatus e tra le esotiche Lantana x mutabilis. Nel decennio successivo, tuttavia, prese il sopravvento l'interesse per la chimica; in questo campo, l'opera maggiore di Weigel è Grundriss der reinen und angewandten Chemie (1777), in due volumi, una delle prime in Germania a rivolgersi a un pubblico anche non universitario, in cui si occupò di chimica sia pura sia applicata in campo medico e soprattutto agricolo. Molte furono anche le sue traduzioni di opere di chimica dal francese, dall'inglese e dallo svedese. Intanto egli continuava una carriera accademica di successo nell'Università di Greifswald: titolare della nuova cattedra di chimica e farmacia della facoltà di medicina dal 1784, rettore dall'Università dal 1787, direttore dell'istituto universitario di chimica dal 1796 alla morte. I rivolgimenti politici che coinvolsero la Pomerania svedese nel primo Ottocento non sembrano lasciare alcuna traccia in questo percorso. Perfettamente inserito nel mondo culturale svedese, si adeguò senza imbarazzo a quello tedesco quando in seguito alle guerre napoleoniche la Pomerania passò alla Prussia: membro dell'Accademia della Scienze svedese dal 1792; protomedico della casa reale di Svezia dal 1795; conte del Sacro Romano impero nel 1806 (aggiungendo al cognome il prefisso nobiliare von); contemporaneamente cavaliere dell'ordine svedese della Stella polare (1814) e cavaliere di terza classe dell'ordine prussiano dell'Aquila rossa (1821). Del resto i tedeschi di Pomerania come lui erano abituati a destreggiarsi tra i due mondi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Weigela, un arbusto dalle fioriture prorompenti Per gli amanti delle piante, più che come autore di due operine di botanica sostanzialmente dimenticate, Weigel è soprattutto il dedicatario del magnifico genere Weigela (che, per un errore diffuso, molti chiamano Weigelia). A crearlo nel 1780 (all'epoca Weigel era ancora direttore di orto botanico di Greifswald) fu un altro allievo di Linneo, Carl Peter Thunberg, che del medico pomerano fu corrispondente. Il genere Weigela (famiglia Caprifoliaceae) comprende una dozzina di specie arbusti nativi dell'estremo oriente (Siberia, Cina, Giappone, Corea), solitamente rustici e molto adatti ai climi dell'Europa temperata. Grazie alle scarse esigenze, alla resistenza alle malattie e alle fioriture copiose, da almeno 150 anni sono tra gli arbusti più amati e comuni nei nostri giardini. La prima specie ad essere descritta fu W. japonica, raccolta da Thunberg in Giappone e pubblicata appunto nel 1780, ma la prima ad arrivare in Europa fu W. florida, introdotta dalla Cina nel 1845 da Robert Fortune. Questa specie fu anche a lungo la più popolare, tanto che tendiamo ad associare il suo nome quasi automaticamente alle Weigelae dei nostri giardini, anche se in realtà oggi le piante coltivate e vendute a milioni ogni anno sono per lo più ibridi, a volte con genealogie complesse e inestricabili. In effetti, fin dalla seconda metà dell'Ottocento i vivaisti si misero al lavoro per produrre varietà sempre più belle e fiorifere; se nel XIX secolo si preferirono soprattutto grandi arbusti imponenti con cascate di fiori sui lunghi rami arcuati, il gusto odierno, condizionato dalla piccolezza dei nostri spazi verdi, preferisce piante compatte, magari con foglie colorate o variegate. Il colore dominante dei fiori di questo genere è il rosa in tutte le sue sfumature, ma esistono anche tre specie con fiori gialli; alcune specie, poi, hanno fiori che nell'arco della fioritura cambiano colore, in modo tale che su un singolo arbusto vediamo fiori di colori diversi. Insomma, una cascata di bellezza in technicolor. Qualche approfondimento sulle principali specie e sulla storia degli ibridi nella scheda. Alla fine, le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark non furono pubblicate né da B.S. Barton né da nessun altro botanico americano, ma in Inghilterra dal tedesco Frederick Pursh (nato Friedrich Pursch). Uno smacco per l'orgoglio nazionale degli Stati Uniti, appena usciti malconci dalla guerra del 1812 contro la perfida Albione. Insieme alla rivalità con altri botanici, primo fra tutti Thomas Nuttal, sta forse qui l'origine della leggenda nera che ha dipinto Pursh come mentitore seriale, plagiario, tassonomista mediocre e temerario, barbaro dalle fattezze tartare e, soprattutto, ubriacone senza speranza. Sicuramente la sua fu una vita inquieta e errabonda, conclusa precocemente nella miseria e nell'alcolismo. Rimangono a ricordarlo Flora Americae Septentrionalis, la prima flora del Nord America a comprendere specie continentali, raddoppiando il numero delle piante nordamericane fino ad allora pubblicate, e il genere Purshia, coraggioso e splendido ornamento dei monti e dei deserti del Nord America occidentale, il cui primo esemplare, ancora una volta, fu raccolto durante la spedizione di Lewis e Clark. Può essere ironico che, a celebrare un uomo accusato di essere troppo dedito alla birra, siano piante che non temono gli ambienti più aridi. Un inquieto botanico di talento Le vicende americane di Fredrick Pursh si intrecciano continuamente con quelle dei diversi personaggi che, in vario modo, ebbero a che fare con le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark: Thomas Hamilton, Bernard McMahon, il professor Barton, lo stesso Lewis. E alla fine fu proprio lui a pubblicarle per primo, nei due volumi di Flora Americae Septentrionalis, usciti a Londra tra la fine del 1813 e l'inizio del 1814. Tedesco, era nato a Großenhain in Sassonia nel 1774 con il nome di Friedrich Trauttgott Pursch; si era poi trasferito a Dresda, come apprendista giardiniere del Reale orto botanico, dove aveva ricevuto ottime basi teoriche da Johann Heinrich Seidel. La collaborazione a una flora dei dintorni della città gli permise di acquisire anche qualche esperienza editoriale. Spirito inquieto e avventuroso, nel 1799 lasciò la Germania per gli Stati Uniti, dove servì successivamente come giardiniere presso diversi privati tra Baltimora e Filadelfia. Nel 1803 Thomas Hamilton lo assunse come giardiniere capo di Woodlands, in sostituzione di John Lyon. Poté così conoscere i numerosi naturalisti e botanici che frequentavano la casa, tra cui Henry Muhlenberg, William Bartram e Benjamin Smith Barton; desideroso di liberarsi del lavoro nelle aiuole per dedicarsi completamente all'esplorazione e allo studio delle piante, nel 1805 lasciò anche Hamilton per passare al servizio di Barton, come curatore dell'erbario e raccoglitore. Per suo conto, intraprese infatti alcune spedizioni, in cui si mosse a piedi, con la sola compagnia di un cane, la prima delle quali, tra aprile e novembre 1806, lo portò in Virginia e sulle montagne tra le Caroline e la Georgia. Nel frattempo, a Filadelfia incominciavano ad arrivare le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark, gli essiccata affidati per volontà del presidente Jefferson alla American Philosophical Society in vista della pubblicazione da parte di Barton, e i semi a Hamilton e McMahon. Ma il lavoro di Barton, secondo la sua abitudine di molto progettare e poco concludere, non faceva alcun progresso. Fu così che, probabilmente dietro suggerimento di McMahon, nell'aprile 1807 Lewis incontrò Pursh e, impressionato dalla sua competenza, gli chiese di illustrare le "sue" piante, dietro il compenso di 60 dollari. Poco dopo, Pursh partì per la sua seconda escursione botanica, che lo portò sulle montagne tra Pennsylvania e Vermont in direzione dei grandi laghi. Di ritorno a Filadelfia a ottobre, si stabilì a casa di McMahon e lavorò tutto l'inverno ai disegni, e presumibilmente anche alle descrizioni, visto che da parte del professor Barton, che avrebbe dovuto occuparsene, non si registrava alcun progresso. Lo scontento di Pursh verso il dilatorio professore cresceva. Nel 1809, probabilmente anche in questo caso grazie alla raccomandazione di McMahon, fu assunto come curatore dell'Elgin Botanical Garden di New York, appena fondato da David Hosack. Lasciando Filadelfia, portò con sé i disegni, le descrizioni e i doppioni dell'erbario della spedizione (compreso qualche esemplare che aveva "sezionato" per avere un proprio campione), forse già con l'intenzione di pubblicare le piante in proprio, decisione probabilmente rafforzata dalla tragica morte di Lewis, avvenuta nell'ottobre 1809. Neppure a New York il nostro inquieto botanico si trattenne a lungo; nel 1810 visitò le Indie Occidentali, anche per ragioni di salute, e nel 1811, viste anche le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Gran Bretagna, che sarebbero sfociate nella guerra del 1812, partì per Londra. A spingerlo a questo passo, oltre alla speranza di trovare uno sponsor e un editore, la possibilità di consultare le biblioteche e gli erbari di numerosi botanici che avevano esplorato la flora nordamericana prima di lui. Nella capitale inglese Pursh trovò il protettore che cercava nella persona di Aylmer Bourke Lambert, vicepresidente della Linnean Society, grande collezionista di erbari e esperto di conifere (il suo nome è ricordato da Pinus lambertina). Dunque, con grande smacco dei botanici americani, le piante della grande spedizione "nazionale" di Lewis e Clark furono finalmente pubblicate a Londra da un tedesco. Prima di esaminare meglio Flora Americae Septentrionalis, un cenno alle successive vicende di Pursh. L'opera gli procurò una certa fama almeno in Inghilterra, se subito dopo gli venne affidata la cura dei cataloghi di alcuni giardini botanici; ma egli non era tipo da accontentarsi di un tranquillo lavoro editoriale. Desiderava ripartire e riprendere la ricerca sul campo. Nel 1814 respinse l'invito a dirigere il neo istituito orto botanico dell'Università di Yale; nel 1816 accettò invece quello di lord Selkirk di aggregarsi come botanico al nuovo insediamento del Red River in Canada. Partito dall'Inghilterra nel febbraio di quell'anno, si trovava già in Canada quando il progetto fallì in seguito all'assassinio del capo della spedizione, Robert Semple. Nei quattro anni che gli restavano da vivere, povero, senza alcun sostegno ufficiale e afflitto da problemi crescenti di alcoolismo, Pursh fece diverse escursioni botaniche nel paese, in particolare nel bacino del San Lorenzo e nell'isola di Anticosti, con l'intenzione di scrivere una flora del Canada. Aveva già raccolto circa 1000 esemplari, quando tutta la sua collezione fu distrutta in un incendio. Era l'ultimo colpo alle sue speranze. Morì a Montreal, ad appena 46 anni. Una sintesi di questa vita inquieta nella sezione biografie. Un'opera importante e molte polemiche Arrivato a Londra presumibilmente nel novembre 1811, ospite di Lambert, Pursh si mise immediatamente al lavoro. Già nel febbraio 1812 scrisse a James Edward Smith, proponendogli di pubblicare sulle Transactions della Linnean Society una relazione sulle piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark. Con l'incoraggiamento di Lambert, che gli fece aprire le porte delle biblioteche e delle collezioni di Banks e Smith, il progetto si ampliò a una flora dell'America settentrionale. Con una certa disinvoltura, senza il permesso dei raccoglitori, Pursh incominciò ad includervi non solo le specie di Lewis e Clark e quelle raccolte da lui stesso nel corso delle escursioni fatte al servizio di Barton e Hosack, ma anche le piante di cui era venuto a conoscenza grazie alla liberalità di Muhlenberg e di altri amici con i quali aveva erborizzato (senza né citarli né ringraziarli). Una disinvoltura che spiacque allo stesso Smith, il quale, a quanto pare, quando seppe in che modo Pursh era venuto in possesso degli esemplari raccolti da Lewis e Clark, non solo rifiutò di pubblicarli, ma evitò di venire a trovarsi nella stessa stanza con lui. Nella primavera del 1812, Pursh incontrò Nuttall, suo successore come raccoglitore di Barton, che gli mostrò le sue collezioni. Inoltre, in seguito a complesse circostanze, erano pervenuti a Lambert i duplicati delle collezioni dell'inglese John Bradbury, che nel 1811 aveva raccolto insieme a Nuttall lungo il fiume Missouri e poi da solo oltre Fort Mandan. Senza il permesso dell'autore (intrappolato dalla guerra negli Stati Uniti), Pursh decise di includere nella sua opera un'appendice con quaranta piante inedite raccolte da Bradbury. Anche Nuttall si lamentò in tal senso; tuttavia, poiché egli aveva ripercorso parte dell'itinerario di Lewis e Clark, raccogliendo le stesse piante, questa accusa è forse infondata. Tramontata la possibilità di pubblicare il suo lavoro sulle Transactions, Pursh si rivolse al Botanical Magazine, un mensile con il quale collaboravano sia lui sia Nuttall, in quella che divenne quasi una gara per la primogenitura. I due volumi di Flora Americae Septentrionalis uscirono ufficialmente il 10 gennaio 1814, ma poiché la stampa era stata completata qualche settimana prima, già a dicembre alcune copie vennero distribuite a personaggi influenti in vista della presentazione nella riunione mensile della Linnean Society. L'opera contiene la descrizione di 470 generi e 3076 specie, cui va aggiunto il supplemento con le 40 specie di Bradbury; tra di esse, quelle raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark sono 132; solo 24 sono illustrate da disegni eseguiti dallo stesso Pursh a Filadelfia. Benché preceduta di pochi anni da Flora Boreali-Americana di André Michaux (1803) e seguita quasi immediatamente da The Genera of North American Plants di Thomas Nuttall (1818), l'opera di Pursh riveste una notevole importanza storica. Rispetto alla flora del francese, che rendeva conto delle piante degli Stati atlantici, allarga il campo a molte specie continentali, sia delle Montagne rocciose sia della costa pacifica; inoltre la precedenza cronologica rispetto a Nuttall ha imposto molte delle sue denominazioni. Tra i generi da lui creati, vorrei ricordare Calochortus e soprattutto Lewisia e Clarkia, in onore dei due capi della celebre spedizione; tra le specie, Gaillardia aristata, Arbutus menziesii, Gaultheria shallon, Euphorbia marginata, Ribes sanguineum, Philadelphus lewisii, Linum lewisii. Inutile dire che i botanici americani non la presero affatto bene. Tra i più drastici, Constatine Samuel Rafinesque che nella sua recensione del 1819 segnalò 43 errori macroscopici e così si espresse: "L'ignoranza presiede tutta l'opera. Gli errori, gli spropositi, le denominazioni improprie che la costellano sono innumerevoli. Cambiare un nome buono con uno cattivo è un'assurda temerarietà. Eppure a tale temerarietà inclina Mr. Pursh; vorrei però avvisare tanto lui quanto chi volesse seguire la sua autorità, che sarebbe meglio tornasse a scuola, e imparasse l'abc della botanica, come fanno i bambini quando imparano l'alfabeto". Non mancarono dicerie sulla persona stessa di Pursh; già Barton aveva diffuso la fama della sua propensione all'alcool. John Francis, un amico di Hosack che soggiornò a Londra negli anni in cui vi viveva Pursh, disse di lui: "E' il peggiore nemico di sé stesso: è ubriaco al mattino, a mezzogiorno e alla sera". Un aneddoto, probabilmente falso, vuole che, per vedere Flora Americae septentrionalis finita, Lambert fosse costretto a chiuderlo a chiave nell'attico che gli aveva messo a disposizione con gli esemplari, libri, carta, inchiostro, cibo e birra. Un altro contemporaneo che lo incontrò a Montreal lo descrisse come un uomo brillante, sicuramente entusiasta della botanica, ma incolto, tagliato con l'accetta, con fattezze tartare, un barbaro nativo della Russia (una diceria che dovette essere diffusa, se si pensa che nei necrologi usciti in Canada è definito "il celebre botanico Frederick Pursh, nato in Russia"). Purshia, rose dei deserti Tra le piante della spedizione di Lewis e Clark, Pursh descrisse un arbusto raccolto lungo il Columbia River come Tigarea tridentata. Nel 1816, de Candolle riconobbe la sua appartenenza a un genere proprio, che battezzò Purshia in onore del nostro discusso botanico, la cui opera, al di là dei metodi disinvolti e degli innegabili errori, fu comunque una pietra miliare nella storia della botanica americana. Lo dimostrano anche le successive dediche di un genere Purshia da parte di due botanici tedeschi, Sprengel (1817) e Dennstedt (1818). A essere valido, per la regola della priorità, è quello di de Candolle. Purshia DC. della famiglia Rosaceae comprende 5-8 specie di arbusti endemici dell'America nordoccidentale, dal British Columbia in Canada al Messico settentrionale. Crescono in ambienti aridi sia di montagna sia delle steppe desertiche temperate. Sono arbusti o anche piccoli alberi con foglie piccole, profondamente lobate, e fiori molto decorativi con cinque petali più o meno separati bianchi, gialli o rosa e vistosi stami gialli. I frutti sono acheni piumati, che vengono facilmente dispersi dal vento. Molto resistenti alla siccità e adattabili ai suoli poveri grazie ai noduli sulle radici che ospitano i batteri azoto-fissatori Frankia, sono piante pioniere, spesso con un ruolo di specie dominante. Il genere oggi comprende anche le specie meridionali un tempo incluse in Cowania. La specie a più ampia diffusione è quella descritta da Pursh, Purshia tridentata, una specie montana con delicati fiori giallo pallido che può diventare un alberello alto fino a cinque metri. Il nome inglese antelope bush, antelope bitterbush sottolinea la sua importanza nell'alimentazione di Antilocapra americana e altri ungulati. Le radici amare erano usate dai nativi come medicinale, mentre dai semi veniva ricavata una tintura violacea. Di notevole importanza ecologica anche Purshia stansburyana, nativa dell'Ariziona e del Messico settentrionale, le cui fronde forniscono un'eccellente pastura a molti ungulati selvatici, inclusi alce, cervo mulo e bighorn del deserto. I suoi fiori bianchi dai grandi petali la fanno assomigliare a una rosellina; poiché il suo habitat preferito sono le rocce, su cui si abbarbica grazie alle profonde radici, è infatti detta cliffrose. Stansbury's cliffrose. Ulteriori informazioni sulle altre specie nella scheda. Se i suoi colleghi l'avessero pensata come Karl August von Bergen, medico e botanico nonché professore dell'Alma Mater Viadrina di Francoforte sull'Oder, questo blog non esiterebbe. Nel ragionare sul sistema migliore per denominare un nuovo genere, la sua preferenza andava infatti ai nomi descrittivi basati sulle caratteristiche distintive o l'aspetto generale. A suo giudizio l'abitudine di usare i nomi delle piante per "onorare persone bene merite della botanica" era da condannare, perché l'utile va preferito alla vanità. Eppure è proprio grazie alle bergenie, tra i primi fiori a rallegrare i nostri giardini tra inverno e primavera, che è stato preservato anche il suo nome, che altrimenti sarebbe conosciuto forse da qualche studioso della storia della medicina o della botanica prelinneana, come autore di un piccolo libro che è insieme una flora regionale e un trattatello di botanica sistematica. E dunque, a suo dispetto, sia gloria al professor Bergen e al genere Bergenia. Una botanica metodica Nel Settecento, il dibattito sui sistemi di classificazione delle piante fu assai vivace. A prevalere, anche fuori dei confini francesi, fu probabilmente quello creato da Tournefort, ma molti botanici ne elaborarono dei propri, più o meno diffusi. Dunque, quando Linneo pubblicò Systema naturae (la prima edizione è del 1735), il suo era solo uno dei tanti sistemi in concorrenza, che faticò assai ad imporsi. Forse l'accoglienza più contrastata si ebbe nell'area tedesca, con posizioni fortemente ostili come quelle di Ludwig e Siegesbeck, o più aperte e favorevoli come quella di Gleditsch. E' in questo contesto che si inserisce una figura indubbiamente minore, ma significativa del mondo accademico tedesco, Karl August von Bergen (1704-1759). Egli era figlio d'arte e arrivava da uno degli angoli più remoti della Germania, Francoforte sull'Oder. Suo padre era Johann Georg von Bergen, professore di anatomia presso l'Università Viadrina, la più antica e più prestigiosa del Brandeburgo. La formazione del giovane Bergen tuttavia non fu affatto provinciale: venne mandato a completare gli studi a Leida, dove fu allievo di Boerhaave e si laureò in medicina; fu poi a Parigi e a Strasburgo. Rientrato in patria, prima insegnò presso l'università della città natale come professore straordinario, quindi succedette al padre nelle cattedre di anatomia e botanica, incarico che comprendeva anche la direzione dell'orto botanico (fondato nel 1679). Come anatomista, si segnalò per le sue ricerche sul sistema nervoso, ma si interessò anche di zoologia (con un'operina sul rinoceronte e un saggio sulla classificazione dei molluschi con conchiglia). Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Bergen intervenne nel dibattito sul sistema linneano nel 1742 con Programma: utri systematum Tournefortiano an Linneano potiores partes deferendae sint, in cui mise a confronto i sistemi di Tournefort e Linneo, sostenendo la superiorità del secondo. Ma pochi anni dopo sembrò cambiare idea. Nel 1750, infatti, in Flora fracofortana adottò come punto di riferimento il sistema del francese. Senza essere uno dei testi sacri della botanica, è senza dubbio un'opera significativa che vale la pena di analizzare più da vicino. Si tratta di una delle numerose flore regionali prodotte dai botanici tedeschi tra Seicento e Settecento; in questo caso, l'ambiente indagato è la marca di Brandeburgo, di cui si passano in rassegna alcune centinaia di piante sia native sia coltivate in orti e giardini. Da questo punto di vista, l'autore stesso lo presenta modestamente come un aggiornamento e un completamento di un'opera precedente, Hodoegus botanicus, un vademecum per gli studenti di medicina e botanica di Francoforte pubblicato da Martin Daniel Johren nel 1715. Le sue ambizioni si espressero piuttosto al saggio introduttivo, in cui Bergen espone le sue riflessioni (cogitata) sullo studio metodico della botanica; il suo proposito è individuare un metodo facile, praticabile anche dagli autodidatti, un filo d'Arianna che li condurrà per mano nei labirinti del regno di Flora; e questo metodo deve essere naturale, o per dirla con le sue parole Botanices... proprio Marte addiscendae, "una botanica da studiare in base alle sue stesse forze". Il metodo è esposto in 52 brevi o brevissimi paragrafi di tono aforistico; dopo aver definito i concetti stessi di metodo e di scienza, Bergen elenca le parti distintive delle piante, distinguendole in primarie (fiori, frutti e semi) e secondarie (radici, tronco, caule, foglie). Afferma quindi che a fornire le note caratteristiche in base alle quali si distinguono e classificano le piante sono le parti coinvolte nella fruttificazione. Passa quindi a definire le categorie tassonomiche: classi, ordini, generi, specie, varietà. Il concetto fondamentale, sulla scorta di Tournefort, è quello di genere, che raggruppa specie simili e va individuato sulla base delle parti primarie. Tanto meno si dovranno considerare le parti secondarie per definire le classi. D'altra parte, Bergen è consapevole che botanici diversi nelle loro classificazioni hanno considerato differenti parti connesse con la fruttificazione: Cesalpino il frutto, Ray, Tournefort, Magnol e altri il calice, von Haller corolla, stami e frutto , Linneo stami e pistillo. Tutti questi metodi sono artificiali, mentre quello che si desidera è un metodo naturale. Linneo ne ha fornito solo dei frammenti. Per altro, a suo parere, il medesimo criterio non funziona per tutti i generi, molti dei quali presentano caratteristiche singolari. Bergen passa poi a occuparsi delle denominazioni. I nomi dei generi ottimi sono quelli basati sull'aspetto e le caratteristiche delle piante che ne fanno parte, mentre le denominazioni celebrative devono essere evitate, perché l'utilità deve avere la meglio sulla vanità. Analogamente, sono eccellenti i nomi delle classi e degli ordini che sintetizzano le caratteristiche dei generi che raggruppano, anche se quelli assegnati finora, per esempio da Tournefort, sono prevalentemente artificiali e arbitrari. I nomi specifici dovrebbero invece essere desunti dalle parti secondarie, in particolare quelle che differenziano una specie dall'altra. Non per questo Bergen anticipa la denominazione binomia di Linneo: se ridicolizza i prolissi nomi polinomi definendoli septempedales (insomma, peggio che sesquipedali), nel suo catalogo egli stesso usa nomi-descrizione spesso di cinque o sei parole. Dopo aver concluso con un appello appassionato allo studio delle piante, osservate là dove vivono nei diversi momenti dell'anno e esaminate in tutte le loro parti, Bergen fornisce ai lettori un utile glossario dei termini botanici (utile anche per noi per capire lo stato dell'arte verso metà Settecento). Ed ecco infine il suo sistema di classificazione che si basa in parte su quello di Tournefort, in parte se ne discosta. Anche qui il criterio di classificazione è la corolla, gli ordini sono cinque e le classi ventidue, ma scompare la bipartizione, ancora presente nel francese, tra piante erbacee o arbustive e alberi, che lo aveva costretto a raddoppiare alcune classi. Se dunque i primi due ordini (fiori petalati semplici e fiori petalati composti) e le prime 14 classi sono identici a quelli di Tournefort, in realtà si sono allargati a comprendere anche le specie arboree. Del tutto originali sono invece i raggruppamenti successivi: il terzo ordine (apetali staminati), con le quattro classi apetale senza amenti, apetale con amenti, apetale conifere, graminacee ed affini; il quarto ordine (con parti analoghe ai fiori), che comprende le tre classe epifillosperme - cioè le felci -, muschi e alghe; il quinto ordine, privo di fiori, è costituito dai funghi. Rispetto al sistema di Tournefort, il progresso è chiaro soprattutto per quanto riguarda le crittogame, precedentemente raggruppate in due classi, apetale senza fiori (le felci) e apetale senza né fiori né frutti (tutte le altre). Bergenia, una pianta demodé? A questo nemico dei nomi celebrativi è toccato in sorte di essere ricordato, più che per i suoi studi, apprezzati dai contemporanei ma presto dimenticati, per la dedica di un genere botanico molto popolare: Bergenia, creato nel 1794 da Conrad Moench in un'opera che ha qualche analogia con Flora francofortana, ovvero Methodus plantas horti Botanici et agro Marburgensis: anche in questo caso una flora regionale, con un forte tensione metodologica. La denominazione Bergenia venne usata illegittimamente anche da Necker per il genere Lythrum e da Rafinesque (1838) per il genere Cuphea. Ma molto prima si era ricordato di Bergen anche Michel Adanson, che nel 1763 aveva creato in suo onore Bergena. La denominazione non è valida, trattandosi di un doppione di un genere linneano, ma è significativa: se Bergen pensava che un sistema naturale fosse desiderabile, Adanson vi dedicò ossessivamente tutta la vita. Bergenia, della famiglia Saxifragaceae, è un piccolo genere di rusticissime erbacee perenni originarie dell'Asia centrale, della Siberia, dell'Afghanistan, della Cina e dell'area himalayana. La prima ad arrivare in Europa fu la siberiana B. cordifolia, che Linneo attribuì al genere Saxifraga (nome che, per la solita viscosità dei nomi delle piante, le è spesso rimasto appiccicato). La denominazione di Moench non fu accettata nel mondo anglosassone, dove le fu preferito il nome Megasea, coniato da Haworth nel 1821. Altre specie arrivarono dalla Cina e dell'area Himalayana nel corso dell'Ottocento; risale al periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento il periodo della grande fortuna delle bergenie, soprattutto grazie alle precocissime fioriture che le rende interessanti anche come fiori invernali, stimolando un'intensa attività di ibridazione. Poco esigente, generosa nelle fioriture molto precoci, la più comune nei giardini è B. crassifolia (anche nota con il sinonimo B. cordifolia), con grandi foglie persistenti e grappoli di fiori rosa intenso che sbocciano tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera, nel nord Italia tipicamente intorno al 19 marzo (da qui il nome popolare "giuseppina"). Forse proprio perché facili e indistruttibili, talvolta sono sentite come piante banali, vecchiotte, fuori moda. Non la penso così, ma chi volesse qualcosa di nuovo non ha che l'imbarazzo della scelta: può rivolgersi ad altre specie, come B. purpurascens, con fiori rosa carminio e foglie a cucchiaio che in autunno si tengono di rosso, oppure B. stracheyi, un'alpina dalle dimensioni più contenute con fiori rosa chiaro gradevolmente profumati; ma soprattutto ai numerosi ibridi che hanno allargato la gamma dei colori dei fiori al bianco, al porpora e a tutte le sfumature del rosa, inclusa l'albicocca, e sono spesso molto interessanti anche per la tessitura e/o il colore del fogliame. Quale approfondimento nella scheda. Tra l'esimio anatomista Johann Goffried Zinn e il genere Zinnia, che Linneo gli dedicò nel 1759 come omaggio postumo, il legame è semplice e trasparente: nel catalogo dell'orto botanico di Gottinga, curato da Zinn, compare - anche se con altro nome - la prima immagine a stampa di quella che noi chiamiamo Zinnia peruviana. Ma forse tra Zinn e le zinnie c'è anche un secondo filo rosso, più sottile e misterioso, che ha che fare con gli occhi, lo sguardo e, forse, persino il malocchio. Una Zinnia sotto mentite spoglie Formatosi a Gottinga alla scuola di Albrecht von Haller, Johann Gottfried Zinn era un giovane e brillante anatomista; tuttavia, dopo essersi perfezionato a Berlino, dove divenne uno specialista della struttura anatomica dell'occhio, quando ritornò a Gottinga non gli fu possibile ottenere la cattedra di anatomia; grazie all'interessamento del suo influente maestro, nel 1753 gli fu tuttavia assegnata quella di professore straordinario di medicina, che includeva la direzione dell'orto botanico dell'università. Zinn prese molto sul serio l'incarico, cercando di stringere rapporti personali con i maggiori botanici europei, tra cui lo stesso Linneo, allo scopo di arricchire le collezioni del giardino. Del suo carteggio con Linneo ci rimangono sette lettere (non ci sono pervenute le risposte dello svedese), che testimoniano un attivo scambio di semi, piante essiccate, pubblicazioni, nell'arco di circa due anni e mezzo (febbraio 1756-settembre 1758). Zinn è particolarmente interessato al genere Salvia, a cui pensa di dedicare una pubblicazione (progetto mai realizzato probabilmente per la sua morte precoce); segnala a Linneo piante coltivate a Gottinga di cui non trova menzione in Speces plantarum; discute su alcune piante, tra cui - nella lettera del 1 ottobre 1757 - Chrysogonum peruvianum. Racconta del suo impegno per la stesura del catalogo dell'orto botanico di Gottinga, Catalogus plantarum Horti academici et agri gottingenis (1757), che sta assorbendo tutto il suo tempo. E' questa in effetti l'opera botanica più importante di Zinn (i restanti contributi sono brevi articoli, pubblicati sotto forma di memorie delle varie accademie di cui faceva parte). Si tratta della continuazione e dell'aggiornamento dell'analoga opera di Haller, Enumeratio plantarum hortii regii et agri gottingensis; entrambi non sono solo un catalogo delle piante coltivate nell'orto botanico universitario, ma anche una flora della regione. Lo scrupolosissimo lavoro di Zinn offre una bella testimonianza dello stato dell'arte, almeno in area tedesca, alla vigilia dell'affermazione del sistema linneano: è evidente che il giovane botanico tedesco ha letto con attenzione Systema naturae (moltissimi generi sono presi da Linneo), ma allo stesso tempo è rimasto fedele all'insegnamento del maestro von Haller, di cui adotta il metodo di classificazione (essenzialmente basato sul numero dei petali e sulle caratteristiche dei frutti) e mantiene i nomi-descrizione. La descrizione di ciascuna specie è in genere brevissima, essendo per lo più limitata al nome-descrizione (intorno a una riga di testo), seguito dai sinonimi usati da altri autori. A fare eccezione, quasi sul finire del libro, è una specie della classe delle Radiatae (uno dei diversi gruppi in cui nel sistema di Haller sono divise le nostre Asteraceae). Dopo il nome-descrizione Rudbeckia foliis oppositis hirsutis, calyce imbricato cilindrico, radii petalis pistillatis "R. con foglie opposte pelose, calice cilindrico imbricato, petali del raggio pistillati", Zinn aggiunge "così possiamo provvisoriamente definire una pianta che presumibilmente merita il nome di nuovo genere". Nel dubbio che si tratti non solo di una specie, ma di un genere nuovo (egli stesso afferma che è ben diverso dalle altre Rudbeckiae), aggiunge una descrizione dettagliata, l'unica del libro, come unica è l'immagine che l'accompagna (che a noi, con il senno di poi, toglie ogni dubbio; quella che vediamo è indubbiamente una Zinnia). Due anni dopo aver licenziato questo lavoro, Zinn morì appena trentaduenne presumibilmente di tubercolosi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Linneo volle ricordarlo nella decima edizione di Systema naturae (1759) battezzando Zinnia peruviana la pseudo-Rudbeckia di Zinn, che presumibilmente coincide con la pianta che in Species Plantarum (1753) egli aveva chiamato Chrysogonum peruvianum. Zinn non fu dunque, come alcuni sostengono, il primo botanico ad aver descritto una Zinnia (che è lo stesso Linneo), ma il primo ad averne pubblicato un'immagine. L'anatomia dell'occhio e la pianta del malocchio Qualcuno però, forse poco soddisfatto di un legame in fondo così poco romanzesco, ha voluto trovare tra il medico-botanico tedesco e il genere che gli è stato dedicato una connessione più sfuggente, ma anche più affascinante. Ho già anticipato che Zinn, anche se dal momento in cui divenne direttore dell'orto di Gottinga si convertì in un botanico appassionato, era in primo luogo un grande anatomista. Prima a Berlino, poi a Gottinga continuò i suoi studi sulla struttura dell'occhio, pubblicando nel 1755 Descriptio oculi humani iconibus illustrata, un'opera capitale nella storia della medicina, in cui presentò la prima descrizione completa dell'occhio umano, tanto che rimangono legate al suo nome alcune delle sue strutture: la zonula di Zinn, ovvero l'apparato di legamenti sospensori del cristallino, e i legamenti stessi, noti come legamenti di Zinn. Importantissimo è anche l'apparato iconografico, di una bellezza e di una precisione a lungo insuperata. Ora, a quanto pare, anche la Zinnia avrebbe qualcosa a che fare con l'occhio, o lo sguardo. Zinnia peruviana, la specie di cui Zinn pubblicò per primo un'immagine, in Messico è nota con molti nomi, tra cui mal de ojo. Moltissimi testi - tutti anglosassoni - riportano questa storia: quando i conquistadores arrivarono in Messico, trovarono che questa pianta fosse molto brutta, quindi la chiamarono mal de ojo, ovvero "che fa male agli occhi"; altri aggiungono che sarebbe stato il calco del nome indigeno, in inglese eyesore, ovvero "obbrobrio". Non so a voi, ma a me questa storia sembra molto strana, per non dire sospetta. Tra le decine di testi che la ripetono (che includono siti on-line, libri a stampa, ma anche articoli scientifici) non uno cita la fonte originale; chi sarebbero questi "spagnoli" o "conquistadores" che trovarono tanto brutta questa pianta? quale era il nome azteco (nahuatl?) che corrisponderebbe a eyesore? D'altra parte mal ojo, mal de ojo non significa né obbrobrio, né male agli occhi, ma, come a noi italiani è chiarissimo, "malocchio", ovvero quel nefasto potere dello sguardo che, secondo una diffusa superstizione, sarebbe in grado di seminare disgrazie e malasorte. E' infatti in questa credenza popolare, e non nella pretesa bruttezza della calunniata zinniuccia (mi permetto di chiamarla così, come fanno in Perù dove la chinita - diminutivo di china, zinnia - è stata dichiarata patrimonio naturale della nazione) che va cercata l'etimologia del nome popolare messicano. Z. peruviana è un'annuale i cui piccoli capolini, con fiori ligulati rossi vivo che circondano un disco scuro, possono ricordare un occhio circondato dalle ciglia. E proprio come gli antichi greci - e i marinai di oggi - dipingevano un occhio sulla prua delle navi per difenderle dal malocchio, gli aztechi coltivavano questi fiori nei loro giardini come difesa dal malocchio, che temevano soprattutto nei confronti dei neonati e dei bambini piccoli. La credenza nel malocchio era ben nota anche agli spagnoli, che adottarono il nome e l'usanza. Dunque, non pianta orribile, la cui bruttezza fa male agli occhi, ma pianta protettrice, apotropaica, che combatte il malvagio potere dello sguardo nemico. D'altra parte, è assai improbabile che Linneo abbia scelto questa pianta per onorare Zinn come specialista dell'occhio, come qualcuno ha sostenuto. Come abbiamo già visto, il motivo è molto più semplice e prosaico. Zinnia, un'affermazione difficile Il genere Zinnia, della famiglia Asteraceae, comprende 22 specie di erbacee annuali, perenni e suffruttici originari delle radure e delle praterie aride di un'area che va dagli Stati Uniti Sudoccidentali all'Argentina, con maggiore centro di diversità in Messico. Oggi è tra le più note annuali da giardino, ma la strada per tanta gloria fu lunga e tortuosa. Z. peruviana, la prima specie descritta da Linneo, è anche quella con l'aerale maggiore, spaziando dallo stato di Chihuahua in Messico al Paraguay, passando dalle Antille e dalle Galapagos; fu inoltre la prima ad arrivare in Europa; sappiamo con certezza che 1753 il Jardin des Plantes ne distribuì i semi a molti botanici, tra cui presumibilmente Haller a Gottinga, Philipp Miller a Londra e Linneo a Uppsala (come e da dove fossero giunti a Parigi non sappiamo, forse dal Messico, forse dal Sud America, visto che Linneo la chiama "calendula del Brasile"). A fine secolo, la specie è coltivata sotto vari nomi anche a Kew e dai vivai Lee & Kennedy. Ma con i suoi piccoli fiori e il portamento da erbaccia non è certo popolare e passa piuttosto inosservata in mezzo a tante novità giunte da oltre oceano. A fine secolo entra in scena la messicana Z. elegans; descritta per la prima volta con questo nome da Sessé e Mociño nel 1789, e formalmente da Cavanilles come Z. violacea nel 1791, quindi di nuovo come Z. elegans l'anno successivo da Jacquin. In ogni caso, i semi arrivano a Madrid e Gomez Ortega ne dona alcuni alla marchesa di Bute, la moglie dell'ambasciatore britannico in Spagna (John Stuart, primo marchese di Bute, figlio di lord Bute, il primo creatore di Kew). Ed è proprio la marchesa a introdurne la coltivazione in Inghilterra intorno al 1796. Il successo non è immediato; in natura, anche questa specie non è molto appariscente, con un singolo giro di fiori del raggio di colore violaceo. Tuttavia nel 1829 un certo J.S. Mill presenta alla Horticultural Society una varietà a fiori rossi da lui ottenuta da semi che gli sono giunti direttamente dal Messico, nota come Z. violacea var. coccinea. In Inghilterra come in Francia e in Belgio incominciano ad interessarsene i vivaisti, per soddisfare la crescente domanda di semi a buon prezzo di piante di facile coltivazione. Nel 1858, grazie a semi attenuti dalle Antille, Grazau di Bagneres ottiene la prima varietà doppia fertile, che due anni dopo è commercializzata dal celebre vivaio Vilmorin. Il successo è notevole, ma di breve durata, tanto che già a fine secolo le zinnie sono considerate demodé. Negli ultimi decenni del secolo vengono selezionate molte nuove varietà, destinate però ad essere soppiantate dalle ricerche dell'ibridatore californiano John Bodger che a partire dagli anni '20 del Novecento crea varietà a grandi fiori come 'Giant Dahlia' e 'Mammoth', che domineranno la scena per qualche decennio, grazie a una scelta sempre più ampia di forme e colori. In anni più vicino a noi, a rinnovare le vecchie varietà sarà invece l'irruzione di altre specie dal portamento meno rigido e monumentale, in particolare Z. angustifolia e Z. haageana. Qualche approfondimento, come sempre, nella scheda. Nell'Ottocento, più che mai, l'esplorazione geografica e la ricerca scientifica si intrecciano con le vicende coloniali. Così, nel 1828, la spedizione della corvetta Triton e della goletta Isis ha l'obiettivo fondamentale di rivendicare il possesso olandese dei territori della Nuova Guinea ad occidente del 141 meridiano est (prima che lo faccia l'Inghilterra), ma a bordo ci sono anche cartografi e un gruppetto di naturalisti della Natuurkundige Commissie. La loro missione otterrà rilevanti risultati scientifici, ma porterà al sacrificio di quasi tutte le loro vite. Il primo a morire sarà il giardiniere e botanico Alexander Zippelius, dedicatario del genere Zippelia. 1826-1827: Giava L'esito tragico della prima spedizione della Natuurkundige Commissie olandese, con la morte di tre su quattro membri (ne ho parlato in questo post), non scoraggiò il professor Temminck, direttore del Museo di Scienze naturali di Leida, che cominciò immediatamente a pensare ai rimpiazzi. La sua scelta cadde su due brillanti giovani collaboratori, entrambi tedeschi: Heinrich Boie, zoologo e curatore del settore dei vertebrati del Museo, e Heinrich Christian Macklot, chirurgo e curatore della collezione osteologica. Proprio come Kuhl e van Hasselt, i due erano stati compagni di studi (entrambi avevano studiato all'Università di Heidelberg) ed erano legati da una profonda amicizia. Il 5 dicembre 1823 entrarono a far parte della Natuurkundige Commissie, il primo come capo della futura spedizione, il secondo come assistente. Prima di partire per Giava, la meta scelta anche questa volta, ci furono diversi viaggi preparatori; una tappa li portò a Heidelberg, dove alloggiarono in una locanda. Mentre parlavano tra loro, con presumibile entusiasmo, della spedizione che li aspettava, i loro discorsi furono captati dal figlio del locandiere, Salomon Müller, che si mostrò assai interessato: aveva seguito come uditore qualche corso di zoologia all'Università, era un cacciatore di uccelli e un capace tassidermista. Boie e Macklot senza esitare gli proposero di unirsi a loro; convinsero Temminck a ingaggiarlo e in tal modo Müller divenne il terzo membro della compagnia, completata poi dal pittore Pieter van Oort. I quattro si imbarcarono per Giava alla fine di novembre 1825, raggiungendo la loro destinazione a giugno dell'anno seguente. Proprio come i predecessori Kuhl e van Hasselt, i naturalisti fecero base all'orto botanico di Buitenzorg/Bogor, dove conobbero l'unico membro sopravvissuto della spedizione precedente, van Raalten, al momento ancora impegnato a preparare le collezioni di van Hasselt per l'invio in Olanda. Inizialmente esplorarono l'area attorno a Bogor, deve Boie studiò soprattutto gli uccelli. Quindi si spostarono a Karawang, dove intendevano prepararsi per passare a Sumatra. Ma Boie contrasse la malaria e morì nel settembre 1827; anch'egli come Kuhl e van Hasselt venne sepolto nel cimitero olandese dell'orto botanico di Bogor. Fu un durissimo colpo per Macklot, che così scrisse al professor Temminck: " Oh, non inviate più qui degli uomini, a meno che siano dei bruti. Altrimenti saranno perduti senza alcuna speranza di riscatto". Oltre ad aver perso un amico carissimo, egli non si riteneva in grado di assumerne il ruolo; suggerì così di invitare lo zoologo francese Pierre-Médard Driard a unirsi alla Commissione, prendendone la guida. Driard, allievo di Cuvier, aveva un'esperienza più che decennale di lavoro sul campo in Oriente e aveva lavorato anche per Raffles; sarebbe poi rimasto per un ventennio a Giava, inviando molti esemplari al Museo di Leida, ma svolgendo compiti fondamentalmente amministrativi. Altri viaggi e altri pericoli attendevano invece Macklot, Müller e van Oort. 1828-32: Nuova Guinea, Timor e ritorno Fin dal XVII secolo, gli olandesi erano presenti nell'arcipelago delle Molucche e rivendicavano la sovranità sulla parte occidentale della Nuova Guinea, con la quale commerciavano senza tuttavia disporre di basi permanenti. Nel 1825, il luogotenente D.H. Kolff aveva esplorato e mappato la costa meridionale dell'isola, individuando un luogo adatto a un insediamento presso la foce di quello che credeva un fiume, da lui battezzato Dourga dal nome della sua nave. Temendo di essere preceduto dai britannici - molto attivi nel Sud est asiatico, come dimostra la fondazione di Singapore - nel 1828, il governatore delle Molucche, Pieter Merkus, sollecitò il governo olandese a inviare una spedizione che creasse un avamposto e prendesse possesso formale della parte occidentale della grande isola (fino al 141 meridiano est, secondo l'accordo spartitorio con la Gran Bretagna). L'ultimo giorno del 1827 il re diede la sua autorizzazione all'invio di un piccolo corpo di spedizione, al comando dal Luogotenente C.J. Boers, nominato Commissario generale delle Indie olandesi. Anche ai nostri naturalisti venne ordinato di unirsi alla missione. A Macklot, Müller e van Oort si aggiunsero van Raalten (che avrebbe coadiuvato Müller come tassidermista e van Oort come disegnatore) e Alexander Zippelius. Quest'ultimo era uno dei giardinieri di Bogor e aveva una certa esperienza di lavoro sul campo, avendo erborizzato con i suoi colleghi e avendo accompagnato più volte Blume. Divenne così il botanico della spedizione. Alla fine di febbraio 1828, insieme a Boers, il gruppo si imbarcò sul mercantile Minerva. Partiti da Batavia, raggiunsero Makassar, nell'isola di Celebes, dove si imbarcarono sulla corvetta Triton, che li portò Ambon, nelle Molucche, tappa di partenza della spedizione vera e propria. Con la scorta della goletta Isis, la Triton partì da Ambon il 21 aprile 1828; a bordo, poche decine di soldati, tra europei e indonesiani (questi ultimi erano accompagnati da mogli e figli) e dieci lavoratori forzati giavanesi. Facendo rotta per le isole Banda e Aru, puntarono direttamente alla supposta "foce del Dourga", dove secondo gli ordini del governatore intendevano creare una base militare. La raggiunsero dopo circa un mese, scoprendo che il luogo non era adatto: era basso, paludoso, soggetto ad allagamenti; l'interno era una foresta impenetrabile; l'acqua scarseggiava; l'atmosfera era così nebbiosa e densa di umidità che qualcuno la paragonò una tazza di zuppa di piselli; subirono anche un attacco di nativi. Decisero così di lasciare il fiume Dourga (in realtà, lo stretto di Muli che separa l'isola di Yos Sudarso dalla Nuova Guinea) per cercare un luogo più adatto risalendo la costa verso nord ovest. Dopo aver scartato per una ragione o l'altra altri siti, solo all'inizio di giugno fu individuata una piccola baia protetta (che venne immediatamente ribattezzata Triton Bay), nella regione del Lobo a est dell'attuale città di Kaimana. Qui gli olandesi costruirono un forte (Fort du Bus) e il 14 agosto 1828, compleanno del re, piantarono la bandiera nazionale, prendendo formalmente possesso della costa sud occidentale della Nuova Guinea a nome del sovrano. Intanto, però, le malattie tropicali dilagavano; già erano morti 20 membri dell'equipaggio e molti altri erano ammalati. Il 29 agosto la Triton lasciò il piccolo avamposto (che sarebbe vissuto stentatamente fino al 1835, per poi essere abbandonato), trasferendo all'ospedale di Ambon i numerosi malati, tra i quali i nostri naturalisti. Quando, circa un mese dopo, la Triton ripartì per Giava, si erano ripresi abbastanza da imbarcarsi, ma chiesero di essere sbarcati a Kupang, nell'isola di Timor, dove intendevano proseguire le ricerche. Fallita sul piano politico, la spedizione del Triton fu importante per i risultati scientifici: le rilevazioni dei cartografi fornirono la prima mappatura della costa sud occidentale della Nuova Guinea; nei tre mesi trascorsi nel Lobo, i naturalisti misero insieme una imponente collezione di oggetti etnografici, minerali, animali, piante, disegni. Particolarmente rilevanti i risultati zoologici; tra l'altro, Macklot e Müller furono i primi scienziati a vedere dal vivo e a descrivere i canguri arboricoli, descrivendo il nuovo genere Dendrolagus. Ma anche Zippelius non perse tempo: le sue raccolte ammontarono a 4000 esemplari di 500 specie diverse, tra cui 600 crittogame. Anche Timor era praticamente sconosciuta agli scienziati occidentali. Qui i membri della Natuurkundige Commissie si trattennero per circa un anno, spostandosi inizialmente verso est fino a Manikie e soggiornando a Babao e Pariti. Ma a dicembre, in seguito alla malaria contratta in Nuova Guinea, Zippelius morì. Sfortunato in vita (tuttavia la morte in giovane età fu sorte comune anche dei suoi compagni, ad eccezione del solo Müller), lo fu ancora di più dopo la morte. Quest'uomo taciturno e solerte, forse mai davvero integrato nel gruppo dei giovani naturalisti, legati tra loro da rapporti di amicizia cameratesca, era un grande lavoratore e un botanico dotato; non solo mise insieme una raccolta imponente, ma le sue note manoscritte brillano per l'esattezza delle descrizioni e la capacità di collocare le piante nel loro ambiente naturale. Eppure non ebbe il riconoscimento che avrebbe meritato come pioniere dello studio della flora della Nuova Guinea; i manoscritti inizialmente andarono perduti, e solo una ventina di anni dopo finirono in possesso del medico P. Bleeker, che li presentò alla Società di Storia naturale di Batavia, la quale ne curò l'invio all'Erbario nazionale di Leida, dove, secondo gli accordi, Blume avrebbe dovuto assicurarne la pubblicazione; questo non avvenne mai, mentre i materiali di Zippelius vennero utilizzati da altri studiosi, incluso lo stesso Blume. Una sintesi delle poche notizie su di lui nella sezione biografie. Ma torniamo ai nostri naturalisti. Essi continuarono ad esplorare l'area di Pariti, facendo diverse escursioni sulle montagne circostanti. Ad aprile, durante uno spostamento in barca, si spense anche van Raalten; Macklot lo seppellì amorevolmente sulla spiaggia di Oecusse, a Timor Est. Membro e unico superstite della prima Natuurkundige Commissie, inizialmente come tassidermista, era diventato un bravissimo pittore, i cui disegni sono ora conservati al Naturalis Biodiversity Center di Leida. Dopo la sua morte, Macklot, Müller e van Oort si spinsero nell'interno di Timor, visitando larga parte delle regioni sudoccidentali e settentrionali. Non avevano più con loro un botanico, e le loro ricerche si rivolsero soprattutto alla fauna, con importanti scoperte zoologiche, tra cui il pitone acquatico di Timor, detto anche pitone di Macklot (Liasis macklotii). Alla fine del 1830 gli amici tornarono quindi a Giava; nel 1831 esplorarono ancora insieme la costa nord e a luglio scalarono il monte Salak. Nel maggio 1832 Macklot si trovava nel distretto di Krawang, a Purwakarta, quando scoppiò una rivolta dei cinesi che diedero fuoco a tutte le case degli europei; nell'incendio andarono perduti i manoscritti di Macklot stesso e di Boie, che egli aveva religiosamente conservato per cinque anni. Furioso, il naturalista si unì alle forze che cercavano di ristabilire l'ordine, e pochi giorni dopo venne ucciso. Quanto a van Oort e Müller (l'unico a sopravvivere e a rivedere l'Europa), li ritroveremo in una prossima avventura. La poco nota Zippelia Macklot, l'ho già anticipato, pur essendo originariamente un farmacista poi diventato chirurgo, era soprattutto uno zoologo; lo ricordano i nomi specifici di diversi animali; tra gli altri, oltre il già citato Liasis macklotii, diversi uccelli (Pitta macklotii, Erythropitta macklotii), il pipistrello Acerodon macklotii. Nel 1847 Korthals (lo conosceremo molto presto) gli dedicò il genere Macklottia (oggi confluito in Leptospermum, famiglia Myrtaceae). A onorare Alexander Zippelius con il genere Zippelia fu invece Blume, nel 1830 (tuttavia, non pubblicandone i manoscritti lo condannò al quasi oblio); a ricordare lo sfortunato giardiniere-botanico sono anche i nomi specifici zippelianus, zippelii (che designano almeno una ventina di specie, a riprova dell'importanza del suo contributo). Zippelia, della famiglia Piperaceae, è un genere monotipico, rappresentato dall'unica specie Z. begoniifolia. E' molto affine al genere Piper (sotto il quale a volte è stata trattata), ma ne differisce per il numero di cromosomi e per il frutto con peli barbati, unico nella famiglia. E' un'erbacea perenne o un suffrutice eretto, che cresce nel sottobosco delle foreste tropicali, in una vasta area che comprende la Cina (Guangxi, Hainan, Yunnan), il Vietnam, il Laos, la Malaysia, diverse isole indonesiane (Giava, Sumatra e Borneo), le Filippine. Genere poco noto, anche se le foglie sono ricche di oli essenziali, non se ne conoscono usi particolari. Qualche informazione in più nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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