Per circa due secoli, l'isolotto artificiale di Dejima fu l'unico punto d'incontro tra il Giappone e l'Occidente; tra mille limitazioni, fu soprattutto grazie ai medici della VOC, la Compagnia olandese delle Indie orientali (e ai loro interpreti giapponesi), se da una parte il Giappone scoprì qualcosa della scienza e della tecnologia europee, dall'altra filtrarono in Europa le prime notizie sulla cultura e la natura giapponesi. Il pioniere di questo incontro difficile fu Engelbert Kaempfer, che alla fine del Seicento lavorò come medico e chirurgo a Dejima per due anni e mezzo, osservando, annotando, disegnando tutto il possibile con occhio di curioso e rigore di scienziato. Del Giappone del suo tempo gli interessava tutto, ma riservò uno spazio particolare alla flora, scrivendo la primissima Flora japonica, con circa 200 specie. Tra tutte, la più famosa è Ginkgo biloba; e si deve proprio a Kaempfer il piccolo errore di trascrizione che ha trasformato il giapponese ginkio in ginkgo, traendo in inganno Linneo, grande ammiratore del pioniere degli studi nipponici, cui dedicò il genere Kaempferia. La strada per il Giappone passa dalla Persia Quando il medico tedesco Engelbert Kaempfer arrivò in Giappone per prendere servizio nella minuscola stazione commerciale di Dejima, situata in un isolotto artificiale nella baia di Nagasaki (ne ho parlato qui) era un già un viaggiatore di lungo corso. Il suo vero cognome era Kemper, ma più tardi lo cambiò in Kaempffer o Kempfer, che significa «guerriero, combattente», quasi un emblema del suo carattere. Nato nella contea di Lippe, un piccolo stato periferico della Germania settentrionale, incominciò i suoi vagabondaggi da studente, passando da un'università all'altra finché su laureò in filosofia a Danzica; continuò poi gli studi in medicina a Cracovia e Köningsberg. Nel 1681 si trasferì a Stoccolma; entrato in contatto con politici influenti, fu assunto come medico e segretario di legazione della seconda ambasciata svedese in Persia, guidata da Ludvig Fabritius, un militare e diplomatico di origine olandese. Il lungo viaggio tra Stoccolma e Isfahan, la capitale della Persia safavide, durò quasi esattamente un anno, da marzo 1683 a marzo 1684. Lungo il cammino, che portò la delegazione ad attraversare la Finlandia, la Livonia, l'impero russo, per poi navigare sul mar Caspio e percorrere l'Iran settentrionale, animato da una forte curiosità intellettuale e probabilmente già intenzionato a trasformare le sue avventure in un libro di viaggi, Kaempfer raccolse ogni possibile informazione, visitò siti storici e curiosità naturali (tra cui i campi petroliferi di Badkubeh, oggi Baku), prese misure e tracciò mappe, disegnò oggetti, intervistò ogni sorta di informatori. Kaempfer rimase a Isfahan circa venti mesi (marzo 1684-novembre 1685), imparò il persiano e il turco, e visitò sistematicamente la città, compresi diversi giardini, facendo molti disegni. Come membro della legazione svedese, ebbe accesso alla corte, dove poté osservare edifici, costumi, rituali, comportamenti. Al termine della missione decise di non rientrare in Svezia, ma di cercare un ingaggio nella VOC, che aveva una base commerciale anche a Gamron (oggi Bandar Abbas) sul golfo Persico. Per raggiungerla si aggregò a una carovana; durante il viaggio visitò Shiraz, il monte Benna e Persepoli. Qui abbandonò i compagni di viaggio per studiare le antiche rovine: misurò meticolosamente gli edifici, trascrisse alcune iscrizioni e fu il primo a notare che i caratteri avevano forma di cuneo. Giunto a Bandar Abbas negli ultimi giorni del 1685, vi rimase bloccato per due anni e mezzo, anche se la detestava con tutto il cuore: «È la città più infertile, arida, calda, pestilenziale del mondo, quella che più assomiglia all’inferno di tutto il globo» . In quel clima infernale Kaempfer si ammalò gravemente; per riprendersi, andò a passare i mesi estivi in montagna; quindi visitò le piantagioni di palma da dattero, raccogliendo informazioni sulle caratteristiche botaniche, la coltivazione, l’importanza commerciale. Solo dopo vari mesi, fu assunto come medico della base della VOC. Per circa un anno, dal giugno 1688, lavorò come medico di bordo sulla Copelle, una nave della VOC che commerciava nei porti indiani; nell’agosto 1689, era a Batavia, dove presentò domanda senza successo per essere assegnato all’ospedale della Compagna. Pensava di rimanere a Giava, di cui conosceva la ricchezza floristica, ma quando gli venne offerto il posto di chirurgo a Dejima, accettò. Sarebbe rimasto in Giappone due anni, dal settembre 1690 all’ottobre 1692. A caccia di piante giapponesi La condizione degli olandesi a Dejima era di semiprigionia: non potevano uscire liberamente dall'isola, ogni loro movimento era sorvegliato (per ogni olandese c'erano almeno dieci sorveglianti, tutti a carico della VOC), non avevano contatti al di fuori della stazione, era loro negato l'accesso a qualsiasi oggetto considerato sensibile dalle autorità (vietatissime le mappe). Nonostante tutti questi limiti, Kaempfer seppe sfruttare ogni occasione per raccogliere una grande messe di informazioni sulla vita quotidiana, i costumi, la religione, la storia naturale. Conquistò l’amicizia (e le confidenze) di varie persone con cure gratuite, medicine, lezioni di medicina e matematica. Di grande aiuto fu l'assistenza del giovane Imamura Iensei, che gli fu affiancato come interprete e allo stesso tempo come apprendista di medicina e chirurgia occidentali; il ragazzo, colto, abile e intelligente, imparò rapidamente l’olandese, e rimase a fianco di Kaempfer, cui era legato da grande venerazione, fino alla fine del suo soggiorno a Dejima, accompagnandolo anche nei due viaggi a Edo. Grazie a lui, altri interpreti, pazienti, medici che praticavano la medicina occidentale, Kaempfer poté procurarsi libri (compresa un’enciclopedia illustrata), mappe, disegni, oggetti di varia natura, sebbene in teoria fosse vietato. Anche il suo amore per le piante, molto ammirato dai giapponesi, funzionò come una sorta di passaporto, che gli permetteva di dedicarsi a indagini su oggetti sensibili in tutta tranquillità: «Sistemavo apertamente erbe, fiori e rami verdi accanto ai miei strumenti, e mentre li misuravo, li esaminavo, li descrivevo e li disegnavo, ne approfittavo per descrivere e disegnare tutto quello che volevo». Nella primavera del 1691 e del 1692, i due viaggi a Edo, durante i quali la delegazione olandese attraversò il Kyushu per imbarcarsi alla volta di Osaka e quindi percorse il Tokaido, la più celebre e affollata strada dell’antico Giappone, gli permisero di conoscere di persona alcune delle regioni più importanti del paese e di raccogliere campioni di animali e piante: attività non proibita, anzi apprezzata dai giapponesi, tanto che i suoi accompagnatori (e sorveglianti), incluso il governatore, spesso gli portavano qualche pianta. Per rendersi indipendente dagli interpreti, con il suo talento per le lingue imparò le frasi necessarie per informarsi su dati come il periodo di fioritura o la fruttificazione. Kaempfer lasciò Dejima il 30 ottobre 1692 e rientrò in Olanda via Giava circa un anno dopo. Non avendo completato gli studi di medicina, per poter esercitare la professione in Europa si iscrisse all’Università di Leida, dove ottenne la laurea magistrale. Forse sperava di inserirsi nell’ambiente accademico olandese o tedesco, ma non gli fu possibile. Nel 1694, dopo un’assenza di ventitré anni, ritornò in patria e dovette rassegnarsi a vivere in una realtà provinciale, prima nella cittadina di Lemgo, poi al servizio del conte di Lippe. Gli impegni professionali gli lasciarono poco tempo per rivedere i suoi scritti, senza contare un matrimonio infelice sfociato in una causa legale; riuscì solo a completare e a veder pubblicata Amoenitates exoticae, una raccolta di saggi in cinque parti, le prime quattro dedicate alla Persia, la quinta al Giappone. Quest’ultima comprende saggi su argomenti come l’agopuntura, l’uso della moxa, il tè, il sakoku (termine introdotto proprio da Kaempfer), e una Flora japonica con la descrizione di circa 200 piante; i limiti delle sue finanze gli permisero però di far stampare solo 28 dei suoi numerosissimi disegni. A ricordarci l’importanza del suo contributo alla conoscenza della flora nipponica, le venti specie giapponesi che portano l'epiteto kaempferi; tra di esse Larix kaempferi, Rhododendron kaempferi, Broussonetia kaempferi. Fu il primo a descrivere e disegnare piante oggi notissime come Ginkgo biloba, Pittosporum tobira, Ophiopogon japonicum. Talvolta gli si attribuisce l’introduzione del primo ginkgo in Europa, ma in realtà i due esemplari più antichi, che si trovano rispettivamente a Utrecht e Geetbets, furono piantati almeno trent’anni dopo . Si deve invece a lui (o al tipografo che compose Amoenitates exoticae) l’errore di trascrizione a causa del quale il giapponese ginkio divenne ginkgo. Rimasero manoscritti i due progetti più ambiziosi di Kaempfer: la relazione completa dei suoi viaggi e il libro sul Giappone Huetiges Japan («Il Giappone di oggi»). Dopo la sua morte, avvenuta nel 1716, gli erbari e i manoscritti furono acquistati dal medico e collezionista inglese Hans Sloane, che finanziò la pubblicazione dell'edizione inglese curata dal naturalista svizzero Johann Caspar Scheuchzer, History of Japan (1727). Quasi trent’anni dopo il viaggio giapponese e undici anni dopo la morte di Kaempfer, l’opera ebbe un successo sensazionale e presto fu tradotta in altre lingue europee, forgiando per almeno un secolo l'immagine del Giappone in Occidente. Non meno profondo e permanente fu l’impatto sulla cultura europea delle pagine dedicate alla corte persiana e alle antichità di Persepoli. Una sintesi della vita di questo grande viaggiatore nella sezione biografie. Kaempferia, profumi tropicali La Flora japonica contenuta in Amoenitates exoticae costituisce la fonte principale di Linneo per le piante giapponesi; morto nel 1778 e già malato da tempo, egli infatti non poté giovarsi delle ricerche dell’allievo Carl Peter Thunberg. Non stupisce dunque la sua dedica del genere Kaempferia a quel pioniere dello studio della flora nipponica, così motivata in Hortus Cliffortianus: «Ho dedicato questo genere al curiosissimo viaggiatore Kaempfer, al quale dobbiamo la conoscenza delle piante giapponesi e la loro accurata descrizione». Il genere Kaempferia L. (famiglia Zingiberaceae) comprende una quarantina di specie di piante erbacee originarie dell’Asia tropicale e subtropicale (India, Indocina, Cina meridionale, Malaysia, arcipelago indonesiano), con centro di diversità nel bacino del Mekong. Di piccole dimensioni, hanno radici rizomatose aromatiche che producono da una o poche foglie ovoidali o tondeggianti raccolte a rosetta, che in alcune specie sono marcate d’argento o porpora; i fiori, che in genere spuntano al livello del terreno, in alcune specie prima delle foglie, sono profumati e relativamente vistosi. Diverse specie fanno parte della farmacopea tradizionale o sono usate come spezie: ad esempio, le foglie di K. galanga (il cui aroma ricorda quello di Alpinia galanga, del resto appartenente alla stessa famiglia) sono un ingrediente comune della cucina di Giava e Bali, mentre le radici hanno proprietà antibatteriche, digestive e diuretiche. Alcune specie sono coltivate come piante d’appartamento; una delle più notevoli è K. elegans, una piccola erbacea non più alta di 20 cm, apprezzata, più che per i piccoli fiori lilla, per le foglie vistosamente marcate d’argento. K. pulchra è simile, ma con marcature scure. Qualche informazione in più nella scheda.
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Nel Seicento, l'Olanda vive il suo secolo d'oro. E' il paese più prospero d'Europa, all’avanguardia nei commerci, nelle scienze, nella cultura, nell’arte. E nei giardini: gli olandesi, sfruttando la loro secolare esperienza nel sottrarre terra al mare, ridisegnano la natura e creano un nuovo modello di giardino, in cui le siepi sagomate dalle forbici dei giardinieri disegnano stanze, padiglioni, teatri di verzura. A differenza del giardino all’italiana, in cui il verde domina, il giardino barocco olandese è colmo di fiori, con parterre multicolori simili ai tappeti persiani tanto amati da Vermeer o Rembrandt. Molti mercanti che si sono arricchiti con i traffici o le industrie investono il loro denaro in tenute di campagna che spesso ospitano vasti giardini, uno status symbol del loro potere e della loro ricchezza. Non possono mancare collezioni di piante esotiche: sono alla base della prosperità dell'Olanda e sono anche il simbolo del suo dominio sul mondo, il segno tangibile di quel nuovo Eden, paradiso in terra ricostruito, che per qualche decennio i Paesi Bassi si illudono di essere. E così non è un caso se Paul Hermann, il più importante botanico olandese del secolo, battezza Paradisus batavus, "Paradiso olandese", il suo libro dedicato alle rarità coltivate in quei giardini. Rarità che molto ha contribuito a introdurre in Europa, prima come esploratore del Capo di Buona Speranza e dell'isola di Ceylon, poi come direttore dell'Orto botanico di Leida. Linneo lo stimava tanto da proclamarlo "principe dei botanici" e da dedicargli, complice Pitton de Tournefort, il genere Hermannia. Sud Africa, Ceylon... Leida Nel 1658, dopo una lunga guerra in cui intervenne a fianco dei sovrani locali (che ancora non sapevano che stavano per sostituire un occupante con l'altro), la VOC (Verenigde Oost-Indische Compagnie, Compagnia olandese delle Indie orientali) espulse definitivamente il Portogallo da Ceylon (oggi Sri Lanka). Da quel momento, esercitò il monopolio del commercio della cannella dell'isola, la migliore in assoluto. Ma impiegati e ufficiali si ammalavano con allarmante frequenza di malattie sconosciute in Europa che i farmacisti e i chirurghi al servizio della Compagnia non sapevano come curare; le medicine portate dall'Europa nel clima tropicale non sempre servivano e perdevano presto la loro efficacia; era urgente studiare la flora locale alla ricerca di piante medicinali alternative. Un influente uomo politico, Hieronymus van Beverningh, che era anche un accanito collezionista di piante esotiche, e il prefetto dell'orto botanico di Leida Arnold Seyen raccomandarono il giovane medico tedesco Paul Hermann (1646-1695), da poco laureato alla prestigiosa università di Padova; si dice fosse interessato alle piante fin da bambino, quando, a dieci anni, rischiò di annegare per esaminare delle piante acquatiche. I suoi sponsor speravano che, oltre a soddisfare gli obiettivi della Compagnia, potesse anche arricchire le loro collezioni. Dunque, in un certo senso Hermann è il primo cacciatore di piante al servizio di un orto botanico. Partito per Ceylon all'inizio del 1672, ad aprile approfittò dello scalo al Capo di Buona Speranza per raccogliere piante sudafricane; e altrettanto fece durante il viaggio di ritorno, nel marzo del 1680. A parte il precedente della piccola raccolta di Justus Heurnius (che però era un teologo, non un botanico), si tratta del primo contatto di un botanico europeo con la flora del Capo. Con gli esemplari raccolti (circa 800, secondo la testimonianza di Linneo) formò un erbario; spedì semi e bulbi in Olanda, e altri li affidò al chirurgo di bordo Hieremias Stolle, di ritorno in Europa. Questi a sua volta li passò all'anatomista danese Thomas Bartholin che nel 1775 pubblicò la breve nota "Plantae novae Africanae", la prima pubblicazione a stampa dedicata esclusivamente a piante sudafricane. A Ceylon, come "medico ordinario e medico capo" della VOC, Hermann si stabilì a Colombo, sede del quartier generale della Compagnia; creò e diresse un ospedale, esplorò assiduamente la flora dei dintorni, annotando i nomi locali e le proprietà medicinali delle piante. Con questi materiali mise insieme diversi libri di erbari e almeno un volume di illustrazioni (non è certo se di sua mano o di altri anonimi disegnatori); inoltre inviò più volte bulbi e semi in Olanda. Sebbene siano limitate alla zona intorno a Colombo (gli olandesi controllavano solo alcune aree costiere) e includano anche diverse specie coltivate introdotte, le sue raccolte sono impressionanti per quantità e per la qualità delle annotazioni, senza contare l'eccezionale valore storico, trattandosi del primo studioso europeo a esplorare la flora dell'isola, ai suoi occhi un vero Eden. Intorno al 1674 visitò anche brevemente il Malabar dove forse incontrò van Rheede, che potrebbe averlo consultato per il progetto che poi divenne Hortus malabaricus. L'esplorazione della flora singalese diede grande fama a Hermann, tanto che nel 1678, alla morte di Arnold Seyen, i rettori dell'Università di Leida decisero di chiamarlo a succedergli come professore di botanica e prefetto dell'Orto. Hermann accettò e tra la fine del 1679 e l'inizio del 1680 lasciò Ceylon per tornare in Olanda. Nelle sue lezioni, fu il primo botanico olandese a prestare attenzione alla tassonomia; creò anche un proprio sistema, basato sui frutti, che univa e modificava quelli di Ray e Morison. Oltre che a Leida, fu adottato in altri orti botanici, tra cui Uppsala ai tempi di Rudbeck il vecchio. Deciso a fare dell'Orto di Leida il migliore d'Europa, solitamente dedicava le pause accademiche a viaggi in altri paesi europei per consultare colleghi e appassionati e procurarsi piante; nel 1682 fu in l'Inghilterra, dove visitò tra l'altro gli orti botanici di Oxford e Chelsea, e ne riportò più di 200 piante vive (soprattutto nord americane); nel 1688 andò a Parigi ad incontrare Tournefort; qui strinse amicizia con l’inglese William Sherard, che decise di seguirlo a Leida. Dal 1686, assunse anche l'insegnamento di medicina pratica. Durante la sua gestione, l'orto botanico di Leida divenne il principale centro europeo di acclimatazione e diffusione delle piante provenienti dalle colonie americane, africane e asiatiche. Oltre alle sue introduzioni dirette dall'India e dal Sud Africa, poté sfruttare i suoi contatti con la VOC e con i principali collezionisti olandesi, nonché con l'Inghilterra e la Francia, per triplicare le collezioni (il suo catalogo del 1687 registra tremila specie, contro le circa 800 di inizio secolo); molte erano subtropicali o tropicali. Nel 1681, fu tra i primi a sperimentare una serra riscaldata. Olanda, un secondo Eden? Hermann morì nel 1695 a soli 49 anni (qui una sintesi biografica), lasciando incomplete e inedite diverse opere; l’unico suo libro pubblicato in vita fu infatti il catalogo dell’orto botanico di Leida (1687). Quella a cui teneva di più, e a cui lavorava da diversi anni, era Paradisus batavus, un catalogo illustrato delle piante di recente introduzione nei giardini olandesi. Già nel 1689 l'affezionato Sherard ne aveva pubblicato l’indice, e alla morte inaspettata del maestro e amico si assunse il compito (ingrato, visto lo stato del manoscritto) di curarne la pubblicazione; a spese della vedova di Hermann, l’opera uscì in una prima edizione relativamente economica in ottavo nel 1695, e in una seconda più pregevole edizione in quarto nel 1705 . Entrambe comprendono un centinaio di calcografie, su disegni in gran parte di mano dello stesso Hermann; per numerose specie, si tratta della prima immagine a stampa. Nonostante sia un lavoro diseguale (a causa della morte dell’autore, le piante sono trattate in modo variamente esteso e in alcuni casi l'illustrazione è priva di note d'accompagnamento) è di estremo interesse per la storia dell’introduzione delle piante orticole; tra di esse, come ho raccontato in questo post, le prime due orchidee tropicali coltivate in Europa. Ma è anche un documento in presa diretta della civiltà olandese del giardino nel secolo d’oro. Tra i giardini citati, oltre agli orti botanici di Leida e Amsterdam e a quelli principeschi di William e Mary (divenuti sovrani d’Inghilterra nel 1689, in seguito alla gloriosa rivoluzione), quelli di importanti uomini politici: il suo protettore Hieronymus van Beverningh, il segretario degli stati d’Olanda Simon van Beaumont, il pensionario di Haarlem Gaspar Fagel, il ciambellano Willem Bentinck (poi primo duca di Portland). Per questi uomini di potere, i giardini e il collezionismo di piante esotiche e rare avevano un preciso significato ideologico: come leggiamo in Den Nederlandtsen Hovenier , il popolare manuale di giardinaggio scritto da Jan van der Groen (circa 1635-1672), capo giardiniere dello statolder, la caduta di Adamo aveva reso imperfetta la natura, ma l’arte, la domesticazione e l’ordine potevano restituire la perfezione perduta e i giardini erano la prova materiale della riuscita dell’impresa. Il titolo del libro di Hermann, Paradisus batavus «paradiso olandese», si rifà esplicitamente a questa ideologia. Nel 1717, le note di campo scritte da Hermann a Ceylon furono pubblicate, sempre da Sherard, sotto il titolo Musaeum Zeylanicum. Ma per la storia della botanica sono molti più importanti gli erbari. Hermann aveva raccolto centinaia di esemplari sia per sé, sia per i suoi sponsor; al rientro da Ceylon, consegnò almeno un libro d’erbario a Beverningh e un altro a Jan Commelin, direttore dell'orto botanico di Amsterdan. Dopo la sua morte, la vedova, probabilmente per finanziare la stampa di Paradisus batavus, vendette il resto all’asta. Per cinquant’anni, se ne perse ogni traccia, finché nel 1744 giunsero nelle mani del farmacista reale danese August Günther cinque volumi, quattro d’erbario e uno di disegni. Günther li prestò a Linneo, che se ne servì sia per la sua unica pubblicazione sulla flora asiatica, Flora Zeylanica, sia per le piante singalesi di Species plantarum. Dopo diversi altri passaggi, il prezioso erbario fu acquistato da Joseph Banks e fa oggi parte delle collezioni del Natural History Museum di Londra. Il volume appartenuto a Commelin fu invece studiato dal botanico olandese Johannes Burman per il suo Thesaurus Zeylanicus. Deliziose (e misconoscite) Hermanniae Hermann era stimatissimo dai botanici della generazione immediatamente successiva: Boerhaave lo definì «incomparabile per la conoscenza delle piante», Johannes Burman lo chiamò «sommo lume dell’Università di Leida». Quanto a Linneo, che premise a Flora Zeylanica una biografia di Hermann così elogiativa da sconfinare nella agiografia, lo salutò «principe dei botanici», un titolo che di solito riservava a se stesso, e scrisse: «Non c’era al mondo un botanico pari a Hermann per i meriti e le scoperte» . Grande stima ne aveva anche Tournefort che gli dedicò il genere Hermannia , sulla base dell’unica specie allora nota (nome attuale Hermannia hyssopifolia), una delle acquisizioni sudafricane di Hermann; il genere fu poi fatto proprio da Linneo . Hermannia L. della famiglia Malvaceae è un grande genere soprattutto sudafricano, dunque perfetto per celebrare il primo esploratore della flora del Capo. A parte una specie australiana e pochissime specie distribuite tra Messico e zone adiacenti degli Stati Uniti, buona parte delle circa 160 specie sono africane, 81 delle quali endemiche del Sud Africa, soprattutto delle province del Capo occidentale e settentrionale. Il genere è molto vario, e si è adattato a un’altrettanto grande varietà di ambienti. Sono piante erbacee o piccoli arbusti, spesso striscianti. Le specie che vivono nel veld tendono a lignificare alla base e a formare un fusto legnoso sotterraneo, in grado di superare i periodi di siccità o anche gli incendi. Anche se sono poco utilizzate nei giardini, molte specie sono assai decorative grazie alle masse di fiori penduli a campana, spesso in delicati colori pastello. Ne troverete una piccola selezione nella scheda. Sette anni di lavoro, una spesa di 17,920 fiorini, una squadra di una dozzina di artisti, un farmacista e un botanico, 367 tavole calcografiche, 1084 piante divise nelle quattro stagioni, 3 volumi per il peso complessivo di 14 kg, 300 copie vendute a un prezzo esorbitante, un esemplare aggiudicato in un'asta di Christie per 1.930.500 sterline: sono questi i numeri di Hortus Eystettensis, il meraviglioso florilegio barocco voluto dal vescovo di Eichstätt Johann Konrad von Gemmingen e realizzato dal farmacista Basil Besler. Il ricchissimo vescovo desiderava immortalare le piante dei suoi favolosi giardini disposti su otto terrazze, dove, a quanto si racconta, fiorivano 500 varietà diverse di tulipani. Morì prima che la mastodontica opera fosse finita; a trarne profitto fu il curatore Basil Besler, che guadagnò abbastanza da acquistare una casa (il cui prezzo era giusto 5 volte quello di una copia di lusso del librone). E oltre a una serena vecchiaia, conquistò anche un posto nella tassonomia botanica, come patrono del genere Besleria. Da un giardino barocco a un'opera senza pari Il vescovo Johann Konrad von Gemmingen (1561-1612), presule della diocesi di Eichstätt in Baviera, oltre a non disdegnare la caccia alle streghe (durante il suo mandato, furono almeno 20 le donne finite sul patibolo), amava il lusso e l'ostentazione. In occasione del Capodanno del 1603 arrivò a Ingolstadt a bordo di un cocchio trainato da sei cavalli, seguito da un corteggio di 91 persone e 83 cavalli. Poco prima di morire, commissionò un pomposo ostensorio con grappoli d'uva di pietre preziose e una stella di diamanti, per il quale erano stati necessari 1400 perle, 350 diamanti, 250 rubini e altre pietre, dal valore stimato di 150.000 fiorini. Non era tipo da accontentarsi della vecchia residenza vescovile; si fece costruire un nuovo palazzo di rappresentanza in stile tardo rinascimentale, ispirato a modelli italiani, che oggi è considerato uno dei capolavori del Rinascimento tedesco. Gli interni erano sontuosi e ricchi di curiosità e oggetti d'arte, A fare da scrigno a tanta preziosità e bellezza, anche i giardini non potevano essere da meno. Per il progetto, Gemmingen intorno al 1596 si rivolse a Joachim Camerarius il giovane, che, oltre ad essere uno dei più eminenti botanici tedeschi, possedeva egli stesso un giardino botanico dove coltivava molte piante esotiche. Tuttavia Camerarius morì prima dell'inizio dei lavori, nel 1598. Il vescovo allora ingaggiò Basilius Besler, un farmacista di Norimberga che possedeva un noto gabinetto di curiosità e un giardino botanico e corrispondeva con diversi naturalisti, tra cui Clusius. Il ruolo di Besler era organizzativo: gestiva la cassa e pagava dipendenti e fornitori; coordinava e sorvegliava l'attività dei giardinieri; soprattutto, teneva i contatti con i fornitori di piante, in particolare i mercanti dei Paesi Bassi che operavano a Anversa, Bruxelles e Amsterdam. I lavori d'impianto del nuovo giardino, ben presto noto come il più bello al di là delle Alpi, durarono circa sei o sette anni, fino al 1606. Si trattava in realtà di un sistema di otto giardini indipendenti, curati ciascuno da un proprio giardiniere, disposti su altrettante terrazze lungo il pendio della collina su cui sorge il Willibaldsburg, il castello-fortezza dei vescovi di Eichstätt; il vescovo poteva ammirarli dall'alto da un'altana collegata con i suoi appartamenti, e scendere in giardino attraverso una serie di scale a chiocciola. Ispirato al gusto barocco per la meraviglia, il giardino del vescovo era concepito come una Wunderkammer all'aperto, con chioschi, fontane, statue e collezioni di piante rare, molte di origine mediterranea, anche se non mancava qualche novità appena arrivata dall'America. La moda del momento prediligeva le bulbose, soprattutto i tulipani di cui il vescovo Gemmingen si vantava di possedere 500 diverse varietà. Non sappiamo se l'idea di immortalare quelle fragili bellezze in un catalogo illustrato sia stata del vescovo o se a suggerirgliela sia stato Besler. Ma probabilmente entrambi guardavano a un precedente immediato: il florilegio fatto allestire intorno al 1589 da Camerarius per il proprio giardino, un magnifico manoscritto in folio di 194 carte, con 473 dipinti di piante ornamentali a tempera e acquarello, raggruppate in base al periodo di fioritura. Camerarius non poté farlo stampare, e dopo la sua morte molte delle sue piante andarono ad arricchire le collezioni del giardino del vescovo di Eichstätt. A parte quest'esempio, quando Besler avviò la realizzazione di Hortus Eystettensis non esistevano precedenti né di cataloghi illustrati di un singolo giardino né di florilegia, ovvero di libri dedicati alle piante fiorite; fino ad allora, l'editoria botanica si era occupata essenzialmente di piante officinali. Tuttavia, dato che, come vedremo, il lavoro preparatorio si protrasse per molti anni, quando fu dato alle stampe ormai un precedente c'era: il catalogo dei giardini del Louvre Le Jardin du tres Chrestien Henry IV, con testi di Jean Robin e disegni di Pierre Vallet, pubblicato nel 1608. Insomma, l'idea era nell'aria, ma Hortus Eystettensis, per dimensioni, magnificenza, qualità e quantità delle immagini, potrei dire "peso" (anche in senso letterale), rimane senza uguali. Besler viene generalmente indicato come l'autore e come tale risulta nel frontespizio; per accreditare l'opera come sua, si fece orgogliosamente ritrarre all'inizio dell'opera, con in mano una pianticella forse di basilico, che potrebbe alludere al suo nome. In realtà ne fu piuttosto il responsabile editoriale. Procurò la carta, selezionò le piante da ritrarre e organizzò il progetto, ingaggiò gli artisti e forse l'autore dei testi, seguì tutte le fasi della produzione, dal disegno alla stampa. L'impresa richiese molti anni (di solito si parla di sedici, ma questo lasso di tempo include anche la realizzazione del giardino; possiamo più realisticamente parlare di sette anni, fissando l'inizio al 1606 o al 1607) e ironicamente si concluse nel 1613, un anno dopo la morte del committente. Dato che Besler viveva a Norimberga, dove continuava a gestire la sua ben avviata farmacia "All'immagine di Maria", tutto il lavoro si spostò in città (cosa che causò poi molte critiche a Besler da parte della corte diocesana). Seguendo l'arco delle stagioni, quindi dall'inverno all'autunno, ogni settimana scatole di fiori freschi percorrevano le cinquanta miglia che separano le due località, per arrivare nelle botteghe dei pittori incaricati di ritrarre a colori le piante dal vivo; conosciamo solo il nome di uno di loro, Sebastian Schedel. Probabilmente in questa fase vennero scritte anche le descrizioni e le succinte note botaniche, che la tradizione attribuisce almeno in parte a Ludwig Jungermann, uno dei nipoti di Camerarius. A questo punto gli schizzi partivano per Augusta, dove operava l'abilissimo copiatore Wolfgang Kilian, che ne traeva disegni in bianco e nero adatti ad essere trasformati in incisioni; era una fase che richiedeva grandissima competenza nell'uso del tratteggio e del chiaroscuro. Alcune parti erano colorate o accompagnate da una legenda sui colori. Sempre nella bottega di Kilian, i disegni erano poi incisi su lastre di rame. Tuttavia, dopo la morte di Gemmingen, con la corte diocesana che premeva per tagliare le spese, l'incisione venne affidata a diversi artigiani di Norimberga (ci sono giunti i nomi di almeno sette incisori). Ecco giunto il momento della stampa, che si concluse nel luglio 1613. Ma, almeno per le copie di lusso, non era finita: vennero infatti previste due versioni, una per così dire "economica" (vedremo tra poco quanto) con le tavole in bianco e nero stampate sul recto e le descrizioni corrispondenti sul verso; una di lusso con le tavole colorate a mano nella bottega della famiglia Mack che era specializzata in questa operazione. Era un lavoro lunghissimo: la copia attualmente in possesso della British Library fu colorata da Georg Mack, che iniziò il 2 marzo 1614 e concluse il 16 aprile 1615. Il risultato fu l'opera più mastodontica del secolo; stampata su fogli dal formato monstre 57 x 46 centimetri per un peso complessivo di 14 chili, fu anche una delle più costose di tutti i tempi. Alle casse vescovili costò 17,920 fiorini; le copie in bianco e nero erano vendute a 35 fiorini (per fare un paragone, il capo giardiniere del vescovo riceveva un salario annuale di 60 fiorini); quelle colorate costavano l'astronomica cifra di 500 fiorini. Quando il duca Augusto di Brunswick-Lüneburg, un bibliofilo che possedeva una notevole biblioteca, sentì il prezzo, pensò di aver capito male, e che ne costasse cinquanta; se il prezzo era quello, l'avrebbe comprata volentieri, altrimenti si sarebbe accontentato di una copia in bianco e nero. Sappiamo però che cambiò idea e, non solo sborsò i 500 fiorini, ma acquistò più copie da usare come dono principesco. La prima tiratura fu di 300 esemplari; poiché vennero colorate solo poche copie e molte furono successivamente smembrate per vendere le singole stampe, ne sopravvivono pochissime. Qualche anno fa una è stata venduta all'asta da Christie per 1.930.500 sterline. Sempre nel 1613, Besler fece stampare una seconda tiratura in bianco e nero di duecento copie priva dei testi, identica a quella precedente tranne che per la dedica al successore di Gemmingen; nel 1627 suo fratello Hieronymus mandò in stampa una terza edizione senza testo e con sole 97 tavole in bianco e nero. In un caso come nell'altro, erano state stampate senza l'autorizzazione della diocesi di Eichstätt, che pure aveva sostenuto le spese. L'unico a guadagnarci fu proprio Besler che riuscì anche ad acquistare una casa signorile, costata 2500 fiorini (l'equivalente di 5 copie colorate). Dopo la morte di Besler nel 1629 (una sintesi della sua vita nelle biografie) le matrici furono consegnate al vescovado, insieme a poche copie invendute; il vescovo provvide a una nuova edizione, uscita nel 1640, con un nuovo frontespizio senza il nome di Besler. Ma ormai la situazione tedesca era drammatica, La guerra dei Trent'anni, iniziata nel 1618, aveva investito pesantemente anche la Baviera: nel 1634 gli svedesi di Gustavo Adolfo assalirono Eichstätt quale "fortezza del cattolicesimo", incendiarono la città, saccheggiarono il palazzo e distrussero i giardini. Il loro ricordo dunque rimase affidato solo al libro che ne porta il nome,Hortus Eystettensis: sono state le sue tavole a guidare alla fine del secolo scorso il ripristino dei giardini storici sugli spalti del Willibaldsburg, dove oggi fioriscono di nuovo le piante coltivate all'epoca del vescovo Gemmingen, L'importanza di Hortus Eystettensis non è solo storica. Si trattò senza dubbio di una pietra miliare della storia dell'illustrazione botanica (i testi, lo si è capito, sono del tutto secondari), che sancisce il passaggio definitivo dalla xilografia alla calcografia. Il libro di 850 pagine (rilegato in due o tre volumi) comprende 367 tavole calcografiche, con la raffigurazione di 1084 piante ritratte a dimensione naturale o quasi. Su ogni pagina sono disposte in bella mostra, come in un'aiuola, da due a cinque piante, con uno o due soggetti principali di grande impatto estetico, contornati da piante più piccole, come se fossero grandi dame con i loro paggi. La disposizione segue le fioriture stagionali; l'inverno con sole 7 tavole, la primavera con 454 piante e 134 tavole, l'estate con 505 piante e 184 tavole, l'autunno con 98 piante e 42 tavole. Si tratta essenzialmente di specie ornamentali, 349 specie tedesche o naturalizzate da tempo, 209 mediterranee, 63 asiatiche, 23 americane e 9 africane. Le piante medicinali, che in precedenza erano le uniche ad essere rappresentate, sono una piccola minoranza. Le specie che ornavano il giardino del vescovo, e ora rivivono nelle tavole del magnifico libro, sono state scelte con altri criteri: il piacere estetico della loro bellezza e il prestigio della loro rarità. L'opera è oggi disponibile in varie edizioni, incluso una in facsimile. Nella gallery propongo alcuni esempi di immagini, che pur nelle loro dimensioni "a francobollo" permettono di osservare come sono state disposte le piante e di apprezzare la qualità del disegno. Besleria, dalle foreste dei tropici Nonostante la scarsa importanza dei testi, per la precisione del disegno e la ricchezza di dettagli, Hortus Eystettensis fu assai apprezzato dai botanici delle generazioni successive, incluso Linneo che lo definì una "meraviglia senza pari". E fu proprio lui, accogliendo un suggerimento di Plumier, a rendere omaggio al curatore Basilius Besler dedicandogli il genere Besleria. Besleria L. è un vasto genere della famiglia Gesneriaceae che comprende circa 170 specie di grandi piante erbacee, arbusti o piccoli alberi diffusi dal Messico al Sud America tropicale, dove vivono nel sottobosco della foresta pluviale. L'area di massima diversità sono le Ande tropicali, con circa 100 specie, seguite dal Centro America con 20 specie. Sono raramente coltivate, se non negli orti botanici, per una serie di ragioni: sono di dimensioni abbastanza grandi, hanno fiori pittosto piccoli e poco vistosi, richiedono umidità costante. Le specie di questo genere solitamente sono piante erette e poco ramificate, con diverse coppie di grandi foglie opposte, con nervature evidenti, talvolta coriacee, e piccoli fiori tubolari raccolti in infiorescenze ascellari talvolta in verticilli sovrapposti; i colori più frequenti della corolla sono il bianco, il giallo, il rosso e l'aranciato. La forma tubolare e i colori squillanti ci fanno capire che gli impollinatori di diverse specie sono i colibrì. Moltesono endemismi di diffusione locale, ma alcune hanno ampia distribuzione; tra queste ultime B. laxiflora, diffusa dal Centro America alla mata atlantica brasiliana. E' un suffrutice o piccolo albero, con lucide foglie ellittiche o ovate, con nervature evidenti e piccoli fiori, non più lunghi di 2 cm, raccolti in cime o umbelle, con calice tubolare-campanulato, da verde a giallo o arancio, e corolla tubolare gialla, arancio salmone, rosa o rosso dorato, con lobi lievemente diseguali, seguiti da bacche rosse. Non è infrequente che porti fiori e frutti contemporaneamente. Qualche approfondimento nella scheda. William Dampier è considerato il navigatore britannico più importante tra Francis Drake e James Cook. Vanta una lunga serie di primati: è stato il primo britannico a fare tre volte il giro del mondo, il primo a descrivere un uragano, le tartarughe delle Galapagos e l'albero del pane, il primo a guidare una spedizione scientifica ufficiale per conto della Royal Navy, il primo a raccogliere piante australiane... Le sue avventure hanno ispirato Swift e Defoe, le sue scoperte idrografiche hanno guidato Cook, le sue osservazioni sulle Galapagos sono state preziose per Darwin. Eppure Dampier non era né un ufficiale né un gentiluomo: a dirla tutta, era un pirata, o se preferite un bucaniere, un fratello della costa. Come naturalista, era autodidatta, ma non gli mancavano occhi acuti, attenzione ai particolari e capacità di collegare i fenomeni. A ricordare questo singolare personaggio è molto opportunamente il genere endemico australiano Dampiera. Avventure attraverso i sette mari Dopo tanti naturalisti vessati da un comandante più interessato alla navigazione che alle piante, ecco un capitano che rischia l'ammutinamento della ciurma per la sua passione per la botanica. Non è la maggiore stranezza di questo singolare personaggio. In diversi momenti della sua vita, William Dampier fu marinaio, mercante, piantatore, taglialegna, avventuriero, scrittore di successo, esploratore, navigatore e corsaro. Ovunque, e sotto ogni veste, fu un grande osservatore di ogni aspetto della natura, anche se il suo amore principale andava alle piante. Come scrive la giornalista M.S. Douglas: "Era un uomo con un gran naso, magro, tranquillo, dall'occhio acuto, un eccellente navigatore, uno scienziato attento ed accurato. Ed era anche un pirata". Non in senso metaforico: per almeno dieci anni fu un bucaniere, uno dei famigerati pirati dei Caraibi. Nato in un villaggio del Somerset in una famiglia contadina, alla scuola pubblica aveva acquisito almeno le basi del latino e della matematica, ma era rimasto orfano presto e si era innamorato del mare. A diciotto anni, la sua prima navigazione lo portò a Terranova, la seconda a Giava. Nel 1673 combatté brevemente nella terza guerra anglo-olandese. Nel 1674 arrivò nei Caraibi, come aiutante in una piantagione di zucchero in Giamaica. Dopo qualche mese lo ritroviamo a Port Royal, il principale porto dell'isola, all'epoca conosciuto come "la città più ricca e malfamata del mondo". Era anche una delle basi dei bucanieri, le cui incursioni contro le città e le navi spagnole erano più che tollerate dai britannici. Oltre alla pirateria, questi irregolari praticavano il contrabbando e altre attività più o meno legali, tra cui il taglio e il commercio del legno di campeggio, Haematoxylum campechianum, apprezzato materiale tintorio di cui gli spagnoli cercavano inutilmente di preservare il monopolio. Dampier sperò di fare fortuna con questa attività e si trasferì nella Baia di Campeche, ma, quando il campo dei boscaioli fu spazzato via da un uragano, si trasformò in pirata e probabilmente partecipò a incursioni ai danni degli spagnoli, abbastanza fruttuose da consentirgli nel 1678 di ritornare in Inghilterra, dove acquistò una piccola proprietà e si sposò. Già affascinato dalla esuberante natura tropicale in Giamaica, fu probabilmente in Campeche che Dampier iniziò a mettere per iscritto le sue osservazioni; le scriveva su fogli sparsi, che poi preservava dagli insetti e dall'umidità conservandoli in una canna di bambù chiusa alle due estremità con della cera. La permanenza in patria durò pochi mesi. Nel 1679 Dampier era di ritorno a Port Royal, dove entrò a far parte della ciurma del pirata Bartholomew Sharp. Da questo momento, divenne un pirata in servizio permanente effettivo e, a bordo di varie navi e sotto il comando di diversi famigerati comandanti, partecipò alla cattura di navi e alla devastazione di insediamenti spagnoli nei Caraibi, nello stretto di Panama, lunga la costa del Perù; durante un'incursione la nave su cui era imbarcato arrivò persino in Africa, per poi doppiare Capo Horn e passare dalle Galapagos, dove il nostro pirata-naturalista fu affascinato dallo strano aspetto ( e dall'ottimo gusto) delle tartarughe giganti. Anche se più tardi proclamerà che a spingerlo non era l'avidità di ricchezza, ma il desiderio di conoscere il mondo, in queste imprese non fu meno violento e sanguinario dei suoi compagni. Tuttavia, ovunque andasse, non mancava mai di esercitare il suo spirito di osservazione, e di prendere nota di ciò che osservava. Visse la sua avventura più lunga e straordinaria a bordo della Cygnet, comandata da Charles Swan. Nel 1684, nella speranza di catturare i galeoni che trasportavano oro e merci preziose dalle Filippine, quest'ultimo, a quanto pare spalleggiato da Dampier, decise di attraversare il Pacifico dal Messico alle Indie orientali, come era chiamato all'epoca l'arcipelago malese. Durante la traversata, la fame si fece sentire, tanto che i marinai erano sul punto di ammutinarsi e di cibarsi dei due colpevoli: il capitano e Dampier. Swan fece notare che, se da lui qualcosa si poteva ricavare, il magro Dampier era poco appetibile. Per fortuna, prima di mettere in atto i loro propositi cannibalici, approdarono a Guam, dove trovarono cibo abbondante, in particolare i frutti dell'albero del pane Atrocarpus spp. (Dampier sarà il primo europeo a descriverlo). Abbandonato Swan al suo destino a Mindanao, sotto il comando di John Reed la navigazione proseguì verso il mar della Cina, toccando il delta del Mekong e Canton. Qui decisero di invertire la rotta e di raggiungere l'India attraverso le Filippine e l'arcipelago malese. Dopo aver raggiunto Timor, deviarono verso sud e il 5 gennaio 1688 gettarono l'ancora a Karakatta Bay, nell'attuale Australia nord-occidentale (all'epoca si chiamava Nuova Olanda). Anche se diversi navigatori olandesi ne avevano variamente esplorato le coste, era un territorio largamente sconosciuto, tanto che si ignorava se fosse un insieme di isole o un continente a parte. La Cygnet doveva essere raddobbata e la sosta dei pirati si protrasse per diverse settimane; Dampier ne approfittò per esplorare l'interno di quella che, in suo onore, oggi si chiama penisola Dampier. Quindi la navigazione riprese attraverso l'Oceano indiano; insieme a due compagni, il pirata naturalista fu abbandonato in una delle isole Nicobare. I tre riuscirono a riadattare una canoa, con la quale realizzarono l'incredibile impresa di attraversare l'oceano indiano in tempesta, raggiungendo l'emporio inglese di Acieh nell'isola di Sumatra. Dopo altre avventure, che lo portarono anche in Vietnam e in Malacca, Dampier poté infine tornare in Inghilterra solo nel 1691. Aveva completato il suo primo giro del mondo. Un best seller e una spedizione scientifica Dampier era senza un soldo, ma aveva due risorse preziose: un schiavo tatuato filippino, che aveva acquistato a Sumatra, e il suo diario di viaggio. Dello sfortunato filippino, dopo averlo esibito come curiosità esotica, si disfece presto, rivendendolo al proprietario di una locanda; il diario si trasformò in uno fortunato bestseller, New Voyage Round the World , uscito nel 1697; nell'arco di due anni raggiunse quattro edizioni e nel 1699 fu seguito da un secondo volume. Se il largo pubblico era affascinato dalle avventure su sfondi esotici, furono invece le precise e oggettive informazioni di Dampier su popoli e risorse, idrografia e meteorologia, flora e fauna ad attirare l'attenzione di mercanti, politici e naturalisti. Dampier dedicò accortamente il libro a Charles Montague, presidente della Royal Society, che lo introdusse presso altri studiosi, in particolare Hans Sloane e John Woodward; inoltre lo presentò al primo lord dell'Ammiragliato, lord Oxford. Grazie a questi potenti sostegni, Dampier riuscì a far approvare quella che a tutti gli effetti possiamo considerare la prima spedizione scientifica finanziata dalla Royal Navy. Fu così che il 14 gennaio 1699 partì per il suo secondo giro del mondo, non più come marinaio semplice di una nave pirata, ma come capitano della nave di sua maestà Roebuck; il suo compito era raggiungere la Nuova Olanda, se possibile circumnavigarla ed esplorarne le potenzialità economiche e scientifiche. Era il comandante, ma anche il naturalista di bordo (un'accoppiata rara nella storia della scienza); l'amico Woodward, che nel 1796 aveva pubblicato per la Royal Society un opuscolo sull'argomento, lo aveva istruito sul corretto modo per raccogliere e conservare gli esemplari. Inoltre l'ammiragliato gli aveva messo a disposizione un abile artista (non tanto abile, a giudicare dai risultati) per disegnare piante e animali. Vista la stagione avanzata, la Roebuck avrebbe dovuto seguire la rotta del Capo di Buona Speranza, ma giunto all'arcipelago di Capo Verde, Dampier decise altrimenti. Si era reso conto che i marinai non avevano alcuna esperienza di navigazione oceanica e era ormai in aperto contrasto con il suo secondo George Fisher; lo fece vergare e mettere ai ferri, quindi puntò verso la costa brasiliana. Il 23 marzo raggiunse Bahia; Fisher fu sbarcato e incarcerato, in attesa di essere rimpatriato e processato. Mentre la nave veniva rifornita di viveri ed acqua, il comandante ne approfittò per andare ad erborizzare quasi ogni giorno in quella natura esuberante. Meno contenti erano i marinai, confinati a bordo; temendo un ammutinamento o una denuncia all'Inquisizione, il 23 aprile Dampier fece levare l'ancora. Ripresa la rotta iniziale, doppiò il Capo di Buona Speranza e raggiunse la costa australiana all'inizio di agosto, gettando l'ancora in una baia così ricca di squali che la battezzò Shark Bay (si chiama ancora così); prosegui poi verso nord visitando un'isola di quello che oggi si chiama Arcipelago Dampier, che chiamò Rosemary Island per l'abbondanza di una pianta dai fiori azzurri che gli ricordava il rosmarino (in realtà Olearia axillaris); in mezzo a piante di tanti colori, tra cui prevaleva l'azzurro, spiccava il rosso di una specie di fagiolo rampicante. Questa pianta davvero magnifica, dopo aver portato per qualche tempo il nome Clianthus dampieri, oggi si chiama Swainsonia formosa. Infine visitò per poche ore la Lagrange Bay dove raccolse esemplari di piante e conchiglie, mentre l'anonimo disegnatore ritraeva uccelli ed altri animali. Quel paese arido e privo di risorse, abitato da quella che Dampier giudicò "la popolazione più miserabile del mondo" era però deludente; le provviste scarseggiavano, la ciurma era sempre più incontrollabile e lo scafo in pessime condizioni. Anziché proseguire la navigazione verso est lungo la costa australiana, Dampier decise di tornare indietro e di dirigersi a Batavia, passando da Timor e dalla Nuova Guinea; a Batavia vennero effettuate alcune riparazioni che consentirono di riprendere il viaggio, doppiando il Capo di Buona Speranza alla fine di dicembre. Alla fine di febbraio la Roebuck naufragò al largo dell'isola di Ascension per una falla nella chiglia; l'equipaggio riuscì a salvarsi, recuperando pochi oggetti, tra cui il diario di Dampier e gli esemplari botanici raccolti in Brasile, Nuova Olanda e Nuova Guinea. Dopo un mese di stenti, i naufraghi furono raccolti da una nave della Compagnia delle Indie e rientrarono in Inghilterra ad agosto. Anche questa avventura divenne un libro, A Voyage to New Holland (1703). Dampier dovette affrontare la corte marziale, che lo assolse per il naufragio del Roebuck, ma lo condannò per abuso di potere e crudeltà nei confronti di Fisher, che fu invece totalmente scagionato. Nonostante ciò, Dampier rimaneva un personaggio così popolare da essere ricevuto dalla regina Anna e da ricevere il comando di una spedizione corsara ai danni del vicereame del Perù, con magri risultati. Di grande successo, ma non per merito suo, fu invece la spedizione corsara comandata da Woodes Rogers, durante la quale, nelle vesti di timoniere, Dampier fece il suo terzo giro del mondo. Alla scoperta della flora australiana Non basterebbe un romanzo per raccontare una vita tanto avventurosa (una sintesi nella sezione biografie); e infatti alle sue vicende si ispirarono tanto Swift, che nei Viaggi di Gulliver lo fa definire dal suo protagonista "mio cugino Dampier", quanto Defoe, che ha in parte modellato su di lui il giovane Robinson e il Capitano Singleton. Soffermiamoci qui sui suoi meriti scientifici. Dampier era un naturalista autodidatta, ma era dotato di una grande capacità di osservare e di confrontare i fenomeni, che descriveva con rara precisione e oggettività. Dalla brutta avventura in Campeche trasse la prima descrizione di un uragano tropicale, di cui poi rilevò le affinità con i tifoni del mar della Cina. Di estrema importanza il suo studio sugli alisei, le brezze, i venti stagionali, le maree e le correnti dei mari tropicali, pubblicato in appendice al secondo volume di New Voyage e divenuto un classico dell'idrografia e della meteorologia, apprezzatissimo tra gli altri da Cook e da Nelson. I suoi libri contengono osservazioni di prima mano e solitamente prive di pregiudizi sui popoli visitati (con la parziale eccezione degli aborigeni australiani, tratteggiati brevemente con poche frasi liquidatorie); di particolare interesse le pagine dedicate ai Chamorro, la popolazione indigena di Guam che ancora resisteva agli spagnoli che avevano occupato l'isola appena due anni prima. Dell'isola Dampier descrive anche con precisione le risorse naturali e i metodi di coltivazione, manifestando apprezzamento per i frutti dell'albero del pane. Osservò anche gli infiniti usi della palma da cocco presso i popoli del Pacifico, che a suo parere avrebbero dovuto essere imitati nelle Antille, dove la pianta era presente ma poco sfruttata. I due volumi di New Voyage Round the World contengono molte informazioni sulla flora e sulla fauna dell'America e del Pacifico. Contrariamente ai suoi contemporanei, che ritenevano la cocciniglia il seme di qualche pianta, la descrisse correttamente come un tipo di insetto, vari anni prima che Leewenhoek la identificasse come tale osservandola al microscopio. Le sue osservazioni sulle tartarughe e sulle iguana della Galapagos sono così attente e penetranti da fare da guida a Darwin, che aveva una copia di New Voyage nella sua biblioteca di bordo sul Beagle. Ovviamente, per i botanici le pagine più importanti sono quelle dedicate alla flora australiana. Durante il primo viaggio, Dampier ebbe modo di esplorare abbastanza a fondo la penisola che oggi porta il suo nome; anche se all'epoca non aveva ancora appreso le tecniche di raccolta e conservazione, le sue descrizioni sono così accurate da permettere quasi sempre di identificare piante ed animali. Le soste australiane del secondo viaggio, come abbiamo visto, furono molto brevi, ma Dampier questa volta raccolse un certo numero di esemplari botanici e poté giovarsi di un disegnatore, che ritrasse soprattutto uccelli e forse piante (quest'ultime potrebbero essere state disegnate più tardi sulla base degli exsiccata). Le piante raccolte e descritte sono circa una quarantina (cui vanno aggiunti esemplari raccolti in Brasile e Nuova Guinea); come gli aveva insegnato Woodwart, Dampier le pressò accuratamente tra le pagine di pesanti volumi e riuscì a salvarle dal naufragio. Al suo ritorno in Inghilterra, probabilmente le affidò a Woodward che a sua volta le passò all'amico John Ray; fu così che in appendice al terzo volume di Historia plantarum compare la descrizione di diciassette piante raccolte da Dampier (undici in Australia, quattro in Brasile, due in Nuova Guinea e una a Timor); probabilmente a scriverla fu Woodward. Altri esemplari furono prestati a Plukenet, che ne descrisse sette in Amaltheum botanicum. Più tardi Woodward cedette il piccolo erbario a Sherard; in tal modo entrò a fare parte dell'erbario dell'Università di Oxford, dove ancora si conservano 26 esemplari. Inoltre, in A Voyage to New Holland compaiono la descrizione e i disegni al tratto di 18 piante, nove delle quali australiane. Piante azzurre dal nuovissimo mondo Oltre alle già citate Olearia axillaris e Swainsonia formosa, tra le piante australiane raccolte o descritte da Dampier figurano Solanum orbiculatum, Beaufortia sprengeliodes (precedentemente B. dampieri), Paractaenum novaehollandiae, Crotalaria cunninghamii, Canavalia rosea, Abrus precatorius. Una delle piante conservate nell'erbario di Oxford, un arbusto dai fiori azzurri presumibilmente raccolto a Rosemary Island, rimase inedito e fu pubblicata nel 1810 da Robert Brown in Prodromus florae Novae Hollandiae come Dampiera incana. La dedica testimonia della fama che Dampier conservava ancora a inizio Ottocento: "L'ho chiamata Dampiera in memoria di William Dampier, capitano di marina ed esploratore celeberrimo, in tutti i suoi vari viaggi sempre assiduo osservatore della natura senza trascurare la botanica; visitò due volte la costa occidentale della Nuova Olanda e ha lasciato la descrizione di alcune piante di questa regione nella sua relazione di viaggio". Dampiera, della famiglia Goodeniaceae, è un genere endemico dell'Australia dove è presente in tutti gli stati, con centro di diversità negli stati occidentali, dove vive circa la metà delle 66 specie riconosciute. Sono erbacee perenni o piccoli arbusti con fiori asimmetrici azzurri o viola con gola gialla. In alcune zone dell'Australia occidentale, insieme alle loro parenti Scaevola, sono piante dominanti delle brughiere costiere; altre specie vivono invece in montagna. Poiché, come molte piante australiane, le diverse specie si sono evolute adattandosi a specifiche caratteristiche di suolo, esposizione, drenaggio ed è difficile farle prosperare in condizioni differenti, solo alcune sono entrate in coltivazione, in particolare quelle a portamento tappezzante. Tra di esse, D. linearis, una coprisuolo pollonante che cresce abbastanza rapidamente in qualsiasi suolo ben drenato e produce meravigliosi fiori blu elettrico; D. diversifolia, una perenne prostrata tappezzante che tollera condizioni diverse e in estate produce fiori blu scuro; D. purpurea, originaria del sottobosco delle foreste di eucalipti dell'Australia orientale, con foglie tomentose e fiori da lavanda a viola scuro. Altre informazioni nella scheda. Aa! No, non è un'esclamazione di sorpresa o di gioia, ma il nome di un genere, il più breve e il primo in ordine alfabetico dell'intera tassonomia botanica, a consolazione di quelli che sostengono che i nomi botanici sono troppo lunghi e difficili da pronunciare. Perché il grande orchidologo Heinrich Gustav Reichenbach abbia chiamato così questo genere di orchidee terrestri andine non si sa con certezza, ma abbiamo tre ipotesi. Ovviamente la mia preferita è quella che lo considera un nome celebrativo, in onore del tipografo olandese Pieter var der Aa, vissuto a cavallo tra Seicento e Settecento. Che con le orchidee c'entra parecchio. Tre ipotesi per il genere AA Nel 1854 l'orchidologo tedesco Heinrich Gustav Reichenbach separò dal genere Altensteinia (che comprende orchidee del Sud America andino) due specie, che rinominò Aa argyrolepis e Aa paleacea, creando il nuovo genere Aa. Non avendo mai l'autore spiegato le ragioni di questo strano nome (il primo in ordine alfabetico, il più breve e il più semplice della nomenclatura botanica), non possiamo che affidarci alle ipotesi. Ne sono state avanzate tre. La prima - la più gettonata - è che Reichenbach abbia voluto semplicemente creare una denominazione che venisse sempre per prima in tutte le liste alfabetiche dei nomi botanici, analogamente all'AAA che si usa negli annunci economici. Che questa ipotesi non sia poi così strampalata lo dimostra il fatto che non sarebbe affatto un caso isolato: nella nomenclatura zoologica c'è un genere di coleotteri denominato Aaaba, poi ribattezzato addirittura Aaaaba. Non manca neppure il caso opposto di un nome creato proprio per essere l'ultimo della lista; in botanica è il genere Zyzyxia. Ha una storia così curiosa che, se anche non è un nome celebrativo, permettetemi di raccontarla. Nel 1991 il botanico statunitense John Strother stava lavorando a una revisione della sottotribù delle Ecliptinae nordamericane (Asteraceae della tribù Heliantheae, quella dei girasoli); il lavoro era giù in bozza quando si rese conto che una specie prima assegnata al genere Wedelia ne differiva abbastanza da meritare un genere tutto per sé. Sottopose il problema all'editore che accettò l'inserimento di un nuovo genere, purché le pagine da ricomporre fossero ridotte al minimo. Dato che i generi erano in ordine alfabetico, la soluzione più pratica era creare una dominazione che venisse dopo l'ultimo nome della lista, Zexmenia. Strother così creò - del tutto arbitrariamente, come dichiara esplicitamente nella monografia stessa - il genere Zyzyxia, combinando le ultime consonanti e l'ultima vocale dell'alfabeto. Ma torniamo ad Aa e vediamo la seconda ipotesi: si tratterebbe di un'abbreviazione creata prendendo la prima e l'ultima lettera di AltensteiniA. Non impossibile, non trova però molti seguaci. Rimane la terza ipotesi: Aa è un nome celebrativo, che onora il tipografo olandese Pieter var der Aa (1659-1753). Contestata, ma del tutto credibile, visto che tra questo personaggio e le orchidee c'è un affascinante legame che Reichenbach - uno dei maggiori orchidologi dell'Ottocento - sicuramente non ignorava. Pieter var der Aa fu uno dei più importanti editori di quello che è considerato il secolo d'oro dell'editoria olandese. Dapprima libraio, poi tipografo-editore, operando a Leida, il prestigioso centro universitario, poté contare sulla collaborazione di importanti studiosi accademici, ma seppe anche sfruttare abilmente la passione per l'esotismo (la stessa che notiamo nei quadri dell'epoca, alimentata dall'espansione dei commerci e delle colonie olandesi nelle Americhe, in Sud Africa, nelle Indie orientali). Dapprima produsse soprattutto grandi opere universitarie, pubblicando ad esempio il Thesaurus delle opere dell'antichità greche di J. Gronovius (il padre del nostro botanico) o le opere di antiquaria di Graevius; nel suo catalogo non mancarono opere di scienza e medicina (tra gli altri, anche di Malpighi). In un secondo tempo, si specializzò soprattutto in atlanti e in collezioni di racconti di viaggi. L'opera più celebre uscita dalla sua tipografia è la Galierie agréable du monde, una serie di 66 volumi con oltre 3000 tavole calcografiche, in parte costituite da mappe, ma anche da immagini di nativi, monumenti, paesaggi, episodi storici. Nel suo vasto e variegato catalogo non mancarono le opere di botanica: Icones arborum, fructicum et herbarum exoticarum di Albrecht van Haller (senza data); Botanicon parisiense di S. Vaillant, con le incisioni di Aubriet, pubblicato a cura di H. Boerhaave (1723); ma soprattutto Paradisus Batavus di Paul Hermann (1698). E' infatti proprio a quest'opera che potrebbe essere dovuta la dedica del genere Aa. Qualche notizia in più sulla vita del librario-tipografo nella sezione biografie. Orchidee dalle due Indie L'opera di Hermann è il catalogo dell'Orto botanico di Leida, di cui egli fu curatore dal 1679 alla morte, avvenuta nel 1695. E' interessante tra l'altro per la descrizione di diverse specie esotiche, soprattutto sudafricane, da poco introdotte in Europa; inoltre, proprio grazie a van der Aa, si giova di una bella veste grafica con tavole illustrate di buona qualità. Agli appassionati di orchidee è nota perché documenta l'introduzione delle due primissime orchidee tropicali coltivate in Europa. Arrivavano dai capi opposti dell'impero commerciale olandese: una dalle Indie occidentali, ovvero dall'isola di Curaçao, nel mar dei Caraibi meridionale; l'altra dalle Indie Orientali, ovvero dall'isola di Ambon nell'arcipelago delle Molucche. L'americana (l'illustrazione compare a p. 207) è una specie epifita ancora oggi molto apprezzata per l'aspetto curioso e soprattutto per profumo notturno; qui contrassegnata dal nome-descrizione Epidendron corassavicum folio crasso sulcato (ovvero "pianta epifita proveniente da Curaçao con foglie succulente con una profonda nervatura centrale"), è oggi denominata Brassavola nodosa. L'incisione di Paradisus Batavus è stata realizzata a partire dal un disegno dal vivo di un esemplare coltivato dal collezionista Casper Fagel (1634-85). Si ritiene sia stata la prima orchidea tropicale ad approdare in Europa, come ho raccontato in questo post. L'asiatica (l'illustrazione è a p. 209, tav. 73) ha una storia ancora più interessante. Contrassegnata dal nome-descrizione Orchis amboinensis floribus altis, Flos Susannae Rumphii ("orchidea di Ambon a fiori alti, fiore di Susanna di Rumphius), l'illustrazione è tratta dal manoscritto dell'Herbarium Amboinense del grande botanico G. E. Rumphius, all'epoca ancora inedito; fu infatti pubblicato solo a partire dal 1741 da Burman, quasi quarant'anni dopo la morte dell'autore. Rumphius visse per oltre trent'anni ad Ambon al servizio della Compagnia olandese delle Indie, sposò una donna del luogo e si dedicò allo studio della fauna e della flora dell'arcipelago. Una serie di tragedie funestò la sua vita: intorno al 1670 perse la vista e nel 1674 sia la moglie sia la figlia minore furono vittime di uno tsunami che devastò l'isola. Per Rumphius fu una duplice tragedia: da quando era cieco, l'amata moglie Suzanne era diventata i suoi occhi e le sue mani. Per ricordarla, volle dedicarle proprio la nostra orchidea, con queste parole: "Poiché non sono riuscito a trovare un nome locale, ha deciso di assegnarle il nome latino Flos Susannae, Bunga Susanna in malese, per commemorare colei che è stata la mia prima compagna e il mio aiutante nel raccogliere erbe e piante, nonché colei che mi ha mostrato questo fiore per prima". Il testo di Hermann ci informa che questa elegantissima orchidea non era ancora fiorita nei giardini olandesi, dove era giunta grazie a Rumphius, salutato come "dotto Plinio delle Indie". Oggi il suo nome è Pecteilis susannae: per fortuna l'omaggio alla moglie e compagna di Rumphius è stato accolto da Linneo, rimanendo nella onomastica botanica. E' una delle bellissime orchidee di questo genere, i cui fiori sono stato spesso paragonati a candide colombe in volo. Il fascino discreto (?) delle Aa Come ho già anticipato, Reichenbach creò il genere Aa nel 1854, separandolo da Altensteinia. Tuttavia una ventina di anni dopo cambiò idea, e reinserì le due specie nel genere originario. Qualche decennio dopo, nel 1912 il genere Aa fu infine ripristinato da Rudolf Schlechter, anche perché nel frattempo ne erano state scoperte diverse nuove specie che ne giustificavano meglio l'indipendenza. Non hanno nulla di tropicale le nostre Aa, né nell'aspetto né nelle caratteristiche ecologiche e, all'interno della fascinosa famiglia delle Orchidaceae, rischiano di giocare il ruolo di parente povero. Vengono dagli habitat freddi delle Ande prossimi alla linea delle nevi e la loro discretissima presenza è dovuta all'adattamento alle temperature rigide e alle fortissime escursioni termiche degli ambienti in cui vivono (quello più tipico è il paramo, le lande che si estendono tra Costa Rica, Perù e Ecuador, di cui è stato detto "inverno tutte le notti, estati tutti i giorni"); sono piccole piante erbacee, con poche foglie basali a rosetta, talvolta carnose; l'infiorescenza, eretta in alcune specie, arcuata in altre, è formata da numerosissimi piccoli fiori a campana (uncospicuous, li definiscono i siti anglofoni) di solito bianchi e marrone che si aprono successivamente. A guardarli da vicino, sono sicuramente molto graziosi, con il labello a cappuccio che li racchiude quasi totalmente; ma in molte specie sono quasi invisibili, perché avvolti in brattee di consistenza cartacea che assicurano la necessaria protezione dai freddi notturni. Neanche il "profumo", se così possiamo chiamarlo, accresce di molto il loro fascino, se non per le mosche, che ne sono fortemente attratte. Se ne conoscono circa ventisei specie, distribuite nei paramos della Costa Rica e negli altipiani andini, fino al Perù e all'Argentina settentrionale. Qualche informazione in più nella scheda. Quale sarà il legame tra il genere Ibervillea, noto agli amanti delle succulente per i suoi enormi caudici tondeggianti, e il sieur d'Iberville, avventuriero franco-canadese, scopritore della foce del Mississippi e fondatore della Louisiana? In mancanza di una correlazione evidente e di una dichiarazione esplicita del creatore della denominazione (e non credendo nelle sedute spiritiche) dobbiamo affidarci a qualche indizio. In ogni caso, l'uno e l'altra (il personaggio e la pianta) sono singolari e meritano di diventare protagonisti di una delle mie storie verdi. Iberville? Chi o che cosa? Nel 1895, in una notarella uscita su una delle riviste che pubblicava a sue spese, il combattivo botanico Edward Lee Greene creò il genere Ibervillea, correggendo un errore del belga Cogniaux, che aveva denominate queste piante Maximowiczia, senza tener conto che il nome non era disponibile, essendo già utilizzato per una Magnoliacea. Purtroppo Greene non si preoccupò di spiegare l'origine del nome. In libri e repertori, troviamo tre spiegazioni: alcuni si accontentano di dire che deriva da Iberville, senza aggiungere di che cosa o di chi si tratti; altri sostengono che il nome è ricavato dalla parrocchia di Iberville, nello stato della Louisiana, dove sarebbe stata raccolta per la prima volta la specie tipo, I. lindheimeri; la maggioranza, infine, spesso in forma dubitativa, afferma che onora Pierre Le Moyne d'Iberville, soldato, avventuriero e esploratore franco-canadese, fondatore della Louisiana. L'ipotesi della derivazione da un toponimo è facile da respingere: I. lindheimeri non vive in Louisiana, e i primi esemplari furono raccolti in Texas, nei pressi di New Braunfels. Rimane dunque in campo solo l'ipotesi sieur d'Iberville. Per confermarla, in mancanza di informazioni dirette, ci serve almeno qualche indizio. La mia idea è stata analizzare le denominazioni celebrative create da Greene; sono parecchie decine (il botanico americano era un creatore entusiasta di denominazioni, attirandosi anche molte critiche di megalomania) e nella maggior parte dei casi onorano altri botanici, in particolare quelli che hanno dedicato i loro studi alla flora degli Stati Uniti sudoccidentali. Ma c'è anche un gruppetto di missionari, esploratori, fondatori di insediamenti, vissuti tra il Cinquecento e il Settecento; e tra loro, anche Cavelier de La Salle, primo esploratore del Texas e della Lousiana, che mancò la scoperta delle foci del Mississippi, impresa invece riuscita a d'Iberville. Greene (un bel personaggio che prima o poi merita più di questo cameo) fu il primo botanico a esplorare a fondo la flora dei nuovi Stati sudoccidentali dell'Unione e il primo ad tenere una cattedra di botanica a Berkley, in California; fu spesso in aspra polemica con i botanici dell'East Cost, in particolare con il loro patriarca, Asa Grey. E' evidente che le sue denominazioni celebrative, forse con una punta di polemica, vogliono proprio valorizzare chi lo ha preceduto (o talvolta accompagnato) nell'esplorazione di quelle regioni: la California, il New Mexico, l'Arizona, e - eccola - la Louisiana. D'Iberville è, tra loro, senz'altro il più illustre. Alla ricerca della foce del Mississippi Pierre Le Moyne sieur d'Iberville e d'Ardillières è un personaggio degno di film e romanzi (che infatti non sono mancati). Nato in Canada da un esponente di spicco della nuova colonia, sarebbe stato destinato al sacerdozio, ma scelse di essere marinaio e soldato. Tra 1686 e il 1697, partecipò alle guerre tra francesi e inglesi per il controllo del Canada, segnalandosi per il coraggio, l'audacia e il genio militare, senza per altro essere alieno dall'estrema violenza che caratterizzava la condotta militare di quei tempi (incluso il massacro dei coloni britannici e dei loro alleati Irochesi). Sconfisse ripetutamente gli inglesi, anche se si trattò sempre di vittorie effimere, i cui risultati andavano perduti non appena d'Iberville si spostava su un altro fronte di guerra. Ma non mi soffermerò su questa parte della sua carriera (per la quale rimando alla biografia), per concentrami sull'esplorazione della Louisiana, che con probabilità gli ha ottenuto la dedica di Greene. Nel 1697 il ministro della marina, conte di Pontchartrain, lo scelse a capo di una spedizione che doveva individuare la foce del Mississippi, riprendendo il progetto fallito da Cavalier de La Salle nel 1687. La piccola flotta, formata da quattro vascelli, lasciò il porto di Brest alla fine del 1698; ad accompagnare d'Iberville, anche uno dei suoi numerosissimi fratelli, Jean-Baptiste Le Moyne de Bienville. Oltre a La Salle, anche varie spedizioni spagnole avevano fallito nel compito di individuare lo sbocco del grande fiume; infatti, a diverse miglia dalla costa il Mississippi si divide in una moltitudine di canali, all'epoca un vero labirinto d'acqua. Un primo aiuto venne a d'Iberville da Laurent de Graff, un antico bucaniere, che egli prese con sé durante lo scalo a San Domingo: nel corso dei lunghi anni in cui aveva fatto la guerra da corsa agli spagnoli, de Graff aveva acquisito un'ampia conoscenza del settore settentrionale del golfo e aveva individuato in mare una misteriosa fonte di acqua dolce, che poteva ben corrispondere allo sbocco del fiume. Il 25 gennaio le navi francesi giunsero all'isola di Santa Rosa, di fronte a Pensacola, nella Florida spagnola; non potendo sostare qui per l'ostilità degli spagnoli, che rivendicavano a sé il possesso della regione, proseguendo lungo la costa, il 31 gennaio gettarono l'ancora a La Mobilla (oggi Mobile Point); qui esplorarono una grande isola che battezzarono Ile du Massacre, avendovi trovato 60 cadaveri (più tardi fu rinominata Ile Dauphine). Avendo individuato un canale d'acqua salmastra, ma non navigabile, decisero di proseguire. Navigando lungo la costa, entrarono in contatto con alcuni gruppi di indiani Bayou Goula; comunicando con una specie di lingua franca dei cacciatori di pellicce, che d'Iberville aveva appreso in Canada, seppe che venivano dalle rive di un grande fiume che chiamavano "Malbanchya". I francesi decisero di ancorare le navi e di proseguire l'esplorazione con piccole imbarcazioni. A un certo momento, proprio mentre stava per cadere la notte, si levò un forte vento e le scialuppe rischiarono di naufragare; ma proprio all'ultimo momento, scoprirono uno stretto passaggio verso il fiume; protetti dalle raffiche del vento, poterono proseguire lungo il Mississippi fino al mattino. Era il 2 marzo 1699. Sulla riva occidentale superarono un enorme palo rosso che indicava il confine tra i territori di caccia delle tribù Houma e Bayou Goula (ecco l'origine della città di Baton Rouge, qui fondata dai francesi nel 1721). Si divisero quindi in due gruppi, che navigarono controcorrente uno lungo il Mississippi, l'altra lungo il Bayou Manchac e il lago Pontchartrain. Ritornarono così al punto di partenza, di fronte all'attuale Biloxi, dove li attendeva all'ancora la nave Marin. Navigando lungo il Bayou Machac, d'Iberville apprezzò immediatamente la bellezza e la ricchezza naturale di quell'ambiente, a suo parere adattissimo ad ospitare una ricca colonia. Il mese di marzo fu dedicato ad altre esplorazioni; ad aprile iniziò la costruzione del Fort Maurepas, sulla costa di Biloxi, terminata il 1 maggio. Prima di partire per la Francia il 4 maggio, d'Iberville vi lasciò una guarnigione di un'ottantina di uomini, comandata dal fratello de Bienville. Rientrato in Francia, d'Iberville annunciò il buon esito della missione e cercò di convincere re e ministri del vantaggio di fondare una colonia sulle rive del Mississippi; essi si mostrarono entusiasti, ma il denaro scarseggiava. Inoltre era impossibile dare l'assenso ufficiale, per non incorrere nell'ostilità della Spagna, in un momento molto delicato per la diplomazia francese (in trattative con l'ultimo degli Asburgo di Spagna perché istituisse suo erede il duca di Angiò, nipote di Luigi XIV). Venne comunque finanziata una seconda spedizione; nel gennaio 1700 d'Iberville era di nuovo a Biloxi e, avendo incontrato alcune imbarcazioni inglesi che scendevano il fiume, ordinò di costruire un secondo forte più a monte; eretto circa 60 di km più a nord, fu denominato dapprima Fort de la Boulaye quindi Fort Mississippi. Ma le sorti della colonia erano tutt'altro che stabilite; era necessario rientrare in Francia a perorarne la causa. Questa volta d'Iberville vi rimase quasi un anno, dall'agosto 1700 al settembre 1701. Intanto era scoppiata la guerra di successione spagnola, che spingeva le autorità francesi a un impegno più deciso in America. Per la terza volta d'Iberville partì per la Louisiana (così fu battezzava la nuova colonia, in onore di Luigi XIV) e a Mobile, sulla costa, fondò un terzo forte, Saint Louis. Seguì un quarto e ultimo viaggio, nel 1702, quando fece trasformare l’île Dauphine nel quartiere generale della colonia. Coinvolto nelle vicende della guerra di successione spagnola (nel 1706 con un colpo di mano occupò e devastò l'isola di Nevis), d'Iberville sarebbe morto quello stesso anno a Cuba. A presiedere alle sorti della colonia francese, rimase il fratello minore che, nel 1718, avrebbe fondato Nouvelle-Orlèans, ovvero New Orleans. Rampicanti dei deserti Il genere Ibervillea, della famiglia Cucurbitaceeae, comprende una decina di specie di perenni xerofile, endemiche di un'area che va dagli Stati Uniti sudoccidentali (New Mexico, Texas, Oklahoma) al Belize e al Guatemala; area di maggiore biodiversità il Messico, con sei specie. A destare l'interesse degli appassionati di succulente è lo spettacolare contrasto tra il massiccio organo di riserva, un grande caudice globoso perenne, che in alcune specie è parzialmente esposto, in altre sotterraneo, e l'esile vegetazione annuale, formata dai sottili fusti muniti di viticci e dalle delicate foglie palmate o pedate; possono essere coltivate come rampicanti, fornendo un supporto, o come ricadenti. I piccoli fiori gialli, molto simili a quelli di zucche e zucchine, hanno i lobi bipartiti all'apice; alcune specie sono dioiche, altre monoiche, alcune a fioritura diurna, altre notturna. Anche i piccoli frutti, che a maturazione assomigliano a palloncini rossi, sono un'ulteriore attrattiva. Le specie più note e più facilmente disponibili sono I. lindheimeri e I. sonorae. La prima è originaria degli Stati Uniti sudoccidentali e del Messico, ha foglie profondamente palmate, con cinque o tre lobi e un caudice grigiastro che nelle piante mature può raggiungere il diametro di 40 cm. La seconda è un endemismo del deserto di Sonora, negli Stati di Baja California e Sinaloa in Messico: cresce in aree sabbiose, al fondo e sulle pendici dei canyon, al piede di alberi, arbusti e cactus giganti, che lo proteggono dal sole e forniscono un supporto sul quale si arrampicano i sottili fusti dotati di viticci. Nella stagione arida, la vegetazione aerea scompare, mentre il caudice, che affiora dal terreno, simile quasi a un pezzo di legno morto, funge da riserva; appena arriva la pioggia, emette rapidamente nuovi fusti e foglie e nel giro di poche settimane arriva a fiorire e a produrre frutti; ma se non piove, è in grado di sopravvivere anche per anni, attendendo il momento propizio. Nella medicina tradizionale la radice (tossica) è utilizzata per curare molteplici malattie; le ricerche ne hanno confermato le proprietà antidiabetiche. Ricercate e di lenta crescita, le Ibervilleae sono anche piuttosto costose, ma sicuramente attraenti e curiose; nel clima mediterraneo possono essere coltivate all'aperto tutto l'anno, ma solitamente vengono tenute in vasi bassi in modo da valorizzarne al massimo le forme curiose, ritirandole in serra fredda là dove c'è il pericolo di gelate. Qualche approfondimento nella scheda. Hans Sloane fu una delle figure più influenti della scienza britannica della prima metà del Settecento. Non tanto per le sue opere scientifiche (che in sostanza si riducono a una sola, per quanto importante) quanto per la sua passione di raccogliere cose e per la capacità di coltivare relazioni. Di lui è stato detto che non c'era personalità scientifica, soprattutto nel campo della botanica, che non conoscesse o con cui non corrispondesse. Inoltre la sua lunghissima vita - nato nel 1660, morì a 93 anni, nel 1753 - gli permise di attraversare profonde trasformazioni, politiche, economiche e ovviamente scientifiche. Che il figlio di un modesto funzionario irlandese sia diventato il medico di nobili e sovrani, baronetto, presidente prima del Collegio reale dei medici poi della Royal Society, ricchissimo grazie alla sua professione ma anche ai proventi di piantagioni lavorate da schiavi neri, principe dei collezionisti e padre del British Museum, sta lì a dimostrarlo. Tra suoi ammiratori, anche Plumier e Linneo, che cooperarono alla creazione del genere Sloanea. Sloane il raccoglitore Nel 1684, al suo rientro dalla Francia, dove si era laureato in medicina dopo aver seguito i corsi di Tournefort e Magnol, il giovane Hans Sloane si presentò al celebre medico Thomas Sydenham (che, va sottolineato, non era un tradizionalista). Quando mostrò orgoglioso il suo curriculum, si sentì dire: "Ottimo, ma non serve a niente. Anatomia! Botanica! Non ha senso! Caro signore, conosco una vecchietta al Covent Garden che di botanica ne sa molto di più. Quanto poi all'anatomia, il mio macellaio può dissezionare un'articolazione in modo perfetto. No, giovanotto; è tutta robaccia. Deve andare al capezzale dei malati; è solo lì che si impara qualcosa sulle malattie". La congiunzione tra la pratica empirica e gli studi scientifici non era ancora avvenuta. Eppure Sydenham stimava abbastanza il "giovanotto" da farne il suo protetto, aiutandolo a inserirsi nell'ambiente medico londinese. Sloane da parte sua fin da studente aveva saputo stringere legami anche d'amicizia con personaggi del calibro di John Ray e Robert Boyle; nel 1685, fu ammesso alla Royal Society (nata proprio l'anno della sua nascita) e nel 1687 nel Collegio reale dei medici. Lo stesso anno, accettò di accompagnare in Giamaica il nuovo governatore, il secondo duca di Abermale, come medico personale e chirurgo della flotta. Con il fiuto per gli affari che l'avrebbe sempre contraddistinto, contrattò un ottimo trattamento economico, che una volta arrivato a destinazione investì nell'acquisto di zucchero e corteccia di china. Per un giovane medico appassionato di botanica un viaggio in Giamaica era l'occasione della vita. Oltre all'eccellente salario e all'appoggio di una nobile famiglia, ad attrarlo fu un ambiente naturale ricchissimo, ancora in gran parte inesplorato; a spingerlo ad accettare l'incarico fu in particolare John Ray, che contava sulle sue scoperte per risolvere i problemi posti dalla classificazione delle piante. Da questo punto di vista, era una scelta felice: la Giamaica è, tra le isole delle Antille, quella più ricca di biodiversità vegetale; il suo patrimonio di angiosperme è stimato a circa 2800 specie, 500 sono le felci, con più del 20% di specie endemiche (per fare un confronto, nelle piccole Antille sono il 13%). La piccola flotta del duca salpò da Portsmouth il 12 settembre 1687, toccando Madeira, Barbados, diverse isole delle piccole Antille, Haiti e raggiungendo la Giamaica il 19 dicembre. Durante il viaggio (come faranno dopo di lui tanti altri scienziati viaggiatori) Sloane fece osservazioni sulla fosforescenza e gli uccelli marini, approfittando delle poche soste per erborizzare. Ad esempio, a Madeira, dove si fermarono solo tre giorni, riuscì a raccogliere esemplari di ben 38 diverse specie e sottospecie. Quando vi giunsero Sloane e il suo datore di lavoro, la Giamaica era all'inizio di una profonda trasformazione economica, sociale e demografica. Strappato agli spagnoli nel 1655 con un colpo di mano, per qualche decennio questo avamposto della guerra coloniale tra monarchia britannica e spagnola aveva prosperato grazie alla guerra da corsa (famosa è rimasto il corsaro Henry Morgan che, per qualche anno, ne fu anche il governatore). Nel 1670, tuttavia, erano giunti la pace e il riconoscimento della sovranità inglese; i proventi delle spedizioni corsare incominciavano a passare in secondo piano rispetto all'economia di piantagione, basata sul lavoro degli schiavi neri importati dall'Africa. Al momento il processo era solo agli inizi (nel 1672 le piantagioni erano 70, nel 1770 sarebbero divenute 680; gli schiavi neri, circa 9500 negli anni '70 del Seicento, erano già 45.000 nel 1700, per toccare 300.000 nel 1800). Inoltre, gli inglesi controllavano di fatto solo i territori costieri; l'interno era il rifugio dei maroons, ex schiavi neri che erano stati liberati dagli spagnoli al momento dell'invasione inglese e avevano formato delle comunità indipendenti, fondendosi in parte con la popolazione indigena degli Arawak. Il governatore si stabilì nella vecchia capitale spagnola, Santiago de la Vega (oggi Spanishtown). Sloane, che prestava i suoi servizi anche ai ricchi piantatori bianchi, poté però visitare anche altre comunità dell'isola, passando da una piantagione all'altra. Durante il suo soggiorno di circa quindici mesi, tenne un diario di campo in cui annotò scrupolosamente osservazioni sulla fauna, la flora, i costumi della popolazione locali e fenomeni naturali, come un terremoto. Raccolse un'importante collezione di piante (circa 800 specie), insetti, molluschi, conchiglie, pesci, nonché oggetti di interesse etnografico. Poiché nel clima tropicale era spesso difficile o anche impossibile conservare gli esemplari (una parte della sua collezione fu divorata dalle formiche), si assicurò la collaborazione di un pittore locale, il reverendo Garrett Moore, che disegnò piante e animali dal vivo. Dopo poco più di un anno, il governatore (un pessimo paziente, che indulgeva al bere nonostante le rimostranze del suo medico) morì. La vedova, ottenuto il permesso da Londra - dove nel frattempo Giacomo II era stato rovesciato dalla Gloriosa rivoluzione - rientrò in patria nel maggio 1689, accompagnata dal cadavere imbalsamato del marito, dal dottor Sloane e dalla sua vasta collezione, inclusi alcuni animali vivi tra cui un'iguana, un alligatore e un serpente lungo sette piedi, che movimentarono il viaggio di ritorno. L'iguana cadde dal ponte, l'alligatore morì di morte naturale, il serpente fu ucciso da un terrorizzato servitore della duchessa. Sloane il medico e lo scienziato Sul quel viaggio Sloane seppe edificare la sua fortuna, professionale, economica, scientifica. Dopo essere rimasto per qualche anno al servizio della vedova di Abermale, divenne un medico alla moda con una clientela altolocata (inclusi i sovrani britannici, Anna, Giorgio I e Giorgio II). Nel 1716 fu fatto baronetto; nel 1719 divenne presidente del Collegio dei medici (incarico che resse per sedici anni); nel 1727 protomedico di Giorgio II. Altra fonte di proventi furono anche le sue ricette mediche, tra cui una pomata per gli occhi e una bevanda che sarebbe rimasta legata al suo nome (almeno nei paesi anglosassoni): la cioccolata calda. Durante il soggiorno in Giamaica, Sloane aveva osservato i vari modi in cui le diverse comunità dell'isola consumavano il cioccolato: i neri se ne servivano per svezzare i neonati; i nativi lo bevevano amaro e reso piccante dal pepe; gli spagnoli vi aggiungevano il peperoncino e ne consumavano anche 5 o 6 tazze al giorno. Quanto lui, lo trovava stomachevole, amaro e difficile da digerire. Ma diventava leggero e benefico se zuccherato e diluito con latte. Ecco la famosa formula della cioccolata di Sloane, un tonico venduto in farmacia che talvolta prescriveva ai suoi pazienti. Ma egli non fu affatto l'inventore di questa bevanda; non era l'unica formula del genere in commercio; a sfruttarla commercialmente e a legarla al nome di Sloane (un personaggio molto noto e universalmente stimato) fu, dopo la sua morte, un droghiere di nome Nicholas Sanders che creò probabilmente il primo marchio commerciale di cioccolata, sostenendo di rifarsi alla ricetta originale di Sloane; l'idea venne ripresa in più grande stile all'inizio dell'Ottocento dai fratelli Cadbury che finirono per imporre il mito di Sloane inventore della cioccolata in tutto il mondo anglosassone. Al di là della fortunata professione di medico, la ricchezza di Sloane aveva però anche altre basi. In Giamaica aveva incontrato Elizabeth Langley Rose, figlia di un facoltoso mercante londinese e moglie di uno dei più ricchi piantatori dell'isola. Quando Elisabeth rimase vedova, sposò in secondo nozze Sloane, portandogli in dote le piantagioni ereditate dal marito. E' dunque allo zucchero, e agli schiavi neri che lo coltivavano, che egli dovette la sua fortuna più volte milionaria. Membro attivo e influente della Royal Society, nel 1695 ne divenne segretario. In quel periodo, la società era in difficoltà economiche e amministrative; Sloane vi applicò il suo talento organizzativo, promuovendo la società attraverso la ripresa della pubblicazione delle Philiosophical Transactions (di cui fu curatore per circa vent'anni), l'assidua corrispondenza con studiosi di tutto il mondo, il risanamento finanziario ottenuto incoraggiando le donazioni e espellendo i soci morosi. Dopo la morte del Newton, nel 1727 divenne Presidente della Società, carica che resse fino al 1741, quando si ritirò ottantunenne per problemi di salute. I rapporti epistolari intessuti con gli scienziati di tutto il mondo (che continuò a coltivare anche dopo il ritiro) furono essenziali per ridare prestigio all'istituzione. Proprio nelle Philosphical Transactions comparve nel 1696 il catalogo delle piante giamaicane (Catalogus Plantarum quae in Insula Jamaica sponte proveniunt). Scritto in latino, e quindi destinato agli studiosi, è un'opera scarna, priva di illustrazioni, che elenca e descrive succintamente le circa 800 specie raccolte principalmente in Giamaica, ma anche durante le altre tappe del viaggio; segue l'indicazione del luogo di raccolta e, per le piante già note, i riferimenti bibliografici e i sinonimi. Ben accolta negli ambienti scientifici, era solo un'anticipazione della sua opera maggiore, Voyage to the Islands Madera, Barbados, Nieves, S. Christophers, and Jamaica, with the natural history . . . of the last of those islands, in due splendidi volumi illustrati, usciti rispettivamente nel 1707 e nel 1725. Scritti in inglese, in uno stile spesso brillante, si rivolgevano a un pubblico più largo anche di appassionati, ma divennero anche un'opera di riferimento, utilizzata anche da Linneo. Il primo volume si apre con una storia della Giamaica a partire da Cristoforo Colombo, seguita da una dettagliata descrizione dell'isola e delle varie comunità che vi vivevano: spagnoli e inglesi, nativi, africani. Uomo del suo tempo, Sloane descrive la schiavitù senza né giustificarla né condannarla, registrandola semplicemente come un dato di fatto, anche quando si sofferma sulle atroci punizioni inferte agli schiavi "ribelli". D'altra parte, ha un atteggiamento di rispetto verso le altre culture. Riconosce che le abitudini di vita degli amerindi e degli africani sono più sane di quelle degli europei (molti, come il duca di Abermale, morivano precocemente per gli eccessi nel bere) e più adatte al clima tropicale. Trascrive canzoni e ricette (compreso il Jerk chicken, un pollo speziato che è ancora uno dei piatti più celebri della cucina giamaicana), analizza le malattie più frequenti e i modi per curarli. La seconda e più ampia parte del volume è dedicata alle piante erbacee e i mammiferi, descritti in modo molto dettagliato e accurato. Il secondo volume (uscito, come si è visto, 18 anni dopo il primo), dopo un'introduzione in cui Sloane risponde ai suoi critici, passa in rassegna gli alberi, i pesci e altri animali marini, gli insetti, gli uccelli, la geologia dell'isola con sezioni sulle pietre, le terre e i minerali. Le bellissime illustrazioni a grandezza naturale contribuirono grandemente al successo dei volumi. In parte furono tratte dai disegni eseguiti in loco da Moore, in parte furono eseguite dall'artista scozzese di origini olandesi Everjardius Kickius sulla base degli esemplari essiccati. Le incisioni sono di Michiel van der Guscht. Il primo volume comprende 256 tavole, prevalentemente botaniche, il secondo 80 tavole di piante e 42 di animali. Sloane il collezionista Gli animali, le piante e gli altri oggetti raccolti in Giamaica furono il primo nucleo di una vastissima collezione, dedicata soprattutto agli oggetti naturali, che Sloane andò ampliando per tutta la vita, investendovi le sue cospicue fortune nell'acquisto delle raccolte di altri collezionisti. Così, nel 1701 ereditò - in cambio del pagamento dei suoi debiti - quella di William Corten, che si stima comprendesse 50.000 pezzi; acquisì la collezione d'arte del cardinale Gualterio, ma soprattutto le collezioni di storia naturale e gli erbari di botanici britannici e stranieri, che includono James Petiver, Nehemiah Grew, Leonard Plukenet, Adam Buddle, Paul Hermann e Herman Boerhaave. Il suo erbario, che inizialmente era formato dagli otto volumi con le piante raccolte durante il viaggio in Giamaica, giunse a comprenderne 265. Inizialmente la collezione era ospitata nella casa di Sloane al n. 3 di Bloomsbury Place; quando divenne troppo grande, Sloane risolse il problema acquistando il palazzo accanto, al n. 4. Ma neppure questo bastò. Così nel 1712 acquistò una proprietà a Chelsea, Chelsea Manor, dove si trasferì quando, superati gli ottant'anni, si ritirò dalla professione. Grazie a questo acquisto, la sua vita si intrecciò ancora in un altro modo con la storia della botanica. Fin dal 1673, sul quel terreno sorgeva il giardino dell'ordine dei farmacisti, ovvero il Chelsea Physic Garden (negli anni '80, prima di andare a studiare in Francia, il giovane Hans Sloane vi si era formato come apprendista) che al momento versava in grandi difficoltà economiche. Sloane risolse il problema affittando in perpetuo il terreno alla Società dei farmacisti per la cifra simbolica di 5 sterline l'anno. Inoltre, il giardino era tenuto a cedere alla Royal Society un certo numero di piante. Si interessò anche alla gestione, scegliendo personalmente come Capo giardiniere Philip Miller, che a partire dal 1722 avrebbe diretto il giardino per quasi mezzo secolo. Sloane desiderava che la sua collezione non fosse dispersa e potesse essere usufruita da tutti. Decise di lasciarla in eredità alla nazione, a condizione che venisse pagato un lascito di 20.000 £ ai suoi eredi (il valore reale superava il milione di sterline). Alla sua morte nel gennaio 1753, il parlamento con una legge apposita accettò la donazione. Nacque così il British Museum, le cui collezioni di storia naturale nell'Ottocento andarono poi a formare il Natural History Museum. Grazie alla passione e alla lungimiranza di Sloane si è così conservato un patrimonio inestimabile per la storia della botanica, costituito in particolare dagli erbari e dai manoscritti di numerosi scienziati. Una sintesi della sua lunga e attiva vita nella sezione biografie. L'imponente Sloanea A un personaggio di tale calibro non mancarono (e non mancano) i riconoscimenti. In primo luogo, a ricordarlo c'è la stessa topografia di Londra, dove abbiamo Sloane Square, Sloane Street, Sloane Gardens, Hans Place, Hans Crescent, Hans Road; gli sono stati dedicati monumenti, come la statua che campeggia al Chelsea Physic Garden; nel suo villaggio natale, Killyleagh, gli è stato intitolato un festival, ovviamente all'insegna della cioccolata (Hans Sloane Chocolate & fine Food Festival); non manca un marchio di cioccolato che si fregia del suo nome. In rete numerosi siti gli sono dedicati; forse il più interessante è The Sloane letters project, il progetto nato attorno alla sua corrispondenza, una fonte straordinaria per ricostruire la scienza e la società del primo Settecento. Nella nomenclatura scientifica, a ricordarlo sono il batrace Crinia sloanei, la splendida farfalla Urania sloanus e il genere botanico Sloanea. Quest'ultimo fu creato da Plumier nei suoi Nova plantarum americanarum genera (1703). E' un omaggio diretto al suo predecessore nell'esplorazione delle Antille; fu probabilmente proprio il fortunato esito del viaggio di Sloane in Giamaica a indurre la corona francese a finanziare le spedizioni di Plumier alla ricerca di piante medicinali, tra cui quella corteccia di china di cui il medico irlandese fu un convinto sostenitore. Il genere venne poi validato da Linneo nel 1753. Sloanea è un genere della famiglia Elaecarpaceae che comprende 130-150 specie di alberi e arbusti tropicali, diffusi soprattutto nelle Americhe tropicali, ma anche in Asia e Australia; assente nell'Africa continentale, è presente in Madagascar. Comprende alcuni degli alberi più belli e imponenti della foresta pluviale dell'America tropicale. Alti anche più di 40 metri, sono sostenuti da radici tabulari che disponendosi a raggiera intorno all'albero formano quasi un contrafforte. Alte fino a 10 metri, possono estendersi tutto attorno anche per una trentina di metri. E' un'ottima scelta per commemorare Sloane, viste che diverse specie vivono anche nelle Antille, compresa la Giamaica, con la specie S. jamaicensis. Qualche approfondimento nella scheda. Si devono alla penna di Giovanni Battista Ferrari, gesuita poligrafo e poliglotta, due delle più raffinate opere editoriali del Seicento, cui contribuirono, tra gli altri, artisti del calibro di Piero da Cortona e Guido Reni: Flora seu de florum cultura, uno dei primi trattati di giardinaggio, del 1633, seguito nel 1646 da Hesperides sive de Malorum aureorum cultura et usu, una monografia altrettanto pionieristica sugli agrumi, probabilmente la prima dedicata a un genere. Sfogliarle è una festa per gli occhi, leggerle uno squisito divertimento barocco. Con tante sorprese, come quel "fiore indiano violato scuro" che molti anni dopo verrà ribattezzato Ferraria crispa. Uno sponsor d'eccezione per un'opera straordinaria Nello stagnante panorama dell'Italia secentesca, la Roma dei papi faceva eccezione; non per particolare acume politico o politiche illuminate, ma per la febbre edificatoria che, alimentata da papi e cardinali, trasformò la Città eterna del XVII secolo in un immenso cantiere. E tra chiese e palazzi, si costruivano anche giardini. Anzi una villa fuori porta con giardini scenografici e un angolo segreto riservato alle piante "peregrine", le specie esotiche che arrivavano dalle "Indie", era uno status symbol, la misura del potere e del prestigio. Tra i più preziosi gli Horti Barberini, voluti dal Cardinale Francesco, nipote del papa Urbano VIII. Durante il pontificato dello zio egli fu senza dubbio il personaggio più influente della corte pontificia: come "cardinal nepote" era il segretario di Stato, e accumulò una incredibile quantità di titoli e cariche. Uomo colto, collezionista, cultore della letteratura, della musica e delle arti (tra i suoi protetti anche Bernini), fece del suo palazzo alle Quattro Fontane - allora un'area suburbana - un punto nevralgico della cultura romana. Tra i suoi interessi non mancavano le scienze: creò un museo di scienze naturali e soprattutto trasformò i giardini del suo palazzo in una specie di orto botanico, ricchissimo di piante rare, che gli giungevano soprattutto grazie ai contatti allacciati in Francia durante varie missioni diplomatiche. Quali piante fiorissero in quel giardino ce lo racconta Giovanni Battista Ferrari, un gesuita di origini senesi che fece parte dell'entourage di Francesco Barberini. Orientalista di una certa fama, grazie alla protezione dei Barberini (Francesco, ma anche suo fratello Antonio), Ferrari ebbe libero accesso ai giardini della nobiltà romana e incominciò ad appassionarsi di floricoltura. Si costruì così una cultura enciclopedica sull'argomento, che trasfuse in una vasta opera, Flora seu de florum cultura, pubblicata in latino nel 1633, poi, visto il successo anche europeo, tradotta in italiano e ripubblicata nel 1646 con il titolo Flora overo cultura dei fiori. Alla sua progettazione, contribuì senza dubbio Cassiano dal Pozzo, che, al servizio del cardinal Barberini, lo accompagnò in molte missioni all'estero e esercitò una specie di ruolo informale di Ministro della Cultura di Urbano VIII. Cassiano era a sua volta un grande collezionista d'arte, incluse le tavole botaniche; fu lui, probabilmente, a concepire la parte iconografica di Flora e a mettere in contatto Ferrari (di cui divenne intimo amico) con i più importanti artisti del tempo. Fece anche da tramite con l'ambiente dei Lincei, di cui era membro. Il risultato è davanti ai nostri occhi: una delle opere editoriali più prestigiose del tempo, un sontuoso in quarto in quattro volumi, con 101 calcografie, che ritraggono piante di giardini, attrezzi, grandi vasi con composizioni floreali e soprattutto molte specie di piante. E' allo stesso tempo un manuale che fornisce informazioni pratiche sull'allestimento di un giardino e sulla coltivazione delle piante, un catalogo delle specie più apprezzate, un ricettario con curiose indicazioni, una guida sui più bei giardini romani, un'opera letteraria. Volendo unire l'utile al dilettevole, Ferrari ha infatti arricchito il suo testo con sette favole allegoriche che mettono in scena gli dei dell'Olimpio e raccontano metamorfosi alla maniera di Ovidio. Ciascuna favola è illustrata da una tavola disegnata da tre tra i maggiori artisti attivi a Roma in quel momento: Guido Reni, Piero da Cortona e Andrea Sacchi (nell'edizione italiana, si aggiungerà Giovanni Lanfranco). La maggior parte delle incisioni si deve a J.F. Greuter. A finanziare la prestigiosa e costosissima opera furono ovviamente i Barberini (cui Ferrari rende ripetutamente omaggio). Le meraviglie barocche di Flora Sfogliamo dunque Flora. Ad aprire il volume è una spettacolare tavola di Piero da Cortona che fa da frontespizio e celebra la gloria della dea Flora. Dopo un'erudita introduzione, seguono indicazioni sull'ubicazione ideale del giardino, sulle siepi che dovranno difenderlo, sulla disposizione delle aiuole e dei sentieri. A illustrare questo capitolo, 7 piante di giardini, incluso un labirinto. Scopriamo come dobbiamo scegliere il cane da guardia (meglio nero: di notte fa più paura ai ladri, e più facilmente li coglierà alla sprovvista), come innaffiare, come disporre i fiori e quando raccoglierli, e così via. Se vi siete mai chiesti perché nei giardini abbondano limacce e bruchi, Ferrari ce lo spiega attraverso la prima e più divertente delle sue favole, dedicata all'improbabile coppia formata dal pigro giardiniere Limace e da suo fratello Bruco, impenitente scalatore di muri e ladro di piante, che un'irata Flora trasforma in Lumaca e Ruca. A completare il primo libro, una rassegna degli arnesi da giardino, indicazioni sui concimi e le terre - qui Ferrari include un excursus sui principali giardini privati romani - e la seconda favola, in cui Flora imbandisce un banchetto floreale agli dei. Per chi, come me, è affascinato dalla storia delle piante, le maggiori sorprese giungono però dal secondo libro. Ferrari vi passa in rassegna i fiori ornamentali indigeni e esotici più ricercati nei giardini del tempo. Scopriamo che i più alla moda erano le bulbose, in una stupefacente quantità di specie e varietà: narcisi (non meno di 36 tipi), crochi, colchici, corone imperiali, tulipani (solo due: a Roma, evidentemente non si erano ambientati), fritillarie, iris, gigli, Orchis, ornitogali, giacinti (altra super star, non meno di 25), ciclamini, anemoni (anch'essi in numerose varietà), ranuncoli, asfodeli, mughetti. A confronto, poche le erbacee perenni (peonie, Lychnis chalcedonica, l'esotica Lobelia cardinalis, sotto il nome di Trachelio americano, numerosi garofani). Piacevano invece le rampicanti: la curiosa Passiflora (Granadiglia), in cui si riconoscevano gli strumenti della passione di Cristo e soprattutto i gelsomini. Gli arbusti si riducono praticamente alle rose. Pochi gli alberi da fiore, soprattutto esotici: peschi e ciliegi doppi, la mimosa, il sommacco, Schinus molle. Se in questi casi le esotiche sono riconoscibili con i loro nomi, più spesso sono celate sotto l'etichetta ingannevole di generi già noti. Sotto il nome di Narciussus indicus riconosciamo così, anche grazie alle dettagliate illustrazioni, Sprekelia, Amaryllis belladonna, Crinum, Haemanthus; e capiamo che, in fondo, indicus vuole dire esotico: se Sprekelia arriva davvero dalle Indie - ovvero dal Centro America - le altre sono sudafricane, giunte a Roma con un tortuoso viaggio attraverso l'Olanda e la Francia. Ugualmente, sotto l'etichetta Hyacinthus si celano non solo Hyacinthoides non-scripta, ma anche Scilla peruviana e varie specie di Muscari. Gelseminum indicum flore Phoeniceo è chiaramente Campsis radicans. Non si sbilanciò invece Ferrari nel nominare il fiore destinato a immortalarlo nella denominazione botanica: è semplicemente Flos indicus e violaceo fuscus, "Fiore indiano violato iscuro". Ne giunse a Roma da Parigi un bulbo mezzo rinsecchito; l'abilissimo appassionato Tranquillo Romauli riusci, in due anni, a portarlo a fioritura. E, come scopriremo tra poco, anche questo fiore indiano non è indiano per niente. Il terzo libro è dedicato alla coltivazione delle piante da fiore: prima una parte generale (molto dettagliato il capitolo sulla lotta agli animali "maggiori" e "minori" che infestano i giardini, soprattutto i topi, da combattere in ogni modo, incluso cacciandoli con una speciale balestra; utile anche un gatto, ma sarà bene sceglierlo tigrato); poi indicazioni specifiche sulla coltivazione delle specie elencate nel libro precedente. A conclusione, un catalogo delle piante esotiche coltivate negli Horti Barberini: molte le abbiamo già incontrate, si aggiungono alcune piante officinali, come la Moringa o il tamarindo, un "fagiolo del Brasile", l'albero del corallo americano (Erythrina corallodendron). Completano il libro una pianta del giardino di Palazzo Caetani di Cisterna e due favole, una dedicata a Flora e alla Luna, l'altra che scomodo addirittura Nettuno per ornare gli Horti Barberini. Il quarto libro è una miscellanea di meraviglie di gusto barocco: le meraviglie dell'arte (che insegna a disporre i fiori, a conservarli, a imitarli, a forzarne la fioritura, a alterarne la forma, il colore, il profumo), ma ancora più le meraviglie della natura stessa, che a sua volta supera l'arte che si è illusa di superarla. Espressione di questa meraviglia è la Rosa della China, che (oh stupore!) nell'arco di una giornata muta il colore dei propri fiori dal bianco al carnicino al rosso. Avrete già capito che si tratta di Hibiscus mutabilis; Ferrari ci informa che i semi erano arrivati a Roma dall'India circa dieci anni prima, avevano prosperato e se ne coltivavano tre tipi: una forma semplice, una doppia e una stradoppia. E tra le tante tavole dedicata alla "Regina delle rose", ce n'è anche una che ne rappresenta i semi visti al microscopio (probabilmente la prima nella storia dell'illustrazione botanica). Nel giardino delle Esperidi Visto il notevole successo dell'opera, probabilmente ancora su suggerimento di dal Pozzo, Ferrari decise di scriverne un'altra, dedicata questo volta agli agrumi, immancabili inquilini dei giardini barocchi e delle loro arancere. Fu un'altra opera enciclopedica, con la stessa formula della precedente: un testo che unisse notizie erudite, favole mitologiche, puntigliose descrizioni delle piante e indicazioni per distinguerne i tipi, dettagliate istruzioni di coltivazione, informazioni di ogni genere sugli usi e gustose curiosità; un apparato iconografico affidato agli artisti più in voga. Il gesuita si mise alacremente al lavoro, ma a venirgli meno fu proprio il finanziatore. Nel 1644 Urbano VIII morì. Seguì la disgrazia di Francesco Barberini, che, messo sotto inchiesta per i modi in cui aveva ingrandito il patrimonio familiare, dovette andarsene in esilio in Francia. Non fu facile per Ferrari trovare un altro finanziatore. Attraverso il pittore Poussin, cercò anche inutilmente di ottenere il sostegno del re di Francia. Alla fine, riuscì a pubblicare Hesperides, sive De malorum aureorum cultura et usu libri IV nel 1646, a spese dell'editore Hermann Scheus. Frutto di un lavoro durato almeno dieci anni, l'opera è forse il primo trattato dedicato a un singolo genere (ovvero a Citrus, cui appartengono gli agrumi). L'apparato iconografico è ancora più sontuoso di quello di Flora: i disegni dai cui furono tratte le incisioni che illustrano le favole mitologiche o raffigurano sculture, bassorilievi, arancere si devono a François Perrier, Nicolas Poussin, Pietro Paolo Ubaldini, Francesco Albani, Andrea Sacchi, Francesco Romanelli, Filippo Gagliardi, Guido Reni, Domenico Zampieri (Domenichino), Giovanni Lanfranco, Girolamo Rainaldi; il frontespizio è di Pietro da Cortona. Non sono firmate le incisioni che raffigurano i fiori e i frutti dei numerosissimi agrumi e arnesi da innesto. Il primo libro, De aditu ad Hesperides ("Ingresso alle Esperidi"), di grande erudizione, è dedicato al mito di Ercole nel giardino delle Esperidi, di cui si ricostruisce la presenza nella letteratura e nell'arte; a conclusione una favola allegorica sul trasferimento delle ninfe Esperidi in Italia. Nei tre libri seguenti gli agrumi vengono classificati in tre grandi gruppi, a ciascuno dei quali è dedicato un libro, sotto la protezione di una delle ninfe Esperidi: i cedri nel secondo libro, Aegle sive malum citreum; i limoni nel terzo, Artehusa sive malum limonium; le arance nell'ultimo, Hesperthusa sive malum aurantium. La medesima struttura ricorre in ciascun libro: prima una discussione sui vari tipi, e gli svariati nomi, dell'agrume trattato, cui segue un minuzioso catalogo delle specie e varietà, illustrate da tavole di eccezionale fattura artistica e grande valore scientifico. Solitamente in alto è riprodotto un ramo con foglie, talvolta fiori, e un frutto maturo, in basso il frutto in sezione; a legare il tutto, un cartiglio in forma di nastro con il nome latino. Talvolta possono esserci anche frutti immaturi, il frutto visto dal basso, o dall'alto, per mostrarne alcune particolarità. Per gli appassionati di agrumi, è un documento eccezionale delle numerosissime varietà che si coltivavano nel Seicento. Seguono poi indicazioni sulla coltivazione, il trapianto, gli innesti, la lotta alle malattie, gli usi (con tanto di ricette) anche presso altri popoli (con una messe di curiose notizie etnografiche). Secondo il gusto barocco per il bizzarro, larghissimo spazio è dedicato alle forme mostruose, che erano particolarmente ricercate dai collezionisti e venivano anche volutamente create attraversi esperimenti di incroci. Al solito, la loro origine è attribuita a mitologiche metamorfosi. Ritiratosi Ferrrari nella natia Siena, dal Pozzo cercò di coinvolgerlo in un terzo lavoro sui pomi, ma il gesuita, ormai stanco e anziano si sottrasse. Morì nel 1655. Quale notizia sulla sua vita nella sezione biografie. Quel fiore indico che non viene dall'India L'illustrazione del flos indicus e violaceo fuscus (con la descrizione che ne dà Ferrari) è la prima attestazione nella letteratura scientifica europea di questa pianta che, come si è detto, era arrivata a Roma dalla Francia. Si rifanno a Ferrari (e non a una conoscenza diretta) il Gladiolus indicus e violaceo fuscus di Robert Morison (Plantarum historiae universalis, 1680) e il Narcissus indicus flore saturate purpureo di Olof Rudbeck (Reliquiae rudbeckianae, 1701). Il primo botanico a studiare dal vivo la curiosa bulbosa, e riconoscerne l'appartenenza a un nuovo genere fu l'olandese Johannes Burman, grande studioso della flora sudafricana, che nel 1761 le dedicò un articolo, comparso negli Atti dell'Accademia Leopoldino-Carolina, dandole il nome di Ferraria. Ma qualche tempo prima aveva comunicato la sua intenzione di creare la nuova denominazione a Philip Miller, che nel 1759 (sia in Figures of Plants sia nella settima edizione di The Gardeners Dictionary) descrisse la pianta, riconoscendo la paternità del nome a Burman. Ecco perché la denominazione completa del genere è Ferraria Burm. ex Mill. Il genere Ferraria, della famiglia Iridaceae, comprende 10-18 specie di cormofite diffuse in aree aride dell'Africa centrale e meridionale. Il maggior numero di specie si concentra lungo la costa occidentale del Sud Africa, preferibilmente in suolo sabbioso. Con l'eccezione di F. glutinosa, che vive nell'Africa tropicale meridionale con estati calde e umide e inverni freddi e aridi, vivono nella zona con piogge invernali e estate arida: in queste condizioni, fioriscono alla fine dell'inverno, poi perdono le foglie e vanno in riposo. I fiori della Ferraria sono davvero particolari: a forma di stella a sei punte, a volte con petali arricciati, hanno colori insoliti (crema, marrone chiaro, bruno, bruno-porpora) e sono spesso macchiettati. Inoltre molte specie emanano un odore sgradevole, che è stato descritto come simile a quello della melassa o dello zucchero caramellato con sentori di decomposizione. Non vi stupirà scoprire che (come le conterranee Stapeliae) queste specie sono impollinate da insetti sarcofaghi. Va detto, però, che per essere un genere così piccolo, Ferraria ha sviluppato strategie di impollinazione differenziate. F. ferrariola ha tepali dai colori delicati, giallo pallido o verde azzurro, quelli esterni con marcature più scure, vere e proprie "guide del nettare" che insieme al profumo dolce con sentori di violetta e di vaniglia attirano irresistibilmente le api. F. divaricata e F. variabilis, pur avendo colori smorti, dal bruno pallido al bruno scuro, uniforme o maculato, non hanno odore; i loro impollinatori sono varie specie di vespe. F. uncinata sembrerebbe invece essere impollinata da due specie di coleotteri. Qualche informazione in più su questo genere indubbiamente affascinante nella scheda. Quanti personaggi diversi è stato Joseph Pitton de Tournefort, il più importante botanico francese del Seicento! Seminarista scavezzacollo che scala muri per "rubare" piante; viaggiatore intrepido che sfida gli elementi, i briganti, fatiche di ogni genere, percorrendo le strade della Francia, della penisola iberica e le rotte del Levante; a soli 27 anni, professore carismatico di botanica al Jardin des plantes, forse il primo botanico professionista della storia; teorico e creatore del più diffuso sistema tassonomico prelinneano; autore rinomato per la chiarezza delle sue descrizioni, che impose definitivamente il concetto di genere; vittima di un incidente tragico che anticipa la sorte di Pierre Curie. E, ovviamente, dedicatario del linneano genere Tournefortia. Le trasformazioni del Giamburrasca della botanica Basta osservare i ritratti di Joseph Pitton de Tournefort per capire che ci troviamo di fronte a uno spirito anticonformista. In un'epoca in cui Luigi XIV aveva imposto a cortigiani e funzionari pompose parrucche e abolito barba e baffi, ostenta corti capelli ricciuti, baffi e una barba che, in alcune versioni che lo ritraggono al ritorno del viaggio in Levante, si allunga a ventaglio fino a metà petto. Non aveva paura di sfidare le convenzioni, come non aveva esitato a affrontare la verga paterna, i banditi dei Pirenei o i disagi di un viaggio dal porto di Marsiglia alle pendici dell'Ararat. Come cadetto di una famiglia della nobiltà di toga di scarse fortune, il padre lo destina al sacerdozio. Tuttavia, alle lezioni di latino e teologia impartite nel seminario dei gesuiti di Aix, sua città natale, Joseph preferisce di gran lunga la botanica, cui è stato iniziato dal farmacista Jacques Daumas. Grazie a quest'ultimo, trova un compagno di avventure in un altro allievo del collegio, di poco più giovane, Pierre Garidel. Da solo o con l'amico, sfidando le punizioni paterne marina le lezioni per battere la campagna alla ricerca di nuove piante, senza farsi intimorire da recinzioni, staccionate e muri. Un bel giorno il nostro Giamburrasca della botanica, scambiato per un ladro mentre scavalca il muro di un frutteto, viene preso a sassate dai contadini. Altrettanto proibita è la sua passione per Cartesio, un autore considerato poco ortodosso, che studia di straforo nella biblioteca paterna. Nel 1676, la morte del padre lo libera da una carriera ecclesiastica senza vocazione. Ma prima di iniziare studi seri, per festeggiare la liberazione, parte con Garidel per la prima delle sue lunghe scorribande botaniche. Sul loro cammino incontrano un altro appassionato, il frate minimo Charles Plumier, che diverrà ben presto il loro mentore e li accompagnerà nelle montagne del Delfinato e in Savoia. Nel 1679 Pitton va a studiare medicina, anatomia e botanica a Montpellier, dove rimane due anni e si lega con Pierre Magnol. Ma allo studio libresco preferisce l'esplorazione sul campo: percorre la Linguadoca, poi i Pirenei e la Spagna, che visiterà a più riprese tra il 1681 e il 1689. Nel corso di questi viaggi, compiuti ora da solo, ora con altri studiosi spagnoli e francesi, affronta disagi e pericoli di ogni tipo: rimane sepolto dal crollo del tetto di una baita, prima di essere tratto in salvo dai paesani; più volte, incontra i banditi che infestano la regione. Per non farsi derubare, nasconde il poco denaro che porta con sé in una pagnotta di pane nero, rustico e ben poco appetibile (in seguito dirà che il cibo pessimo era stato una prova peggiore dei briganti di strada). Ma intanto la sua fama di botanico ha raggiunto Parigi, e Guy Fagon, all'epoca medico della regina, lo chiama nella capitale ad assumere la cattedra di botanica al Jardin des Plantes. E' un insegnante carismatico, che richiama allievi non solo dalla Francia, ma dall'intera Europa; tra di essi, i britannici Hans Sloane e William Sherard. Non per questo cessa di viaggiare: nei mesi estivi torna in Spagna, va in Portogallo, poi in Olanda (qui gli viene offerta una cattedra alla prestigiosa università di Leida, che rifiuta) e in Inghilterra. Viaggia per studio, ma anche per incarico del re, che, impressionato dalla sua sapienza botanica, gli chiede di raccogliere esemplari per arricchire il Jardin des plantes. Intanto Tournefort progetta la stesura di una Histoire naturelles des plantes, catalogo monumentale di tutte le specie conosciute. Per incoraggiarlo in questo intento, il cancelliere Pontchartrain e suo nipote, l'abate Bignon, ne favoriscono la nomina all'Accademia delle scienze (1690); è la prima volta che questo onore tocca a un botanico, per altro privo della prescritta laurea in medicina. Per evitare di creare un precedente, Tournefort ritorna sui banchi e in due anni consegue la laurea. Il sistema di Tournefort Nel 1694 l'Accademia abbandona il costoso progetto dell'Histoire naturelle; Tournefort ripiega su un'opera più breve, destinata ai suoi studenti: Elemens de botanique ou méthode pour connaitre les plantes; proprio come l'ammirato Discours de la méthode di Cartesio, è scritto in francese, con una scelta rivoluzionaria che allarga il pubblico anche ai semplici appassionati. Corredata da 451 ottime tavole disegnate da Claude Aubriet e caratterizzata da uno stile limpido, veramente cartesiano, l'opera ottiene un enorme successo, che spinge Tournefort a tradurlo egli stesso in latino per metterlo disposizione degli studiosi europei; con il titolo Institutiones rei herbariae l'edizione latina esce a partire dal 1700. In queste opere Tournefort espone il suo sistema di classificazione delle piante, il più diffuso prima di quello di Linneo. Proprio come quest'ultimo, si tratta di un sistema artificiale, che non pretende di ricostruire l'ordine naturale del mondo vegetale (cui mirava il contemporaneo John Ray, che del sistema di Tournefort fu uno dei maggiori critici) ma di offrire un metodo "chiaro e distinto" per riconoscere e classificare le piante. Assumendo come criterio di classificazione principalmente la struttura della corolla e del frutto, il botanico provenzale descrive più di 10000 piante, raggruppandole in 22 "classi" e in 698 generi. Proprio la precisa definizione di genere (un concetto non nuovo, ma fino ad allora mai utilizzato in modo così chiaro e sistematico) è il maggiore merito di un sistema che, comunque, per la sua chiarezza e semplicità ottenne grande successo, imponendosi anche in altri paesi. Nello stesso 1694, Tournefort che ormai è il vero direttore scientifico del Jardin des plantes (Fagon, ormai divenuto primo medico del re e intendente, gli lascia mano libera), fa ripiantare le parcelle didattiche dell'orto in base al proprio sistema (che continuerà ad essere usato al Jardin des plantes fino al 1773, ovvero ancora vent'anni dopo l'uscita di Species plantarum di Linneo). Ormai il destino dell'irrequieto botanico viaggiatore sembrerebbe quello di un tranquillo accademico: ma nel 1700, su proposta di Pontchartrain, riceve l'ordine del re di partire per il Levante. Ha 44 anni, una solida posizione accademica, ma come potrebbe rifiutare un ordine del re, tanto più che risponde ai suoi più profondi desideri? E così si rimette in viaggio. Ma questa è una storia così bella che merita un post tutto per sé. Dopo due anni avventurosi, Tournefort è di nuovo a casa, con un immenso bottino. Pubblica un supplemento agli Elements aggiungendo le specie raccolte in Levante (una conferma del suo sistema, perché le nuove specie vanno tutte a inserirsi nei generi già determinati). Nel 1706 ottiene la cattedra di medicina e botanica al Collège royal; intanto attende alla revisione del resoconto del viaggio in Levante (uno dei libri di viaggio più belli e tuttora appassionanti del secolo). Ma dopo tanti viaggi, tante avventure, il destino lo attende a pochi passi dal Jardin des plantes: mentre vi si reca, viene urtato violentemente da un carretto che lo schiaccia contro un muro; perde moltissimo sangue e, dopo qualche mese di sofferenza, si spegne a 52 anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La sfuggente Tournefortia Nel 1700, in Institutiones rei herbariae, Tournefort aveva reso omaggio all'amico e maestro Plumier dedicandogli il genere Plumeria. Nel 1703, il frate ricambiò il favore, battezzando Pittonia uno dei nuovi generi scoperti nei suoi viaggi nelle Antille. La dedica fu accolta da Linneo in Species plantarum (1753) che tuttavia mutò il nome in Tournefortia, facendo notare che se in Francia il botanico provenzale era noto anche con il cognome, all'estero tutti lo conoscevano con il titolo nobiliare. Tournefortia è un grande genere della famiglia Boraginaceae (o Heliotropiaceae, secondo proposte recenti), affine ad Heliotropium; a quest'ultimo tradizionalmente vengono assegnate le specie erbacee, mentre a Tournefortia le specie arbustive e i rampicanti legnosi. Una distinzione semplice, di evidenza cartesiana, ma purtroppo semplicistica, che negli ultimi anni è stata messa in discussione dalle ricerche basate sul DNA. Allo stato attuale (molto rimane da chiarire) a Tournefortia sono assegnate 100-150 specie di arbusti, alberelli e rampicanti legnosi per lo più neotropicali (dagli Stati Uniti meridionali fino al Perù); a distinguerlo da Heliotropium, più ancora che il portamento, sono l'habitat (le foreste aride per Tournefortia, le zone aride aperte e per lo più sabbiose per Heliotropium), alcune particolarità dei fiori, le infiorescenze sparse e non allargate, e soprattutto i frutti, drupe che non si dividono in mericarpi. Come non di rado avviene, le specie più note sono ora transitate in altri generi: la più diffusa, T. argentea, è ora Helitropium fortherianum. Nonostante qualche incertezza, la maggior parte delle fonti continua ad assegnargli T. gnaphalodes, un arbusto dal portamento espanso delle aree costiere della Florida e delle Antille, noto come lavanda di mare. Tra le specie più comuni T. hirsutissima, una liana ricoperta di una densa peluria che si arrampica sugli alberi delle foreste aride, diffusa in Florida, Messico, America centrale, Venezuela, Perù e Bolivia. Qualche informazione in più nella scheda. Questa storia inizia come una fiaba. C'è un bambino nato in orto botanico creato dalla mente e dal cuore di un vecchio zio; c'è un giovanotto che si impegna per risollevare l'orto della sua infanzia dalle ingiurie degli uomini e della storia; c'è un uomo maturo che con sagacia e intelligenza trova i collaboratori giusti per trasformare quel giardino nell'istituzione scientifica più importante del mondo; c'è un vecchio che, ormai ritiratosi dalle glorie e dagli affanni del mondo, nel suo giardino chiude gli occhi in pace. Quel bambino, quel giovanotto, quell'uomo, quel vecchio, sono la stessa persona: Guy-Crescent Fagon, il medico del Re Sole, il vero fondatore della reputazione scientifica del Jardin des Plantes di Parigi. Il giardino del destino Nel 1637, le frenetiche attività di Guy de la Brosse per allestire il tanto sospirato Jardin royal des plantes médicinales di Parigi, sono momentaneamente interrotte da una lieta circostanza: il matrimonio di sua nipote Louise con Henri Fagon, commissario ordinario della guerra. Un anno dopo, proprio nell'appartamento assegnato all'intendente, alla coppia nasce un bambino, il piccolo Guy-Crescent (il nome è un omaggio allo zio Guy, suo padrino). Il padre è spesso lontano per le incombenze del suo ufficio, così il bambino cresce nel Jardin e secondo Fontenelle (che di Fagon, molti anni dopo, scriverà l'elogio funebre) "i primi oggetti che vide furono le piante, le prime parole che balbettò furono nomi di piante; la lingua della botanica fu la sua lingua materna". Ma, come sappiamo dai tempi di Adamo ed Eva, dai giardini dell'Eden si viene sempre cacciati; quando Guy-Crescent ha solo quattro anni, il prozio muore e per il giardino inizia il periodo delle dispute legali e della trascuratezza (se ne è parlato in questo post). Quanto a Guy-Crescent, ha un solo sogno: diventare medico e studiare botanica, in modo da poter tornare nel suo giardino per farlo rivivere. Anche se rimane presto orfano di padre, si impegna con tenacia per riuscirci. E' uno studente brillante e dalle idee innovative che nel 1664 si laurea all'Università di Parigi con una tesi audace in cui sostiene le idee di Harvey sulla circolazione del sangue. Ha una solida reputazione sia come medico sia come botanico. E' dunque a lui che pensa Antoine Vallot, nuovo primo medico del re e sovrintendente del Jardin, per ripopolare le aiuole del giardino svuotate da tanti anni di abbandono. Facciamo un passo indietro: nel 1652, Antoine Vallot, medico della regina madre Anna d'Austria, succede come primo medico del re (l'adolescente Luigi XIV) a François Vautier; tra le incombenze della sua carica, gli spetta di diritto - ormai risolte le questioni legali con Bouvard - la sovrintendenza del Jardin. Trova una situazione desolante, nonostante lo zelo del dimostatore Vespasien Robin. Nel 1663, alla morte di questi, nomina a succedergli un altro valido botanico, Denis Joncquet, e lo invia a Montpellier a incontrare Pierre Magnol per chiedergli lumi su come ristrutturare l'orto parigino. Joncquet è entusiasta sia dei consigli ricevuti da Magnol sia della lussureggiante natura del Sud, che potrà offrire molti esemplari per ripopolare il giardino. E qui torna in scena il nostro Fagon. Su richiesta di Vallot, Fagon parte per la Linguadoca. Va a Montepellier, dove conosce Magnol (i due sono coetanei, come del resto lo è il re Sole, essendo tutti e tre nati nel 1638) e stringe con lui una fervida amicizia. E poi - a sue spese, anche se non è ricco - incomincia a esplorare la Provenza, l'Alvernia, le Alpi e i Pirenei, dove raccoglie un ricchissimo bottino di piante; è una raccolta storicamente importantissima, perché getta le basi di quello che sarà il glorioso Herbier national, il grande erbario nazionale francese ancora oggi custodito nel Museo di storia naturale di Parigi. Altre piante arriveranno nei mesi e negli anni successivi tramite una rete di viaggiatori e raccoglitori che Fagon contribuisce a creare, anche grazie ai contatti di Magnol. Il giardino rinasce ed è ora di presentare i risultati al re. Vallot chiede a Jonquet di scriverne il catalogo, che uscirà nel 1665 con il titolo Hortus Regius, in cui si descrivono circa 4000 piante. La maggior parte di quelle descrizioni sono redatte da Fagon, che all'epoca è dimostratore supplente di chimica. Nel 1670 diventa anche sottodimostratore di botanica (colui a cui era affidato l'insegnamento pratico della botanica "dimostrando" le piante vive e essiccate agli studenti); l'anno successivo, alla morte di Joncquet, diventa dimostratore, ovvero professore titolare della cattedra di botanica, cui nel 1672 aggiunge la cattedra di chimica. Il suo insegnamento, con aperture a tutto campo anche alla zoologia e alla mineralogia, attira un vasto pubblico, gettando le basi per la reputazione scientifica dell'istituzione parigina. Nonostante l'aspetto fisico assai infelice - un volto grottesco, gobbo, magrissimo - è un abilissimo oratore, oltre che uno studioso preparato e aperto alle novità. Un grande sovrintendente per il giardino del Re Sole Intanto prosegue la sua carriera come medico. Tra il 1666 e il 1667 esercita all'Hotel-Dieu, dal 1668 diventa uno dei medici della corte, occupando posti sempre più prestigiosi (è medico della delfina, poi della regina e degli Enfants de France, ovvero i numerosi figli naturali del re). Ma per prendere il bastone del comando nel Jardin des Plantes deve diventare primo medico. A dire la verità, alla morte di Vallot (1671), Colbert, che ne giudicava la gestione fiacca e trascurata, aveva sottratto la sovrintendenza del Jardin des plantes all'archiatra Antoine d'Aquin, legandola alla sovrintendenza degli edifici reali, che amministrava lui stesso come Controllore generale delle finanze: segno dell'importanza economica che ormai si assegnava alla coltivazione delle piante esotiche, medicinali e no. A d'Aquin era rimasto il titolo di intendente, costringendo Fagon a una mal sopportata convivenza (in teoria era il suo capo). Abile come cortigiano non meno che come medico, Guy-Crescent sa usare le armi dell'intrigo; la carta vincente è la protezione di Mme de Maintenon, che lo ha conosciuto e apprezzato quando era ancora la governante dei figli illegittimi del re. Fagon non perde occasione per denunciare l'incompetenza professionale del rivale; molto più tradizionalista di lui, questi rifiuta la radice di Chincona, che invece Fagon sostiene e che il re stesso apprezza, come efficace rimedio contro il paludismo che ha contratto quando combatteva nelle Fiandre. Si aggiunga la insopportabile avidità di d'Aquin, che irrita il re con la sua continua richiesta di prebende per sé e i propri familiari. Auspice la potentissima favorita, nel 1693 il re allontana d'Aquin e nomina Fagon primo medico, assegnandogli anche l'intendenza del Jardin royal; nel 1699 egli otterrà anche il titolo di sovrintendente (anzi, da questo momento cessa la bipartizione tra intendente e sovrintendente: d'ora in avanti il direttore dell'orto botanico di Parigi sarà unico). L'ambizione di Fagon, degna del suo illustre paziente, è una sola: fare del Jardin des plantes l'orto botanico e il centro di studi naturalistici più importante del mondo. Un obiettivo che raggiunge attraverso due mosse vincenti. Da una parte Fagon, che sa delegare, si circonda di brillanti scienziati che confermeranno una volta per tutte il primato del Jardin nel campo degli studi della natura: fa venire da Aix il più importante botanico dell'epoca, Joseph Pitton de Tournefort, suo supplente alla cattedra di botanica e direttore di fatto dell'orto botanico; alla morte di questi, chiamerà da Lione Antoine de Jussieu, capostipite di una dinastia di botanici che dominerà il Jardin des plantes per tutto il Settecento. Dall'altra parte, Fagon promuove grandi spedizioni naturalistiche, soprattutto alla ricerca di piante medicinali (nella sua concezione, la botanica non si era ancora del tutto affrancata dalla medicina): i tre viaggi di Plumier nelle Antille; la sfortunata spedizione di Lippi in Egitto e nel Sudan; la spedizione dello stesso Tournefort in Levante; il viaggio di Feuillée nelle Antille e in Sud America; il viaggio in Spagna dei fratelli Jussieu. Il giardino viene dotato di due serre e la "butte Coypeu" si trasforma in un arboretum, che sarà il celebre labirinto del Jardin des plantes. Nel 1715, alla morte di Luigi XIV, che lo segna profondamente (il suo rapporto con il sovrano andò ben al di là della pura prestazione professionale), si ritira nel piccolo appartamento che spetta al sovrintendente nel Jardin, dove morirà nel 1718, a ottant'anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La discontinua Fagonia Sia Tournefort sia Plumier vollero rendere omaggio al loro protettore e al grande organizzatore della botanica francese dedicandogli un genere: Tournefort Fagonia, sulla base di una pianta da lui raccolta a Creta; Plumier Guidonia, sulla base di diverse specie delle Antille. Oggi quest'ultimo non esiste più: soppresso da Linneo e recuperato da Philip Miller (che volle dedicarlo insieme ai due Guidi: Guy de la Brosse e Guy Crescent Fagon), fin dall'Ottocento è stato suddiviso tra vari generi della famiglia Salicaceae. Ma prima di tornare a Fagonia, ben vivo e ufficializzato da Linneo nel 1753 in Species plantarum, un cenno ad altri due generi obsoleti, che in passato hanno celebrato altrettante comparse di questa storia, Denis Joncquet e Antoine Vallot. A Denis Joncquet, interessante botanico che tra l'altro creò un proprio giardino privato, ricchissimo di piante, che metteva a libera disposizione degli studenti della facoltà di medicina, nel 1789 il tedesco von Schreber dedicò Joncquetia (sinonimo di Tapirira, famiglia Anacardiaceae). A Vallot toccò invece la sudafricana Vallota, dedicatagli da Salisbury nel 1821. Anche questo genere non è più valido, anche se molti ancora conoscono con il nome di Vallota speciosa la bellissima Amaryllidacea che oggi porta la più infelice etichetta di Cyrthantus elatus. Ma è ora di parlare di Fagonia (famiglia Zygophyllaceae), un genere di 34-35 erbacee, suffrutici e arbusti delle zone aride, con una interessante distribuzione discontinua. Distribuito nella fascia temperata calda e subtropicale di quattro continenti, è un genere essenzialmente del Vecchio mondo (26 specie vivono tra Africa, Mediterraneo, Asia, soprattutto in un'ampia fascia che, partendo dalle Canarie, attraverso il Nord Africa, il Medio Oriente e la penisola arabica, raggiunge l'India nord-occidentale), ma con rappresentanti isolati nell'America occidentale (Stati Uniti sud-occidentali e Messico nord-occidentale; ma anche i Perù e Cile). La specie più occidentale del Vecchio mondo, F. cretica - propria quella descritta da Tournefort - è un semi arbusto eretto o prostrato, con caratteristici rami angolati e corte stipole semi-spinose, con graziosi fiori ascellari con cinque petali azzurro-purpurei. Ha un aerale assai vasto che si estende dalle Canarie al Nord Africa a occidente dell'Egitto; unica specie europea, è presente in una stazione isolata in Portogallo, nella Spagna meridionale (Alicante), in molte isole mediterranee (Baleari, Malta, Cipro e, ovviamente, Creta), ma anche in Italia. In passato è stata segnalata in Sicilia; oggi se ne conoscono solo sei stazioni, vicine tra loro, presso Melito Porto Santo in Calabria. Diverse specie di Fagonia (in particolare F. arabica e F. indica) sono note per il loro uso officinale nella medicina tradizionale; studi recenti ne hanno confermato l'importante azione antiossidante, che appare promettente nella prevenzione e nella cura di molte gravi patologie. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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