Nel 1817, il matrimonio dell'arciduchessa Maria Leopoldina d'Asburgo con l'erede al trono del Portogallo offre l'occasione per organizzare la prima grande spedizione scientifica in Brasile, le cui frontiere fino ad allora erano rimaste chiuse agli scienziati stranieri. Di grande significato politico e propagandistico per l'Austria, vede anche la partecipazione di due naturalisti bavaresi e di un botanico italiano. Le tensioni interne al gruppo e la turbolenta situazione politica (sono proprio gli anni in cui il Brasile diventa indipendente) ridimensioneranno in parte gli obiettivi; tuttavia, i risultati saranno grandiosi e segneranno una tappa decisiva per la conoscenza della natura brasiliana. Dei cinque botanici coinvolti in questa grande avventura, tre sono dedicatari di generi validi; li ritroveremo in altrettanti post riservati solo a loro, per dedicare almeno un ricordo e un pensiero a Leopoldina, che da adolescente sognò di diventare naturalista e morì forse di dolore, forse di femminicidio da imperatrice del Brasile. A renderle omaggio le svettanti palme del genere Leopoldinia. Un matrimonio imperiale e una spedizione in terre lontane Dopo la prova del fuoco delle guerre napoleoniche, l'Austria si ritrovò superpotenza. Certo, aveva dovuto subire terribili umiliazioni e Francesco II non era più Imperatore dei Romani, ma semplicemente Imperatore d'Austria; tuttavia governava un territorio raddoppiato, perno della Santa Alleanza, con l'assoluta egemonia sull'Italia. Vienna, sede dell'omonimo congresso, era la capitale diplomatica (e modaiola) d'Europa. Era ora di guardare più lontano. Così, quando il re di Portogallo chiese in moglie una principessa asburgica per l'erede al trono, Pietro di Braganza, Francesco II pur avendo qualche titubanza (le notizie sul pretendente non erano del tutto rassicuranti), convinto dal cancelliere e ministro Metternich, finì per accettare, sacrificando una delle figlie alla ragion di stato. L'alleanza conveniva ad entrambi: al Portogallo, che sperava di limitare l'egemonia economica inglese e cercava aiuto contro il movimento liberale; all'Austria, che contava d'estendere la propria sfera d'influenza all'America latina. Il re del Portogallo era infatti anche re del Brasile, e dal 1808, quando Napoleone aveva occupato la penisola iberica, si era rifugiato con la corte a Rio de Janeiro, divenuta la capitale di fatto del Regno. La scelta cadde sull'arciduchessa Maria Leopoldina. Per lei era ora di sposarsi. Aveva già 19 anni (il futuro marito ne aveva uno in meno) e fino ad allora non aveva avuto proprio la coda di pretendenti. Intelligente, colta, seria, fosse stato per lei avrebbe preferito un destino ben diverso: era appassionata di scienze naturali, soprattutto botanica e mineralogia, e sognava di dirigere la Collezione imperiale dei minerali, un'aspirazione impensabile per una donna del suo tempo. Quando seppe che l'attendeva un matrimonio nel lontano Brasile, l'accettò di buon grado, non solo per senso del dovere, ma anche per il fascino esotico di quella terra, uno scrigno i tesori naturali. La pensava così anche il cancelliere Metternich, appassionato di scienze naturali e amico personale di Humboldt; propose dunque all'Imperatore di approfittare dell'occasione per inviare in Brasile, insieme al seguito di Leopoldina, una spedizione scientifica in grande stile. Fino ad allora le frontiere brasiliane erano state ermeticamente chiuse alla scienza e sponsorizzare la prima spedizione scientifica ufficiale in quel paese avrebbe dato grande prestigio alla monarchia asburgica, con importanti ricadute economiche: accesso a risorse minerarie, legnami pregiati, animali esotici per lo zoo imperiale, piante per i giardini ma anche da naturalizzare, a giovamento dell'agricoltura nazionale, Francesco II, fin da bambino cultore di botanica, tanto da essersi guadagnato il soprannome "imperatore dei fiori", accettò con entusiasmo, affidando a Metternich l'organizzazione logistica della spedizione, incluso l'itinerario, e a Karl Franz Anton von Schreibers, il direttore dell'Imperiale gabinetto di storia naturale, la direzione scientifica. Per l'impresa vennero scelti lo zoologo Johann Natterer, con l'assistenza del cacciatore imperiale e tassidermista Ferdinand Dominik Sochor; il mineralogista e botanico Johann Baptist Emanuel Pohl; il giardiniere Heinrich Wilhelm Schott; il pittore paesaggista Thomas Ender e l'illustratore Johann Buchberger. La spedizione avrebbe dovuto essere diretta da Natterer, ma l'imperatore impose la presenza e la direzione di Johann Christian Mikan, professore di storia naturale a Praga. Una scelta che fu vissuta da Natterer come un affronto personale. Intanto, il re di Baviera Massimiliano I, che si trovava a Vienna per il Congresso, venne a sapere della spedizione e raccomandò due giovani naturalisti bavaresi, lo zoologo Johann Baptist von Spix e il botanico Carl Friedrich Philipp von Martius, che vennero così ad aggiungersi alla lista dei partecipanti. Il 13 maggio 1817 Leopoldina si sposò per procura; insieme al suo seguito, che comprendeva due dei suoi insegnanti, il mineralogista Rochus Schüch e il pittore Frick, tre dame di compagnia, l'ambasciatore imperiale conte von Eltz, Pohl e Buchberger, partì per Livorno, dove avrebbe atteso la flotta portoghese che doveva condurla a Rio. Circa un mese prima, il 9 aprile, il grosso degli scienziati si era già imbarcato a Trieste sulle fregate Austria e Augusta. Scienziati litigiosi e raccolte naturalistiche Dopo due giorni di navigazione, i due vascelli austriaci incapparono in una violenta tempesta e dovettero rifugiarsi per riparazioni una a Chioggia, l'altra a Pola. Quindi l'Austria, su cui erano imbarcati Mikan, Ender e i due bavaresi, fece direttamente rotta per il Brasile, con una sosta a Malta, giungendo a Rio il 14 giugno. In attesa dei compagni, si dedicarono all'organizzazione logistica della spedizione; un contatto particolarmente utile fu quello con il console russo, il barone Langsdorff, che divenne un punto di riferimento anche nei mesi successivi. Quanto all'Augusta, su cui viaggiavano Natterer, Socor e Schott, fece vela per Gibilterra, dove sostò ad aspettare delle navi portoghesi. L'attesa si prolungò oltre ogni aspettativa. Infatti i vascelli Joao VI e São Sebastião, con a bordo la principessa e il suo seguito, salparono da Livorno solo il 5 agosto. A bordo troviamo anche una new entry: il botanico Giuseppe Raddi, cui il granduca di Toscana aveva ordinato di unirsi alla spedizione. Le tre navi si ricongiunsero a Gibilterra e salparono insieme per Rio solo il 1 settembre; erano finalmente a destinazione il 4 dicembre dopo una difficile navigazione durata ben 82 giorni. L'inizio della spedizione vera e propria ne risultò fortemente ritardato. Poiché si prevedeva che le fregate austriache avrebbero lasciato il Brasile per il viaggio di ritorno alla fine di marzo o all'inizio di aprile, in accordo con l'ambasciatore von Eltz, i naturalisti optarono per brevi spedizioni, in modo da poterne approfittare per un primo invio. Per ottimizzare le forze, si divisero in tre gruppi; una decisione dovuta anche alle tensioni interne, alimentate dalla rivalità tra Natterer e Mikan e dall'autoritarismo di quest'ultimo. Accompagnati da guide, portatori, personale ausiliario, i tre gruppi poterono mettersi in marcia solo alla fine di gennaio; i due bavaresi, insieme al pittore Ender, si diressero a São Paulo; i due gruppi austriaci, formati uno da Mikan, Schott e Buchberger, l'altro da Natterer, Sochor e Pohl, si divisero l'esplorazione della provincia di Rio, all'epoca ancora ricca di foreste e terre vergini. Raddi, che l'avaro granduca aveva dotato di finanziamenti insufficienti, fu costretto a fare parte per se stesso. Lo ritroveremo in un prossimo post. Il gruppo di Mikan fu costretto a rientrare già all'inizio di marzo, a causa di una brutta caduta da cavallo di Buchberger , mentre la assai più fruttuosa spedizione di Natterer e compagni si protrasse fino ad aprile. Il primo giugno 1818 l'Austria e l'Augusta ripartirono per l'Europa, con varie casse di animali imbalsamati, piante essiccate, conchiglie, semi, qualche animale curioso vivo e vasi di piante rare raccolte da Schott e Pohl. A bordo c'erano anche i due pittori, gravemente malati; Raddi, rimasto senza fondi; e Mikan, cui l'ambasciatore von Eltz aveva ordinato di rientrare a causa della pessima atmosfera creata dal suo autoritarismo. Quando la notizia arrivò in Europa, anche se il rientro di Mikan venne diplomaticamente attribuito al suo stato di salute, chi non aveva simpatia per l'Austria incominciò a mormorare di fallimento. Non era proprio così, ma certamente si trattava di un ridimensionamento degli obiettivi iniziali. In Brasile rimanevano un nutrito gruppo di scienziati austriaci e i due bavaresi. Questi ultimi, non riuscendo a concordare un itinerario comune, si separarono dagli altri e si diressero a nord, intenzionati a esplorare l'Amazzonia. Anche a loro sarà dedicato un post a parte. Gli austriaci concordarono con l'ambasciatore di rimanere in Brasile ancora un anno e mezzo o due anni; tuttavia era chiaro che neppure l'esautorazione di Mikan aveva trasformato quell'insieme di individualisti in una squadra affiatata. Il più disciplinato era indubbiamente Schott, che obbedì a malincuore all'ordine di rimanere a Rio a creare e curare un giardino di acclimatazione per i semi e le piante raccolti nei dintorni; solo dopo circa un anno, quando da Vienna venne inviato in suo aiuto il giardiniere Schücht, poté affrontare alcuni viaggi più lunghi, in compagnia del pittore Frick che si era offerto di sostituire Buchberger come illustratore botanico. Natterer e Socor erano ormai una affiatatissima squadra; avevano intenzione di visitare il Mato Grosso, ma, non avendo ottenuto il necessario passaporto, si diressero a São Paulo, dove misero insieme una ragguardevole raccolta soprattutto di uccelli e insetti, per poi spostarsi a Soracaba e Ipanema. Anche Pohl era molto attivo, anche se i suoi interessi dalla botanica andarono via via allargandosi alle miniere e all'etnografia; nell'arco di circa due anni, i suoi viaggi lo portarono nelle province di Rio de Janeiro, Minas Gerais, Goias, Bahia. Tuttavia a causa del deterioramento della situazione politica dopo il rientro di Giovanni VI in Portogallo, alla fine del 1820 von Elck convocò i naturalisti a Rio de Janeiro e ordinò loro di rientrare prontamente in Europa. Pohl e Schott obbedirono: il primo si imbarcò nell'aprile 1821 per Amsterdam insieme a Schücht e una coppia di indios Botocudo, che al loro arrivo a Vienna divennero l'attrazione del giorno; il secondo a maggio si imbarcò per Lisbona, con 35 casse di materiali raccolti da Pohl e 30 da lui stesso. Natterer e Socor decisero invece di rimanere in Brasile e proseguirono le ricerche, ormai non più al servizio dell'Impero d'Austria, ma come esploratori indipendenti. Rimasto solo per la morte del fedele Sochor (1826), Natterer riuscì a penetrare nel bacino del Rio delle Amazzoni, spingendosi fino al confine con la Bolivia. Il suo viaggio avventuroso, che tra mille difficoltà si sarebbe protratto fino al 1835, segnò una tappa decisiva nella conoscenza della fauna brasiliana, con la scoperta di decine e decine di nuove specie. Non poche portano il suo nome: molti uccelli, come il colibrì gola-cannella Phaethornis nattereri, la pispola petto-ocra Anthus nattereri, il motmot amazzonico Momotus momota nattereri; diversi pipistrelli, come Vampyressa nattereri; il pesce siluride boliviano Farlowella nattereri. Notarella botanica a mo' d'epilogo Tutti i botanici che parteciparono a questa avventura ebbero la fortuna di tornare in patria, di vivere ancora a lungo e di pubblicare le piante che avevano raccolto in contributi di diversa importanza. Tra tutti spicca la monumentale Flora brasiliens diretta da von Martius, che sarà oggetto di un prossimo post, così come i lavori di Raddi e Schott. Ci rimangono dunque Mikan e Pohl. Johann Christian Mikan (1769-1844), boemo, era figlio d'arte: suo padre era infatti Joseph Gottfried Mikan, professore di botanica e chimica presso l'università di Praga e direttore dell'orto botanico praghese. Studiò medicina e botanica; incominciò a insegnare scienze naturali nella sua alma mater fin dal 1796, divenendo ordinario di storia naturale nel 1800 e di botanica dal 1812, al pensionamento del padre. Nonostante la brevità della sua partecipazione all'impresa brasiliana, le sue scoperte sulla fauna e sulla flora del paese sudamericano, pubblicate in Delectus Florae et Faunae Brasiliensis (1820-1825), sono tutt'altro che trascurabili; tra l'altro, vi si trova la prima descrizione scientifica della scimmia leonina nera Leontopithecus chrysopygus. Tuttavia, era più uno zoologo che un botanico. I generi botanici Kanimia Gardner, Mikania Willd. e Mikaniopsis Milne-Redh. non sono dedicati a lui, ma a suo padre, un botanico molto noto per i suoi lavori sulla flora boema. Molto maggiore per quantità e qualità, in ogni caso, il contributo di Johann Baptist Emanuel Pohl (1782-1834). Anche lui boemo e formatosi all'Università di Praga, nel 1808 si era laureato in medicina. Iniziò la sua carriera di naturalista come bibliotecario e curatore delle collezioni della principessa Kinsky; contemporaneamente insegnava botanica all'Università. Lavorò anche come medico presso gli ospedali militari di Náchod e Praga. Era un naturalista a 360 gradi, che prima della spedizione in Brasile pubblicò lavori sulla flora ceca, sull'anatomia animale e sui fossili. Come abbiamo visto in precedenza, in Brasile fu instancabile, soprattutto nei viaggi in solitaria tra 1819 e 1821. Le sue imponenti collezioni, con oltre 4000 esemplari botanici, andarono ad arricchire il Gabinetto di storia naturale e il Brasilianum, il Museo allestito per esporre al pubblico le raccolte della spedizione. Di entrambi fu nominato curatore. Il suo Reise im Innern von Brasilien "Viaggio nel Brasile interno", in due volumi (1817-1821), fu molto letto e influì grandemente sull'immagine del Brasile in Europa. Alle piante brasiliane dedicò Plantarum Brasiliae icones et descriptiones (1827), un'opera molto curata anche dal punto di vista iconografico, in cui pubblicò diversi nuovi generi. Spiace che questo interessante naturalista non sia celebrato da alcun genere valido. Pohlana Mart. & Nees è infatti stato ridotto a sinonimo di Zigophyllum. Lo ricordano nell'epiteto diverse specie sudamericane, come la brasiliana carapià Stenandrium pohlii, ma anche l'europea Taraxacum pohlii. La mineralogista mancata che divenne imperatrice Ma allora di cosa stiamo parlando, se dei colleghi di Mikan e Pohl si parlerà altrove? C'è ancora una persona degna di essere ricordata, cui non manca la gloria di un genere celebrativo. Chi? Proprio lei, l'arciduchessa Maria Leopoldina Giuseppa Carolina d'Asburgo Lorena, alias Dona Leopoldina, prima imperatrice del Brasile. La principessa che sognava di diventare direttrice del reale gabinetto di minerali arrivò in Brasile piena di sogni e di speranze. Del neosposo gli avevano fatto un ritratto elogiativo, e a prima vista non rimase delusa. Pedro era indubbiamente un bel ragazzo, ma, ahimè, niente di più. Era rozzo, incolto, e sebbene Leopoldina parlasse fluentemente quattro lingue, finché non padroneggiò anche il portoghese fu difficile persino comunicare. Sembra che a interessarlo fossero solo i cavalli e le belle ragazze (la scialba Leopoldina con il prominente labbro asburgico non rientrava nella categoria). Con il senso del dovere che le era stato inculcato fin dall'infanzia, la principessa si adattò serenamente alla nuova vita. Tra una gravidanza e l'altra (in nove anni di matrimonio ebbe sette figli) cercava di mantenere vivi i suoi interessi naturalistici: leggeva, dipingeva acquarelli botanici, collezionava molluschi, faceva quotidiane passeggiate nella foresta di Tijuca alla ricerca di orchidee; cavalcando all'amazzone andava a caccia e aiutava i tassidermisti a impagliare uccelli e piccoli mammiferi. Nella Fazenda Imperiale di Santa Cruz creò una moderna postazione zootecnica; nel palazzo di Boa Vista, fece allestire una biblioteca costantemente aggiornata con volumi di botanica e mineralogia che ordinava in Europa e un gabinetto di storia naturale, diretto dal suo maestro Rochus Schüch. Diede impulso alla creazione del Museo di Storia naturale, istituito con decreto reale nel 1818. Dona Leopoldina, come la chiamano in Brasile, divenne anche una figura molto amata. Nel 1821, quando Giovanni VI e la corte rientrarono in Portogallo, anziché approfittarne per tornare in Europa, preferì rimanere a fianco del marito e successivamente giocò un ruolo importante negli eventi che portarono alla Dichiarazione di indipendenza. Mentre Pietro si trovava a San Paolo, il 2 settembre 1822 arrivò a Rio il decreto reale che imponeva al principe di tornare in Portogallo e ripristinava lo stato di colonia del Brasile; nella sua posizione di reggente, Leopoldina riunì il Consiglio dei ministri e inviò al marito questo messaggio: "Il frutto è pronto. E' il momento della raccolta". Appena ricevuta la lettera, il 7 settembre, Pietro dichiarò l'indipendenza e si proclamò primo imperatore del Brasile. Secondo lo storico Paulo Rezzutti, molto del merito va proprio a Leopoldina: "Abbracciò il Brasile come suo paese, i brasiliani come suo popolo e l'Indipendenza come sua causa". Sul piano personale, gli ultimi anni di Leopoldina furono molto infelici. Pochi giorni prima dell'Indipendenza, a São Paulo Pietro conobbe una giovane donna, Domitila da Castro, e ne fece la sua amante. Non fu l'unica relazione extraconiugale di Pietro, che aveva già avuto e ebbe contemporaneamente a Domitila molte altre amanti, ma certamente fu la più scandalosa: non solo l'imperatore riconobbe pubblicamente la paternità di una figlia avuta da Domitilla, ma nobilitò l'amante, la nominò dama di compagnia della moglie e all'inizio del 1826 ne impose la presenza in occasione di viaggio ufficiale a Bahia. Leopoldina, come possiamo ricavare dalle lettere alle sorelle, si sentì totalmente umiliata. La sua vita era diventata un inferno; secondo le male lingue, non contento di offenderla di fronte a tutta la corte, Pietro prese anche a maltrattarla e picchiarla. Leopoldina morì non ancora trentenne nel dicembre 1826, dieci giorni dopo un aborto. Su questa morte si accavallarono le dicerie; se la causa più probabile fu una setticemia, secondo alcuni l'infelice arciduchessa, ormai priva di ogni desiderio di vivere, si sarebbe lasciata morire; secondo altri fu vittima di femminicidio: l'aborto che l'avrebbe portata alla morte sarebbe infatti stato causato da un violento calcio del marito. Meglio, molto meglio per lei, se fosse rimasta a Vienna a dirigere il reale Gabinetto dei minerali. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Una palma brasiliana per la principessa che si fece brasiliana A ricordare questa amica della scienza, questa donna intelligente e coraggiosa che il Brasile amò e non ha mai dimenticato, c'è anche un genere di piante, Leopoldinia, che von Martius le dedicò nel 1824 nella sua monografia sulle palme. Per una volta, si tratta di una dedica meritatissima, al di là del solito omaggio cortigiano a una sovrana. Il genere Leopoldinia della famiglia Arecaceae comprende tre specie di palme diffuse nel bacino del Rio delle Amazzoni tra Venezuela, Colombia e Brasile nord-occidentale, nella foresta tropicale umida periodicamente allagata: L. major, L. pulchra e L. piassaba. Le prime due crescono su isole rocciose e sulle rive del Rio Negro e di alti fiumi dalle acque nere e hanno fusto cespuglioso. L. piassaba, che ha fusto unico, cresce invece su isole sabbiose solitamente non allagate, in gruppi cospicui. Mentre la chioma di L. major, una specie rara nota solo in poche stazioni del bacino dei Rio Negro, può emergere sullo stato alto della foresta, le altre due sono specie tipiche del sottobosco. Hanno foglie basali molto fibrose, tanto che le fibre ricavate da L. piassaba, conosciuta come palma da fibra, sono utilizzare per cestini, scope, corde, cappelli e altri prodotti intrecciati. Hanno eleganti foglie pennate, pendule, lunghe fino a 5 metri. Per lo più monoiche, portano fiori maschili e femminili in infiorescenze diverse distribuite alternativamente lungo lo stesso ramo; talvolta tuttavia i fiori maschili spuntano vicino al tronco, mentre quelli femminili all'apice. Raramente possono avere fiori ermafroditi o essere dioiche. Qualche informazione in più nella scheda.
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Il Rancho Santa Ana Botanical Garden (RSABG) è una delle più importanti e benemerite istituzioni botaniche della California (anzi, degli interi Stati Uniti). Situato a Claremont, a est di Los Angeles, è il più ricco giardino botanico dello stato integralmente dedicato alla flora locale, con 22.000 piante native appartenenti a 2000 tra specie, ibridi e cultivar. Svolge anche una rilevante attività di ricerca e formazione, con un dipartimento di ricerca specializzato in tassonomia e botanica evolutiva; offre corsi di laurea di secondo livello e stage post laurea, in collaborazione con l'università Pomona di Claremont. Pubblica una rivista e altre pubblicazioni scientifiche. Custodisce una biblioteca specializzata, un archivio di 23.000 documenti (incluse fotografie e illustrazioni botaniche originali), un erbario di 1.200.000 esemplari che comprende tutte le specie della area floristica californiana; promuove la conservazione della flora della California meridionale attraverso una banca dei semi, la salvaguardia, la riproduzione e la diffusione delle sue specie; in campo orticolo, è attivamente impegnato nel produrre e testare nuove cultivar. Organizza innumerevoli attività per le scuole e le comunità locali. Tutto questo è nato dal sogno di una donna tenace e volitiva, Susanna Bixby Bryant, circa 90 anni fa quando solo pochi pionieri si rendevano conto di quanto fosse importante la conservazione delle flore locali. Grazie a uno dei ricercatori che lavorano nel RSABG, da qualche anno a ricordarla contribuisce anche il genere Bryantiella (Polemoniaceae). Il sogno di una donna di carattere Con circa 6000 specie, un terzo delle quali endemiche, la California è lo stato con la flora più ricca degli Stati Uniti. Ma già all'inizio del '900, dopo che la Febbre dell'oro vi ebbe riversato migliaia di uomini in cerca di fortuna, quel tesoro naturale incominciava ad apparire in preoccupante e veloce declino per la pressione delle coltivazioni e dell'urbanizzazione e l'invasione di piante aliene. Tra i primi a rendersene conto, Theodore Payne (1872-1963), giardiniere e vivaista inglese trapiantato in California, dove si era innamorato della peculiare e variegata flora della patria d'adozione. Cominciò così a raccogliere bulbi e semi in natura e a moltiplicarli nel suo vivaio di Los Angeles, specializzandosi nella coltivazione di piante locali. Nel 1915 la città di Los Angeles gli affidò la sistemazione di un'area di 20.000 metri quadri nell'Exibition Park, nel quartiere centrale della città; Payne usò esclusivamente piante native, piantandone 262 diverse specie. Fu probabilmente questa realizzazione di Payne ad ispirare a Susanna Bixby Bryant, una dama dell'alta società californiana, il progetto che avrebbe portato alla nascita di Rancho Santa Ana Botanical Garden. La giovane donna era nata in una famiglia di ricchissimi latifondisti, proprietari di immensi ranch gestiti con modalità industriale, ed aveva trascorso la prima infanzia in una delle proprietà dei Bixby, Rancho Los Alamitos, dove grazie al padre, un imprenditore dalle idee innovative, aveva sviluppato un forte legame con la natura di quei luoghi così particolari, tra mare, colline e deserto. Rimasta presto orfana, fu inviata in un ottimo collegio di Boston dove ricette un'educazione formale insolita per le ragazze dell'epoca, quindi viaggiò a lungo con la madre in Europa e altrove. Al suo ritorno in California, nel 1904, si sposò con Ernest Albert Bryant, il medico personale del magnate delle ferrovie Henry Hungtington (che proprio in quegli anni stava facendo costruire un giardino botanico ricco di essenze esotiche a San Marino, oggi una delle maggiori attrazione dell'area di Los Angeles). Nel 1906, quando la madre morì, Susanna si trovò comproprietaria, con il fratello, di due vaste proprietà, Rancho Los Alamitos e Rancho Santa Ana; decise che ne aveva abbastanza di dividere le sue giornate tra tè, ricevimenti e riunioni di comitati di beneficenza, e, prima donna a farlo, incominciò a gestire di persona l'azienda, dove piantò aranci, noci, peri, melograni e sperimentò nuove introduzioni come pompelmi e litchi. Da tempo desiderava fare qualcosa per onorare la memoria del padre, che aveva perso quando aveva solo sette anni ma non aveva mai dimenticato. Il giardino californiano creato da Payne all'Exibition Park le diede l'idea che cercava: avrebbe trasformato una parte del Rancho Santa Ana (di cui nel frattempo aveva acquisito l'intera proprietà) in un orto botanico interamente dedicato alla flora californiana e l'avrebbe intitolato alla memoria del padre John William Bixby. Non si sarebbe trattato di un giardino privato di piacere; Susanna lo concepì fin da subito come un'istituzione pubblica, con compiti di conservazione, ricerca ed educazione. Per definire il progetto, si avvalse della consulenza di vari esperti, in particolare lo stesso Payne e il professor Willis Linn Jepson dell'Università di California, autore di una flora californiana di riferimento. Il progetto incominciò a prendere corpo nel 1926. All'interno del Rancho Santa Ana, la signora Bryant scelse un terreno singolarmente adatto per riprodurre, sebbene in miniatura, i diversi habitat della California: esteso su circa 160 acri sulle colline lungo il fiume Santa Ana tra 130 e 340 m. sul livello del mare, presentava una grande varietà di suoli e esposizioni, dal pieno sole all'ombra profonda; al momento, era uno spazio nudo, quasi privo di alberi. Prima di iniziare i lavori, ella volle comunque ancora sentire il parere del patriarca della botanica americana, Charles Sprague Sargent, il direttore dell'Arnold Arboretum di Boston. La risposta del burbero botanico fu deludente: a suo parere, riprodurre i vari ambienti della regione e piantare ogni tipo di pianta era assolutamente sconsigliabile; sarebbe stato meglio limitare lo spazio destinato all'arboreto e accontentarsi di una selezione di specie capaci di vivere senza irrigazione, che una volta cresciute avrebbero potuto fare da sé. La signora Bryant non si lasciò scoraggiare e replicò con un pizzico di ironia: "In maniera squisitamente femminile, ho deciso di correre il rischio e intendo procedere con il mio progetto iniziale". Accettò tuttavia il secondo consiglio di Sargent: affidare la progettazione a Ernest Braunton, architetto del paesaggio dell'Università della California meridionale. I lavori iniziarono nel 1927; i primi sette anni vanno considerati sperimentali: furono occupati nella costruzione di una serra, della direzione e degli altri edifici necessari, nella messa a dimora delle piante, inizialmente procurate da Payne, ma poi raccolte dal piccolo staff del giardino (di cui fin dall'inizio fece parte un botanico) in spedizioni in natura, e soprattutto nella verifica della fattibilità del progetto. Nel 1934 Susanna e i suoi collaboratori decisero che la prova era superata ed era ora di trasformare il giardino in un'istituzione formale. Con la stesura dello statuto, la creazione di una fondazione, la nomina di un consiglio d'amministrazione (Trustee), il conferimento di un capitale sociale (grazie a una donazione della signora Bryant) nacque così ufficialmente il Rancho Santa Ana Botanical Garden (RSABG). Negli anni successivi l'orto botanico continuò a crescere, con la creazione di alcuni "giardini speciali": quello dei cactus, quello delle succulente (dedicato in particolare ai generi Sedum e Dudleya), la collezione dei Penstemon, il giardino dei bulbi, quello delle piante acquatiche e di palude, il felceto, il prato naturale di fiori selvatici (con piante della prateria come Clarkia, Gilia, Phacelia). Parallelamente si sviluppò l'attività di ricerca e formazione, in collaborazione sempre più stretta con Pomona University di Claremont, grazie all'arrivo a Santa Ana in qualità di botanico di Philip Munz, grande esperto di flora dei deserti, che insegnava botanica in quella Università. Furono creati un erbario e una biblioteca; vennero organizzate mostre, conferenze, visite guidate; nel 1948 incominciò anche la pubblicazione di una rivista semestrale, Aliso (dal nome locale del platano della California o sicomoro, Platanus racemosa), che poi si sarebbe specializzata in tassonomia e botanica evolutiva. In quel momento, già da due anni la signora Bryant non c'era più: era infatti morta all'improvviso nel 1946; una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Una grande istituzione botanica Al momento della scomparsa di Susanna Bixby Bryant, l'istituzione nata dal suo sogno e dalla sua determinazione era ormai in grado di reggersi sulle sue gambe. Da tempo la signora Bryant e i suoi collaboratori pensavano che la collocazione del giardino, pur eccellente sotto molti punti di vista e così colma di significato simbolico e affettivo, fosse però troppo periferica per permettere la frequentazione continuativa degli studenti e dei dottorandi di Claremont. Fu così che, senza tradire la volontà della fondatrice, nel 1950 il giardino venne trasferito nell'attuale sede, ai piedi della collina San Gabriel a Claremont; invariati rimanevano gli obiettivi: in primo luogo, la conservazione della flora della California attraverso lo sviluppo delle collezioni vive del giardino botanico; il suo studio attraverso la ricerca sul campo, i laboratori, la collaborazione con l'Università; la divulgazione della conoscenza delle piante native e la loro diffusione in giardini pubblici e privati. Oggi il RSABG è una grande istituzione scientifica, retta da un nutrito staff professionale ma anche dall'entusiasmo di centinaia di volontari; è aperta alle scuole e al territorio, ospita stages di formazione e i corsi di dottorato in botanica dell'Università di Claremont; ha un dipartimento di ricerca specializzato in sistematica e botanica evolutiva; si è dotato di una banca dei semi e partecipa attivamente ai progetti di reintroduzione con semenzali prodotti e testati nei propri vivai. Per altre informazioni sulle collezioni, i progetti scientifici, i progetti di ricerca, le attività divulgative e didattiche si rimanda al sito del RSABG. Su un'estensione di 86 acri (35 ha), il giardino ospita oltre 20.000 piante native, appartenenti a circa 2000 tra specie, ibridi e cultivar. Si incontrano le prime già a far ombra al parcheggio; tra di loro due esemplari di Juglans californica, il noce della California. Subito dopo l'ingresso, si trova il negozio del vivaio, dove il visitatore può trovare in vendita le piante native e le cultivar sviluppate nel giardino: sono oltre 75, e tra di esse si annoverano numerosi Arctostaphylos, Ceanothus, Fremontodendron, Heuchera. Subito dopo, si passa in mezzo a un prato naturale, Fay's Wildflower Meadows, un tappeto fiorito ricchissimo di specie sempre mutevole nel corso delle stagioni, con il massimo di fulgore tra metà inverno e inizio dell'estate; tra gli altri, ad attirare visitatori, farfalle e colibrì, Eschscholzia californica, Lupinus albifrons e Calochortus clavitus. La visita può proseguire lungo il sentiero facilitato che conduce alla parte bassa o arrampicarsi immediatamente sulla Indian Hill Mesa. Il giardino è infatti diviso in tre settori principali: in basso, l'East Alluvional Garden e le Plant Communities, in alto, con un dislivello di una dozzina di metri, appunto la Indian Hill Mesa, una tipica formazione rocciosa con fianchi scoscesi e cima pianeggiante. L'East Alluvional Garden ospita le piante di vari habitat: le succulente del non lontano deserto di Mojave nel California Desert Garden, le specie costiere nel Costal Dune Garden, la peculiare flora delle isole nel Grafton Channel Island Garden. Di grande impatto la Palm oasis, che riproduce una oasi del Colorado Desert, dominata dall'unica palma nativa, Washingtonia filifera, di cui si possono ammirare esemplari che superano i 20 metri, con le foglie secche lasciate al loro posto, come in natura, a fare da gonnellino e a proteggere dall'arsura. Al limitare di questo settore, si incontra il patriarca del giardino, il Majestic Oak, un esemplare di Quercus agrifolia la cui età stimata è di 250 anni. Su un'area di circa 55 acri si estende il settore più selvaggio del giardino, le Plant Communities, in cui le piante sono lasciate il più possibile allo stato di natura. Qui il momento migliore è l'inverno, dopo che le piogge autunnali hanno risvegliato le piante assopite dai calori estivi. Tra le varie comunità rappresentate, i chaparral della California meridionale e settentrionale, il bosco pedemontano umido, i boschetti di ginepri della California settentrionale nonché comunità specifiche dominate rispettivamente dai pini di Torrey (Pinus torreyana), dai Joshua Trees (Yucca brevifolia), dai ginepri (Juniperus occidentalis). E' un'area ricca di esemplari notevoli, come un altissimo Boojum tree (Fouquieria columnaris), un enorme Big Berry Manzanita (Arctostaphylos glauca), gli spinosi Crucifixion Thorn (Canotia holacantha), le dorate fioriture di Parkinsonia florida e Fremontodendron californicum, le macchie rosa di Chilopsis linearis. La Indian Hill Mesa è il cuore del giardino, di cui ospita anche la direzione, le strutture didattiche e i vivai; vi si trovano un padiglione delle farfalle, il Giardino delle cultivar, un piccolo stagno ombroso dove nuotano le tartarughe, e naturalmente una distesa di arbusti e alberi, tra cui non possono mancare i giganti della California, Sequoia sempervirens e Sequoiadendron giganteum. Possiamo concludere che il sogno di Susanna Bixby Bryant ha dato buoni frutti. Bryantiella, un fiore per il più arido dei deserti Tra i numerosi botanici che lavorano al RSABG come ricercatori, c'è anche J. Mark Porter, attualmente professore associato di botanica all'Università di Claremont, uno specialista di sistematica e botanica evolutiva. I suoi studi più noti riguardano due famiglie ben rappresentate nella flora californiana, le Cactaceae e le Polemoniaceae. Nel 2000, insieme a L.A. Johnson della Brigham University, ha pubblicato un importante studio su quest'ultima famiglia, in cui ha proposto di staccare cinque piccoli generi da Gilia Ruiz. & Pav., uno dei generi più variegati dei deserti americani. Uno ha voluto dedicarlo alla nostra Susanna, denominandolo Bryantiella. Al momento della sua creazione, gli furono assegnate due specie, con un areale disgiunto: Bryantiella palmeri, un endemismo della Baja California, e B. glutinosa, che vive in diversi ambienti aridi del Cile. Poiché più recentemente (2015) quest'ultima è stata trasferita nel genere Dayia, oggi Bryantiella è un genere monotipico, rappresentata dalla sola B. palmeri. E' un'erbacea che può comportarsi come annuale o perenne, in base al regime delle piogge; ha foglie lineari intere o pennatosette, fusticini sottili, fiori solitari a coppa con cinque lobi bianchi o rosa-violaceo. All'apparenza fragile, si è adattata a uno deserti più aridi del Nord America, il San Felipe Desert in Baja California. Un breve profilo nella scheda. A fare da sfondo alla nostra storia è un braccio di ferro diplomatico, fatto di mosse e contromosse, una guerra di spie che per quasi un secolo contrappose l'orso russo e il leone britannico. E' il Grande gioco, che ragazzini abbiamo imparato a conoscere dalle pagine del romanzo di Kiplig Kim. Tra le prime pedine di quel gioco, a muoversi sulla scacchiera del torneo delle ombre, come lo chiamarono i russi, sono due agenti britannici e un generale russo spericolato, ovvero il nostro protagonista, Vassilij Perovskij. Come protettore delle scienze (ma gli scienziati che lavoravano per lui erano anche, a tutti gli effetti, addestratissime spie), si è guadagnato il genere Perovskia, che dopo un giallo durato dieci anni torna a recuperare il suo nome, mentre non ha mai spesso di donarci le sue azzurrissime fioriture. Inizia il Grande gioco A partire dagli anni '20 dell'Ottocento, e poi per tutto il secolo, Gran Bretagna e Impero russo furono divisi da una sorda rivalità per l'egemonia sul Medio Oriente e l'Asia centrale. Combattuta, più che sul piano miliare, su quello diplomatico, con un ruolo importantissimo dello spionaggio, fu come una sottile partita a scacchi, fatta di mosse e contromosse: gli inglesi la chiamarono the Great Game, il "Grande gioco", i russi Turniry tenej, il "Torneo delle ombre". Uno dei primi atti di quella partita fantasmatica fu la crisi di Khiva. Situato nell'attuale Uzbekistan, Khiva, insieme a Bukhara, Kazakh e Kokand, era uno dei khanati indipendenti dell'Asia centrale. La Russia aspirava ad annetterli al proprio impero, la Gran Bretagna voleva a tutti i costi preservarne l'indipendenza, convinta che la conquista di quei territori avrebbe fornito allo zar una testa di ponte verso l'Afghanistan, da dove avrebbe potuto minacciare direttamente gli interessi inglesi in India. Posto in posizione strategica tra mar Caspio, Mare d'Aral e bacino dell'Amu Daria, il khanato di Khiva sollecitava la cupidigia russa per ragioni geopolitiche, ma anche economiche: vi veniva prodotto un cotone di ottima qualità, reso tuttavia costoso dal lungo viaggio attraverso le steppe kazake. Inoltre i russi mal tolleravano l'aggressività del khanato, che si rivolgeva sia contro gli altri staterelli dell'area, sia contro la Russia, con la devastazione dei villaggi di frontiera e la cattura di un numero crescente di russi, poi venduti come schiavi. La questione degli schiavi russi offriva allo zar il migliore dei casus belli. Se ne rese perfettamente conto il Foreign Office, che mise in moto il Grande gioco per cercare di eliminare un pretesto tanto perfetto. Su ordine dell'agente britannico in Afghanistan, la vigilia di Natale del 1839, il capitano James Abbott, travestito da afgano, lasciava Herat per raggiungere Khiva, dove giunse alla fine del gennaio 1840. Nonostante i sospetti sulla sua identità, riuscì ad ottenere un'udienza dal khan Quli Bahadur e a convincerlo ad affidargli una lettera per lo zar sulla questione degli schiavi. Tuttavia, mentre tentava di raggiungere Fort Aleksandrovsk in Russia, egli fu tradito dalla guida, derubato, sequestrato, e rilasciato solo mesi dopo, quando i banditi ebbero capito con chi avevano a che fare. Nel frattempo, non avendo sue notizie, i suoi superiori avevano inviato a Khiva un secondo agente, il luogotenente Richmond Shakespear, che, molto più abile o fortunato di Abbott, riuscì a convincere il khan a liberare tutti i cittadini russi sotto il suo controllo e a introdurre la pena di morte per chi continuasse a possedere schiavi russi. Il 15 agosto 1840 Shakespear raggiunse Fort Aleksandrovsk in compagnia di un contingente di russi liberati dalla schiavitù. Il pretesto era stato eliminato, ma troppo tardi: la mossa britannica era stata anticipata da quella russa. Infatti, come Londra sospettava, a San Pietroburgo era già stata scelta l'opzione militare. Fin dal marzo 1839, lo zar aveva ordinato un attacco a Khiva, con l'obiettivo non di annettere il khanato, ma di deporre il khan ostile per sostituirlo con un fantoccio manovrato dalla Russia. A giugno, due reggimenti furono inviati sul fiume Emba, dove venne anche costruito in forte che avrebbe costituito una testa di ponte per il grosso della spedizione; quest'ultima sarebbe partita da Orenburg, situata circa 1500 km a nord di Khiva, per raggiungere la quale era necessaria una lunga marcia attraversando le steppe kazake. Scartata la torrida estate, si decise di far muovere le truppe d'inverno, una stagione solitamente non troppo inclemente in quella regione, che offriva il vantaggio di porre meno problemi di approvvigionamento dell'acqua. Quanto al cibo e al foraggio, i russi avrebbero dovuto portarli con sé in ogni caso. La spedizione partì infine da Orenburg il 16 novembre 1839; comprendeva 3000 effettivi, 2000 ausiliari, 10000 cammelli, 2000 cavalli e migliaia di carri con le vettovaglie, cui vanno aggiunti un numero imprecisato di cammellieri e carrettieri reclutati più o meno a forza tra la popolazione locale. A comandarla, il protagonista della nostra storia, il generale Vasilij Aleksejevič Perovskij. Va detto subito che l'impresa si rivelò un disastro: l'inverno giunse prima del previsto e fu caratterizzato da nevicate e freddo eccezionali. I soldati russi, proprio come era successo a Napoleone nella campagna di Russia qualche anno prima, dovettero fare i conti con il generale inverno. A decimarli non furono le truppe nemiche (non ci fu nemmeno una battaglia), ma la neve, la fame, il freddo, lo scorbuto. All'inizio di febbraio (negli stessi giorni in cui Abbott cercava faticosamente di convincere il khan), Perovskij dava l'ordine di rientrare. A maggio quanto rimaneva del suo distaccamento faceva ritorno a Orenburg, dopo aver perso almeno 1000 uomini e quasi tutti i cammelli. Fu così che nella partita del Grande gioco il primo tempo se lo aggiudicò la Gran Bretagna. Per annettersi Khiva, la Russia dovette attendere fino al 1873. Un generale spericolato E' ora di concentrarci sul nostro protagonista, il generale Perovskij. La sua vita sembra uscita da un romanzo, di quelli che scriveva suo nipote Aleksej Tolstoj, per non parlare del più illustre cugino di questi, Lev Tolstoj. Era uno degli undici figli nati dalla relazione extraconiugale tra il conte Aleksej Razumovskij, ministro dell'Educazione nazionale, e Maria Sobolevsakaja, una donna colta con fama di filosofa. Non potendo trasmettere loro il proprio cognome, il padre li aveva chiamati Perovskij, nome tratto da una delle tenute di famiglia, Perovo. Ammessi alla nobiltà dagli zar che successivamente servirono, alcuni dei fratelli Perovskij furono personaggi di primo piano della vita russa: Lev fu ministro dell'interno, Aleksei un notevole scrittore (con lo pseudonimo Anton Pogorelskij); una delle sorelle, Anna, sposò il conte Konstantin Tolstoj, da cui ebbe il famoso scrittore Aleksej Tolstoj. Come i fratelli, anche il nostro Vasilij ebbe un'ottima istruzione; iniziò la carriera militare a sedici anni con il grado di capocolonna. Era un giovane ufficiale dalle abitudini eccentriche, come quella di non separarsi mai dalla sua pistola; spesso infilava un dito nella canna e camminava con la pistola carica appesa al dito; una volta accidentalmente partì un colpo, strappandogli una falange. Da quel momento, Perovskij prese a indossare un ditale d'oro, da cui pendeva un occhialino. Nel 1812 (all'epoca aveva solo 17 anni) venne fatto prigioniero dei francesi nel corso della battaglia di Borodino; le sue vicissitudini avrebbero ispirato le avventure di Pierre Bezuchov in Guerra e pace. Liberato, riprese la carriera militare; inizialmente fu attratto dai decabristi, ma poi si legò sempre più all'imperatore Nicola I, che lo nominò aiutante di campo. Il 14 dicembre 1825, in piazza del Senato, mentre difendeva l'imperatore dalla folla inferocita, fu colpito alla schiena da un tronco. Nominato maggiore generale, poi aiutante generale, si distinse nella guerra russo-turca del 1828-29; si racconta che quando una bomba cadde di fronte a lui e a un gruppo di ufficiali, disse semplicemente "Appoggiati", e, appoggiatosi alla montagna, attese con calma lo scoppio, senza fare troppo caso alle schegge che piovevano da ogni parte. In quella guerra fu ferito gravemente e dovette rinunciare al servizio attivo, anche se continuò a servire lo zar come direttore della cancelleria del quartier generale della marina. Nel 1833, con il grado di tenente generale, fu nominato governatore militare di Orenburg, una posizione chiave, come già si sarà capito, per la penetrazione russa in Asia centrale. Oltre a capeggiare la sfortunata spedizione a Khiva, represse con il pugno di ferro le rivolte dei Baschiri e promosse l'esplorazione del territorio, guadagnandosi anche la fama di protettore della scienza. Intendiamoci: Perovskij era sicuramente un uomo colto, ma per lui, come per il sovrano che serviva, le spedizioni scientifiche erano un tassello del controllo economico e militare di un'area ancora ben poco conosciuta e malamente documentata dalle carte, nonché una premessa indispensabile per ogni ulteriore espansione. Tra gli studiosi protetti di Perovskij, il più noto è senza dubbio l'etnologo e lessicografo Vladimir Dal' (1801-1872), che in precedenza era stato militare e arrivò a Orenburg come funzionario del Ministero degli Interni con "incarichi speciali". Negli otto anni (1833-1841) in cui collaborò con Perovskij, visitò in lungo e in largo la regione, raccogliendo testimonianze linguistiche, materiali folclorici e ampie collezioni di animali e piante. Le sue erano spedizioni geografiche e scientifiche, ma anche missioni più o meno spionistiche in un territorio spesso ostile dove la presenza militare diretta non era consigliabile. Non a caso, Perovskij lo volle con sé nella spedizione di Khiva; il suo compito principale avrebbe dovuto essere mappare un territorio per il quale esistevano solo carte molto imprecise, verificando se c'era un collegamento tra il mar Caspio e il mare d'Aral e se era possibile individuare o anche realizzare vie d'acqua navigabili, attraverso le quali il cotone uzbeko potesse raggiungere la Russia in modo più rapido ed economico. Il disastro dell'operazione militare lasciò questi obiettivi allo stadio di progetti. Quanto a Perovskij, dopo il fallimento della spedizione a Khiva, fu momentaneamente richiamato, ma rimase nelle grazie dello zar, tanto da diventare membro del Consiglio di Stato. L'insuccesso non aveva comunque messo fine alle ambizioni russe, che tentarono una strategia diversa. A partire dal 1847, vennero costruite due piazzeforti sul lago d'Aral, a Raymsk e Kazalinsk, provocando le reazioni dei canati di Khiva e Kokand. In questo nuovo quadro, l'esperienza di Perovskij tornava utile; fu così che nel 1851 ritornò a Orenburg, nelle vesti di governatore generale delle province di Orenburg e Samara. Durante il suo secondo mandato iniziò l'esplorazione del bacino del Syr e del lago di Aral, per mezzo di imbarcazioni costruite a Orenburg o giunte dall'estero, smontate e trasportate pezzo per pezzo fino all'Aral a dorso di cammello. Nel 1853 si prese la soddisfazione di prendere la fortezza di Ak-Mecet, ribattezzata in suo onore Perovsk; riuscì poi a negoziare un trattato favorevole con il suo vecchio nemico, il khan di Khiva. Poco dopo si ritirò per ragioni di salute. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Il giallo del genere Perovskia L'intreccio tra esplorazione geografica, spedizioni scientifiche, spionaggio ed espansione militare è ben visibile anche nella biografia di un altro protetto di Perovskij, il naturalista Grigorij Karelin, che visitò il governatorato di Orenburg più volte e fu ospite del generale durante il suo primo mandato. Precedentemente aveva partecipato all'esplorazione del bacino del Caspio, con un ruolo a metà tra il geografo-naturalista e la spia; del resto in origine egli era un funzionario del Dipartimento asiatico del Ministero degli esteri. Insomma un'altra pedina del Grande gioco, un collega dei britannici Abbott e Shakespear. Si deve proprio a Karelin se Perovskij è entrato nell'olimpo dei dedicatari di un genere botanico. Fu lui nel 1841 a intitolargli Perovskia, con la seguente motivazione: "Ho dedicato questo genere in onore di V.A. Perovskij, uomo molto illustre, fautore delle scienze, governatore militare della provincia di Orenburg". Il genere Perovskia, della famiglia Lamiaceae, comprende nove specie (più un ibrido) di suffrutici a foglia caduca originari di zone aride e rocciose dell'Asia centrale, con qualche propaggine in Iran e nell'Himalaya occidentale (ovvero, molto opportunamente, il territorio dove si giocarono le principali partite del Grande gioco). Per i botanici però è stato anche il protagonista di un'altra più incruenta partita, che ha rischiato di cancellarlo dalla tassonomia (o per lo meno, di ridurlo al rango di sinonimo). Nel 2004 un'équipe di studiosi statunitensi e messicani pubblicò uno studio che destò grande scalpore: poiché tutte le evidenze dimostravano che l'importantissimo genere Salvia era polifiletico (dunque artificiale), per risolvere il problema proposero di allargarne i confini, includendo cinque piccoli generi minori che vi risultavano annidati, due dei quali molto importanti per giardinieri e coltivatori: appunto Perovskia e Rosmarinus. In forza di questa proposta, che fu largamente accettata, Perovskia atriplicifolia diventava Salvia jangii e (ahi dolore!) Rosmarinus officinalis si trasformava in Salvia rosmarinus. Anche se questa è ancora la situazione registrata in molte fonti, incluso Plants of the World on line, il quadro da allora è ulteriormente cambiato. Nel 2012 tre ricercatrici dell'Università di Mainz pubblicarono un articolo in cui sostenevano che la proposta di un grande genere Salvia andava rigettata; semplificando e sintetizzando, facevano notare che se Perovskia e Rosmarinus erano davvero annidate nel gruppo (clade) di Salvia cui erano stati assegnati, avrebbero dovuto essere più recenti delle altre specie dello stesso gruppo, mentre risultava vero il contrario. Sarebbe stato più opportuno, concludevano, ripristinare i generi satelliti e dividere ulteriormente Salvia. Le ricerche sono continuate e hanno confermato questa linea; in un articolo del 2017 altri ricercatori tedeschi affermano tranquillamente "E' ora di dividere Salvia" e propongono di suddividerlo in sei generi, due dei quali sono appunto Perovskia e Rosmarinus. Negli anni in cui i tassonomisti così dibattevano, complice il riscaldamento globale, almeno una specie di Perovskia, appunto P. atriplicifolia, diventava una star dei giardini di fine estate. E' un grande arbusto eretto (anche se, senza sostegni, tende ad afflosciarsi) con fusti e foglie quasi argentei che tra fine estate e inizio autunno si ricopre letteralmente di spighe di fiori azzurri, richiamo irresistibile per api e farfalle. Estremamente rustica, resistente alla siccità, di abitudini parche, è a suo agio nelle aiuole assolate anche con suolo povero, Del resto arriva dalle steppe e dagli altopiani dell'Afganistan, del Pakistan e dell'Himalaya occidentale, anche se è per lo più nota come "salvia russa". Qualche informazione in più sulle sue numerose cultivar e sulle altre specie nella scheda. Generale tra i più celebri per l'abilità strategica e la capacità di cogliere con rapidità le occasioni, il principe Eugenio di Savoia nella sua vita collezionò vittorie, incarichi diplomatici, libri, opere d'arte, palazzi... e giardini. Perfettamente restaurati possiamo ancora ammirare i due più belli, quello del Belvedere a Vienna, considerato uno dei più perfetti esempi di giardino barocco, e quello di Hof, quasi al confine con l'Ungheria, le cui sette terrazze, a quanto si dice, ispirarono il progetto di Monticello, il giardino di Thomas Jefferson. A questo grande personaggio Linneo dedicò l'importante genere Eugenia; il botanico piemontese Casaretto raddoppiò l'omaggio con Cariniana, cui appartengono i giganti della flora brasiliana. In modo indiretto, lo ricordano anche Siphoneugena e Myrceugenia, due tra i numerosi generi di "eugenie" sudamericane. Un grande generale e i suoi giardini Nel 1706, il Piemonte e la loro capitale Torino vivono un momento tragico. Al momento dello scoppio della Guerra di successione spagnola, temendo di essere schiacciato dalla potenza francese, che ora controlla anche la Lombardia, il duca Vittorio Amedeo II rompe l’ambigua alleanza con la Francia e si schiera a fianco dell’Impero e dell’Inghilterra. La vendetta del Re Sole non si fa aspettare: lo stato sabaudo è devastato e nel giungo 1706 Torino viene cinta d’assedio. Decisivo per le sorti della città e del Piemonte sarà l’intervento dell’armata di soccorso imperiale, guidata da un lontano cugino del duca, il principe Eugenio di Savoia Carignano (1663-1736). Sotto il suo abile comando, il 7 settembre le forze austro-piemontesi sbaragliano i francesi e liberano la città. Il duca si guadagna così il titolo regio (giunto nel 1713, con la pace di Utrecht), il principe Eugenio aggiunge un’altra pagina alla sua gloria militare. Eugenio di Savoia (una sintesi della sua vita nella sezione biografie) è una figura quasi leggendaria. Entrato in giovane età al servizio degli Asburgo, fu uno dei più grandi generali del suo tempo, anzi di ogni tempo, a sentire Napoleone e Federico II di Prussia, che si proclamava suo allievo, celebre per l'audacia, la prontezza di riflessi, l'abilità nello sfruttare le occasioni. Oltre alla battaglia di Torino, tra i suoi allori la partecipazione alla battaglia di Vienna del 1683 e alle guerre contro i Turchi che ne seguirono; il contributo alla vittoria di Mohács (1687); la battaglia di Zenta (1697), in cui distrusse l'esercito ottomano e aprì le porte dell'Ungheria all'Impero; le campagne contro i turchi che portarono alla liberazione di Banato, Serbia, Valacchia sancita dalla pace di Passarowitz (1718). Grazie a lui, i territori asburgici aumentarono di due terzi la loro estensione, l'Austria divenne (anche se per poco) la maggiore potenza militare del continente, acquisì il controllo dell'Ungheria e dei Balcani settentrionali e subentrò alla Spagna come potenza egemone in Italia. L'aura mitica del personaggio è sottolineata anche dai tanti soprannomi che si guadagnò: Marte senza Venere (non si sposò mai); der edle Ritter, il “nobile cavaliere” e roi des hônnetes gens "re delle persone oneste" per l'alta moralità e il senso dell'onore che lo contraddistinse; per i britannici, insieme al duca di Marlborough con cui condivise tante vittorie durante la guerra di successione spagnola, prima fra tutte quella di Blenheim (1704), è uno dei Dioscuri della vittoria. Ma non fu né come generale vittorioso, né come abile diplomatico (negoziatore, tra l'altro, della pace di Reistadt) che Linneo volle celebrarlo con la dedica del notevole genere Eugenia, quanto come collezionista e protettore delle scienze e delle arti. Grazie ai tanti successi militari e ai numerosi incarichi affidatigli dai tre imperatori che servì, Eugenio era divenuto un dei principi più ricchi d'Europa. Colto e di gusti raffinati, utilizzò quell'ingente patrimonio per farsi costruire una serie di magnifiche residenze, incoraggiando a lavorare per lui architetti, pittori, scultori. Bibliofilo, raccolse una biblioteca di 15.000 volumi e preziose collezioni d'arte. Educato nella Francia del Re Sole, amava anche i giardini e le piante rare. La più sontuosa delle sue residenze è il palazzo Belvedere, posto su un lieve pendio a sud della città di Vienna. Il complesso comprende due edifici principali, il Belvedere superiore e il Belvedere inferiore, collegati da un giardino disegnato dal francese Dominique Girard, allievo di Le Nôtre, il creatore di Versailles. Oggi inserito nella lista Unesco del Patrimonio dell’umanità, è considerato un perfetto esempio di giardino barocco, di cui riproduce tutte le componenti di prammatica: parterre simmetrici delimitati da siepi formali, fontane, bacini e giochi d’acqua, boschetti, gallerie di verzura, statue di soggetto mitologico e allegorico. Per il proprio godimento personale, il principe volle poi riservarsi un giardino privato (Kammergarten), posto su due livelli terrazzati, che ospitava fontane, padiglioni, parterre con fiori esotici, un piccolo zoo, una voliera e un’orangerie, dotata di tetto apribile, dove venivano coltivate le piante più rare e delicate. Eugenio fu anche il committente di una seconda perla del giardino barocco, quello del castello di Hof, anch'esso progettato da Girard. Poiché l'edificio è posto al vertice di un pendio, Girard pensò a uno scenografico giardino a terrazze (in tutto sette) e sfruttò la pendenza naturale per il funzionamento delle fontane e dei giochi d'acqua. Anche a Hof ritroviamo parterre di bosso dalle linee sinuose, boschetti formali, labirinti, statue, bacini d'acqua. Appassionato di piante rare, che faceva coltivare nelle serre dei suoi giardini, Eugenio incoraggiò gli studi botanici e viene spesso considerato all'origine dello stesso Orto botanico di Vienna, creato qualche decennio dopo la sua morte proprio su un terreno adiacente al Belvedere. Eugenia, un genere bello e... appetitoso Come ho già anticipato, fu Linneo a creare in onore del glorioso principe il genere Eugenia. Appartenente alla famiglia Myrtaceae, con le sue oltre 1100 specie è uno dei più vasti della sua famiglia. Dopo complesse vicende tassonomiche, gli sono oggi assegnate in prevalenza specie americane, dai Caraibi al Brasile e al Cile, cui si aggiungono una sessantina di specie dell'Africa (incluso Madagascar e Mauritius) e altrettante dell'area asio-pacifica, in particolare in Nuova Caledonia. Molte specie del vecchio mondo sono state trasferite nel genere Syzygium (anch'esso enorme, con 1200-1800 specie). Tra di esse anche Syzygium aromaticum, l'albero dai cui si ricavano i chiodi di garofano, un tempo Eugenia caryophyllata, nonché la pianta più comunemente commercializzata come Eugenia: il cosiddetto mirto cinese, Syzygium buxifolium, precedentemente Eugenia sinensis o E. microphylla. Eugenia comprende alberi e arbusti sempreverdi che nelle foreste pluviali dell'America tropicale possono essere la specie dominante nella formazione detta mirtisilva; in Brasile è il genere più ricco di specie, molte delle quali vivono nelle foreste costiere della Mata Atlantica, nel sudest del paese. Molte specie hanno frutti eduli. La più nota è probabilmente E. uniflora, conosciuta come pitanga, ciliegia del Suriname, ciliegia del Brasile, nativa del Suriname e del Brasile, ma presente anche in parti di Argentina, Paraguay e Uruguay, E' un piccolo albero o arbusto con foglie dall'odore pungente e aromatico e frutti aciduli, rossi a maturazione, simili a una ciliegia divisa da profonde nervature in otto segmenti. Con il nome di ciliegia del Rio Grande è invece noto il frutto di E. cerasiflora, nativa della foresta pluviale densa della Mata Atlantica, una bacca ovoidale viola scuro. Della stessa area è originaria E. brasilensis, nota come grumichama o ciliegia del Brasile, un grande albero che può raggiungere i venti metri, anche se solitamente ha dimensioni più contenute, e produce bacche nere dal sapore dolce. E' utilizzata anche nell'arredo urbano ed è una delle poche specie disponibili anche da noi in vivai specializzati. Quale informazione in più nella scheda. Cariniana, il gigante della foresta Dopo Linneo, anche un botanico italiano volle rendere omaggio al principe Eugenio. Si tratta di Giovanni Casaretto, un naturalista piemontese che tra il 1838 e il 1840 partecipò come botanico e mineralogista alla spedizione in Sud America finanziata da Carlo Alberto e dall'Accademia delle scienze di Torino. Nel 1842 onorò il principe Eugenio creando il genere Cariniana, che è anche un sottile omaggio al re di Sardegna, a sua volta appartenente al ramo Savoia-Carignano; e per celebrare questo gigante dell'arte bellica scelse non a caso alcuni degli alberi più alti e imponenti delle foreste tropicali del Sud America. Il loro nome brasiliano, di origine tupi, jequitibá significa proprio "gigante della foresta". Appartenente alla famiglia Lecythidaceae, il genere comprende una decina di specie di alberi sudamericani, per lo più brasiliani, soprattutto in passato sfruttati per la produzione di legname. Alcuni sono veri e propri giganti vegetali, che superano i cinquanta metri d'altezza e svettano sul piano superiore della foresta a galleria. Tra di essi C. legalis, considerato l'albero più alto della flora brasiliana; solitamente è alto attorno ai 30 metri, ma può superare i 60. A Santa Rita do Passa Quatro, nel parco nazionale di Vassununga, Stato di São Paulo, se ne trova un enorme esemplare la cui età è stimata intorno a 3000 anni, oltre ad altri "giovanotti" di 600 anni. Purtroppo è invece morto nel 2000, dopo essere stato incendiato dolosamente, un jequitibá della città mineraria di Carangola nello Stato di Minas Gerais, considerato l'albero più vecchio del Brasile. Un'altra Myrtacea brasiliana: Siphoneugenia Dopo queste dediche dirette, dobbiamo ancora rendere conto di altre due generi che derivano il loro nome dal genere Eugenia e quindi indirettamente dal principe Eugenio. Appartengono entrambi alla famiglia Myrtaceae e furono creati tra il 1855 e il 1856 da Otto Karl Berg che li separò da Eugenia nell'ambito della sua revisione delle Myrtaceae americane. Iniziamo con Siphoneugena, letteramente "Eugenia con il tubo" (il nome si riferisce alla forma tubolare dell'ipanzio, l'involucro a coppa che circonda l'ovario); questo piccolo genere comprende una decina di specie di arbusti e alberi diffusi da Porto Rico all'Argentina settentrionale, con centro di diversità nel Brasile sudorientale, ovvero nella stessa area dove regnano le Eugenie. Sue caratteristiche peculiari i racemi terminali o ascellari con rachide da ridotto o allargato e proprio l'ipanzio che allargandosi a coppa dopo la fioritura lascia una cicatrice circolare sulla parte superiore del frutto. La specie più nota è probabilmente S. densiflora, un alberello semi deciduo con chioma tondeggiante, originario delle foreste a galleria e delle praterie rocciose di montagna ben drenate del Brasile meridionale. Le infiorescenze sono lunghi racemi di piccoli fiori bianchi seguiti da bacche globose, viola scuro, dal gusto dolce, ma astringenti. Altre informazioni nella scheda. Myrceugenia, dal Cile al Brasile Più vasto è il genere Myrceugenia (il cui nome è una fusione tra i generi Myrcia e Eugenia), che comprende una quarantina di specie con interessante aerale disgiunto. Due specie, M. schulzei e M. fernandeziana, costituiscono gli alberi dominanti delle foreste del piano intermedio delle isole dell'arcipelago Juan Fernandez al largo del Cile. Un secondo gruppo con una dozzina di specie vive nel Cile centrale e meridionale e nelle aree adiacenti dell'Argentina; il terzo gruppo, separato dalle sorelle da oltre mille km, si trova negli altopiani del Brasile sudorientale. Secondo gli studiosi, all'inizio del Terziario Myrceugenia dovette essere diffusa in tutto il Sud America; le due popolazioni vennero poi separate nell'Olocene da una serie di eventi climatici e geologici, tra cui il sollevamento della catena delle Ande. Tra le specie cilene, le più studiate, vorrei segnalare la rara M. leptospermoides, un piccolo albero o grande arbusto tipico della flora riparia delle montagne costiere del Cile centrale, dove può godere di umidità costante per la presenza di corsi d'acqua o di nebbia. Ha piccole foglie quasi aghiformi verde-grigiastro e fiori solitari, privi di picciolo, con sei petali candidi e numerosissimi stami. Il frutto è una bacca globosa, prima rossa poi viola. Qualche notizia su altre specie nella scheda. Non più valido è invece un terzo genere separato da Eugenia, Myrceugenella Kausel, oggi sinonimo di Luma A. Gray. A lanciare la carriera dell'abate Jean-Paul Bignon fu indubbiamente il parentado altolocato; ma dovette solo al suo genio amministrativo la possente impronta che lasciò alle tre istituzioni che fu chiamato a dirigere e riorganizzare: l'Accademia delle scienze, l'Accademia delle iscrizioni e la Biblioteca reale, futura Biblioteca nazionale. Delle prime due redasse gli statuti, trasformandole in istituzioni attive e vitali; della terza fu, si può dire, il vero creatore, gettando le basi di una gestione moderna e dinamica. Protettore e amico di Joseph Pitton de Tournefort, fu da quest'ultimo ricordato con il genere Bignonia, poi validato da Linneo, destinato a dare non pochi grattacapi ai tassonomisti. La conseguenza? Ci sono due probabilità su tre che la pianta che chiamate "bignonia" per i botanici non sia affatto una Bignonia. L'eccezionale carriera di un Grand commis Terzogenito di una famiglia della nobiltà di toga che aveva ricoperto importanti incarichi amministrativi, Jean-Paul Bignon (1662-1743) fin dall'infanzia fu destinato alla carriera ecclesiastica. Ordinato prete nel 1691, fu nominato abate e predicatore di Luigi XIV. Era sicuramente un oratore brillante, tanto che nel 1693 fu ammesso all'Académie française, ma a favorire la sua carriera ai vertici delle istituzioni culturali della Francia del Re Sole fu soprattutto la protezione dello zio materno, Louis II Phélypeaux conte di Pontchartrain (1642-1727), cancelliere, controllore generale delle finanze, segretario di Stato della Marina e segretario di Stato della Casa del Re. Nel 1691, alla morte del potentissimo ministro Louvois, la tutela delle accademie, della biblioteca reale e del Gabinetto delle medaglie passarono sotto la giurisdizione del Segretario di Stato della Casa del re. Al contrario di Louvois, uomo gretto, di mentalità ristretta e burocratica, con scarse conoscenze scientifiche, che aveva ridotto all'osso i finanziamenti e soffocato la libera iniziativa di letterati e scienziati, Pontcartrain era un convinto assertore del ruolo delle scienze e delle lettere per la gloria del sovrano e la prosperità della nazione. Il primo passo della sua gestione fu la riorganizzazione della agonizzante Accademia delle Scienze; voluta da Colbert (1666), fino a quel momento era un semplice gruppo informale di eminenti matematici, scienziati, medici che si riunivano periodicamente presso la Biblioteca reale; Pontchartrain affidò al nipote, ovvero il nostro abate Bignon, la redazione dello statuto, che fu approvato dal re nel 1699. In tal modo l'accademia si trasformò in una istituzione organizzata con una struttura gerarchica: dieci membri onorari scelti tra personaggi altolocati; 18 accademici titolari di una pensione più un segretario e un tesoriere (tre per ciascuna delle seguenti categorie: geometri, astronomi, fisici meccanici, anatomisti, chimici, botanici); 18 "allievi" di almeno vent'anni, uno per ciascun accademico; 18 associati stranieri e 4 associati liberi. Erano previsti poi membri corrispondenti, in particolare per l'astronomia e la botanica, cui affidare le osservazioni locali. In tal modo, l'accademia diventava un centro di ricerca e di formazione nonché un punto d'incontro tra scienziati militanti e società civile. A dare continuità al progetto la presenza assidua e la guida di Bignon, che ne fu presidente o vicepresidente per circa venticinque anni. Il secondo passo fu la reinvenzione dell'Accademia delle iscrizioni e medaglie; anch'essa istituita da Colbert, fino a quel momento era un gruppo informale di quattro storici, numismatici e antiquari cui era affidato il compito di formulare le iscrizioni e i motti in onore del re su monumenti e monete; con la riforma del 1701, anch'essa disegnata da Bignon per incarico di Pontchartrin, si trasformò in una istituzione gerarchizzata sul modello dell'Accademia delle scienze (il nome diverrà Accademia delle iscrizioni e delle belle lettere) responsabile di importanti ricerche storiche e archeologiche. Ad assicurare la collaborazione tra le due accademie, quella scientifica e quella storica, la direzione dell'abate Bignon, che in quello stesso 1701 divenne anche uno dei tre membri ecclesiastici del Consiglio di Stato e dal 1705 al 1714 entrò nella redazione del Journal des savans, la più antica rivista letteraria e scientifica d'Europa (dopo un'interruzione decennale, dal 1724 ne sarebbe diventato direttore). Nel seno dell'Accademia delle scienze, grazie all'impulso di Bignon, incominciarono ad uscire i primi fascicoli della Description des arts et métiers, un'opera gigantesca che anticipa la futura Encyclopédie, di cui affidò la direzione a uno dei suoi protetti, il matematico e fisico René-Antoine de Réaumur. Pontchartrain affidò inoltre al nipote la direzione della censura; il risultato fu l'attenuazione del cosiddetto "regime dei privilegi", che prevedeva che nessuna opera potesse essere stampata senza la formale approvazione del re; da questo momento in avanti, venne stabilita una specie di silenzio assenso: un'opera che non aveva ottenuto il privilegio ma non era vietata era comunque tollerata. Il ritiro dello zio della politica nel 1714 impresse un momentaneo arresto alla carriera dell'abate, che dovette lasciare la direzione delle accademie e la redazione del Journal des savans (che tornerà a dirigere nel 1724). Dopo pochi anni di purgatorio, con la Reggenza e l'accesso al potere del cugino di secondo grado, Jean-Frédéric Phélypeaux, comte de Maurepas, uno dei più influenti ministri di Luigi XV, trovò un nuovo compito degno del suo attivismo e del suo genio amministrativo; nel 1718 venne infatti nominato Bibliotecario del Re (incarico che mantenne fino al 1740, quando lo cedette a un nipote). Bignon si trovò così a guidare la biblioteca più importante d'Europa. All'epoca, non esistevano né cataloghi né criteri di catalogazione; l'abate li introdusse, distribuendo i materiali in cinque tipologie (testi a stampa, manoscritti, titoli e genealogie, stampe e medaglie) e in 23 categorie, secondo il sistema recentemente elaborato dal bibliotecario Nicolas Clément. Grazie a una fitta rete di corrispondenti e contatti, arricchì inoltre i fondi della biblioteca facendo arrivare libri e riviste da tutta Europa. Sempre a lui si deve l'apertura della biblioteca reale al pubblico, anche se per un solo giorno alla settimana e per tre ore. Tra le scienze che riteneva meritevoli di essere valorizzate e diffuse, anche la botanica: fu su sua insistenza che nel 1691 Joseph Pitton de Tournefort, che all'epoca non era ancora neppure laureato, fu ammesso all'Accademia delle scienze, primo botanico ad ottenere tanto onore. Come si è già visto, nello statuto da lui redatto tre seggi accademici erano riservati ai botanici (una grande novità se si pensa che la botanica era ancora per lo più considerata ancella della medicina); come presidente dell'Accademia delle scienze egli inoltre stimolò la creazione di una rete di botanici residenti all'estero (un esempio potrebbe essere Gaultier, con le sue ricerche botaniche, meteorologiche e minerarie in Canada) e i viaggi naturalistici, a partire dalla spedizione in Levante dello stesso Tournefort. Molto ci sarebbe ancora da dire su questo attivo e influentissimo intellettuale, che molti considerano un precursore dell'Illuminismo oltre che un genio organizzativo; per una sintesi della sua vita rimando alla sezione biografie. Questa Bignonia è davvero una Bignonia? Riconoscente per la protezione accordatagli dall'abate, determinante per la sua carriera di botanico reale, Joseph Pitton de Tournefort volle onorarlo dedicandogli uno dei nuovi generi di Institutiones rei herbariae (1719), Bignonia, cui assegnò 11 specie americane, per lo più segnalate da Plumier, e due specie indiane tratte da Hortus Malabaricus. Il genere fu fatto proprio da Linneo, che lo validò in Species plantarum (1753). Anch'egli gli assegnò tredici specie, 11 desunte a Tournefort più due ricavate da Kaempfer. Primo genere ad essere descritto della famiglia cui avrebbe dato il nome, la Bignonia di Linneo era un gruppo eterogeneo, un vero e proprio minestrone: delle tredici specie linneane infatti solo due continuano ad appartenere al genere anche oggi, B. aequinoctialis L. e B. capreolata L; nove sono assegnate ad altri generi della famiglia Bignoniaceae: B. catalpa L. (oggi sinonimo di Catalpa bignonioides Walter), B. unguis cati L. (= Dolichandra unguis-cati (L.) L.G.Lohmann), B. paniculata L. (= Amphilophium paniculatum (L.) Kunth.), B. crucigera L. (= Amphilophium crucigerum (L.) L.G.Lohmann), B. leucoxylon L. (= Tabebuia heterophylla (DC.) Britton.), B. radicans L. (= Campsis radicans (L.) Seem.), B. caerulea (Jacaranda caerulea (L.) J.St.Hil.), B. radiata (= Argylia radiata (L.) D.Don, B. indica (= Oroxylum indicum (L.) Kurz; due addirittura appartengono ad altre famiglie: B. sempervirens L. (= Gelsemium sempervirens (L.) J.St.Hil.), famiglia Gelsemiaceae, B. peruviana L. (presumibilmente Nekemias arborea (L.) J.Wen & Boggan), famiglia Vitaceae. I botanici successivi fecero fatica a sbrogliare la matassa. Ampiamente diffuse in ambienti tropicali tanto diversi come la foresta pluviale e le foreste stagionali aride, e meno frequentemente nelle zone temperate, con oltre 800 specie distribuite in una ottantina di generi, le Bignoniacee (la famiglia fu creata nel 1789 da Antoine Laurent de Jussieu) costituiscono una famiglia ben caratterizzata e facilmente distinguibile, ma altrettanto difficile da classificare a livello di genere e specie. Gli uni e le altre sono infatti spesso polimorfi, senza contare gli inganni della convergenza evolutiva che non di rado ha prodotto caratteristiche simili in gruppi geneticamente lontani. Nel corso dell'Ottocento, anche se venivano via via creati nuovi generi, Bignonia L. continuò a lungo ad essere un vasto contenitore indifferenziato, tanto che ancora nel 1866 Henry Baillon ebbe a scrivere: "Fino a una certa epoca, quasi tutte le piante di questa famiglia erano assegnate al genere Bignonia". A un certo punto della sua esistenza, arrivò a comprendere 450 specie, per poi iniziare a dimagrire via via che venivano riconosciuti e separati altri generi, Il risultato è che ancora oggi la maggioranza delle persone quando pensa a una Bignonia, in realtà sta pensando a una Bignoniacea che Bignonia non è; infatti, nei nostri giardini, a parte B. capreolata, relativamente diffusa, sotto le mentite spoglie di Bignonia possiamo trovare specie come Campsis radicans, Campsis grandiflora, Podranea ricasoliana, Pandorea jasminoides, Tecoma capensis, Pyrostegia venusta (e l'elenco potrebbe continuare). Nella seconda metà dell'Ottocento e nel Novecento, sottoposto più volte a revisione, il genere Bignonia fu ridotto a tal punto che negli ultimi anni del secolo scorso le era riconosciuta una sola specie, B. capreolata. Uno studio recente (2014), basato su dati molecolari, ha nuovamente rimescolato le carte: con la confluenza di altri nove generi (Clytostoma, Cydista, Macranthisiphon, Mussatia, Osmhydrophora, Phryganocydia, Potamoganos, Roentgenia e Saritaea), Bignonia oggi comprende 28 specie, tutte liane neotropicali con centro di diversità in Brasile; l'unica a vivere in climi temperati è anche la specie più nota da noi, la semirustica B. capreolata, originaria del Sud est degli Stati Uniti, con fiori imbutiformi arancio ma talvolta bicolori. Tutte le altre specie sono prettamente tropicali; almeno due sono reperibili nel nostro paese in vivai specializzati, anche se in genere sono ancora commercializzate come Clytostoma; caratterizzate da meravigliosi fiori viola che possono ricordare la jacaranda, sono spesso note con il nome comune "bignonia viola". Troverete qualche informazione in più nella scheda. La spedizione di Bering apre la strada all'espansione russa nelle Aleutine e in Alaska, alla ricerca delle preziose e richiestissime pellicce di lontra. E' un'impresa condotta con brutalità e sempre sull'orlo del fallimento, a causa del difficile e costoso approvvigionamento di quella lontana colonia. Per risolvere il problema, la Compagnia russo-americana, che ha ottenuto il monopolio del commercio delle pellicce, caldeggia il progetto dell'ammiraglio Krusenstern: creare una via commerciale diretta tra Russia e Cina circumnavigando il globo. Il progetto, per quanto audace, lusinga l'orgoglio russo e la nuova consapevolezza di sé alimentata dal ruolo di primo piano che l'Impero russo sta giocando nelle guerre contro la Francia prima rivoluzionaria poi napoleonica. Si dilata così in un ambizioso sogno coloniale: la creazione di una sfera d'influenza politica ed economica nel Pacifico settentrionale a cavallo tra tre continenti, sostituendosi all'impero spagnolo ormai declinante. Con l'entusiastica adesione dello zar, nel 1803 inizierà così la prima circumnavigazione russa del globo, comandata dallo stesso Krusenstern. Tra i suoi sostenitori più calorosi, l'allora ministro del commercio, il conte Nikolaj Rumjancev. Quindici anni dopo, quando la sua stella politica (che lo aveva portato a diventare ministro degli esteri) sarà ormai tramontata, lo stesso Rumjancev finanzierà la seconda circumnavigazione, guadagnandosi la dedica del nome specifico di alcuni animali e piante e del genere Romanzoffia. L'America russa: pellicce, genocidi e un progetto audace Sebbene la seconda spedizione di Bering si fosse risolta in un disastro, aveva raggiunto i suoi obiettivi, dimostrando definitivamente che Asia e America non erano collegate e aprendo la rotta tra i due continenti. Ad eccitare gli animi (e la cupidigia) furono poi le pellicce di lontra portate con sé dai naufraghi della Sv. Petr. Dopo decenni di caccia indiscriminata, in Siberia gli animali da pelliccia incominciavano a scarseggiare; le isole Aleutine e l'America settentrionale (ovvero l'Alaska) promettevano nuovi, ricchissimi territori di caccia. Nei decenni successivi, cominciò così la penetrazione russa in quei territori, sotto forma prima di avamposti dei commercianti di pellicce, poi di insediamenti stabili. Il prodotto di punta erano proprio le pellicce di lontra di mare, tra l'altro una delle pochissime merci di importazione ben accette sul mercato cinese. Accompagnata da spaventose brutalità ai danni degli indigeni (con il genocidio di larga parte degli aleutini) e segnata da un atteggiamento predatorio verso la natura, l'espansione russa avvenne dapprima in modo disordinato, grazie all'iniziativa di singoli mercanti; vennero poi fondate compagnie più strutturate, la più importante delle quali fu la Compagnia russo-americana, creata nel 1799, che riuscì a farsi concedere dallo zar il monopolio del commercio delle pellicce per vent'anni. Lo stesso anno quella che veniva ormai chiamata "America russa" fu annessa all'Impero. Malgrado gli sforzi della Compagnia, che cercò anche di stimolare l'arrivo di coloni dalla Russia e dalla Siberia, sul piano commerciale la situazione era tutt'altro che florida. Il problema principale era l'approvvigionamento degli insediamenti, il cui unico cordone ombelicale con la madrepatria erano le navi che affrontavano la difficile navigazione con la Siberia e la Kamčatka, impraticabile dall'autunno alla primavera inoltrata (senza contare l'interminabile viaggio dalla Russia alla Siberia, che poteva richiedere da due a tre anni). Anche le pellicce di lontra per raggiungere la Cina, il loro principale mercato, dovevano percorrere la stessa via: sbarcate nel porto di Okhotsk, in Siberia, venivano trasportate via terra al punto di confine di Kyakhta, da cui, secondo le clausole dell'omonimo trattato, dovevano passare tutte le merci scambiate tra Russia e Cina; di qui, ogni tre anni, una carovana di mercanti muoveva poi per Pechino. Insomma, lungaggini e spese che erodevano i guadagni e mettevano in forse la stessa sopravvivenza dell'America russa. A proporre una soluzione alternativa fu l'ammiraglio von Krusenstern. Suddito russo di origine baltica e lingua tedesca, durante le guerre contro la Francia aveva servito nella Royal Navy e aveva visitato gli Stati Uniti, le Antille, Calcutta e Canton. Nel 1799, mentre si trovava a Calcutta, inviò a San Pietroburgo una relazione in cui illustrava i vantaggi di aprire una via di comunicazione diretta tra Russia e Cina che circumnavigasse il globo passando da Capo Horn all'andata e dal Capo di Buona Speranza al ritorno. Il progetto suscitò l'interesse della Compagnia russo-americana, nella persona del suo più autorevole esponente, Nikolaj Petrovič Rezanov, che riuscì a convincere politici influenti e lo stesso imperatore. Erano gli anni in cui l'impero russo, guidato dal giovane e romantico Alessandro I, salito al trono nel 1801, giocava un ruolo di primo piano nelle coalizioni antifrancesi e incominciava ad imporsi come una delle principali potenze continentali; negli ambienti di corte, la proposta di Krusenstern, che lusingava l'orgoglio nazionale, incominciò a dilatarsi fino a trasformarsi in un progetto politico di ampio respiro: oltre ad assicurare il collegamento stabile con l'Alaska e una via commerciale diretta tra l'America russa e la Cina, si puntava ad aprire relazioni diplomatiche ufficiali con il Giappone, ad inserirsi nel commercio con il Sud America e a sondare la possibilità di colonizzare la California, approfittando della debolezza della Spagna. Era l'inizio di un grandioso sogno di espansione, che il governo russo perseguì per una quarantennio: la trasformazione del Pacifico settentrionale in un "mare russo", grazie al controllo delle sue isole e delle sue coste orientali e occidentali. Un discusso uomo politico e un grande mecenate Fu così che nell'agosto del 1803 salparono da Kronstadt alla volta delle Canarie, prima tappa della prima circumnavigazione russa del globo, le navi Nadežda (ovvero "Speranza") e Neva, comandate rispettivamente dallo stesso Krusenstern e dal capitano-luogotenente Lysianskij. Un quindicennio dopo, archiviate le guerre napoleone, l'avrebbe seguita una seconda circumnavigazione (1815-18), quella della Rjurik, comandata dal luogotenente Kotzebue. Fino alla cessione dell'Alaska agli Stati Uniti (1867), le circumnavigazioni russe sarebbero poi diventate quasi viaggi di routine (tra 1803 e 1835 se ne totalizzarono venticinque). Sulle prime due, che ebbero rilevanti risvolti scientifici, tornerò in altri post. Qui vorrei concentrami su uno degli uomini politici che le vollero e le resero possibili, il conte Nikolaj Petrovič Rumjancev (1754-1826), uno delle maggiori personalità della Russia a cavallo tra Settecento e Ottocento. Negli anni in cui si discuteva la proposta di Krusenstern, egli era direttore delle comunicazioni fluviali e marittime e ministro del commercio; uomo dalla mentalità molto aperta e intraprendente, si batté contro l'arretratezza economica del paese, snellendo in senso liberale la legislazione commerciale, migliorando le vie d'acqua e promuovendo la costruzione di canali navigabili e di nuovi ponti; egli vide subito le potenzialità del progetto e si spese a favore della sua approvazione, usando tutta la sua notevole influenza sul giovane zar e su sua madre, la zarina vedova Marija Fedorovna. Rumjancev era un uomo molto colto, con interessi sia umanistici sia scientifici; in gioventù aveva servito a lungo all'estero come diplomatico e aveva cominciato ad ammassare una prodigiosa collezione di libri, incunaboli, manoscritti, stampe, monete, opere d'arte e oggetti etnografici; spinse dunque anche sugli obiettivi scientifici della missione, cui volle prendesse parte un gruppo di scienziati. Intanto, mentre la Nadežda e la Neva solcavano gli oceani e poi rientravano trionfanti in patria, la posizione politica della Russia andava evolvendo: dopo la cocente sconfitta di Austerlitz (1805) e la disfatta di Friedland (1807), Alessandro I, fino ad allora uno dei più determinati avversari di Napoleone, incominciò a dare ascolto a quanti gli consigliavano di trattare con l'imperatore dei francesi. Il più convinto assertore di questa svolta politica era proprio Rumjancev, un ammiratore dell'illuminismo decisamente francofilo, che per un breve periodo divenne il più ascoltato e influente dei suoi ministri. Fu lui a convincere il riluttante Alessandro a incontrare Napoleone sul Njemen e a siglare la pace di Tilsit (1807) e l'effimera alleanza tra Russia e Francia. La carriera politica di Rumjamcev toccò il suo apice: nel 1808 fu nominato ministro degli esteri e nel 1810 presidente del consiglio di Stato. Ma, mano a mano che i rapporti tra Francia e Russia si gustavano, la sua posizione filofrancese lo rendeva sempre più isolato e inviso allo zar (come capo dei circoli francofili, figura ambigua se non odiosa, compare anche in Guerra e Pace di Tolstoj). L'invasione francese del 1812 lo colse tanto di sorpresa da provocargli un colpo apoplettico che lo privò parzialmente dell'udito; nonostante ciò, continuò a consigliare lo zar di esautorare Kutuzov e di trattare con Napoleone. Di conseguenza, prese la confidenza di Alessandro, che lo allontanò dalla vita politica. Ritiratosi a vita privata nel 1814, Rumjancev dedicò gli ultimi anni alle sue collezioni e alla promozione degli studi storici, letterari e scientifici. Fin da giovane, aveva una collezione di minerali, che ora incrementò con l'acquisto di altre raccolte, tra cui i materiali riportati da Lisyanski dalla prima circumnavigazione. Grandissimo bibliofilo, possedeva una biblioteca di 30.000 volumi (12.000 dei quali di argomento storico), oltre 1000 manoscritti, 5000 incisioni, 600 mappe, che dopo la sua morte andò a costituire il primo nucleo della Biblioteca di Stato russa. Come appassionato di studi storici, riunì intorno a sé un circolo di giovani studiosi delle antichità russe e slave e finanziò la pubblicazione di una quarantina di antichi testi (tra cui i primi capolavori della letteratura russa, come il Canto di Igor). Le sue collezioni d'arte dopo la sua morte andarono invece a formare il primo museo russo aperto al pubblico (nel 1831). Chiuso e smembrato nel 1924, confluì in parte nella Galleria Tret'jakov, in parte nel Museo Puškin delle Belle Arti. Una sintesi della vita di questo discusso politico e grande promotore degli studi e delle arti nella sezione biografie. Egli fu anche un mecenate delle scienze, finanziando la seconda circumnavigazione russa del globo; mentre la prima, come abbiamo visto, fu una spedizione in grande stile, promossa e finanziata dal governo russo nell'ambito di un ambizioso progetto politico, la seconda, anche se fu approvata dalla zar, fu frutto di un'iniziativa dello stesso Rumjancev ed ebbe un carattere più nettamente scientifico. Infatti, la mutata situazione politica, che vedeva ora la Spagna alleata della Russia, rendeva poco prudente perseguire apertamente una penetrazione russa nelle aree rivendicate dalla monarchia iberica. Romanzoffia, minuta bellezza E' proprio come mecenate della spedizione di Kotzebue che il conte Rumjancev entra a buon diritto nella nostra galleria di dedicatari di un genere botanico. Adalbert von Chamisso, il botanico della spedizione, volle infatti rendergli omaggio dedicandogli alcune delle piante raccolte durante il viaggio. Lo ricordano nel nome specifico Spiranthes romanzoffiana, un'orchidea dell'America settentrionale, e Syagrus romanzoffiana, la spettacolare "palma regina", raccolta in Brasile durante il viaggio d'andata, probabilmente la più conosciuta delle piante dedicate al nostro conte. Lo zoologo della spedizione Eschscholtz gli dedicò invece la bellissima farfalla Papilio rumanzovia, scoperta nelle Filippine. Fu invece raccolta nell'isola di Unalaska, nelle Aleutine occidentali, la specie tipo del genere Romanzoffia, creato da Chamisso nel 1820. Appartenente alla famiglia Boraginaceae (precedentemente Hydrophyllaceae) comprende cinque specie erbacee annuali o perenni native dell'America nordoccidentale, dall'Alaska alla California, ovvero proprio la zona esplorata da Chamisso e dai suoi compagni. Le Romanzoffiae hanno foglie lobate e graziosi fiori campanulati, solitamente bianchi, portati su lunghi steli, a fioritura primaverile. Adattate a ambienti rocciosi umidi e ombreggiati, hanno robuste radici rizomatose che permettono di crescere anche tra le fessure; le specie perenni dopo la fioritura avvizziscono e entrano in dormienza. Il ciclo ricomincerà con le prime piogge d'autunno, quando rispunteranno le foglie. Queste caratteristiche hanno permesso al genere, tipicamente artico e boreale, di scendere più a sud, colonizzando anche la California settentrionale, dove le estati sono calde e aride. Qui vive la specie più meridionale e più nota, R. californica, che negli Stati Uniti è talvolta coltivata nei giardini rocciosi. Ci riportano invece in Alaska R. unalaschensis, la specie raccolta da Chamisso a Unalaska e R. sitchensis, che prende il nome da Sitka; all'epoca del dominio russo si chiamava Novo-Archangelsk ed era la sede principale della Compagna russo-americana. E' le specie con l'areale più ampio, diffusa dall'Alaska alla California, passando per gli stati canadesi del British Columbia e della Alberta e l'Oregon. Un cenno alle altre specie nella scheda. A volte, per entrare nella storia - se non altro in quella della botanica - è sufficiente raccogliere un fiore in un giardino. Almeno fu quello che capitò a Clas Alströmer, rampollo di uno dei più ricchi affaristi svedesi, allievo di Linneo, alla prima tappa del suo grand tour nell'Europa mediterranea, quando la magnifica Alstroemeria, stanca di essere scambiata per un'Hemerocallis o un giglio, si fece notare proprio nel giardino del console di Svezia a Cadice. A stretto giro di posta, l'annunciò arrivò a Uppsala, seguito dai semi, guadagnando al fortunato viaggiatore una delle dediche celebrative più veloci della storia. Mentre i suoi compagni di studio affrontavano le onde e le malattie tropicali, fu semplicemente facendo un viaggio di studio in Europa che Alströmer conquistò il fiore più bello tra quelli dedicati da Linneo ai suoi apostoli. D'altra parte, i suoi meriti scientifici non sono irrilevanti: fu un importante collezionista, e soprattutto un mecenate che finanziò i viaggi di molti condiscepoli, non ultimo Carl von Linné il giovane. Grazie a lui, almeno una parte dell'erbario linneano rimase in Svezia, invece di prendere la strada per Londra. Non ultimo merito, fu il protettore di Anders Dahl, il dedicatario del genere Dahlia. Un grand tour scientifico ricco di incontri A Uppsala, tra gli studenti che, tra il 1757 e il 1760, seguono i corsi di Linneo ce n'è uno con origini familiari molto diverse dai suoi compagni, in buona parte figli di poveri pastori di provincia, che nello studio cercano un'occasione di affermazione sociale. E' Cles Alströmer, uno dei figli minori di Jonas, pioniere della rivoluzione agraria e industriale in Svezia, promotore della diffusione della coltivazione della patata, proprietario di terreni, allevamenti e miniere, ma anche uno dei fondatori dell'Accademia delle scienze svedese. A Uppsala Cles studia agronomia, chimica e mineralogia con Wallerius, botanica con Linneo. E' compagno di studi di Solander, di cui è amico e al tempo stesso rivale. Nel 1760 parte per un grand tour che, per mete e interessi, si differenzia da quello d'obbligo per i rampolli dell'aristocrazia e della ricca borghesia europee; a richiamarlo più che l'arte sono il commercio e i progressi tecnici e scientifici. Nel corso di un triennio, nei vari paesi che visiterà, soprattutto grazie alla sua aura di allievo di Linneo, avrà libero accesso alle maggiori istituzioni scientifiche e conoscerà di persona i maggiori botanici del tempo, di cui ci ha lasciato brevi ritratti penetranti e privi di peli sulla lingua. Benché molte delle sue carte siano andate perdute in un incendio, a informarci su molti particolari del viaggio è il corposo carteggio con il maestro, cui spedì anche una cospicua collezione di piante e animali (oltre 2000 esemplari). La prima tappa fu la Spagna, dove per incarico del padre avrebbe dovuto carpire i segreti dell'allevamento delle pecore merinos, la cui lana era di gran lunga superiore a quella dei capi svedesi; Linneo a sua volta gli affidò la delicata missione di recuperare le collezioni e gli effetti personali di Löfling, morto tragicamente l'anno prima durante la spedizione nell'Orinoco. Partito in nave da Göteborg alla fine di febbraio 1760, Alströmer giunse a Cadice alla fine di aprile; qui fu ospite di Jacob Martin Bellman, il console svedese (nel porto iberico facevano tappa le navi della Compagnia svedese delle Indie orientali); nel giardino del consolato lo colpì una bellissima pianta con due fiori mai visti, nata da semi giunti dal Perù; di questa peregrina de Lima o azucena (ovvero "giglio") de Lima riuscì presto a procurarsi moltissimi semi, che inviò prontamente a Linneo. In Spagna sarebbe rimasto circa quindici mesi, alternando i soggiorni a Madrid e Cadice con puntate a Gibilterra, Siviglia, Granada e in Andalusia. Sorpreso dal maltempo mentre visitava i monti della Castiglia (forse la Sierra morena) si ammalò gravemente; più tardi egli avrebbe fatto risalire a questo incidente l'origine della grave malattia che lo colpì nella maturità. A Madrid frequentò i botanici del Real Jardin Botanico, esprimendo un giudizio molto positivo sull'ormai anziano Minuart e parecchie riserve sulla Flora española o historia de las plantas que se crían en España dell'antilinneano Quer y Martinez, uscita proprio quell'anno. A causa della malattia e poi della morte di José Ortega, fallì l'intento di recuperare gli effetti di Löfling (con una punta di malignità, Alströmer ricorda che i botanici spagnoli consideravano provvidenziale la morte precoce di quel giovane eretico, di cui si diceva si fosse convertito al cattolicesimo in articulo mortis). Ottimo fu invece il rapporto con due vecchi compagni di Löfling: l'astronomo francese Louis Godin, che aveva viaggiato con lui in Portogallo, e il medico Miguel Barnades, che lo aveva guidato alla scoperta della flora madrilena; importante fu poi l'incontro a Cadice con un giovane José Celestino Mutis, sul punto di partire per l'America. Grazie alla mediazione di Alströmer, Mutis entrò così in contatto con Linneo, di cui sarebbe divenuto uno dei principali informatori sulla flora sudamericana. Mentre si trovava in Spagna, Alstroemer ricevette la notizia della morte del padre; dopo aver pensato per un attimo di rientrare in patria, decise invece di continuare il viaggio. Alla fine del 1761 si spostò a Montepellier dove, grazie alle lettere di raccomandazione fornite dal maestro, fu ricevuto da François Boissier de La Croix de Sauvages e Antoine Gouan (che non lo impressionarono né poco né punto). Passò quasi subito in Italia (purtroppo molti dettagli ci sfuggono, a causa della perdita di molte lettere), dove sicuramente fu a Firenze, Pisa, Roma, Napoli, Bologna, Ferrara, Venezia, Padova, Verona, Mantova, Milano e Torino. Ovunque visitò orti botanici, gabinetti scientifici, collezioni e ambienti naturali - dalle pendici del Vesuvio dove raccolse pietre vulcaniche al monte Baldo dove sotto la guida del farmacista Giulio Cesare Moreni fece incetta di semi. Ovunque incontrò botanici a collezionisti, agli occhi dei quali divenne un vero e proprio ambasciatore di Linneo: a Firenze, dove fu ammesso alla Società botanica, Giovanni Targioni Tozzetti e Antonio Durazzini; a Pisa Giovanni Lorenzo Tilli; a Napoli Domenico Cirillo, che gli chiese l'indirizzo di Linneo; a Roma Giovanni Francesco Maratti con il quale discusse a proposito del genere Romulea; a Venezia collezionisti come il vescovo Marco Giuseppe Corner e Filippo Farsetti; a Padova Giovanni Marsili ("un botanico mediocre") e Antonio Vallisneri II ("non è come il padre"); a Milano Vandelli; a Torino Allioni. Gli toccò anche di resistere a seccatori come Saverio Manetti che ad ogni costo avrebbe voluto la dedica di un genere da parte di Linneo. All'inizio del 1763, via Ginevra, giunse a Parigi dove Bernard de Jussieu gli fece grande impressione; guardò invece con una certa perplessità al titanico tentativo di Michel Adanson di creare un sistema naturale e alle ricerche di Buffon sui mammiferi. Fu poi la volta di Londra, dove si fermò circa due mesi, divenendo un'habitué della casa di lady Monson, di cui caldeggiò, questa volta senza alcuna remora, la dedica di un genere botanico da parte del maestro, come ho raccontato in questo post. Dopo un breve passaggio ad Amsterdam, dove visitò i Burman, rientrò infine in Svezia nell'estate del 1764. Collezionista e mecenate Da quel momento la sua vita fu quella di un importante mercante e imprenditore, in società con il fratello Patrick e poi con il suocero, Niclas Sahlgren, direttore della Compagnia delle Indie Orientali. Quest'ultimo lo coinvolse anche nelle sue attività benefiche, come la fondazione di un orfanotrofio e dell'ospedale di Göteborg (Sahlgrenska Hospital); per valorizzare le sue proprietà agricole e minerarie, fece costruire una strada che collegava la sua proprietà di Alingsås e Göteborg (ancora oggi detta strada degli Alströmer). Nel 1768 fu nobilitato, con il titolo di barone. Nel 1770 divenne presidente dell'Accademia delle scienze. Creò una biblioteca, un gabinetto scientifico e un'importante collezione naturalistica (in gran parte andata perduta, insieme ai suoi manoscritti, in un incendio che devastò la sua proprietà nel 1779). Prima a Kristinedal, la tenuta ereditata dal suocero, poi a Gåsevadholm, dove si era trasferito dopo il fallimento, creò anche un orto botanico; a curare le sue collezioni chiamò Jonas Theodor Fagraeus e, a partire dal 1776, Anders Dahl. Su suo incarico, per arricchire le collezioni quest'ultimo viaggiò sia in Svezia sia all'estero e più tardi divenne il curatore dell'erbario che Alströmer ricevette dal figlio di Linneo. Ma andiamo con ordine: insieme ai suoi fratelli, Alströmer fu un importante mecenate che finanziò i viaggi di naturalisti come Afzelius, Thunberg e Retzius. Nel 1781, tre anni dopo la morte del padre, il figlio, Carl Linnaeus il giovane, desiderava andare all'estero, in particolare a Londra, per raccogliere il materiale necessario al completamento dell'opera paterna; a finanziare il viaggio fu ancora una volta Alströmer, al quale, in cambio il giovane Carl - che era stato suo condiscepolo e amico - cedette il proprio erbario, che includeva anche i doppioni della collezione paterna. Dopo la morte precoce di Carl, la madre (come ho raccontato qui) si affrettò a vendere a James Edward Smith i materiali linneani che presero la strada di Londra; a rimanere in Svezia fu solo l'erbario acquisito da Alströmer, che ne affidò la catalogazione a Dahl. Oggi il "piccolo erbario" (herbarium parvum) è custodito presso il Museo di scienze naturali di Stoccolma. Fin dal suo rientro in Svezia, Alströmer fu afflitto da una misteriosa malattia che consisteva in una graduale paralisi dei muscoli, presumibilmente una forma di distrofia muscolare, del tutto ignota ai medici del tempo. Perse progressivamente ogni mobilità, fino ad essere costretto su una sedia a rotelle. Gli ultimi anni furono anche afflitti da problemi finanziari, in seguito alla bancarotta della società creata con il fratello. Morì nel 1794, a 58 anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Alstroemeria: fiori di seta alla conquista delle aiuole Quando prima le descrizioni entusiatiche di Alströmer e poi i semi del "giglio di Lima" raggiunsero Uppsala, Linneo ne fu estasiato: era sicuramente una pianta magnifica, e apparteneva a una specie ignota alla scienza, sebbene strettamente affine a due altre già descritte da padre Feuillée come Hemerocallis. Egli poté così stabilire un nuovo genere che si affrettò a battezzare Alstroemeria in onore dell'affezionato allievo che, intanto, continuava a percorrere l'Europa diffondendo il verbo linneano e rifornendo l'orto botanico di Uppsala con continui invii di semi. La pubblicazione avvenne già nel 1762 nell'opuscolo Planta Alstroemeria, che assegnato come tesi di laurea a Peter Falk, fu poi incluso in Amoenitates academicae. Linneo vi descrisse tre specie: A. peregrina, A. ligtu e A. salsilla, oggi Bomarea salsilla. E' curioso notare che A. peregrina, la pianta "scoperta" da Alströmer e subito nota come giglio del Perù, giglio degli Inca, in realtà è un endemismo cileno; tuttavia fu passando attraverso i giardini di Lima che i suoi semi pervennero in Spagna, per rallegrare il giardino del consolato svedese a Cadice. Lo spettacolare genere, un tempo assegnato alla famiglia Liliaceae, fa oggi parte di una famiglia propria, Alstroemeriaceae, insieme ai generi Bomarea, Drymophila e Luzuriaga. Comprende da cinquanta a ottanta specie distribuite in due aree discontinue dell'America meridionale: da una parte il Brasile (con zone adiacenti in Paraguay e Argentina) e dall'altra il Cile (con zone adiacenti in Perù, Bolivia, e Argentina). Sono erbacee perenni rizomatose (ad eccezione della cilena A. graminea, un'annuale del deserto di Atacama) con grandi fiori isolati o a mazzi con sei tepali che possono superare i 5 centimetri, in una vasta gamma di colori che include il rosso, il rosa, il lilla, l'arancio, il giallo, il salmone, l'albicocca, il verdastro, il bianco, con screziature e striature più scure o in colore contrastante. Le specie brasiliane hanno vegetazione estiva, quelle cilene invernale; incrociando i due gruppi gli ibridatori hanno creato ibridi praticamente sempreverdi, capaci di fiorire tutto l'anno. Se un tempo il loro uso principale erano i fuiori recisi, oggi le Alstroemeriae sono uscite dalle serre per diventare anche apprezzatissime piante da aiuola meno difficili da coltivare di quanto farebbe pensare la delicatezza dei loro fiori, simili a grandi farfalle di seta. La scelta è davvero enorme, con almeno 190 cultivar registrate. Qualche approfondimento nella scheda. La Paulownia non è solo un albero di straordinaria bellezza, ma è carico di simboli. In Cina, la sua patria, propizia lunga vita e felicità, associato com'è alla fenice - che solo sui suoi rami potrà posarsi, e solo quando sarà al potere un governante giusto. Ancora più ricchi i valori culturali in Giappone dove non solo è l'albero della vita, piantato tradizionalmente alla nascita di ogni bambina, ma è anche stato scelto come distintivo dell'ufficio del Primo ministro, in ricordo di un antico eroe nipponico. Così Philipp van Siebold, che aveva conosciuto la spendida pianta in Giappone, l'aveva coltivata nel suo giardino a Deshima e aveva osservato stupefatto la sua rapida crescita, pensò che, per sdebitarsi con la principessa reale dei Paesi Bassi, non c'era omaggio migliore che dedicarle questa pianta tanto bella e tanto densa di simboli. Un botanico a caccia di finanziamenti Il grande botanico Philipp von Siebold ritornò dal suo primo soggiorno in Giappone nel momento peggiore possibile. D'altra parte, non aveva avuto scelta: quando i giapponesi avevano scoperto che si era procurato alcune carte del paese - cosa proibitissima agli stranieri - prima lo avevano posto agli arresti domiciliari, poi lo avevano espulso. Inoltre, quando nel luglio del 1830 arrivò nei Paesi Bassi non poteva sapere che nell'arco di poco più di un mese avrebbe corso il rischio di perdere le sue collezioni o di non potervi accedere per anni. Le aveva infatti portate a Bruxelles, che all'epoca era la capitale del regno nonché la residenza dell'erede al trono. Le piante vive le aveva invece affidate all'orto botanico di Gand. Il 25 agosto scoppiò la rivoluzione che avrebbe portato all'indipendenza del Belgio. Nei giorni successivi, Siebold riuscì fortunosamente a portare in salvo a Leida sia le proprie collezioni, sia quelle raccolte da Blume a Giava. Rimasero invece in Belgio le piante vive. Si poneva a questo punto il problema di studiare e pubblicare l'immenso materiale raccolto in Giappone (i soli esemplari botanici erano più di 12.000). Siebold progettò tre opere di grande impegno: Nippon, un colossale studio geografico e etnografico sul paese del Sol levante; Flora japonica (con la collaborazione di un altro botanico tedesco, J.G. Zuccarini); Fauna japonica (per quest'ultima, egli si sarebbe avvalso della collaborazione degli zoologi del Museo di storia naturale da Leida, coordinati dal prof. Temminck). Tutte magnificamente illustrate, richiedevano grandi capitali, che nei Paesi Bassi, impegnati in Europa contro la rivolta belga e in Indonesia nelle guerre coloniali, non c'erano. Siebold ottenne dal re soltanto una pensione annua, e la promessa dell'acquisto delle sue collezioni etnografiche, che tuttavia venne procrastinato proprio per il prosciugamento dei fondi statali. A chi battere cassa? Siebold decise di rivolgersi alla sposa dell'erede al trono, la granduchessa russa Anna Pavlovna. Era arrivata in Olanda con una dote favolosa (un milione di fiorini) e si diceva che i suoi gioielli, per valore, fossero secondi solo a quelli della cognata, l'imperatrice di Russia. Non potendo soccorrerlo personalmente (suo marito, il futuro Guglielmo II, aveva notoriamente le mani bucate) gli consigliò di rivolgersi a suo fratello, lo zar Nicola I, che in quel momento era sicuramente il monarca più ricco d'Europa. Fu così che nel 1834 Siebold partì per la Russia e, grazie all'intercessione di Anna, fu ricevuto dallo zar, che aprì i cordoni della borsa in cambio di un invio di dieci copie annue dei fascicoli successivi delle tre pubblicazioni (sarebbero state inviate in Russia per più di un ventennio). Più granduchessa russa che regina olandese L'anno successivo, quando uscì il primo volume di Flora japonica, Siebold poté sdebitarsi con la principessa sia dedicandole l'intera opera (nel frontespizio leggiamo: Omaggio a sua altezza imperiale e reale la signora principessa di Orange Anne Paulowna, granduchessa di Russia) sia battezzando con il suo nome una delle più belle piante descritte nell'opera, Paulownia imperialis. Dato che questa specie era gia stata descritta da Thunberg come Bignonia tomentosa, oggi il suo nome è P. tomentosa Steud. Tuttavia il nome specifico coniato da Siebold - sicuramente carissimo a Anna, tanto orgogliosa delle sue origini imperiali - ha fatto in tempo a incollarsi al bellissimo albero, che nei paesi anglofoni è noto come Royal Empress Tree ("albero della principessa imperiale"). Al di là del suo ruolo di mediazione in questa delicata occasione, non sembra che la nobildonna abbia altri meriti botanici. Divenuta regina d'Olanda nel 1840 quando Guglielmo II succedette al padre, è una figura verso la quale gli olandesi hanno un atteggiamento ambivalente. L'ha dimostrato, fin dal titolo, la grande mostra organizzata nel palazzo di Het Loo nel 2016, in occasione del duecentesimo anniversario del suo matrimonio con il principe Guglielmo, intitolata "Anna Pavlovna, la regina pittoresca". Dai ritratti, dai vestiti elegantissimi e raffinati (che si faceva confezionare esclusivamente a Pietroburgo), dagli oggetti di cui amava circondarsi emerge una figura piena di maestà e dignità, indubbiamente affascinante, ma anche aliena, esagerata, appunto pittoresca. Allevata nel palazzo imperiale di Carskoe Selo con una profonda coscienza della sua appartenenza a una stirpe imperiale, per tutta la vita fu più una granduchessa russa che una regina olandese. Pur avendo accettato di sposarlo, provava una certa condiscendenza verso il marito, che riteneva di rango molto inferiore al suo. Quando arrivò in Olanda, poi, provò un vero shock culturale: rispetto alla corte russa, basata su una rigida etichetta e su una distanza siderale tra famiglia imperiale e sudditi, la borghese corte olandese, con la sua mescolanza di classi sociali e lo scarso peso dell'etichetta, era agli antipodi. Gli olandesi le riconoscono, equanimi, molte virtù: era una donna colta e intelligente (imparò benissimo l'olandese, cosa che il marito, allevato all'esterno e di lingua madre francese, non fece mai); era la discrezione in persona e non cercò mai di influenzare le scelte politiche del marito, anzi seppe mediare tra lui e il suocero, quando sorsero profonde divergenze proprio sulla linea da tenere nei confronti dei Belgi; fu sempre leale allo sposo, nonostante i molteplici tradimenti di lui e le sue spese dissennate; fu una filantropa che fondò decine di scuole, ospedali, orfanatrofi. Tuttavia i suoi sudditi non la amarono mai: era troppo altera, troppo compresa della sua importanza, troppo attaccata all'etichetta, troppo fredda (ma anche troppo impulsiva: quando prendeva la calma, si abbandonava a scenate fin troppo russe), insomma troppo granduchessa russa e troppo poco regina olandese. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Tra Anna Pavlovna e i fiori c'è però un secondo legame, diciamo così, postumo. Nel 1846 fu completata la realizzazione di un polder nel nord del paese, battezzato Anna Paulownapolder in onore della regina. Inizialmente sotto la municipalità di Zijpe, nel 1870 divenne comune autonomo con il nome di Anna Paulowna. Il caso ha voluto che questa località si trovi in una delle zone dove si concentra la produzione di tulipani; proprio qui, ogni anno, tra la fine di aprile e l'inizio di maggio (qui i bulbi fioriscono circa due settimane dopo rispetto alle aree floricole dei dintorni di Lisse) vengono organizzati i "giorni dei fiori", con mosaici fioriti, opere d'arte, strade e ponti addobbati. C'è anche un giardino di bulbi che pretende di rivaleggiare (molto più in piccolo) con Keukenhof. Paulownia, albero della vita Il genere Paulownia, un tempo assegnato alla famiglia Scrofulariaceae ma oggi riclassificato in una famiglia propria, le Paulowniaceae, di cui è l'unico rappresentate, comprende sette specie di alberi dai magnifici fiori orginari per lo più della Cina, anche se alcune specie sono state introdotte da secoli in altri paesi dell'Asia orientale, in particolare in Corea e in Giappone, dove P. tomentosa arrivò a quanto pare intorno al 200 d.C. Fu proprio in Giappone che gli studiosi occidentali la incontrarono, a partire da Engelbert Kaempfer che nei suoi Amoenitatum Exoticarum fasciculi (1712) ne diede la prima descrizione, paragonandone i fiori a quelli della digitale e le foglie a quelle della bardana. A sua volta Thunberg la descrisse e la pubblicò in Flora japonica (1784) come Bignonia tomentosa. Philipp von Siebold la vide durante il suo primo soggiorno giapponese e la coltivò nel suo giardino di Deshima, rimanendo stupefatto dalla sua bellezza, del suo vigore e della rapidissima crescita. Al suo ritorno in Europa, portò con sé molti semi, di cui fece generosamente dono a molti amici; possiamo quindi considerarlo l'introduttore della specie in Europa, anche se la prima a fiorire, nel Jardin des Plantes di Parigi, dove era stata seminata nel 1834, sembra sia nata da semi donati a un certo visconte di Cussy, che li avrebbe avuti da un ignoto capitano inglese. Come ho già accennato, fu Siebold nel 1835 a comprendere che non si trattava di una Bignonia ma di un genere nuovo, battezzato Paulownia in onore di Anna Pavlovna Romanova. E' interessante leggere la motivazione della dedica: "Abbiamo preso la libertà di battezzare Paulownia il nuovo genere, che accoglie il Kiri, precedentemente ritenuto erroneamente una bignonia, per rendere omaggio al nome di sua Altezza Imperiale e Reale, la principessa ereditaria dei Paesi Bassi. A spingerci a questo non è stata solo la bellezza della pianta, ma ancora di più il fatto che la foglia del Kiri ornata di tre boccioli di fiori è stata utilizzata come insegna dal celebre eroe Taikosama e per questa ragione è ancora molto onorata in Giappone". La scelta di una pianta così significativa dal punto di vista culturale si inquadra nell'innovativo approccio di Siebold ai rapporti tra Occidente e Giappone, che egli auspicava si basassero non più sui meri interessi commerciali ma sulla comprensione e l'apprezzamento delle reciproche culture, come dimostrano anche le illustrazioni di Flora japonica, da lui fatte eseguire a artisti giapponesi e poi ridisegnate e adattate per la stampa da artisti occidentali. In Oriente, in effetti, P. tomentosa è molto di più di un albero apprezzato per la sua bellezza o per l'eccezionale valore economico dovuto alla rapida crescita e all'ottima qualità del suo legname, leggero, facile, da lavorare, ma allo stesso tempo durevole. E' l'albero della vita, legato al ciclo della vita e della morte. In Cina è coltivata da tempi immemorabile; si dice che il sarcofago di un re vissuto 2600 anni fa sia stato ricavato dal suo legname e le cronache del regno Qin (II sec. a.C.) documentano sue estese coltivazioni attorno alla città di Afang. Simbolo di longevità, nella tradizione cinese è ritenuto l'unico albero su cui si posa la fenice, per cui veniva piantata nei pressi delle case per attirarla, assicurandosi prosperità. In Giappone tradizionalmente veniva piantata alla nascita di una bambina e tagliata al momento del suo matrimonio, per ricavarne il cassone nuziale; era usata anche per amuleti destinati ai bambini e per le bare. Il suo legno, dotato di grandi capacità di risonanza, sia in Cina sia in Giappone è usato per costruire strumenti musicali tradizionali. Inoltre, come ricorda Siebold, è legato a un personaggio molto onorato della storia giapponese, Toyotomi Hideyoshi (Taiko Sama "l'onorevole ritirato" è il titolo onorifico con il quale è per lo più conosciuto nelle fonti cristiane). Egli fu il secondo dei tre unificatori del Giappone e alla fine del Cinquecento gettò le basi del sistema dello shogunato; la sua insegna formata da una foglia di kiri (questo il nome giapponese dell'albero) sormontato da tre boccioli è tuttora utilizzato come emblema dell'ufficio del Primo ministro. Giunta in Europa all'inizio degli anni '30 dell'Ottocento, P. tomentosa si diffuse rapidamente nei giardini del vecchio continente; dopo un decennio arrivò anche negli Stati Uniti (dove, per ragioni che vedremo meglio nella scheda, è anche diventata una temuta infestante). Solo alla fine del secolo, quando la Cina si aprì agli esploratori occidentali, incominciarono a essere note anche le altre specie, che tuttavia non sono mai diventate altrettanto popolari, anche perché meno rustiche e più esigenti; tuttavia da qualche decennio si assiste, soprattutto in Europa a un vero e proprio boom delle coltivazioni di Paulownia, per ricavarne legname e biomassa; e, più che P. tomentosa, a essere privilegiate sono altre specie e alcuni ibridi, di crescita più veloce e maggiore produttività. Qualche informazione su di esse nella scheda. Fioriscono insieme nei nostri giardini, a maggio, e insieme sono arrivati dall'Oriente nei bagagli di un ambasciatore: sono il lillà e il filadelfo, o fior d'angelo, che a lungo hanno persino condiviso il nome latino syringa. Ne è nato un equivoco che perdura nelle denominazioni del filadelfo in alcune lingue europee (ad esempio il francese seringa, seringat) o regionali (siringa, serenga, serena, in Piemonte, Toscana, Emilia Romagna). Ma gli equivoci devono essere iscritti nel destino del profumatissimo arbusto: altrove è assimilato al gelsomino (il toscano gelsomino della Madonna, il siciliano gesminu di Portugallu, i tedeschi falsche Jasmin o Sommerjasmin, nonché il bavarese Scheissamin, sorvoliamo su che tipo di gelsomino sia...) oppure ai fiori d'arancio (l'inglese mock orange, l'italiano fiore d'arancio e il siciliano zagara americana). Anche i botanici hanno contributo: prima Caspar Bauhin, che cercando di dissipare la confusione, l'ha ribattezzato con un nome che probabilmente designava tutt'altra pianta; poi Linneo, che ritenendolo un nome celebrativo, l'ha arbitrariamente dedicato al sovrano ellenistico Tolomeo II Filadelfo. Bene per me, che grazie alla distrazione del principe dei botanici posso parlare di questo splendido arbusto, forse oggi un po' meno di moda, ma pur sempre ammirato per la magnifica fioritura bianca e il delicato profumo. Del resto, i meriti scientifici di Tolomeo II sono tutt'altro che equivoci, e una piccola dedica la merita davvero. I doni dell'ambasciatore Dopo otto anni trascorsi alla corte di Solimano il Magnifico come ambasciatore imperiale, nel 1562 Ogier Ghislain de Busbecq, bibliofilo e appassionato collezionista di animali e piante esotiche, rientrò a Vienna, lasciandosi alle spalle lo zoo e i magnifici giardini che aveva creato nella sua residenza di Costantinopoli. Nei suoi bagagli, alcuni inestimabili tesori: in primo luogo, il magnifico codice miniato oggi noto come "Dioscoride di Vienna"; in secondo luogo, una collezione di bulbi e altre piante, tra cui due arbusti dai fiori profumati, novità assolute per i giardini europei. A Vienna li condivise con il curatore dei giardini imperiali, Carolus Clusius (che avrebbe poi portato con sé i bulbi di tulipano in Olanda, gettando le basi della tulipocoltura in quel paese). Avendo sentito dire che in Oriente i fusti cavi di entrambi gli arbusti venivano usati come cannelli delle pipe, il colto ambasciatore e l'amico Clusius li battezzarono entrambi syringa (espressione greco-latina che significa "tubo, cannuccia"): Syringa flore coeruleo quella a fiori violetti, Syringa flore albo quella a fiori bianchi. Queste denominazioni durarono a lungo, finché a correre ai ripari intervenne Caspar Bauhin che in Pinax theatri botanici (1623) conservò al primo Syringa caerulea e ribattezzò il secondo Philadelphus Athenaei, "filadelfo di Ateneo". Aveva pescato il nome in uno scrittore in lingua greca del II secolo d.C, Ateneo di Naucrati che, nel XV libro del suo Deipnosofisti, discute delle piante utilizzate per preparare le corone indossate durante i banchetti. A sua volta, Ateneo si rifaceva a uno scrittore precedente, Apollodoro di Artemita (I sec. a.C.). Il passo in questione è il seguente: "Apollodoro, nel quarto libro della storia del regno dei Parti, parla di un fiore chiamato philadelphum, che cresce nella terra dei persiani, e lo descrive così: «Ci sono molti tipi di mirto, il milax e quello che viene chiamato filadelfo, che ha ricevuto un nome che corrisponde alle sue caratteristiche naturali; perché quando i suoi rami, che si trovano distanti l'uno dall'altro, si mescolano insieme, si fondono in un abbraccio vigoroso e diventano uniti come se fossero sorti dalla stessa radice, e crescendo producono nuovi germogli; perciò, quando hanno rami ancora sottili, vengono piantati tutto attorni ai giardini intrecciandoli come una rete, e in tal modo queste piante creano una siepe impenetrabile»". In greco, infatti, philadelphos significa "amico fraterno" oppure "amico del fratello". Il filadelfo di Ateneo è davvero la pianta portata dall'Oriente dall'ambasciatore imperiale? Evidentemente no: non è un specie di mirto e non ha le caratteristiche descritte; probabilmente Bauhin si è lasciato suggestionare dalla citazione dotta e soprattutto dalla supposta origine persiana (anche se probabilmente, proprio come il lillà, nei giardini ottomani il filadelfo arrivò piuttosto dalla penisola balcanica). In ogni caso, la denominazione da lui proposta inizialmente venne ignorata: sia Gerard in Inghilterra sia Tournefort in Francia sia Vallisneri in Italia continuano a chiamare entrambe le piante Syringa. Finché arriviamo a Linneo, che in Hortus cliffortianus (confermerà poi questi nomi in Species plantarum), riprende la proposta di Bauhin denominando Syringa vulgaris il lillà e Philadelphus coronarius (filadelfo usato per fare corone, evidente allusione al passo di Ateneo) il nostro filadelfo. Sgombrato il terreno da un equivoco, ne crea subito un altro: sia che non abbia letto il testo di Ateneo (citandolo di seconda mano attraverso Bauhin) sia che sia stato suggestionato da altri passi dell'opera, in cui lo scrittore greco parla in termini elogiativi di questo sovrano, Linneo è convinto che il nome sia un omaggio a Tolomeo II Filadelfo, secondo re della dinastia Lagide. Un grande protettore delle arti e delle scienze Grazie alla svista di Linneo, per vie traverse anche questo illustre personaggio si aggiunge alla nostra lista dei dedicatari dei generi botanici, e, tutto sommato, in modo non del tutto immeritato. Tolomeo II (il soprannome Filadelfo si deve al matrimonio con la sorella Arsinoe II, secondo il costume degli antichi faraoni, ma soprattutto come operazione politico-propagandistica che assimilava la coppia regale ai fratelli-sposi divini Zeus e Era oppure Osiride e Iside) è ricordato non tanto per le innumerevoli guerre in cui fu impegnato ma come fondatore delle due più importanti istituzioni culturali dell'antichità, la Biblioteca e il Museo di Alessandria d'Egitto. Da tutto il mondo greco, per sua volontà vi affluirono poeti e studiosi, che formarono il cosiddetto "sinodo", un gruppo di 30-50 intellettuali da lui stipendiati perché portassero avanti i loro studi in campo letterario e scientifico. Oltre a letterati celebri come Callimaco, Teocrito o Apollonio Rodio o opere di grande importanza culturale, come l'edizione critica delle opere di Omero, la traduzione in greco della Bibbia (la cosiddetta Bibbia dei Settanta) o la storia dell'Egitto commissionata a Manetone, nei laboratori annessi al museo fervevano le ricerche matematiche, astronomiche, mediche, con importanti scoperte nei campi dell'anatomia, della fisiologia e della medicina. Tra gli scienziati che lavorarono al Museo durante il suo regno, ricordiamo in particolare il medico Erofilo, considerato il fondatore della medicina sperimentale. Presso il Museo c'era anche un serraglio dove il re collezionava animali esotici (proprio Ateneo descrive una processione in onore di Dioniso voluta da Tolomeo II nel 270 a.C., in cui sfilarono 24 carri trainati da elefanti e coppie di leoni, leopardi, pantere, cammelli, antilopi, onagri, struzzi, un orso, una giraffa e un rinoceronte). Sempre secondo la testimonianza di Ateneo, i cortili e i portici del Museo erano inoltre abbelliti da piante rare giunte da tutto il bacino del Mediterraneo, ma anche dalla lontana India, che prosperavano grazie al mite clima egizio. Altri scrittori antichi ricordano che il sovrano cercò di migliorare le rese agricole introducendo nuove varietà di sementi (tra cui una varietà siriana di grano, che fu però rifiutata dai contadini egizi). Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Una cascata di fiori bianchi a profusione Il genere Philadelphus, della famiglia Hydrangeaceae, comprende una sessantina di specie di arbusti, nativi dell'Europa sudorientale, dell'Asia e dell'America settentrionale e centrale. Dopo il suo arrivo grazie a Ghislain de Busbecq, per circa 200 anni P. coronarius fu l'unica specie conosciuta e coltivata in Europa. Quando Linneo la descrisse in Species Plantarum (1753), dall'America era da poco giunta una seconda specie non profumata che il botanico svedese battezzò per l'appunto P. inodorus. A scoprirlo (e a disegnarlo) lungo le rive del fiume Savannah intorno al 1720 era stato Mark Catesby. Si diffuse soprattutto nei giardini statunitensi (in Europa si continuava a preferire il fratello profumato); ad esempio, nel 1792 George Washington ne ordinò parecchi esemplari a Bartram. Un'altra splendida specie nordamericana, P. lewisii, fu invece raccolta per la prima volta da M. Lewis nel 1806, nel corso della sua famosa spedizione con Clark. L'esplorazione della flora cinese permise di arricchire la scelta con altre specie, come P. delavayi, scoperta nel 1887 nella Cina meridionale dal missionario e botanico padre Pierre Delavay. Ma soprattutto, a rivoluzionare la presenza del bell'arbusto nei nostri giardini, furono i vivaisti. A farne una specialità, inizialmente esclusiva, fu il francese Victor Lemoine, che nel 1884 creò P. x lemoinei, incrociando P. microphyllus (una specie messicana, particolarmente resistente alla siccità) con P. coronarius. Fu l'inizio di un prolifico e fortunato lavoro di ibridazioni, che nell'arco di quarant'anni portò i vivai Lemoine a creare non meno di 30 ibridi, incrociando P. x lemoinei con altre specie ancora, soprattutto americane. Molto di moda ai tempi delle nostre nonne, quando era immancabile in ogni giardino, il filadelfo oggi è forse considerato un po' troppo visto, un po' troppo banale. Eppure la bellezza e la generosità delle fioriture rimangono intatte; per variare e introdurre un po' di novità, basterebbe affiancare al solito P. coronarius qualcuna delle altre specie, oppure scegliere tra le innumerevoli varietà orticole che rivaleggiano per profusione di fioriture, candore, profumo e sfoggiano nomi evocativi come "Mont Blanc", "Boule de Neige", "Innocence", "Virginal"... Per chi vuole qualcosa di speciale, ci sono persino varietà a foglie variegate oppure con fiori toccati di porpora (un po' meno angelici, ma davvero affascinanti). Qualche informazione in più su alcune specie selezionate e sulla storia degli ibridi nella scheda. In un sodalizio scientifico, può essere difficile distinguere il contributo dei singoli: si lavora insieme, si discute, le idee nascono, si scambiano, maturano dal confronto reciproco. Quanto deve Linneo all'amico Artedi? oppure L'Obel a Pena? Nel caso di John Ray e Francis Willughby, per secoli nessun dubbio: Ray era il cervello, Willughby il portafoglio. Ma in anni recenti, nuovi documenti hanno dimostrato che forse le cose non stanno proprio così. E, per ironia della sorte, il grandissimo John Ray, padre della classificazione naturale, si vede scippato del genere Rajania, mentre a Willughby resta l'onore del genere Willughbeia. Un maestro carismatico e una passione contagiosa Il nome di John Ray (1627-1705) è uno dei più noti della botanica prelinneana. A lui si deve la prima definizione scientifica di specie, l'introduzione di termini come petalo e pistillo, e soprattutto l'elaborazione di un metodo e di un sistema che ne fanno il fondatore della classificazione naturale degli esseri viventi. Ben meno celebre è il suo allievo Francis Willughby, che di Ray fu anche compagno di viaggio e sopratutto, per molti anni, il mecenate che ne rese possibile gli studi e lo introdusse negli ambienti scientifici londinesi. Francis era l'unico erede di ampi possedimenti nelle Midlands, tra cui la residenza di Middleton Hall; di intelligenza pronta e di interessi enciclopedici, arrivò a Cambridge nel 1657, a 22 anni. Ufficialmente, le uniche materie insegnate erano le lingue e la cultura classica, la filosofia, la teologia e la matematica; Willughby seguì con scrupolo il curriculum previsto, laureandosi nel 1662, ma il suo tutor John Ray - che a sua volta si era avvicinato allo studio delle scienze naturali da pochi anni, da autodidatta - gli trasmise la sua passione e lo coinvolse nelle sue ricerche. Al momento, Ray stava scrivendo la sua prima opera di botanica, Catalogus plantarum circa Cantabrigiam nascentium (1660), ovvero "Catalogo delle piante che nascono nei dintorni di Cambridge", che fu la prima flora regionale pubblicata in Inghilterra. Willughby collaborò alla raccolta di esemplari per il catalogo e seguì gli esperimenti del maestro nel piccolo orto botanico creato da Ray presso la sua residenza al Trinity College. Era intenzione di Ray continuare su questa strada, scrivendo una flora inglese, ma era anche interessato ad altri argomenti, in particolare alla riproduzione degli uccelli. Per raccogliere esemplari per la flora e approfondire le sue ricerche, prese a dedicare le estati a viaggi scientifici nel paese: nell'estate del 1658, da solo aveva, erborizzato in Galles e nelle Midlands; nel 1660, insieme a Willughby, visitò l'Inghilterra settentrionale e l'isola di Man; nel 1661 si spinse in Scozia con un altro allievo, Philip Skippon. Nel viaggio del 1660, Willughby ebbe probabilmente modo di scoprire la sua vera vocazione: più che alla botanica, i suoi interessi andavano alla zoologia, soprattutto agli uccelli e alla fauna marina. Insieme al maestro, fu tra i primi a intuire il fenomeno della migrazione degli uccelli, postulando che le rondini non andassero in letargo, come supponeva Aristotele, ma partissero per climi più miti. Nel 1662, dopo la restaurazione della monarchia, Ray, vicino alle posizioni dei puritani, rifiutò di aderire all'Act di Uniformity e fu costretto a lasciare la carriera universitaria. Da quel momento, per vivere, dovette "confidare nella Provvidenza e nei buoni amici; ma la libertà è una bella cosa!" La Provvidenza assunse il volto di Francis Willughby, che propose al maestro di accompagnarlo in un vero e proprio Grand Tour attraverso l'Europa. Forse i due ci pensavano da tempo: nonostante figure prestigiose come Bacone e Harvey, la scienza inglese era indietro rispetto alle acquisizioni della nuova scienza europea; nel paese non esisteva neppure un orto botanico e in nessuna università era possibile studiare anatomia, botanica o zoologia. Il viaggio durò tre anni e portò maestro ed allievo a visitare molte istituzioni scientifiche importanti, ma soprattutto permise loro di studiare dal vivo una natura multiforme, mettendo insieme vastissime collezioni di piante essiccate, animali, fossili, rocce, reperti naturali, archeologici, etnografici. Chi ha scritto questi libri? A partire da Dover il 18 aprile 1663 furono in quattro: Ray, Skippon, Willughby e il suo amico Nathaniel Bacon. Il gruppo visitò i Paesi Bassi, la Germania e la Svizzera, navigando lungo il Reno, quindi lungo il Danubio da Augusta a Vienna. Da qui, in carrozza, raggiunsero Venezia e Padova, dove Ray seguì lezioni di anatomia; quindi si spostarono a Ferrara e a Bologna, dove visitarono il famoso Teatro della natura di Aldrovandi. Da Parma risalirono a Milano, a Torino, poi riscesero a Sud toccando Lucca e Pisa. Via mare raggiunsero Napoli, dove scalarono il Vesuvio. Qui nella primavera del 1664 si divisero: Willughby si spostò in Spagna, per poi rientrare in Inghilterra, mentre Ray continuava verso sud, in Sicilia e a Malta. Mentre Ray proseguiva il viaggio (sarebbe rientrato in Inghilterra solo nel marzo del 1666, dopo aver visitato anche la Francia), probabilmente Willughby era tornato a casa alla fine del 1664, visto che nel gennaio 1665 lesse una comunicazione sul loro viaggio alla Royal Society, alla quale era stato ammesso nel marzo dell'anno precedente. La Royal Society era allora un'istituzione recentissima, fondata appena nel novembre del 1660. La morte del padre nel dicembre del 1665 aumentò i doveri di Willughby come capo della casata; egli si stabilì nella residenza di Middleton Hall dove, al ritorno dalla Francia, lo raggiunse Ray. Le enormi collezioni raccolte durante il viaggio dovevano essere organizzate e catalogate; questo fu il compito ufficiale affidato a Ray, anche se il ruolo di Willughby non fu semplicemente quello di mecenate, ma di studioso in prima persona. Con l'enorme massa di dati scientifici raccolti, i due amici si proponevano infatti di pubblicare una descrizione sistematica delle piante e degli animali conosciuti; si divisero i compiti: Ray si sarebbe occupato delle prime, Willughby dei secondi. Cedendo alle pressioni delle famiglia, all'inizio del 1668, Willughby si sposò; mentre la madre, Cassandra, vedeva di buon occhio le attività scientifiche del figlio e la presenza di Ray, a quanto pare l'atteggiamento della moglie Emma era meno entusiastico, se non ostile. Quando dal matrimonio nacquero tre figli, Ray fu incaricato della loro educazione, Mente poliedrica e geniale (i suoi manoscritti, dove si mescolano gli argomenti più vari e linee di scrittura si intersecano e si sovrappongono, mettono a dura prova chi cerca di decifrarli), Willughby si occupò contemporaneamente di vari argomenti; nel 1669, insieme a Ray presentò alla Royal Society una memoria sulla circolazione della linfa (Experiments concerning the Motion of Sap in Trees; nel 1667 anche Ray era stato ammesso alla Society, stringendo contatti che sarebbero stati preziosi dopo la morte di Willughby); studiò gli uccelli, i pesci, gli insetti, ma anche argomenti più frivoli, come i giochi. Nel 1672, a soli 37 anni, Willughby morì improvvisamente di pleurite. Lasciava numerosi manoscritti, ma nessuna opera compiuta. Ray, che continuava a percepire una pensione come curatore delle collezioni di Middleton Hall e come precettore dei bambini, sentì il dovere morale di assicurare la pubblicazione delle opere del suo protettore e amico. Nel 1676 uscì, sotto il nome di Willughby, Ornithologia libri tres, tre volumi corredati da splendide (e costose) illustrazioni finanziate dalla vedova Emma. Nel 1687 (quando Emma si era ormai risposata e Ray aveva definitivamente lasciato Middleton Hall) seguì Historia piscium, a spese della Royal Society; l'uscita di questo libro esaurì le risorse dell'istituzione, tanto da costringerla a procrastinare la pubblicazione dei Principia Mathematica di Newton. Ancora più tardi, rispettivamente nel 1705 e nel 1710, materiali di Willughby confluiranno in due opere della vecchiaia di Ray, Methodus insectorum e Historia insectorum. Di queste opere, quanto si deve a Willughby e quanto a Ray? Per secoli, la risposta è stata semplice: il vero autore era Ray che, per affetto e riconoscenza verso l'amico precocemente perduto, con finezza d'animo aveva voluto pubblicare sotto il nome di lui l'Ornithologia e l'Historia piscium. L'accesso agli archivi di Middleton e una lettura più attenta della corrispondenza dei protagonisti hanno invece dimostrato che quei libri sono il frutto delle ricerche di Willughby, e Ray ne può essere considerato quello che dichiarò di essere, cioè il curatore. Emerge anche come l'idea, generalmente attribuita a Ray che la classificazione degli esseri viventi dovesse basarsi sull'insieme delle loro caratteristiche fisiche, e non su un singolo tratto, nacque invece dal lavoro comune di entrambi. Prima che Ray lo applicasse alle piante, questo metodo trovò applicazione nei tre libri sugli uccelli, con i quali nasce l'ornitologia scientifica. Una sintesi della breve vita di Willughby nella sezione biografie. I dolci frutti della Willughbeia Venendo ora ai nostri nomi delle piante, ci troviamo di fronte a un paradosso. Al grande botanico John Ray, la cui gigantesca Historia platantarum (1686-1704) è una delle opere più importanti della botanica prelinneana, non mancò l'omaggio dei successori. A partire da Plumier, gli venne dedicato un genere di Dioscoreaceae, di cui generazioni di botanici si sono divertiti a cambiare la grafia (Janraja, Raya, Rayania, Rajania). Nella forma Rajania, fissata da Linneo nel 1753, questo piccolo genere per oltre 250 anni ha continuato a celebrare il nome di Ray; finché, in anni recentissimi, gli studi filogenetici l'hanno declassato a sinonimo di Dioscorea, di cui costituisce forse una sezione. John Ray, che polemizzava con i botanici del suo tempo che tendevano a moltiplicare le specie senza necessità, e che insisteva che non bisogna operare distinzioni tassonomiche sulla base di caratteristiche secondarie (aristotelicamente, accidentia), ma solo sulla base di caratteristiche sostanziali (substantia), benché scippato del suo genere non avrebbe avuto niente da obiettare. Rajania infatti si distingue dal genere Dioscorea solo per i frutti, che sono silique. Al mecenate, ma oggi sappiamo anche grande zoologo, Willughby spetta invece un genere valido, Willughbeia, creato nel 1820 da Roxburgh in Flora indica, riprendendo una denominazione di Scopoli. Lo ricordano anche i nomi specifici di Megachile willughbiella (un'ape tagliafoglie) e di Salvelinus willughbii (il salmerino del lago Windermere). Willughbeia è un genere della famiglia Apocynaceae che comprende una quindicina di specie native del Sud Est asiatico e del subcontinente indiano; sono per lo più liane, con piccoli fiori con ovario con una sola cella e frutti polposi indeiscenti. Abbastanza sorprendentemente (molte Apocynaceae sono tossiche) i frutti di diverse specie sono eduli. Citiamo W. edulis (sin. W. cochinchinensis), diffusa dall'India settentrionale alla penisola indocinese, che produce frutti tondeggianti, giallo aranciati, con polpa acidula; W. sarawacensis, nativa del Borneo e delle Filippine, con frutti che per colore e forma ricordano un pompelmo, ma con un gusto dolce che viene descritto come una combinazione di mango, guanabana e ananas; nativa della Tailandia, della Malaysia e dell'Indonesia è W. angustifolia (sin. W. elmeri), con grandi frutti dalla polpa bianca molto dolce. Poco noti da noi (poche informazioni sono reperibili in siti dedicati ai frutti tropicali), sono invece assai apprezzati a livello locale. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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