Quanti personaggi diversi è stato Joseph Pitton de Tournefort, il più importante botanico francese del Seicento! Seminarista scavezzacollo che scala muri per "rubare" piante; viaggiatore intrepido che sfida gli elementi, i briganti, fatiche di ogni genere, percorrendo le strade della Francia, della penisola iberica e le rotte del Levante; a soli 27 anni, professore carismatico di botanica al Jardin des plantes, forse il primo botanico professionista della storia; teorico e creatore del più diffuso sistema tassonomico prelinneano; autore rinomato per la chiarezza delle sue descrizioni, che impose definitivamente il concetto di genere; vittima di un incidente tragico che anticipa la sorte di Pierre Curie. E, ovviamente, dedicatario del linneano genere Tournefortia. Le trasformazioni del Giamburrasca della botanica Basta osservare i ritratti di Joseph Pitton de Tournefort per capire che ci troviamo di fronte a uno spirito anticonformista. In un'epoca in cui Luigi XIV aveva imposto a cortigiani e funzionari pompose parrucche e abolito barba e baffi, ostenta corti capelli ricciuti, baffi e una barba che, in alcune versioni che lo ritraggono al ritorno del viaggio in Levante, si allunga a ventaglio fino a metà petto. Non aveva paura di sfidare le convenzioni, come non aveva esitato a affrontare la verga paterna, i banditi dei Pirenei o i disagi di un viaggio dal porto di Marsiglia alle pendici dell'Ararat. Come cadetto di una famiglia della nobiltà di toga di scarse fortune, il padre lo destina al sacerdozio. Tuttavia, alle lezioni di latino e teologia impartite nel seminario dei gesuiti di Aix, sua città natale, Joseph preferisce di gran lunga la botanica, cui è stato iniziato dal farmacista Jacques Daumas. Grazie a quest'ultimo, trova un compagno di avventure in un altro allievo del collegio, di poco più giovane, Pierre Garidel. Da solo o con l'amico, sfidando le punizioni paterne marina le lezioni per battere la campagna alla ricerca di nuove piante, senza farsi intimorire da recinzioni, staccionate e muri. Un bel giorno il nostro Giamburrasca della botanica, scambiato per un ladro mentre scavalca il muro di un frutteto, viene preso a sassate dai contadini. Altrettanto proibita è la sua passione per Cartesio, un autore considerato poco ortodosso, che studia di straforo nella biblioteca paterna. Nel 1676, la morte del padre lo libera da una carriera ecclesiastica senza vocazione. Ma prima di iniziare studi seri, per festeggiare la liberazione, parte con Garidel per la prima delle sue lunghe scorribande botaniche. Sul loro cammino incontrano un altro appassionato, il frate minimo Charles Plumier, che diverrà ben presto il loro mentore e li accompagnerà nelle montagne del Delfinato e in Savoia. Nel 1679 Pitton va a studiare medicina, anatomia e botanica a Montpellier, dove rimane due anni e si lega con Pierre Magnol. Ma allo studio libresco preferisce l'esplorazione sul campo: percorre la Linguadoca, poi i Pirenei e la Spagna, che visiterà a più riprese tra il 1681 e il 1689. Nel corso di questi viaggi, compiuti ora da solo, ora con altri studiosi spagnoli e francesi, affronta disagi e pericoli di ogni tipo: rimane sepolto dal crollo del tetto di una baita, prima di essere tratto in salvo dai paesani; più volte, incontra i banditi che infestano la regione. Per non farsi derubare, nasconde il poco denaro che porta con sé in una pagnotta di pane nero, rustico e ben poco appetibile (in seguito dirà che il cibo pessimo era stato una prova peggiore dei briganti di strada). Ma intanto la sua fama di botanico ha raggiunto Parigi, e Guy Fagon, all'epoca medico della regina, lo chiama nella capitale ad assumere la cattedra di botanica al Jardin des Plantes. E' un insegnante carismatico, che richiama allievi non solo dalla Francia, ma dall'intera Europa; tra di essi, i britannici Hans Sloane e William Sherard. Non per questo cessa di viaggiare: nei mesi estivi torna in Spagna, va in Portogallo, poi in Olanda (qui gli viene offerta una cattedra alla prestigiosa università di Leida, che rifiuta) e in Inghilterra. Viaggia per studio, ma anche per incarico del re, che, impressionato dalla sua sapienza botanica, gli chiede di raccogliere esemplari per arricchire il Jardin des plantes. Intanto Tournefort progetta la stesura di una Histoire naturelles des plantes, catalogo monumentale di tutte le specie conosciute. Per incoraggiarlo in questo intento, il cancelliere Pontchartrain e suo nipote, l'abate Bignon, ne favoriscono la nomina all'Accademia delle scienze (1690); è la prima volta che questo onore tocca a un botanico, per altro privo della prescritta laurea in medicina. Per evitare di creare un precedente, Tournefort ritorna sui banchi e in due anni consegue la laurea. Il sistema di Tournefort Nel 1694 l'Accademia abbandona il costoso progetto dell'Histoire naturelle; Tournefort ripiega su un'opera più breve, destinata ai suoi studenti: Elemens de botanique ou méthode pour connaitre les plantes; proprio come l'ammirato Discours de la méthode di Cartesio, è scritto in francese, con una scelta rivoluzionaria che allarga il pubblico anche ai semplici appassionati. Corredata da 451 ottime tavole disegnate da Claude Aubriet e caratterizzata da uno stile limpido, veramente cartesiano, l'opera ottiene un enorme successo, che spinge Tournefort a tradurlo egli stesso in latino per metterlo disposizione degli studiosi europei; con il titolo Institutiones rei herbariae l'edizione latina esce a partire dal 1700. In queste opere Tournefort espone il suo sistema di classificazione delle piante, il più diffuso prima di quello di Linneo. Proprio come quest'ultimo, si tratta di un sistema artificiale, che non pretende di ricostruire l'ordine naturale del mondo vegetale (cui mirava il contemporaneo John Ray, che del sistema di Tournefort fu uno dei maggiori critici) ma di offrire un metodo "chiaro e distinto" per riconoscere e classificare le piante. Assumendo come criterio di classificazione principalmente la struttura della corolla e del frutto, il botanico provenzale descrive più di 10000 piante, raggruppandole in 22 "classi" e in 698 generi. Proprio la precisa definizione di genere (un concetto non nuovo, ma fino ad allora mai utilizzato in modo così chiaro e sistematico) è il maggiore merito di un sistema che, comunque, per la sua chiarezza e semplicità ottenne grande successo, imponendosi anche in altri paesi. Nello stesso 1694, Tournefort che ormai è il vero direttore scientifico del Jardin des plantes (Fagon, ormai divenuto primo medico del re e intendente, gli lascia mano libera), fa ripiantare le parcelle didattiche dell'orto in base al proprio sistema (che continuerà ad essere usato al Jardin des plantes fino al 1773, ovvero ancora vent'anni dopo l'uscita di Species plantarum di Linneo). Ormai il destino dell'irrequieto botanico viaggiatore sembrerebbe quello di un tranquillo accademico: ma nel 1700, su proposta di Pontchartrain, riceve l'ordine del re di partire per il Levante. Ha 44 anni, una solida posizione accademica, ma come potrebbe rifiutare un ordine del re, tanto più che risponde ai suoi più profondi desideri? E così si rimette in viaggio. Ma questa è una storia così bella che merita un post tutto per sé. Dopo due anni avventurosi, Tournefort è di nuovo a casa, con un immenso bottino. Pubblica un supplemento agli Elements aggiungendo le specie raccolte in Levante (una conferma del suo sistema, perché le nuove specie vanno tutte a inserirsi nei generi già determinati). Nel 1706 ottiene la cattedra di medicina e botanica al Collège royal; intanto attende alla revisione del resoconto del viaggio in Levante (uno dei libri di viaggio più belli e tuttora appassionanti del secolo). Ma dopo tanti viaggi, tante avventure, il destino lo attende a pochi passi dal Jardin des plantes: mentre vi si reca, viene urtato violentemente da un carretto che lo schiaccia contro un muro; perde moltissimo sangue e, dopo qualche mese di sofferenza, si spegne a 52 anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La sfuggente Tournefortia Nel 1700, in Institutiones rei herbariae, Tournefort aveva reso omaggio all'amico e maestro Plumier dedicandogli il genere Plumeria. Nel 1703, il frate ricambiò il favore, battezzando Pittonia uno dei nuovi generi scoperti nei suoi viaggi nelle Antille. La dedica fu accolta da Linneo in Species plantarum (1753) che tuttavia mutò il nome in Tournefortia, facendo notare che se in Francia il botanico provenzale era noto anche con il cognome, all'estero tutti lo conoscevano con il titolo nobiliare. Tournefortia è un grande genere della famiglia Boraginaceae (o Heliotropiaceae, secondo proposte recenti), affine ad Heliotropium; a quest'ultimo tradizionalmente vengono assegnate le specie erbacee, mentre a Tournefortia le specie arbustive e i rampicanti legnosi. Una distinzione semplice, di evidenza cartesiana, ma purtroppo semplicistica, che negli ultimi anni è stata messa in discussione dalle ricerche basate sul DNA. Allo stato attuale (molto rimane da chiarire) a Tournefortia sono assegnate 100-150 specie di arbusti, alberelli e rampicanti legnosi per lo più neotropicali (dagli Stati Uniti meridionali fino al Perù); a distinguerlo da Heliotropium, più ancora che il portamento, sono l'habitat (le foreste aride per Tournefortia, le zone aride aperte e per lo più sabbiose per Heliotropium), alcune particolarità dei fiori, le infiorescenze sparse e non allargate, e soprattutto i frutti, drupe che non si dividono in mericarpi. Come non di rado avviene, le specie più note sono ora transitate in altri generi: la più diffusa, T. argentea, è ora Helitropium fortherianum. Nonostante qualche incertezza, la maggior parte delle fonti continua ad assegnargli T. gnaphalodes, un arbusto dal portamento espanso delle aree costiere della Florida e delle Antille, noto come lavanda di mare. Tra le specie più comuni T. hirsutissima, una liana ricoperta di una densa peluria che si arrampica sugli alberi delle foreste aride, diffusa in Florida, Messico, America centrale, Venezuela, Perù e Bolivia. Qualche informazione in più nella scheda.
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Questa storia inizia come una fiaba. C'è un bambino nato in orto botanico creato dalla mente e dal cuore di un vecchio zio; c'è un giovanotto che si impegna per risollevare l'orto della sua infanzia dalle ingiurie degli uomini e della storia; c'è un uomo maturo che con sagacia e intelligenza trova i collaboratori giusti per trasformare quel giardino nell'istituzione scientifica più importante del mondo; c'è un vecchio che, ormai ritiratosi dalle glorie e dagli affanni del mondo, nel suo giardino chiude gli occhi in pace. Quel bambino, quel giovanotto, quell'uomo, quel vecchio, sono la stessa persona: Guy-Crescent Fagon, il medico del Re Sole, il vero fondatore della reputazione scientifica del Jardin des Plantes di Parigi. Il giardino del destino Nel 1637, le frenetiche attività di Guy de la Brosse per allestire il tanto sospirato Jardin royal des plantes médicinales di Parigi, sono momentaneamente interrotte da una lieta circostanza: il matrimonio di sua nipote Louise con Henri Fagon, commissario ordinario della guerra. Un anno dopo, proprio nell'appartamento assegnato all'intendente, alla coppia nasce un bambino, il piccolo Guy-Crescent (il nome è un omaggio allo zio Guy, suo padrino). Il padre è spesso lontano per le incombenze del suo ufficio, così il bambino cresce nel Jardin e secondo Fontenelle (che di Fagon, molti anni dopo, scriverà l'elogio funebre) "i primi oggetti che vide furono le piante, le prime parole che balbettò furono nomi di piante; la lingua della botanica fu la sua lingua materna". Ma, come sappiamo dai tempi di Adamo ed Eva, dai giardini dell'Eden si viene sempre cacciati; quando Guy-Crescent ha solo quattro anni, il prozio muore e per il giardino inizia il periodo delle dispute legali e della trascuratezza (se ne è parlato in questo post). Quanto a Guy-Crescent, ha un solo sogno: diventare medico e studiare botanica, in modo da poter tornare nel suo giardino per farlo rivivere. Anche se rimane presto orfano di padre, si impegna con tenacia per riuscirci. E' uno studente brillante e dalle idee innovative che nel 1664 si laurea all'Università di Parigi con una tesi audace in cui sostiene le idee di Harvey sulla circolazione del sangue. Ha una solida reputazione sia come medico sia come botanico. E' dunque a lui che pensa Antoine Vallot, nuovo primo medico del re e sovrintendente del Jardin, per ripopolare le aiuole del giardino svuotate da tanti anni di abbandono. Facciamo un passo indietro: nel 1652, Antoine Vallot, medico della regina madre Anna d'Austria, succede come primo medico del re (l'adolescente Luigi XIV) a François Vautier; tra le incombenze della sua carica, gli spetta di diritto - ormai risolte le questioni legali con Bouvard - la sovrintendenza del Jardin. Trova una situazione desolante, nonostante lo zelo del dimostatore Vespasien Robin. Nel 1663, alla morte di questi, nomina a succedergli un altro valido botanico, Denis Joncquet, e lo invia a Montpellier a incontrare Pierre Magnol per chiedergli lumi su come ristrutturare l'orto parigino. Joncquet è entusiasta sia dei consigli ricevuti da Magnol sia della lussureggiante natura del Sud, che potrà offrire molti esemplari per ripopolare il giardino. E qui torna in scena il nostro Fagon. Su richiesta di Vallot, Fagon parte per la Linguadoca. Va a Montepellier, dove conosce Magnol (i due sono coetanei, come del resto lo è il re Sole, essendo tutti e tre nati nel 1638) e stringe con lui una fervida amicizia. E poi - a sue spese, anche se non è ricco - incomincia a esplorare la Provenza, l'Alvernia, le Alpi e i Pirenei, dove raccoglie un ricchissimo bottino di piante; è una raccolta storicamente importantissima, perché getta le basi di quello che sarà il glorioso Herbier national, il grande erbario nazionale francese ancora oggi custodito nel Museo di storia naturale di Parigi. Altre piante arriveranno nei mesi e negli anni successivi tramite una rete di viaggiatori e raccoglitori che Fagon contribuisce a creare, anche grazie ai contatti di Magnol. Il giardino rinasce ed è ora di presentare i risultati al re. Vallot chiede a Jonquet di scriverne il catalogo, che uscirà nel 1665 con il titolo Hortus Regius, in cui si descrivono circa 4000 piante. La maggior parte di quelle descrizioni sono redatte da Fagon, che all'epoca è dimostratore supplente di chimica. Nel 1670 diventa anche sottodimostratore di botanica (colui a cui era affidato l'insegnamento pratico della botanica "dimostrando" le piante vive e essiccate agli studenti); l'anno successivo, alla morte di Joncquet, diventa dimostratore, ovvero professore titolare della cattedra di botanica, cui nel 1672 aggiunge la cattedra di chimica. Il suo insegnamento, con aperture a tutto campo anche alla zoologia e alla mineralogia, attira un vasto pubblico, gettando le basi per la reputazione scientifica dell'istituzione parigina. Nonostante l'aspetto fisico assai infelice - un volto grottesco, gobbo, magrissimo - è un abilissimo oratore, oltre che uno studioso preparato e aperto alle novità. Un grande sovrintendente per il giardino del Re Sole Intanto prosegue la sua carriera come medico. Tra il 1666 e il 1667 esercita all'Hotel-Dieu, dal 1668 diventa uno dei medici della corte, occupando posti sempre più prestigiosi (è medico della delfina, poi della regina e degli Enfants de France, ovvero i numerosi figli naturali del re). Ma per prendere il bastone del comando nel Jardin des Plantes deve diventare primo medico. A dire la verità, alla morte di Vallot (1671), Colbert, che ne giudicava la gestione fiacca e trascurata, aveva sottratto la sovrintendenza del Jardin des plantes all'archiatra Antoine d'Aquin, legandola alla sovrintendenza degli edifici reali, che amministrava lui stesso come Controllore generale delle finanze: segno dell'importanza economica che ormai si assegnava alla coltivazione delle piante esotiche, medicinali e no. A d'Aquin era rimasto il titolo di intendente, costringendo Fagon a una mal sopportata convivenza (in teoria era il suo capo). Abile come cortigiano non meno che come medico, Guy-Crescent sa usare le armi dell'intrigo; la carta vincente è la protezione di Mme de Maintenon, che lo ha conosciuto e apprezzato quando era ancora la governante dei figli illegittimi del re. Fagon non perde occasione per denunciare l'incompetenza professionale del rivale; molto più tradizionalista di lui, questi rifiuta la radice di Chincona, che invece Fagon sostiene e che il re stesso apprezza, come efficace rimedio contro il paludismo che ha contratto quando combatteva nelle Fiandre. Si aggiunga la insopportabile avidità di d'Aquin, che irrita il re con la sua continua richiesta di prebende per sé e i propri familiari. Auspice la potentissima favorita, nel 1693 il re allontana d'Aquin e nomina Fagon primo medico, assegnandogli anche l'intendenza del Jardin royal; nel 1699 egli otterrà anche il titolo di sovrintendente (anzi, da questo momento cessa la bipartizione tra intendente e sovrintendente: d'ora in avanti il direttore dell'orto botanico di Parigi sarà unico). L'ambizione di Fagon, degna del suo illustre paziente, è una sola: fare del Jardin des plantes l'orto botanico e il centro di studi naturalistici più importante del mondo. Un obiettivo che raggiunge attraverso due mosse vincenti. Da una parte Fagon, che sa delegare, si circonda di brillanti scienziati che confermeranno una volta per tutte il primato del Jardin nel campo degli studi della natura: fa venire da Aix il più importante botanico dell'epoca, Joseph Pitton de Tournefort, suo supplente alla cattedra di botanica e direttore di fatto dell'orto botanico; alla morte di questi, chiamerà da Lione Antoine de Jussieu, capostipite di una dinastia di botanici che dominerà il Jardin des plantes per tutto il Settecento. Dall'altra parte, Fagon promuove grandi spedizioni naturalistiche, soprattutto alla ricerca di piante medicinali (nella sua concezione, la botanica non si era ancora del tutto affrancata dalla medicina): i tre viaggi di Plumier nelle Antille; la sfortunata spedizione di Lippi in Egitto e nel Sudan; la spedizione dello stesso Tournefort in Levante; il viaggio di Feuillée nelle Antille e in Sud America; il viaggio in Spagna dei fratelli Jussieu. Il giardino viene dotato di due serre e la "butte Coypeu" si trasforma in un arboretum, che sarà il celebre labirinto del Jardin des plantes. Nel 1715, alla morte di Luigi XIV, che lo segna profondamente (il suo rapporto con il sovrano andò ben al di là della pura prestazione professionale), si ritira nel piccolo appartamento che spetta al sovrintendente nel Jardin, dove morirà nel 1718, a ottant'anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La discontinua Fagonia Sia Tournefort sia Plumier vollero rendere omaggio al loro protettore e al grande organizzatore della botanica francese dedicandogli un genere: Tournefort Fagonia, sulla base di una pianta da lui raccolta a Creta; Plumier Guidonia, sulla base di diverse specie delle Antille. Oggi quest'ultimo non esiste più: soppresso da Linneo e recuperato da Philip Miller (che volle dedicarlo insieme ai due Guidi: Guy de la Brosse e Guy Crescent Fagon), fin dall'Ottocento è stato suddiviso tra vari generi della famiglia Salicaceae. Ma prima di tornare a Fagonia, ben vivo e ufficializzato da Linneo nel 1753 in Species plantarum, un cenno ad altri due generi obsoleti, che in passato hanno celebrato altrettante comparse di questa storia, Denis Joncquet e Antoine Vallot. A Denis Joncquet, interessante botanico che tra l'altro creò un proprio giardino privato, ricchissimo di piante, che metteva a libera disposizione degli studenti della facoltà di medicina, nel 1789 il tedesco von Schreber dedicò Joncquetia (sinonimo di Tapirira, famiglia Anacardiaceae). A Vallot toccò invece la sudafricana Vallota, dedicatagli da Salisbury nel 1821. Anche questo genere non è più valido, anche se molti ancora conoscono con il nome di Vallota speciosa la bellissima Amaryllidacea che oggi porta la più infelice etichetta di Cyrthantus elatus. Ma è ora di parlare di Fagonia (famiglia Zygophyllaceae), un genere di 34-35 erbacee, suffrutici e arbusti delle zone aride, con una interessante distribuzione discontinua. Distribuito nella fascia temperata calda e subtropicale di quattro continenti, è un genere essenzialmente del Vecchio mondo (26 specie vivono tra Africa, Mediterraneo, Asia, soprattutto in un'ampia fascia che, partendo dalle Canarie, attraverso il Nord Africa, il Medio Oriente e la penisola arabica, raggiunge l'India nord-occidentale), ma con rappresentanti isolati nell'America occidentale (Stati Uniti sud-occidentali e Messico nord-occidentale; ma anche i Perù e Cile). La specie più occidentale del Vecchio mondo, F. cretica - propria quella descritta da Tournefort - è un semi arbusto eretto o prostrato, con caratteristici rami angolati e corte stipole semi-spinose, con graziosi fiori ascellari con cinque petali azzurro-purpurei. Ha un aerale assai vasto che si estende dalle Canarie al Nord Africa a occidente dell'Egitto; unica specie europea, è presente in una stazione isolata in Portogallo, nella Spagna meridionale (Alicante), in molte isole mediterranee (Baleari, Malta, Cipro e, ovviamente, Creta), ma anche in Italia. In passato è stata segnalata in Sicilia; oggi se ne conoscono solo sei stazioni, vicine tra loro, presso Melito Porto Santo in Calabria. Diverse specie di Fagonia (in particolare F. arabica e F. indica) sono note per il loro uso officinale nella medicina tradizionale; studi recenti ne hanno confermato l'importante azione antiossidante, che appare promettente nella prevenzione e nella cura di molte gravi patologie. Qualche approfondimento nella scheda. Oggi il Jardin des plantes di Parigi è il maggiore orto botanico di Francia e il cuore pulsante del Museo nazionale di storia naturale. Eppure i suoi esordi furono tardivi e difficili: aperto al pubblico quasi mezzo secolo dopo l'orto di Montpellier, la sua nascita si deve alla congiunzione tra la caparbietà del suo fondatore, Guy de La Brosse, la benevolenza dei medici di corte, in particolare l'archiatra Charles Bouvard, la volontà della corona di indebolire i corpi intermedi (in questo caso, la potente Università di Parigi). Ricordato dalla toponomastica del quartiere dove sorge il Jardin, de La Brosse non è celebrato da alcun nome di genere valido, al contrario di Bouvard, eponimo del grazioso genere Bouvardia. La Brosse e la battaglia per il Giardino Nonostante le prime proposte di fondare anche a Parigi un orto botanico siano contemporanee alla creazione del giardino di Montpellier (1593), rimasero lettera morta, forse per la morte di Enrico IV, poi per la minore età di Luigi XIII. Dopo che era stato chiuso anche il piccolo giardino della facoltà di medicina per far posto alla costruzione di un teatro anatomico, il botanico e giardiniere Jean Robin, che lo gestiva, presentò al re la sua Request au Roy pour l'establissement d'un Jardin royal en l'Université ("Richiesta al re per la creazione di un giardino reale nell'Università"). La proposta fu immediatamente fatta propria da Guy de la Brosse, "medico ordinario del re", ma su tutt'altre basi. Egli puntava a un luogo dove le piante si potessero studiare tanto dall' "esterno" (cioè nella loro morfologia) quanto dall' "interno" (cioè nelle loro proprietà farmaceutiche e chimiche), sulla base del metodo sperimentale; un'istituzione del genere doveva essere indipendente dall'Università. La facoltà di medicina parigina era infatti la roccaforte dei tradizionalisti, grandi sostenitori dei salassi e delle purghe e nemici giurati dei "botanici" di Montpellier, la facoltà rivale che sfornava medici più aggiornati e spesso più apprezzati dalla clientela titolata. Vi si erano formati anche molti medici di corte, compreso Jean Héroard, l'archiatra o primo medico del re, che vide subito con favore la richiesta di la Brosse. Favore condiviso dal cardinale Richelieu, per ragioni eminentemente politiche: la creazione di un Jardin royal, finanziato e gestito dalla corona, oltre a dare lustro alla capitale, avrebbe eroso il potere dell'Università, sottraendogli il controllo dei farmacisti, che sarebbe passato al sovrintendente del nuovo giardino, da cui si attendeva che rifornisse le farmacie delle regione anche di quelle piante esotiche spesso avversate dalla facoltà. Nel gennaio 1626, Guy de la Brosse ottenne una prima vittoria, ovvero una lettera patente del re che stabiliva la creazione di un "giardino delle piante medicinali" in un sobborgo parigino, affidandone la sovrintendenza a Héroard. Tuttavia quest'ultimo morì nel 1628, durante l'assedio della Rochelle. A sostituirlo fu nominato Charles Bouvard, un medico che si era laureato e insegnava proprio all'Università di Parigi. Ma se quest'ultima aveva sperato di trovare in lui un alleato, fu presto delusa: forse in modo non del tutto disinteressato, Bouvard si schierò dalla parte di La Brosse. La creazione di un orto botanico reale, finanziato dalla corona, rafforzava infatti il potere del primo medico del re, che ne sarebbe diventato sovrintendente (un incarico di natura essenzialmente politica), mentre La Brosse ne assumeva la direzione scientifica, con il titolo di intendente. Ma l'università non demordeva e riuscì a bloccare il progetto per qualche anno. Solo nel 1633 Guy de la Brosse poté acquistare un vasto terreno nel faubourg Saint-Victor, nei pressi dell'abbazia omonima. Nel 1635 giunse anche il decreto reale che istituiva il Jardin royal des plantes médicinales, stabilendo che vi si sarebbero studiate le piante e le loro proprietà medicinali; a tal fine si istituirono tre cattedre (materia medica, ovvero botanica farmaceutica, chimica, anatomia), affidate a altrettanti "dimostratori", assistiti da un sottodimostatore, che avrebbe insegnato a riconoscere le piante a partire dagli esemplari coltivati nelle parcelle del giardino. Il primo fu Vespasien Robin, già "arboriste" del re e esperto giardiniere. La facoltà cercò allora di impugnare il decreto di fronte alla Corte dei Conti; riuscì solo ad ottenere che la nuova istituzione non potesse assegnare diplomi; svolti in francese anziché in latino, i corsi, che non prevedevano esami, erano aperti a tutti; comprendevano insegnamenti pratici e teorici e accettavano molte novità ancora tabù per la facoltà di medicina ufficiale: la circolazione del sangue di Harvey, medicamenti esotici come la corteccia di Cinchona, i preparati chimici come l'antimonio. Dopo alcuni anni febbrili dedicati alla sua costruzione, il Jardin royal fu finalmente inaugurato al pubblico nel 1640. Collocato nell'area che ancora oggi lo ospita, il giardino comprendeva tra l'altro una collinetta artificiale (il "labirinto") e ospitava migliaia di piante anche esotiche. Guy de la Brosse ne redasse il catalogo, per il quale fece preparare 400 incisioni su rame. Ma nel 1641, forse esausto per la lunga battaglia, moriva ad appena 55 anni. L'opera non uscì mai, e gli eredi vendettero le incisioni a un calderaio (se ne salvarono appena cinquanta). Dispute legali e un giardino trascurato Altre morti illustri seguirono a ruota: nel 1642 il cardinale di Richelieu, nel 1643 il re Luigi XIII. Con la morte del quale, cessava anche il ruolo di archiatra di Bouvard, che avrebbe dunque dovuto lasciare la sovrintendenza del Giardino. Tuttavia si accordò con il nuovo primo medico del re Jacques Cousinot (suo genero) e mantenne l'incarico, mentre suo figlio Michel fin dal 1641 era stato nominato intendente. Nel 1646 tuttavia Cousinot morì e gli succedette come primo medico François Vautier, intenzionato a recuperare la remunerativa carica di sovrintendente. Tra Vautier e Bouvard iniziò una battaglia legale; nel 1647 il Consiglio di Stato si pronunciò a favore di Vautier e "dimise" Michel Bouvard, sostituendolo con lo scozzese William Davidson. Bouvard fece appello al Parlamento parigino; in questa situazione di incertezza, Davidson preferì andarsene in Polonia a curare i giardini della regina Maria Luisa Gonzaga. Ampiamente trascurato, il giardino dovette aspettare la sovrintendenza di Antoine Vallot per risorgere. Ma di questa storia si parlerà in un altro post. Torniamo a Charles Bouvard e ai suoi discutibili meriti botanici, sufficienti tuttavia a spingere il botanico britannico R. A. Salisbury a dedicargli nel 1805 il genere Bouvardia. Un onore che invece non è toccato al ben più meritevole Guy de la Brosse: a dire la verità, Linneo non aveva certo dimenticato il fondatore dell'illustre Jardin des Plantes, e nel 1753 gli aveva dedicato il genere Brossaea. Ma quest'ultimo fu unito a Epigaea da de Candolle (1839), quindi a Gaultheria da Hooker (1876). Oggi è una delle numerosi sezioni del grande genere Gaultheria della famiglia Ericaceae. A ricordare La Brosse una delle strade parigini nei pressi della sua creatura, il Jardin des plantes. Quanto all'intrigante Bouvard, dobbiamo ammettere che non era solo un carrierista e un medico di dubbia abilità (alcuni lo accusano di aver accelerato - o provocato - la morte del suo reale paziente, al quale nei suoi due ultimi anni di vita inflisse 34 salassi, 1200 clisteri e 250 purghe). Secondo la testimonianza dello stesso de Brosse, fu lui a volere le tre cattedre che caratterizzarono il Jardin royal des plantes médicinales come un'istituzione scientifica innovativa. Fu dunque grazie alla sua intuizione che l'insegnamento della botanica venne unito a quello della chimica e dell'anatomia, gettando le basi per quello studio a tutto tondo delle scienze della natura che avrebbe poi caratterizzato fino ai nostri giorni la grande istituzione parigina. Anche grazie a Bouvard, dunque, per la prima volta la botanica, da ancella della medicina, cominciava ad affermarsi come scienza autonoma. Inoltre egli volle dotare il Jardin della sua prima serra calda e elaborò alcune ricette tratte da fiori di uso comune. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Un profumato bouquet di Bouvardia Il genere Bouvardia, della famiglia Rubiaceae, comprende 30-50 specie di erbacee perenni e arbusti sempreverdi, nativi soprattutto del Messico (con qualche rappresentante negli Stati Uniti meridionali e in America centrale). Sono piante estremamente attraenti soprattutto per i lunghi fiori tubolari, solitamente con quattro lobi, talvolta solitari ma più spesso riuniti in dense cime terminali (possono ricordare quelli della più nota e affine Pentas, che tuttavia ha cinque lobi), a seconda della specie rossi, rosa, bianchi, delicatamente profumati. La specie più nota, la messicana Bouvardia longiflora, a lungo è stata soprattutto una pianta da serra, coltivata per la produzione di fiori recisi, grazie alla sua lunga durata - anche due o tre settimane - e alla disponibilità per gran parte dell'anno. I suoi densi e eleganti bouquet di fiori candidi e fragranti sono particolarmente apprezzati dalle spose in sostituzione dei tradizionali fiori d'arancio. Di un vibrante scarlatto è invece B. ternifolia, la specie più diffusa in natura (dall'Arizona all'Honduras, passando per il Messico) che fu anche la prima ad arrivare nelle serre europee (a Kew, nel 1794). Ma oggi, quando si parla di Bouvardia, si fa riferimento soprattutto agli ibridi, immessi sul mercato da meno di vent'anni dagli ibridatori olandesi, interessati alle sue potenzialità anche come pianta da appartamento o da patio; sono meno profumati dei progenitori, ma di più facile coltivazione, e soprattutto offrono una più ricca gamma di colori, che include anche delicate sfumature di crema, pesca, albicocca. Da noi sono soprattutto disponibili come fiori recisi; ma è prevedibile che anche in Italia nei prossimi anni invaderanno i bancali dei Garden center e abbelliranno le nostre case. Qualche informazione in più nella scheda. La carriera accademica di Pierre Magnol, uno dei più grandi botanici del Seicento, decollò solo quando egli aveva abbondantemente superato la cinquantina. Due gli ostacoli: la sua appartenenza alla perseguitata minoranza protestante e una cricca familiare onnipotente che monopolizzava le cattedre e la direzione dell'orto botanico più antico di Francia. Curioso che a questa vittima del familismo si debba il concetto di famiglia botanica. Ma a ricompensarlo con gli interessi c'è la dedica del magnifico genere Magnolia. Una carriera a ostacoli Nella Francia dell'Ancien Régime erano migliaia le magistrature e gli incarichi distribuiti secondo il sistema della venalità delle cariche: si compravano, si vendevano, si ereditavano (previo il versamento di una tassa più o meno modica, la Paulette). A questa prassi, che coinvolgeva magistrati e funzionari, non era estranei neppure gli incarichi scientifici. Fu così che per centocinquant'anni alla testa dell'Orto botanico di Montpellier si succedette un'autentica dinastia. In riconoscimento delle sue benemerenze di fondatore dell'orto, il re aveva concesso a Richer de Belleval di nominare il suo successore come insegnante di botanica all'Università e intendente (cioè direttore) dell'orto; Belleval fece venire un nipote, Martin Richer (1599-1664), che dal 1641, con privilegio regio, divenne anche cancelliere dell'Università. A sua volta, Martin Richer chiamò a succedergli un parente, Michel Chicoyneau (1626-1701), che riuscì a accumulare nelle sue mani le cattedre di anatomia e di botanica e gli incarichi di sovrintendente dell'orto e cancelliere dell'Università. Costui inaugurò una dinastia che si trasmise tutte o alcune di queste funzioni per quattro generazioni, per quasi un secolo, dal 1664 al 1759. I contemporanei hanno descritto Michel come un uomo superbo, imperioso e violento, che svolgeva i suoi compiti senza alcun particolare talento (i suoi talenti andavano tutti agli intrighi e alla capacità di ingraziarsi i potenti, primo fra tutti Antoine Vallot, il medico del re). Eppure uomini competenti, che avrebbero saputo tenere alto l'onore della prestigiosa università e del più antico orto botanico del paese, non mancavano. In quegli anni, il più competente di tutti era proprio un uomo di Montpellier, Pierre Magnol. Figlio di un farmacista, Magnol si era appassionato alla botanica fin da ragazzo e aveva acquisito una competenza eccezionale percorrendo in lungo in largo la Linguadoca e le Cevenne. Fu lui, e non certo l'irrilevante Chicoyneau, a destare l'ammirazione di John Ray durante il suo soggiorno a Montpellier, tra il 1665 e il 1666. A lui si rivolse lo stesso Vallot (di cui pure Chicoyneau era un protetto) quando, desiderando rilanciare il trascurato Jardin du Roy di Parigi, inviò a Montpellier per consultarlo e chiederne l'aiuto prima Denis Jonquet, poi Guy-Crescent Fagon. Il primo fu così entusiasta da convincere Vallot a ottenere per Magnol il titolo di medico del re (del resto, del tutto onorifico: non comportava né uno stipendio né una funzione effettiva). Con il secondo strinse una profonda amicizia, "concimata" dalla comune passione per le piante. Ma alla carriera accademica di Magnol si aggiungeva un altro ostacolo, ben più insuperabile dell'ingombrante Chicoyneau: Magnol era protestante e nella Francia di Luigi XIV non gli era consentito rivestire un incarico pubblico. Nel 1664 egli presentò la sua candidatura a dimostratore dell'orto botanico; fu respinta a causa della sua fede religiosa. Lo stesso avvenne nel 1668, quando, essendosi rese vacante due cattedre alla facoltà di medicina, partecipò al concorso, con le prove più brillanti; questa volta il re stesso pose il veto. Così fu piuttosto come privato che Magnol incominciò ad attirare attorno a sé molti giovani allievi, che seguivano le sue dimostrazioni anche sul campo. Tra di loro, il più celebre è senza dubbio Joseph Pitton de Tournefort, che frequentò la facoltà di medicina tra il 1669 e il 1671 e seguì con entusiasmo l'insegnamento informale di Magnol. Fu per questi allievi che Magnol scrisse una flora dell'area di Montpellier, Botanicum Monspeliense (1676). La revoca dell'editto di Nantes costrinse Magnol, come i suoi correligionari, a una scelta drastica: l'emigrazione o l'abiura. Magnol scelse la seconda. L'anno successivo, arrivò il primo incarico ufficiale: fu nominato dimostratore di botanica come supplente di Michel Chicoyneau, trattenuto a Parigi dagli affari della facoltà. Dopo questa breve parentesi, fu solo nel 1694 che Magnol, grazie ai buoni uffici degli amici Fagon e Pitton de Tournefort, ottenne finalmente una cattedra universitaria (di medicina, non di botanica). Le cattedre di anatomia e botanica, infatti, Chicoyneau, ormai anziano, le teneva in caldo per i suoi figli: nel 1689 era riuscito a far nominare il figlio maggiore, Michel-Amatus, che morì dopo appena un anno; stessa sorte toccò al terzogenito Gasparetus, nominato nel 1691 e morto nel 1693. Rimaneva in vita ancora un figlio, François, che al momento non aveva ancora una preparazione sufficiente per assumere effettivamente i suoi compiti. Chicoyneau padre si rivolse di nuovo a Magnol, che venne nominato supplente Intendente del Giardino per tre anni. Allo scadere del mandato, François Chicoyneau divenne l'intendente in carica - sia detto per inciso, fu una figura ben più degna del padre, un medico di fama che si distinse quando a Montpellier scoppiò la peste e divenne primo medico di Luigi XV - ma di fatto il giardino continuò ad essere gestito da Magnol, che ne venne nominato ispettore a vita. Del resto, era ormai un membro a tutti gli effetti dell'establishment scientifico francese, tanto da essere chiamato nel 1709, alla morte di Tournefort, a sostituirlo all'Accademia delle scienze. Qualche approfondimento sulla sua vita nella sezione biografie. Nasce il concetto di famiglia Durante la sua lunga vita, Magnol pubblicò solo tre opere. La prima fu Botanicum Monspeliense (1676), una flora dei dintorni di Montpellier sul modello del catalogo della flora di Cambridge di John Ray. Vi si descrivono, in ordine alfabetico, circa 1300 specie, buona parte delle quali Magnol aveva raccolto personalmente. Nata per esigenze didattiche, di ogni pianta l'opera indica l'habitat e gli eventuali usi officinali. Fu apprezzata da Linneo che la utilizzò come base per Flora Monspeliensis, dissertazione discussa dal suo allievo Theophilus Erdman Nathorst nel 1756. Più importante nella storia della botanica è Prodromus historiæ generalis plantarum, in quo familiæ per tabulas disponuntur (1689) in cui Magnol sostiene un nuovo metodo di classificazione delle piante e introduce il concetto di famiglia. Analogamente a Ray (che era rimasto tra i suoi numerosi corrispondenti), Magnol respinge le classificazioni basate su un unico carattere; per raggruppare correttamente le piante, bisogna basarsi sull'insieme delle loro caratteristiche (dunque radici, fusti, foglie, fiori, frutti, semi, portamento). Osserva poi che tra le piante si possono notare affinità e parentele e su questa base crea il concetto di famiglia, intesa come un raggruppamento di piante con caratteristiche affini. Nelle tavole accluse all'opera, le piante vengono raggruppate in 76 famiglie, anche se i criteri di classificazione non sono esplicitati e risultano spesso vaghi. Nel 1697, come supplente intendente dell'Orto di Montpellier, Magnol ne pubblicò il catalogo, sotto il titolo Hortus regius monspeliensis (1697), un'opera imponente accompagnata da illustrazioni di ottima fattura, in cui descrisse 2000 piante, adottando come criterio di classificazione non il proprio sistema, ma quello di Tournefort (che rifletteva la disposizione fisica del giardino, in cui le piante erano appunto state riorganizzate in tal modo). Un'ultima opera, Novus character plantarum, uscì postuma nel 1720 a cura del figlio Antoine; Magnol vi rivide il proprio sistema di classificazione, tenendo conto delle osservazioni dei suoi numerosi corrispondenti e stabilendo come carattere principale il calice fiorale. Il sistema fu apprezzato da Linneo che nel suo Classes Plantarum (1738) deplora che abbia trovato pochi seguaci. Magnifiche magnolie Fu un altro botanico del sud della Francia, che con Magnol era in contatto anche attraverso il comune amico Pitton de Tournefort, Charles Plumier, a dedicargli una delle piante da lui scoperte nelle Antille, Magnolia dodecapetala (1703). Il nome fu fatto proprio da William Sheridan, un allievo di Tournefort che lo diffuse in Inghilterra. Linneo lo riprese nella prima edizione di Systema naturae (1735) e lo ufficializzò in Species plantarum (1753). E così, dopo tante vicissitudini e umiliazioni, Magnol ha donato il suo nome a uno degli alberi più belli e amati (un nome straordinariamente eufonico, che non sembra neppure derivato da un cognome). Gloria dei parchi e dei giardini, Magnolia - dopo varie vicende tassonomiche - è oggi un grande genere di oltre 200 specie, uno dei due (l'altro è Liriodendron) della famiglia Magnoliaceae. Dal punto di vista della coltivazione le magnolie si dividono in due grandi gruppi: quelle a foglia caduca, di origine per lo più asiatica, fioriscono all'inizio della primavera; tra le specie più note, M. stellata, M. liliiflora, M. campbellii, e l'ibrido M. x soulangeana. Quelle a foglia persistente, o sempreverdi, sono per lo più americane e fioriscono d'estate; la più nota è M. grandiflora. La storia dell'introduzione di questa specie ora addirittura inflazionata è curiosa e affascinante. Sembra che il primo esemplare a sbarcare in Europa sia arrivato a Nantes nel 1711, per essere piantato nella serra di René Darquistade, sindaco della città, a La Maillardière. Dopo vent'anni, insoddisfatto dello scarso sviluppo della pianta, coltivata rigorosamente in serra, egli decise di disfarsene. La moglie del giardiniere la salvò e convinse il marito a piantarla all'esterno, in un'area riparata. In queste nuove condizioni, la magnolia si sviluppò e regalò una magnifica fioritura. I vivaisti della città la moltiplicarono per margotta e la diffusero nel resto del paese. Quanto alla magnolia di La Maillardière, trascurata e danneggiata durante la rivoluzione, morì intorno al 1848. Naturalmente questa storia è contestata dagli inglesi, che sostengono che le prime magnolie arrivarono invece a Exmouth, in Inghilterra, intorno al 1720, nei giardini di sir John Colliton. La magnolia di Exmouth ebbe vita più breve di quella di Nantes perché, a quanto pare, nel 1794 fu tagliata accidentalmente. Ne è discesa però un'apprezzatissima cultivar a fiori particolarmente grandi, M. grandiflora 'Exmouth'. Questa rivalità e queste storie - a metà tra storia e leggenda - testimoniano la popolarità delle magnolie, come del resto le migliaia di locali,catene di negozi, prodotti di bellezza, case di moda, gruppi musicali, associazioni e ditte di ogni genere che ne portano il nome. Se ne fregiano anche diverse città statunitensi. Magnifiche magnolie. Una bella rivincita per Monsieur Magnol. Come sempre, qualche approfondimento nella scheda. In un sodalizio scientifico, può essere difficile distinguere il contributo dei singoli: si lavora insieme, si discute, le idee nascono, si scambiano, maturano dal confronto reciproco. Quanto deve Linneo all'amico Artedi? oppure L'Obel a Pena? Nel caso di John Ray e Francis Willughby, per secoli nessun dubbio: Ray era il cervello, Willughby il portafoglio. Ma in anni recenti, nuovi documenti hanno dimostrato che forse le cose non stanno proprio così. E, per ironia della sorte, il grandissimo John Ray, padre della classificazione naturale, si vede scippato del genere Rajania, mentre a Willughby resta l'onore del genere Willughbeia. Un maestro carismatico e una passione contagiosa Il nome di John Ray (1627-1705) è uno dei più noti della botanica prelinneana. A lui si deve la prima definizione scientifica di specie, l'introduzione di termini come petalo e pistillo, e soprattutto l'elaborazione di un metodo e di un sistema che ne fanno il fondatore della classificazione naturale degli esseri viventi. Ben meno celebre è il suo allievo Francis Willughby, che di Ray fu anche compagno di viaggio e sopratutto, per molti anni, il mecenate che ne rese possibile gli studi e lo introdusse negli ambienti scientifici londinesi. Francis era l'unico erede di ampi possedimenti nelle Midlands, tra cui la residenza di Middleton Hall; di intelligenza pronta e di interessi enciclopedici, arrivò a Cambridge nel 1657, a 22 anni. Ufficialmente, le uniche materie insegnate erano le lingue e la cultura classica, la filosofia, la teologia e la matematica; Willughby seguì con scrupolo il curriculum previsto, laureandosi nel 1662, ma il suo tutor John Ray - che a sua volta si era avvicinato allo studio delle scienze naturali da pochi anni, da autodidatta - gli trasmise la sua passione e lo coinvolse nelle sue ricerche. Al momento, Ray stava scrivendo la sua prima opera di botanica, Catalogus plantarum circa Cantabrigiam nascentium (1660), ovvero "Catalogo delle piante che nascono nei dintorni di Cambridge", che fu la prima flora regionale pubblicata in Inghilterra. Willughby collaborò alla raccolta di esemplari per il catalogo e seguì gli esperimenti del maestro nel piccolo orto botanico creato da Ray presso la sua residenza al Trinity College. Era intenzione di Ray continuare su questa strada, scrivendo una flora inglese, ma era anche interessato ad altri argomenti, in particolare alla riproduzione degli uccelli. Per raccogliere esemplari per la flora e approfondire le sue ricerche, prese a dedicare le estati a viaggi scientifici nel paese: nell'estate del 1658, da solo aveva, erborizzato in Galles e nelle Midlands; nel 1660, insieme a Willughby, visitò l'Inghilterra settentrionale e l'isola di Man; nel 1661 si spinse in Scozia con un altro allievo, Philip Skippon. Nel viaggio del 1660, Willughby ebbe probabilmente modo di scoprire la sua vera vocazione: più che alla botanica, i suoi interessi andavano alla zoologia, soprattutto agli uccelli e alla fauna marina. Insieme al maestro, fu tra i primi a intuire il fenomeno della migrazione degli uccelli, postulando che le rondini non andassero in letargo, come supponeva Aristotele, ma partissero per climi più miti. Nel 1662, dopo la restaurazione della monarchia, Ray, vicino alle posizioni dei puritani, rifiutò di aderire all'Act di Uniformity e fu costretto a lasciare la carriera universitaria. Da quel momento, per vivere, dovette "confidare nella Provvidenza e nei buoni amici; ma la libertà è una bella cosa!" La Provvidenza assunse il volto di Francis Willughby, che propose al maestro di accompagnarlo in un vero e proprio Grand Tour attraverso l'Europa. Forse i due ci pensavano da tempo: nonostante figure prestigiose come Bacone e Harvey, la scienza inglese era indietro rispetto alle acquisizioni della nuova scienza europea; nel paese non esisteva neppure un orto botanico e in nessuna università era possibile studiare anatomia, botanica o zoologia. Il viaggio durò tre anni e portò maestro ed allievo a visitare molte istituzioni scientifiche importanti, ma soprattutto permise loro di studiare dal vivo una natura multiforme, mettendo insieme vastissime collezioni di piante essiccate, animali, fossili, rocce, reperti naturali, archeologici, etnografici. Chi ha scritto questi libri? A partire da Dover il 18 aprile 1663 furono in quattro: Ray, Skippon, Willughby e il suo amico Nathaniel Bacon. Il gruppo visitò i Paesi Bassi, la Germania e la Svizzera, navigando lungo il Reno, quindi lungo il Danubio da Augusta a Vienna. Da qui, in carrozza, raggiunsero Venezia e Padova, dove Ray seguì lezioni di anatomia; quindi si spostarono a Ferrara e a Bologna, dove visitarono il famoso Teatro della natura di Aldrovandi. Da Parma risalirono a Milano, a Torino, poi riscesero a Sud toccando Lucca e Pisa. Via mare raggiunsero Napoli, dove scalarono il Vesuvio. Qui nella primavera del 1664 si divisero: Willughby si spostò in Spagna, per poi rientrare in Inghilterra, mentre Ray continuava verso sud, in Sicilia e a Malta. Mentre Ray proseguiva il viaggio (sarebbe rientrato in Inghilterra solo nel marzo del 1666, dopo aver visitato anche la Francia), probabilmente Willughby era tornato a casa alla fine del 1664, visto che nel gennaio 1665 lesse una comunicazione sul loro viaggio alla Royal Society, alla quale era stato ammesso nel marzo dell'anno precedente. La Royal Society era allora un'istituzione recentissima, fondata appena nel novembre del 1660. La morte del padre nel dicembre del 1665 aumentò i doveri di Willughby come capo della casata; egli si stabilì nella residenza di Middleton Hall dove, al ritorno dalla Francia, lo raggiunse Ray. Le enormi collezioni raccolte durante il viaggio dovevano essere organizzate e catalogate; questo fu il compito ufficiale affidato a Ray, anche se il ruolo di Willughby non fu semplicemente quello di mecenate, ma di studioso in prima persona. Con l'enorme massa di dati scientifici raccolti, i due amici si proponevano infatti di pubblicare una descrizione sistematica delle piante e degli animali conosciuti; si divisero i compiti: Ray si sarebbe occupato delle prime, Willughby dei secondi. Cedendo alle pressioni delle famiglia, all'inizio del 1668, Willughby si sposò; mentre la madre, Cassandra, vedeva di buon occhio le attività scientifiche del figlio e la presenza di Ray, a quanto pare l'atteggiamento della moglie Emma era meno entusiastico, se non ostile. Quando dal matrimonio nacquero tre figli, Ray fu incaricato della loro educazione, Mente poliedrica e geniale (i suoi manoscritti, dove si mescolano gli argomenti più vari e linee di scrittura si intersecano e si sovrappongono, mettono a dura prova chi cerca di decifrarli), Willughby si occupò contemporaneamente di vari argomenti; nel 1669, insieme a Ray presentò alla Royal Society una memoria sulla circolazione della linfa (Experiments concerning the Motion of Sap in Trees; nel 1667 anche Ray era stato ammesso alla Society, stringendo contatti che sarebbero stati preziosi dopo la morte di Willughby); studiò gli uccelli, i pesci, gli insetti, ma anche argomenti più frivoli, come i giochi. Nel 1672, a soli 37 anni, Willughby morì improvvisamente di pleurite. Lasciava numerosi manoscritti, ma nessuna opera compiuta. Ray, che continuava a percepire una pensione come curatore delle collezioni di Middleton Hall e come precettore dei bambini, sentì il dovere morale di assicurare la pubblicazione delle opere del suo protettore e amico. Nel 1676 uscì, sotto il nome di Willughby, Ornithologia libri tres, tre volumi corredati da splendide (e costose) illustrazioni finanziate dalla vedova Emma. Nel 1687 (quando Emma si era ormai risposata e Ray aveva definitivamente lasciato Middleton Hall) seguì Historia piscium, a spese della Royal Society; l'uscita di questo libro esaurì le risorse dell'istituzione, tanto da costringerla a procrastinare la pubblicazione dei Principia Mathematica di Newton. Ancora più tardi, rispettivamente nel 1705 e nel 1710, materiali di Willughby confluiranno in due opere della vecchiaia di Ray, Methodus insectorum e Historia insectorum. Di queste opere, quanto si deve a Willughby e quanto a Ray? Per secoli, la risposta è stata semplice: il vero autore era Ray che, per affetto e riconoscenza verso l'amico precocemente perduto, con finezza d'animo aveva voluto pubblicare sotto il nome di lui l'Ornithologia e l'Historia piscium. L'accesso agli archivi di Middleton e una lettura più attenta della corrispondenza dei protagonisti hanno invece dimostrato che quei libri sono il frutto delle ricerche di Willughby, e Ray ne può essere considerato quello che dichiarò di essere, cioè il curatore. Emerge anche come l'idea, generalmente attribuita a Ray che la classificazione degli esseri viventi dovesse basarsi sull'insieme delle loro caratteristiche fisiche, e non su un singolo tratto, nacque invece dal lavoro comune di entrambi. Prima che Ray lo applicasse alle piante, questo metodo trovò applicazione nei tre libri sugli uccelli, con i quali nasce l'ornitologia scientifica. Una sintesi della breve vita di Willughby nella sezione biografie. I dolci frutti della Willughbeia Venendo ora ai nostri nomi delle piante, ci troviamo di fronte a un paradosso. Al grande botanico John Ray, la cui gigantesca Historia platantarum (1686-1704) è una delle opere più importanti della botanica prelinneana, non mancò l'omaggio dei successori. A partire da Plumier, gli venne dedicato un genere di Dioscoreaceae, di cui generazioni di botanici si sono divertiti a cambiare la grafia (Janraja, Raya, Rayania, Rajania). Nella forma Rajania, fissata da Linneo nel 1753, questo piccolo genere per oltre 250 anni ha continuato a celebrare il nome di Ray; finché, in anni recentissimi, gli studi filogenetici l'hanno declassato a sinonimo di Dioscorea, di cui costituisce forse una sezione. John Ray, che polemizzava con i botanici del suo tempo che tendevano a moltiplicare le specie senza necessità, e che insisteva che non bisogna operare distinzioni tassonomiche sulla base di caratteristiche secondarie (aristotelicamente, accidentia), ma solo sulla base di caratteristiche sostanziali (substantia), benché scippato del suo genere non avrebbe avuto niente da obiettare. Rajania infatti si distingue dal genere Dioscorea solo per i frutti, che sono silique. Al mecenate, ma oggi sappiamo anche grande zoologo, Willughby spetta invece un genere valido, Willughbeia, creato nel 1820 da Roxburgh in Flora indica, riprendendo una denominazione di Scopoli. Lo ricordano anche i nomi specifici di Megachile willughbiella (un'ape tagliafoglie) e di Salvelinus willughbii (il salmerino del lago Windermere). Willughbeia è un genere della famiglia Apocynaceae che comprende una quindicina di specie native del Sud Est asiatico e del subcontinente indiano; sono per lo più liane, con piccoli fiori con ovario con una sola cella e frutti polposi indeiscenti. Abbastanza sorprendentemente (molte Apocynaceae sono tossiche) i frutti di diverse specie sono eduli. Citiamo W. edulis (sin. W. cochinchinensis), diffusa dall'India settentrionale alla penisola indocinese, che produce frutti tondeggianti, giallo aranciati, con polpa acidula; W. sarawacensis, nativa del Borneo e delle Filippine, con frutti che per colore e forma ricordano un pompelmo, ma con un gusto dolce che viene descritto come una combinazione di mango, guanabana e ananas; nativa della Tailandia, della Malaysia e dell'Indonesia è W. angustifolia (sin. W. elmeri), con grandi frutti dalla polpa bianca molto dolce. Poco noti da noi (poche informazioni sono reperibili in siti dedicati ai frutti tropicali), sono invece assai apprezzati a livello locale. Qualche approfondimento nella scheda. Con oltre 200 milioni di nuovi casi e più di 400.000 morti ogni anno, la malaria è ancora oggi la malattia endemica più temibile. Lo è stata anche di più in passato, quando l'unico rimedio era la corteccia della china. Un rimedio di cui la corona spagnola e l'ordine dei gesuiti detennero per quasi duecento anni il monopolio, alimentando miti e leggende. Come quella cui deve il nome scientifico, Cinchona spp. Una storia troppo bella per essere vera La corteccia di china giunse in Europa intorno alla metà del Seicento; per ragioni soprattutto culturali, il nuovo rimedio antimalarico stentò ad affermarsi in una medicina ancora dominata dalla teoria galenica degli umori. Tra i primi sostenitori della sua efficacia terapeutica, il medico genovese Sebastiano Bado che le dedicò diverse opere, tra cui Anastasis cortici peruvianae, seu chinae-chinae defensio ("Resurrezione della corteccia peruviana, ovvero difesa della china-china", 1665). E' attraverso questo testo che si diffuse la leggenda della contessa di Chinchon (o come scriveva erroneamente l'italiano Bado, Cinchon). Bado riferisce di essere venuto a conoscenza della corteccia e del modo di somministrarla dal mercante genovese Antonio Bolli che aveva vissuto a lungo in Perù; oltre a testimoniare che le virtù medicinali della quina-quina (ovvero "corteccia delle corteccia", in quechua) erano ben note agli indios, Bolli riferì la seguente storia. Una trentina di anni prima, a Lima la moglie del Viceré si era ammalata di febbre terzana. Venuto a conoscenza della malattia, il governatore di Loxa scrisse al viceré di conoscere un rimedio segreto e infallibile. Visto che la moglie era in pericolo di vita, il viceré permise che la medicina fosse somministrata all'inferma, che subito guarì in modo quasi miracoloso. Con gratitudine e entusiasmo, la viceregina distribuì la corteccia di china ai poveri di Lima e al suo ritorno in Spagna la portò con sé, per curare i contadini delle sue terre iberiche, dove ugualmente imperversava la malaria. Risalirebbe dunque a lei, la contessa di Chinchon (il viceré rispondeva all'impressionante nome di Luis Jeronimo Fernandez de Cabrera Babadilla de la Cerda y Mendoza, conte di Chinchon) la prima introduzione in Europa della china, presto nota anche come "polvere della contessa". Il racconto circolò per duecento anni senza essere messo in dubbio. A prestarvi fede fu tra gli altri Linneo che nel 1753 in Species plantarum battezzò Cinchona il genere cui appartengono diverse specie di alberi della china, riprendendo la grafia errata di Bado. In forma romanzata, la storia fu anche ripresa dalla scrittrice Mme de Genlis che nel suo romanzo Zuma (1817) attribuisce la scoperta del magico farmaco a una fedele serva india, che avrebbe salvato la vita alla sua padrona, ovvero la contessa di Chinchon. Tuttavia, nel 1935 la pubblicazione del Diario de Lima o Diario del Viceregno di Chinchon, redatto per volontà del conte di Chinchon da due segretari (prima Juan Antonio Suardo, quindi Diego Medrano) non ha offerto alcun riscontro alla leggenda. Intanto, un primo problema riguarda l'identità della contessa; il conte infatti si sposò due volte. Alcuni identificano la benefattrice con la prima moglie del conte, Ana de Osorio; tra di essi in particolare l'esploratore britannico C. R. Markham, futuro presidente della Royal Geographical Society e uno dei principali artefici della introduzione della coltivazione della china in India: nel 1874 egli dedicò alla prima contessa di Chinchon A Memoir of the Lady Ana De Osorio: Countess of Chinchon and Vice-Queen of Peru, in cui si batté tra l'altro per cambiare il nome linneano ripristinando la grafia "giusta" Chinchona. L'identificazione è sicuramente errata: Ana morì nel 1625, tre anni prima che Luis Jeronimo fosse nominato viceré. Ad accompagnarlo in Perù fu la seconda moglie, Francisca Henriquez de Rivera; sarà dunque lei ad essersi ammalata ed aver riportato con sé la china in Europa? Non è vero neppure questo; il diario di Suardo ci informa minutamente degli eventi del viceregno, compresa la salute della coppia Chinchon. Non risulta che Francisca si sia mai ammalata di malaria. A contrarre la malattia fu invece il marito, che tuttavia venne curato, come allora era in uso, con salassi. Inoltre la nobildonna non tornò mai in Spagna; infatti morì nel 1641 a Cartagena de las Indias dove lei e Luis Jeronimo stavano per imbarcarsi per far ritorno in patria. Dunque, molto probabilmente anche la seconda contessa non ebbe alcun ruolo nell'introduzione della china in Europa, e l'omaggio di Linneo è immeritato. Ma la sua fama di "scopritrice della china", nonostante tutte le evidenze contrarie, persiste e non molti anni fa il comune di Chinchon le ha addirittura dedicato un monumento. Nella sezione biografie, un suo breve profilo. Molto più prosaicamente, a diffondere la corteccia di china in Europa furono i gesuiti, che forse ne avevano conosciuto le proprietà grazie ai guaritori indigeni o le avevano scoperte essi stessi nei loro ospedali sudamericani. Tra i suoi principali promotori, il gesuita spagnolo Juan de Lugo (cardinale dal 1643) che, convinto della sua efficacia, prese a distribuirne la polvere ai poveri romani (le Paludi Pontine, e la stessa città eterna, erano infestate dalla malaria), tanto che essa divenne nota come "polvere di Lugo", ma anche "polvere dei gesuiti". Anzi, il legame con l'odiato ordine gesuita ne rallentò la diffusione nei paesi protestanti, dove era addirittura osteggiata come "polvere dell'Anticristo". Si dice che Oliver Cromwell sia morto di malaria dopo aver rifiutato di assumere la medicina "papista". Soltanto la guarigione di due teste coronate (prima il re d'Inghilterra Carlo II d'Inghilterra, poi il re di Francia Luigi XIV), la sdoganò definitivamente, facendo del genere Cinchona una delle più importanti "piante che hanno cambiato la storia" con milioni di vite salvate al suo attivo. Secondo qualche studioso, che fa notare che il primo diffusore, Antonio Bolli, era un mercante, la leggenda della contessa di Chinchon sarebbe stata inventata a bella posta per attribuire alla corteccia miracolosa un'origine più nobile (o almeno un po' meno politicamente connotata). La salvifica (e schizzinosa) Cinchona Il genere Cinchona appartiene alla famiglia delle Rubiaceae, la stessa della pianta del caffè, e comprende una ventina di specie di arbusti e alberi originari delle foreste dell'area amazzonica andina, tra i 1500 e 3000 metri di altitudine (dalla Colombia alla Bolivia, con massima presenza in Perù e Bolivia). Le diverse specie, molto variabili per dimensioni, colore della corteccia, forma delle foglie, hanno vistosi fiori bianchi, rosa o rossi, profumati; ma non è certo il pregio estetico ad aver reso la Cinchona una delle piante più ricercate della storia, bensì le proprietà medicinali della corteccia, per circa trecento anni l'unico rimedio efficace contro il paludismo. Non si contano i botanici e gli esploratori che sono andati alla sua ricerca, da Plumier a fine Seicento a Humboldt a inizio Ottocento. Almeno fino agli anni '30 del Settecento, in Europa se ne conosceva solo la corteccia, ma non si sapeva né quale fosse la "vera" pianta della china, né dove crescesse. I gesuiti prima, le autorità coloniali spagnole poi, ne tennero segrete le zone d'origine. Soltanto con l'avvento dei Borboni in Spagna la cortina cominciò a squarciarsi; così nel 1738 l'esploratore francese La Condamine poté portare in Europa gli esemplari essiccati su cui Linneo basò la prima descrizione scientifica. Ancora per un secolo la Spagna (e brevemente le sue ex colonie sudamericane) conservarono il monopolio del richiestissimo farmaco, finché intorno alla metà dell'Ottocento Olandesi e Inglesi ne diffusero la coltivazione nelle loro colonie, dovendo affrontare notevoli problemi di acclimatazione: si tratta infatti di piante di montagna, originarie dalle foreste "nebulose", che non sopportano né il gelo né il caldo estremo, né l'umidità ristagnante né la siccità. Innestando la specie più pregiata e ricca di chinino, Cinchona calysaia var. ledgeriana sulla più robusta C. pubescens gli Olandesi riuscirono ad assicurarsi il monopolio della produzione mondiale del chinino per quasi un secolo, fino alla seconda guerra mondiale. Unico rimedio per la prevenzione e il contenimento della malaria, la Cinchona intreccia la sua storia con quella del colonialismo europeo, che rese possibile preservando soldati e funzionari dal paludismo in Africa e in Asia; durante la seconda guerra mondiale si trasformò addirittura in un obiettivo strategico, quando Tedeschi e Giapponesi si impadronirono di tutte le riserve mondiali, mettendo in seria difficoltà gli alleati. Ma se volete saperne di più su questa storia, molto più intricata e affascinante di qualsiasi leggenda, leggete i dettagli nella scheda. Nella soffitta della casa di campagna della sua famiglia, un bambino russo di otto anni scopre un tesoro: una raccolta di vecchi, polverosi libri di entomologia. Il più affascinante di tutti è un grande in folio, con meravigliose immagini dai colori vividi, che ritraggono piante esotiche dalle curve sinuose, tra le quali si insinuano, quasi in posa, bruchi, crisalidi, farfalle e altri insetti. Qual bambino si chiamava Vladimir Nabokov, da adulto diventerà uno scrittore famoso e, proprio grazie a quell'incontro, un esperto di lepidotteri. Quel libro era Metamorphosis Insectorum Surinamensium, "La metamorfosi degli insetti del Surinam", l'opera più celebre della pittrice e naturalista Maria Sibylla Merian. Giovinezza "normale" di un'artista All'epoca - siamo all'inizio del '900 - l'artista era da tempo dimenticata, al contrario dei suoi tempi, quando proprio quel libro le assicurò l'attenzione degli studiosi, ma soprattutto dei "curiosi", ovvero i collezionisti di oggetti naturali, di mezza Europa. E di oggi, quando, soprattutto grazie agli studi di genere, è stata riscoperta e esaltata come antesignana dell'ecologia e della scienza al femminile. Maria Sibylla, nata a Francoforte nel 1647 da una famiglia di artisti, ricevette la sua formazione soprattutto dal patrigno, il pittore Jacob Marrel, specialista in nature morte di fiori, perfezionatosi in Olanda. Non c'è niente di inconsueto nella sua giovinezza, almeno per una giovane donna del suo ambiente: a diciotto anni si sposò con un apprendista del patrigno, Johann Andreas Graff (specializzato invece in prospetti architettonici), ne ebbe presto una prima figlia, aiutò il ménage familiare dando lezioni di pittura e ricamo a ragazze di buona famiglia e dipingendo lei stessa il soggetto ritenuto più consono a un pennello femminile, ovvero i fiori. Convenzionale è anche la sua prima opera: Blumenbuch, pubblicato tra il 1675 e il 1680 in tre serie di 20 tavole ciascuna, poi ripubblicate tutte insieme nel 1680 sotto il titolo Neues Blumenbuch. Si tratta di un florilegio - dello stesso genere del Jardin du Roy di Pierre Vallet - che ritrae in modo piacevole e accattivante le più amate piante da fiore, in particolare bulbose, come modelli facili da riprodurre per ricamatrici e pittori dilettanti. Merian non ha pretese di originalità: molte tavole sono adattamenti di dipinti del patrigno oppure del pittore francese Nicolas Robert; il suo lavoro consiste soprattutto nel semplificare le linee e nel creare contrasti e gradazioni di colore più facili da rendere con ago e filo. E' un'opera commerciale (anche se non ne vennero tirate molte copie), venduta in un'edizione economica in bianco e nero e in un'edizione più costosa, con le tavole acquarellate a mano dall'autrice; anzi, pagando ancora un po' di più, erano disponibili copie realizzate secondo la tecnica della controstampa (ricavata posando un foglio su una stampa fresca, in modo da ottenere un'immagine specularmente invertita rispetto alla stampa, quindi riproducente la matrice). L'impressione realizzata con la controstampa è molto più sfumata e morbida rispetto a una normale stampa calcografica, particolarmente adatta per essere dipinta ad acquarello con i colori sfumati prediletti dalla pittrice. Niente di inconsueto, abbiamo detto. Tranne un particolare: fin dall'età di tredici anni Maria Sibylla coltivava una passione senz'altro singolare. Incuriosita dai bachi da seta che si allevavano nella sua città, cominciò a chiedersi se anche gli altri insetti condividessero quelle trasformazioni o "metamorfosi" (da uova minuscole a bruchi voraci a bozzoli setosi a farfalle); iniziò così a raccogliere, allevare e collezionare insetti. Siamo a metà Seicento e la scienza incominciava appena a sfatare l'opinione più diffusa, risalente niente meno ad Aristotele: quella della generazione spontanea, secondo la quale insetti, vermi e altri piccoli animali nascerebbero dal fango o da sostanze in putrefazione. Nonostante i bachi da seta e la loro "muta" fossero sotto gli occhi di tutti, bruchi, crisalidi e farfalle erano generalmente ritenuti animali diversi. Tra il 1662 e il 1669 Johannes Goedaert (anche lui, come Merian, naturalista e pittore-incisore, ma seguendo il cammino inverso, dalla scienza all'arte e non viceversa) in Metamorphosis et historia naturalis insectorum disegnò bruchi, pupe e insetti adulti, ma era ancora un assertore della generazione spontanea, convinto che nel passaggio dal bruco alla crisalide all'insetto adulto si verificasse una specie di trasformazione alchemica, con la morte dello stadio precedente e la rinascita, dai suoi resti, dello stadio successivo. La prima confutazione scientifica della generazione spontanea risale al 1668 e si deve a Francesco Redi (Esperienze intorno alla generazione degli insetti), con i suoi studi sulle mosche carnarie; è dell'anno successivo l'Historia generalis insectorum di Jan Swammerdam in cui per la prima volta vengono definite con precisione le fasi della vita degli insetto: uovo, larva, pupa, adulto. Medico e anatomista, Swammerdam basò le sue conclusione su approfondite indagini anatomiche, avvalendosi del microscopio. Erano tuttavia studi recentissimi, noti a pochi scienziati; l'opinione generale dell'ambiente in cui viveva Maria Sibylla era che gli insetti fossero creature demoniache, segni della collera di Dio, da tenere lontani con preghiere e esorcismi. La mania della ragazza di allevare questi flagelli era considerato dai suoi parenti, in particolare la madre, un passatempo inadatto a una rispettabile ragazza da marito o a una distinta madre di famiglia, sia pure di una famiglia di artisti. Ma lei continuò a coltivare questa passione e il suo amore per gli insetti, in qualche modo, fa capolino nel Blumenbuch: i protagonisti sono i fiori, ma in qualche tavola una farfalla si posa su una foglia di tulipano, un bruco si inarca su un petalo di giglio, una crisalide s'appoggia morbidamente su una peonia. Niente di innovativo, intendiamoci; accostare insetti e piccoli animali ai fiori faceva parte delle convenzioni della natura morta, anche se in genere l'artista vi attribuiva significati simbolici (la farfalla è la rigenerazione, il bruco un memento mori), mentre Maria Sibylla per ora era guidata soprattutto da ragioni estetiche (ad esempio, riequilibrare la composizione, aggiungere un tocco di colore, accentuare una linea). Maturità: da artista convenzionale a artista-naturalista Le novità, la rottura delle convenzioni, arrivano con il secondo lavoro. Nel 1679 Merian pubblica la prima parte di Der Raupen wunderbare Verwandelung und sonderbare Blumennahrung, "La meravigliosa trasformazione dei bruchi e lo straordinario nutrimento tratto dai fiori", seguito nel 1683 dalla seconda parte (l'editore è lo stesso marito, probabilmente convinto delle potenzialità commerciali della curiosa opera). Ora gli insetti sono i protagonisti assoluti: ciascuna delle 100 tavole (50 per ogni parte) ne ritrae una specie in tutti gli stadi della sua trasformazione, accompagnata dalla pianta (o da una delle piante) di cui si nutre. Altrettanto importanti sono i testi di accompagnamento, in cui Merian spiega dove ha raccolto l'animale, come l'ha osservato, come è avvenuta la metamorfosi. Per scrivere questo libro, infatti, la nostra pittrice si è ormai trasformata in una naturalista autodidatta sul campo: ha osservato gli insetti nel loro ambiente naturale, cercando di individuarne le abitudini alimentari, gli eventuali nemici, le interazioni con altre specie; ha raccolto e allevato i bruchi in apposite cassette, fornendo il cibo prediletto, osservandone e registrane con accuratezza la trasformazione in pupa e in adulto, disegnando dal vero ciascuna fase con estrema accuratezza nel suo quaderno di studio. Alcune tavole ricostruiscono una piccola nicchia ecologica con le sue catene alimentari: così, in quella dedicata alla Rosa centifolia, non solo vediamo tutti gli stadi di una falena nottuide, ma anche acari che vengono mangiati da una larva di sirfide, il pupario di quest'ultima e un adulto che visita un bocciolo. Sono questi dettagli che hanno fatto riconoscere a Maria Sybilla Merian il titolo di "prima ecologista". Ma nel frattempo, anche la vita privata dell'artista-naturalista stava mutando. Benché fosse nata una seconda figlia, il matrimonio scricchiolava. Dopo aver vissuto alcuni anni a Norimberga, nel 1681, alla morte del patrigno, Maria Sibylla ritornò a Francoforte per assistere la madre, raggiunta poco dopo dal marito, ma evidentemente qualcosa si era spezzato. La donna rifiutò di tornare a Norimberga come egli le chiedeva e nel 1685 si trasferì, insieme alla madre e alle figlie, in Frisia, in una comunità labadista (un gruppo calvinista che viveva in comunità, seguendo regole molto rigide), dove da tempo già viveva uno dei fratellastri, Caspar, anche lui pittore. Dietro questa scelta estrema, senza voler mettere in dubbio profonde motivazioni religiose, stava probabilmente anche il desiderio di separarsi dal marito, visto che, secondo le regole labadiste, i matrimoni con non adepti erano considerati nulli. Merian visse per alcuni anni nel castello di Walta, sede della comunità labadista; qui, come risulta dai suoi quaderni, poté continuare le sue osservazioni naturalistiche; ma soprattutto, ebbe modo di vedere per la prima volta le sgargianti farfalle tropicali. Il gruppo aveva intenzione di fondare una comunità in Suriname, la recente colonia olandese a Nord del Brasile, e nei loro andirivieni alcuni membri ne avevano portato alcuni esemplari di insetti tropicali. In ogni caso, nell'estate del 1691, l'artista lasciò i labadisti insieme alle figlie, per trasferirsi a Amsterdam; forse, le regole troppo rigide di quella austerissima comunità le stavano strette, forse aveva altri sogni, altri progetti. Finì così la seconda fase della sua vita. Suriname: Maria Sibylla prende il volo Quando giunse ad Amsterdam (Maria Sibylla aveva 44 anni) era ormai una donna indipendente, capace di mantenere se stessa e le sue figlie, anch'esse due valide pittrici di fiori e nature morte, vendendo le sue opere ai ricchi borghesi e collezionisti olandesi. Entrò in contatto con molti di loro e ne poté visitare le prestigiose collezioni: quella di Nicolas Witsen, sindaco della città e direttore della Compagnia olandese delle Indie occidentali, e di suo nipote Jonas, che aveva sposato la figlia del proprietario di una piantagione in Suriname e ne aveva ereditato le collezioni naturalistiche; quella del famoso professo Frederick Ruysch; quella raffinatissima di Levinus Vincent e di suo moglie, Johanna van Breda. Maria Sibylla ne fu allo stesso tempo ammirata e delusa: ammirata per la bellezza degli splendidi insetti esotici custoditi nei loro gabinetti, delusa perché c'erano solo adulti; niente uova, niente bruchi, pupe o crisalidi. A quanto pareva, a nessuno interessava studiare e documentare le metamorfosi degli insetti esotici. La pittrice concepì così l'idea di partire per il Suriname per assolvere lei stessa questo compito, usando i metodi che aveva inventato per studiare gli insetti europei. Tutti cercarono di dissuaderla: in primo luogo, il clima era micidiale, del tutto inadatto a una donna europea di età già avanzata; i costi erano notevoli e lei, che si manteneva con il suo lavoro di artista, non aveva denaro; soprattutto, come pretendeva lei, una donna, un'autodidatta, senza alcuna formazione scientifica accademica, di intraprendere una spedizione che fino ad allora non era stata osata neppure da scienziati maschi ben più titolati? Maria Sibylla non si lasciò scoraggiare e pianificò la sua spedizione con il senso degli affari che la contraddistingueva fin dalla giovinezza: il viaggio sarebbe stato autofinanziato dalla vendita di esemplari rari di insetti, da lei raccolti e preparati (ricercatissimi dai collezionisti, si vendevano a caro prezzo) e del libro che intendeva ricavare dai dipinti dal vivo e dalle ricerche; per gli aspetti logistici, si sarebbe appoggiata sulla comunità labadista (per un certo periodo, infatti, soggiornò nella piantagione "Providentia", che apparteneva alla famiglia labadista Van Aerssen-van Sommelsdijk); l'avrebbe accompagnata la figlia minore (si è anche ipotizzato che essa, e forse anche la sorella maggiore, avessero preparato il viaggio materno visitando il Suriname prima di lei). Anche se è di moda il modello della donna incompresa, circondata dall'ostilità generale, in realtà l'ambiente degli scienziati e dei collezionisti olandesi non rimase indifferente; in particolare, Witsen riuscì a procurarle il prestito necessario a finanziare la spedizione. Così nel giugno 1699, all'età di 52 (ad ogni buon conto, prima di partire fece testamento) l'audace pittrice si imbarcò per il Suriname con la figlia Dorothea Maria. Rimasero in Suriname circa due anni, vivendo prima a Paramaibo poi a Providentia, 65 km nell'interno. L'ambiente delle giungla era impenetrabile e le piante ritratte da Merian sono per lo più esemplari coltivati nelle piantagioni, soprattutto di uso alimentare, talvolta introdotte. A procurargli gli insetti furono gli schiavi neri e gli indiani, i suoi principali informatori sull'ecologia degli animali, mentre i coloni olandesi (non pensavano che allo zucchero, secondo una scandalizzata Maria Sibylla) guardarono alla sua impresa con scetticismo e divertimento. Essa cercò di applicare gli stessi metodi usati in Europa, scoprendo che in quel clima così caldo e umido erano inefficaci: ad esempio, una volta raccolse (o più probabilmente fece raccogliere dagli schiavi messi a sua disposizione) più di cento bruchi e grandi quantità della loro pianta ospite; il giorno dopo erano tutti morti di fame, tranne uno, perché erano bastate poche ore a far seccare le foglie, rendendole dure e immangiabili. Molto prima del previsto, le precarie condizioni di salute (contrasse la malaria o la febbre gialla) la costrinsero al rientro. Aveva comunque potuto raccogliere materiale sufficiente per allestire la sua opera più celebre, Metamorphosis Insectorum Surinamensium, un sontuoso in folio con 60 incisioni (a differenza delle opere precedenti, l'artista non le incise essa stessa) che usci nel 1705 in due edizioni, in latino e olandese. Per ragioni di costi, Merian dovette però rinunciare a un secondo volume, che avrebbe dovuto essere dedicato a rettili e anfibi, come anche alle edizioni tedesca e inglese. In ogni caso, il volume (che dal punto di vista scientifico è di minor valore rispetto a quelli sugli insetti europei, perché non era stato possibile condurre ricerche ugualmente approfondite) le assicurò immediata fama e divenne un costoso e irrinunciabile ornamento di ogni biblioteca naturalistica. A partire dalle tavole originali, nel corso del Settecento ne uscirono ben cinque edizioni, anche in altre lingue, l'ultima in Francia nel 1771. Ma nella seconda metà del secolo, mano a mano che la scienza fissava i propri metodi e si dotava di strutture istituzionali, a Maria Sibylla Merian (donna, autodidatta, artista) incominciarono ad essere negati i meriti scientifici: mentre lei si era concentrata sulle relazioni orizzontali tra mondo vegetale e animale, agli scienziati che le succedettero interessava classificare e catalogare; le sue illustrazioni, che tanto erano piaciute ai contemporanei per la qualità estetica, ora, con l'affermarsi delle convenzioni dell'illustrazione scientifica, apparivano costruite, innaturali, troppo estetizzanti. Così, per oltre un secolo e mezzo venne dimenticata. L'interesse per la sua opera rinasce intorno all'ultimo quarto del Novecento, nell'ambito degli studi di genere sul ruolo delle donne nell'arte e nella scienza, ed è prorompente. Nel 1990 la Germania ne stampa l'immagine sulla banconota da 500 marchi. Le sue opere vengono ripubblicate e volgarizzate in decine di pubblicazioni, utilizzate per copertine di CD, libri, poster o gadget. A luglio di quest'anno, in occasione del trecentesimo anniversario della morte (avvenuta appunto nel 1717) si sta organizzando un grande simposio internazionale (molto ricco il sito che le è stato dedicato in vista dell'evento). Una sintesi della sua vita, passata attraverso tre stadi, come quelle degli amati insetti, nella sezione biografie. La spettacolare ma sconosciuta Meriania L'omaggio di un genere del regno vegetale arrivò a fine Settecento, quando la fama della pittrice-naturalista era da tempo in declino. A creare in suo onore il genere Meriania fu il naturalista svedese Olof Peter Schwarz, nella sua monografia dedicata alla flora delle Indie occidentali (Plantae Indiae occidentalis, 1791). Una dedica azzeccata: infatti, anche se la specie tipo di Schwartz, M. purpurea, è originaria delle Antille, alcune altre specie crescono anche nella Guyana, ovvero il Suriname della cui fauna e flora Maria Sibylla fu la prima studiosa. Appartenente alla famiglia Melastomataceae, questo genere neotropicale comprende 70-90 specie di arbusti o piccoli alberi dalle fioriture decisamente spettacolari, con grandi fiori purpurei o aranciati a 5-6 petali con stami curiosamente ripiegati tutti da una parte. Presenti dal Sud del Messico fino al Sudest del Brasile, passando per le Antille e l'America centrale, hanno il maggior centro di biodiversità in Colombia, con 36 specie. Bastano già i nomi specifici per farne intuire la bellezza sensazionale: splendens, nobilis, speciosa, pulcherrima, addirittura fantastica. Tuttavia, endemiche di piccole aree montane, spesso a rischio, sono ben poco conosciute al di fuori dei paesi d'origine; nonostante il grande potenziale decorativo, con una sola eccezione, sono coltivate solo negli orti botanici. L'eccezione è la specie più nota, M. nobilis, un alberello originario della foresta nebulosa colombiana, dove vive tra i 1900 e 2900 metri, godendo per tutto l'anno di un clima mite e costantemente umido. Questa specie, con grandi fiori porporini, considerata uno degli alberi più belli del pianeta, per prosperare richiede dunque condizioni molto particolari: non sopporta né gli inverni rigidi né le estati calde. Ciò spiega perché nonostante l'eccezionale bellezza è rimasta una pianta per collezionisti, raramente coltivata fuori dei confini patrii. Per qualche informazione in più su queste magnifiche piante che meriterebbero maggiore notorietà si rimanda alla scheda. Justus Heurnius, medico che si fece teologo, pastore e missionario, scrisse una pagina importante della storia delle missioni calviniste in Oriente. Ma per noi è soprattutto il primo occidentale ad aver descritto alcune piante sudafricane. Per questo lo ricordiamo, nonostante quel piccolo errore ortografico che ha fatto sì che il suo genere celebrativo si chiami Huernia. Uno scalo al Capo di Buona Speranza Nel 1619 gli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC) conquistarono Giacarta nell'isola di Giava e la ribattezzarono Batavia, facendone la capitale del loro impero commerciale. Qualche mese prima, il giovane teologo Justus Heurnius, dando una lettura teologica e provvidenziale delle vittorie olandesi, aveva rivolto un memorandum (De legatione evangelica ad Indos capessenda Admonitio, "Ammonizione per l'invio di una massione evangelica presso gli Indiani") alle autorità della repubblica e ai dirigenti della VOC affinché si facessero carico della missione di evangelizzare i popoli dei paesi caduti sotto la loro amministrazione. Come conseguenza, a gettare le basi dell'attività missionaria la chiesa di Amsterdam decise di inviare a Giava proprio Heurnius, che nel frattempo era diventato pastore. Fu così che il 9 gennaio 1624 egli salpò a bordo di un vascello della VOC, la Gouda, alla volta di Giava. Le sue competenze non si limitavano alla teologia; figlio e fratello di medici, prima di affrontare gli studi teologici si era laureato in medicina all'università di Leida e doveva possedere una discreta conoscenza in campo medico e erboristico. Ad aprile, la nave fece scalo al Capo di Buona speranza per caricare acqua e viveri (doveva passare un quarto di secolo prima che la VOC vi creasse un punto di scalo stabile, destinato a trasformarsi nella Colonia del Capo); le operazioni si prolungarono per alcuni giorni e in Heurnius si risvegliò l'interesse per la botanica. Non conosciamo i dettagli, ma a giudicare dalle specie raccolte dovette esplorare le pendici della Table mountain dove raccolse, disegnò e descrisse alcune specie, probabilmente scelte tra quelle che apparivano più curiose e esotiche. A maggio il viaggio riprese e a luglio Heurnius sbarcò a Giava, dove iniziò con energia la sua attività missionaria. Appena, possibile ebbe cura di inviare al fratello Otto, medico a Leida, i disegni e le descrizioni delle piante sudafricane (forse accompagnati da esemplari essiccati). Come si è già visto in questo post, Stapelius, amico di Otto Heurnius, ne incluse dieci nella sua mega edizione di Historia plantarum di Teofrasto. Non sappiamo se fossero tutte le piante inviate dal missionario, o se egli avesse operato una scelta. Grazie all'ottima qualità dei disegni e delle descrizioni sono state tutte identificate con un buon grado di probabilità: Morella serrata, Haemanthus coccineus, Manulea rubra, Cotyledon orbiculata, Micranthus tubolosus, Centella villosa, due specie di Oxalis (probabilmente O. versicolor e O. purpurea var. alba), Kniphofia uvaria, Orbea variegata. Nella preparazione della stampa, tra queste due ultime specie dovette avvenire un curioso scambio: di Orbea variegata si dice planta plane inodora, "pianta praticamente senza odore", di Kniphofia invece flos foetidi odoris est, "è un fiore dall'odore fetido". In ogni caso, Heurnius si è guadagnato l'onore di essere il primo europeo a raccogliere e descrivere piante sudafricane in un testo a stampa. Secondo una testimonianza di Parkinson, anche a Giava Heurnius "dottore in cose divine e in medicina" non tralasciò la botanica e l'erboristeria: avrebbe infatti inviato in patria un libretto o una collezione di piante dell'isola, con le loro virtù e gli usi, conservato in una teca dell'università di Leida; alcuni suoi amici gli avevano riferito dell'eccellente descrizione di Nymphaea glandulifera batavica javorum che vi si poteva leggere. Di questo secondo contributo alla botanica di Heurnius si sono perse le tracce; decisamente importante fu invece la sua attività come teologo e missionario. Per qualche approfondimento, si rimanda alla biografia. Huernia, fiori come gioielli in miniatura Può rincrescere che Linneo decidesse di rendere omaggio con il genere Stapelia all'editore Stapelius e non allo scopritore e descrittore Heurnius. A questa piccola ingiustizia mise rimedio Robert Brown che nel 1810, rivedendo il genere Stapelia, ne separò alcune specie che andarono a formare il nuove genere Huernia; come si può notare, commise un piccolo errore di grafia, scambiando la seconda e la terza lettera del cognome del dedicatario (errore che secondo le regole della nomenclatura botanica va rispettato). Nel cambio con Stapelius Heurnius non ci perde. Huernia (anch'esso appartenente alla sottotribù Stapeliinae della famiglia Apocynaceae) è un genere anche più numeroso e diffuso di Stapelia: conta una cinquantina di specie, con un'aerale alquanto vasto che va dalla penisola arabica al Sud Africa, passando per l'Etiopia e ampia parte dell'Africa orientale. Di piccole dimensioni (i fusti solo alti al più una decina di centimetri) ed estremamente vario per la forma e i colori dei fiori, si adatta bene anche alla coltivazione in vaso; è quindi molto ricercato dai collezionisti di succulente. I fiori sono piccoli gioielli di non più di 2-3 cm di diametro, prevalentemente rossi, gialli o bruni, spesso con strisce e variegature, con corolla a stella pentagonale con angoli molto ottusi oppure a cinque lobi maggiori intervallati da altrettanti piccoli lobi minori; alcune specie sono anche dotate di un anello in rilievo attorno alle corone (annulus). Tanta bellezza e tanta varietà di forme fa volentieri perdonare quell'odorino poco simpatico che hanno in comune con la maggior parte delle consorelle. Qualche notizia in più nella scheda. A ricordare indirettamente Heurnius, c'è anche il piccolissimo genere Huerniopsis ("d'aspetto simile a Huernia"), che comprende due sole specie di Stapeliinae diffuse in Bostwana e Sud Africa, caratterizzate dall'assenza o dalla riduzione della corona esterna; tanto per cambiare, emanano un nauseante odore dolciastro. Per qualche dettaglio, si rimanda alla scheda. Le vie della botanica sono infinite. Per una curiosa combinazione il dottissimo Jan Bode, alla latina Stapelius, mentre sta curando la sua monumentale edizione bilingue di Teofrasto, riceve le note e i disegni di alcune piante raccolte in Sud Africa dal fratello di un amico. Decide di includere anche quelle: saranno le prime piante sudafricane mai comparse in un testo a stampa. Se ne ricorderà Linneo, dedicandogli il genere Stapelia. Teofrasto, ovvero una botanica per botanici Grazie alla pubblicazione a stampa della traduzione di Gaza e dell'originale greco, le opere botaniche di Teofrasto entrarono tra i testi canonici. Tuttavia non furono mai popolari come De materia medica di Dioscoride; mentre il testo dioscorideo forniva il nome e i contenuti alla botanica applicata (materia medica) insegnata ai futuri medici, diveniva il libro di testo obbligato di tutte le facoltà di medicina europee, era chiosato e commentato da decine di studiosi, De historia plantarum e (anche di più) De causis plantarum erano più riveriti e citati di terza mano che letti e conosciuti. La ragione è proprio quella che oggi ce li fa apprezzare: l'interesse di Teofrasto per la morfologia e la fisiologia delle piante non li rendeva immediatamente fruibili per gli studenti di medicina. Nel Cinquecento si conosce un solo esempio di corso universitario focalizzato su Teofrasto: quello tenuto a Bologna nel 1560 da Ulisse Aldrovandi, quando però insegnava filosofia; quando due anni dopo passò a insegnare materia medica, ripiegò anche lui su Dioscoride. A leggere Teofrasto e a trarne stimolo per le proprie ricerche erano i pochi studiosi che coltivavano la botanica come scienza in sè, non come ancella della medicina com'era ancora prevalentemente considerata. Insomma, erano testi di botanica per botanici. Non a caso tra i loro estimatori troviamo in primo luogo Cesalpino (che tentò una classificazione delle piante su basi aristoteliche), Rondelet, che gettò le basi della scuola botanica francese (caratterizzata da una spiccata vocazione tassonomica) e i Bauhin. I pochi lavori cinquecenteschi direttamente dedicati a Teofrasto, più che di botanici, furono opera di filologi, che discettavano di problemi di critica testuale e criticavano la traduzione troppo libera di Gaza. Bisogna quindi attendere il Seicento perché uno studioso che era allo stesso tempo un medico, un filologo e un botanico si accingesse a fare per Teofrasto quello che Mattioli aveva fatto con i suoi Commentarii per Dioscoride. Un'edizione monumentale A tentare l'impresa fu un giovane medico di Amsterdam, Jan Bode à Stapel o van Stapel (di solito è noto con il nome latinizzato Johannes Badaeus Stapelius). Coltissimo, dotato di una profonda conoscenza delle lingue classiche, si propose di curare un'edizione completissima delle due opere di Teofrasto: in primo luogo, il testo greco messo a confronto con la traduzione latina di Gaza, su due colonne affiancate; a margine, le notazioni filologiche e testuali; a seguire, per ogni capitolo, le note di alcuni commentatori che lo avevano preceduto (Giulio Cesare Scaligero, Robert Constantin, Claudius Salmasius); infine i commenti di sua mano. L'interesse di quest'opera non è solo filologico. Profondo conoscitore delle piante (lui e suo padre possedevano un giardino ricco di piante esotiche), Stapelius infarcì i suoi commenti di informazioni di ogni genere sul mondo vegetale, comprese notizie sulle piante che giungevano dall'Asia e dal Nuovo mondo (sono per lo più di seconda mano, attinte da opere di altri botanici, in particolare Clusius e l'Obel). Volle inoltre arricchire la sua opera con numerose xilografie; anche se poche sono originali, si tratta in ogni caso della prima edizione illustrata di Teofrasto. Stapelius, che iniziò a lavorare all'opera intorno al 1625, subito dopo essersi laureato, morì nel 1636, a poco più di trent'anni; riuscì quindi solo affrontare solo la prima opera di Teofrasto, De Historia Plantarum. Qualche notizia sulla sua breve vita nella sezione biografie. Il padre, Engelbert Stapel, a sua volta medico di fama, completò il lavoro del figlio e lo pubblicò nel 1644, dopo altri otto anni di lavoro. Questa edizione monumentale (è uno splendido in folio di oltre 1200 pagine), molto accurata anche nella veste tipografica, riserva ancora una piccola sorpresa: quattro pagine sono dedicate alle primissime specie sudafricane mai descritte dalla scienza. Nel 1624, un missionario olandese, Justus Heurnius, mentre la sua nave, diretta a Giava, faceva rifornimento al Capo di Buona Speranza, ne approfittò per disegnare e descrivere alcune piante. Inviò questi materiali in Olanda a suo fratello Otto, amico e compagno di studi di Stapelius, a cui li passò; Stapelius colse a volo l'occasione, includendo disegni e descrizioni nella sua opera. Quella strana fritillaria... la chiamerò Stapelia Torneremo sulla storia di Heurnius, anche lui dedicatario di un genere. Per ora rimaniamo in compagnia di Stapelius e della pianta che lo celebra. Linneo era un grande ammiratore del suo commento, di cui apprezzava la competenza e la chiarezza espositiva. Non gli sfuggirono quelle quattro pagine che contenevano una preziosa primizia della flora sudafricana e scelse proprio una di quelle nuove piante per onorare lo studioso olandese, ribattezzando Stapelia quella che Heurnius aveva denominato Fritillaria crassa caput Bone Spei ("Fritillaria grassa del Capo di Buona Speranza"). In Species Plantarum, 1753, Linneo pubblicò due specie di Stapeliae: S. variegata (che è appunto la "fritillaria crassa" di Heurnius) e S. hirsuta; oggi la prima è stata trasferita a un altro genere e si chiama Orbea variegata. Ma il vero "padre delle stapelie" può essere considerato il botanico scozzese Francis Masson, che esplorò il Sud Africa da solo e insieme a Thunberg, uno dei più importanti allievi di Linneo, e poi visse per qualche anno nella Colonia del Capo, coltivando un giardino di acclimatazione. Egli aveva una vera passione per queste piante, cui dedicò il suo unico libro, Stapeliae novae, la prima monografia sul genere Stapelia (1796), in cui ne descrisse una quarantina; diede anche un grande contributo alla loro introduzione in Europa, dove iniziarono ad essere molto apprezzate dai collezionisti. A partire dall'Ottocento, diverse specie vennero trasferite in altri generi, i più noti dei quali sono Duvalia, Huernia, Caralluma, Hoodia. Oggi ammontano a una quarantina, raccolti nella sottotribù Stapeliinae; gli inglesi, con il loro senso pratico, chiamano tutto il gruppo Stapeliad. Il genere Stapelia comprende una cinquantina di specie di succulente degli ambienti aridi dell'Africa tropicale e australe (Angola, Mozambico, Malawi, Tanzania, Bostwana, Zimbawe, ma soprattutto Namibia e Sud Africa, dove si concentra la maggior parte delle specie). Appartenenti alla famiglia Apocynaceae (un tempo Asclepiadaceae), sono note soprattutto per i curiosi fiori a forma di stella che emanano odore di carogna. Questo odore, avvertibile in alcune specie anche a una certa distanza, è una strategia per attirare gli impollinatori, che sono soprattutto mosche carnarie; allo stesso fine mirano i peli, i colori e la tessitura dei petali che mimano un animale in decomposizione. Ma ci sono anche rare eccezioni: S. erectiflora e S. flavopurpurea sono gradevolmente profumate. Nonostante questa proprietà poco edificante, le Stapeliae sono ricercatissime dai collezionisti di piante succulente. Altri due membri del gruppo rendono indirettamente omaggio a Stapelius: Stapelianthus ("con fiori simili alla Stapelia"), un piccolo genere endemico del Madagascar, con fiori minuti dalle forme varie e sorprendenti; Stapeliopsis ("con aspetto simile alla Stapelia"), un piccolo genere originario della Namibia e del Sud Africa, i cui piccoli fiori sono per lo più piacevolmente profumati di miele e frutta. Per approfondimenti su Stapelia, Stapelianthus, Stapeliopsis si rimanda alle rispettive schede. In un divertente romanzo inglese, un personaggio si chiede perché Adam Buddle dovrebbe essere ricordato da una targa blu: in fondo anche suo zio ha la passione del giardinaggio e ha scritto un libro mai pubblicato; e la pianta che porta il suo nome, la Buddleja, non l'ha scoperta lui, anzi manco l'ha mai vista. Ma se la merita, Buddle, questa targa blu? Giudicate un po' voi. Muschi, ma non solo Nel 1688, con la Gloriosa Rivoluzione (gloriosa non perché segnata da particolari atti eroici, ma perché avvenuta senza spargimento di sangue), Giacomo II Stuart deve cedere il trono d'Inghilterra e Scozia a Guglielmo III e Maria II; è l'inizio della monarchia costituzionale. L'anno successo l'Atto di Tolleranza concede la libertà di culto ai protestanti non conformisti. Il Parlamento stabilisce tuttavia che i membri del parlamento stesso, tutti i pubblici ufficiali e i membri del clero dovranno giurare fedeltà ai nuovi monarchi, pena la decadenza dai loro uffici. L'arcivescovo di Canterbury, un certo numero di vescovi e circa 400 ecclesiastici rifiutano di giurare, considerando ancora valido il loro giuramento al re precedente. E' l'apertura di un piccolo scisma nella chiesa anglicana, che si trascinerà per qualche decennio. Tra coloro che perdono il posto per essersi rifiutato di giurare c'è anche Adam Buddle, da qualche anno fellow del St Catharine's College di Cambridge; solo qualche anno più tardi, nel 1702, dopo aver cambiato idea e prestato giuramento, prenderà i voti e percorrerà una modesta carriera ecclesiastica, che si concluderà con il ben remunerato (e poco impegnativo) incarico di lettore della Cappella del Gray Inn di Londra. D'altra parte, al centro degli interessi di questo ecclesiastico riluttante non c'era né la politica, né la religione, ma piuttosto la botanica. Fin da studente, aveva incominciato a creare un erbario, con un occhio di riguardo per due gruppi di piante ancora scarsamente conosciute e poco studiate: le graminacee (oggi diremmo Poaceae) e i muschi. Benché poco informati sulla sua vita prima che prendesse i voti, sappiamo che entrò in contatto con molti botanici influenti, non solo inglesi: in gioventù fu in corrispondenza con Ray e più tardi con Tournefort; a partire dal 1699 ebbe stretti contatti con Sloane, futuro presidente della Royal Society e, soprattutto dopo essersi trasferito a Londra, fece parte di un gruppo di botanici - legati all'ambiente dei farmacisti e del Chelsea Physic Garden - che erborizzavano insieme nei dintorni della capitale e si incontravano in diverse taverne, per scambiarsi comunicazioni scientifiche tra un boccone di pernice e un sorso di birra. Tra di loro c'erano Samuel Doody, curatore del giardino, e il farmacista e collezionista James Petiver. L'erbario di Buddle era così ricco e ben organizzato, la sua reputazione come esperto di briofite così grande, che spesso i colleghi ne chiedevano parti in prestito (con grande ansia del proprietario, qualche foglio se ne andò fino a Parigi, da Pitton de Tournefort). L'opera della vita di Buddle fu la compilazione di una Flora inglese, che terminò nel 1708; le piante erano classificate secondo un metodo creato da Buddle stesso fondendo i due principali sistemi dell'epoca: quello dell'inglese Ray e quello del francese Tournefort; in una lettera a Sloane si dice consapevole che in tal modo avrebbe probabilmente scontentato i seguaci dell'uno e dell'altro: previsione che si avverò, visto che alla sua morte, avvenuta nel 1715, il testo non era ancora stato pubblicato. E così rimase, nonostante le raccomandazioni della vedova a Petiver e Sloane (ques'ultimo entrò in possesso dei suoi scritti e dell'erbario, tuttora conservato nel Natural History Museum, in ottimo stato di conservazione e ragguardevole per il montaggio e la precisione di descrizioni e note di raccolta). Qualche notizia in più nella biografia. Buddleie, farfalle e... qualche danno Insomma, nel vivace ambiente della nascente botanica inglese a cavallo tra Seicento e Settecento, Buddle fu senz'altro un nome di rilievo; e di lui si ricordò un quindicennio dopo la sua morte lo scozzese William Houstoun, dedicandogli uno dei suoi nuovi generi americani, Buddleja. Il genere era nuovo (e sarà validato in Species Plantarum, 1753, da Linneo, cui si deve anche l'errore ortografico: a rigori la pianta dovrebbe chiamarsi Buddlea o Buddleia); ma non era nuova la pianta; la specie descritta da Houstoun, oggi B. americana, era stata già stata descritta proprio da Sloane, che l'aveva raccolta durante il suo soggiorno in Giamaica (1687-1689) e l'aveva pubblicata nel 1697 con il nome-descrizione Verbasci folio minore arbor, floribus spicatis luteis, seminibus singulis oblongis in singulis vasculis siccis (ovvero "Albero con piccole foglie simili al verbasco, con spighe di fiori gialli, semi singoli oblunghi in singole capsule secche"). Amico di Sloane, è molto probabile che Buddle ne conoscesse l'opera e magari avrà letto la descrizione e osservato l'illustrazione di questa pianta, senza sapere che proprio ad essa sarebbe stata affidata la sua unica chance di immortalità. Non poteva conoscere invece la più famosa di tutte le Buddlejae, B. davidii, scoperta in Cina da Henry nel 1887 e battezzata in onore del celebre missionario naturalista Armand David. Il genere, appartenente a una famiglia propria (Buddlejaceae, ma Scrophulariaceae secondo altre classificazioni), comprende oltre 100 specie, tra erbacee, arbusti e alberi, originarie sia dell'Asia orientale, sia dell'America centrale e meridionale, con qualche rappresentante in Africa. Pianta amatissima, è oggetto di collezione da parte di appassionati che non si accontentano di B. davidii e delle sue numerose (e magnifiche) varietà orticole, ma vanno alla ricerca anche di specie più inconsuete. Quanto a B. davidii, è amatissima tanto dai giardinieri per le sue incomparabili fioriture e per la facilità di coltivazione quanto dalle farfalle, che attira come una calamita, guadagnandosi il nome di "pianta delle farfalle"; ma anche odiatissima per la sua capacità di crescere ovunque, anche dove non è desiderata. Si calcola che nella sola Gran Bretagna la cifra sborsata ogni anno dall'erario per la manutenzione degli edifici storici e dei monumenti nazionali soggetti a danni da Buddleja superi il milione di sterline. Altri approfondimenti nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
May 2024
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