Non è raro che generi molto noti e popolari portino il nome di personaggi altrimenti destinati all'oblio. E' senz'altro il caso del genere Deutzia (Hydrangeaceae) che annovera alcuni degli arbusti più coltivati in parchi e giardini, dedicato da Carl Peter Thunberg a Jean (o Joan) Deutz, un maggiorente di Amsterdam che aveva finanziato i suoi viaggi in Sud Africa e in Giappone. Riconoscente, il grande botanico svedese lo ricordò dando il suo nome a una delle piante da lui scoperte in Giappone, Deutzia scabra; e non dimenticò neppure gli altri due sponsor dei suoi viaggi, Jan van de Poll Pietersz. e David ten Hoven, premiati rispettivamente con i generi Pollia (Commelinaceae) e Hovenia (Rhamnaceae). ![]() Come Thunberg ad Amsterdam trovò una cordata di finanziatori Nell'ottobre 1770, trentacinque anni dopo Linneo, un altro giovane svedese bussò alla porta di Johannes Burman; la situazione però era alquanto diversa da entrambe le parti. Burman dirigeva ancora l'orto botanico di Amsterdam, ma era ormai un professore avanti negli anni, con alle spalle una sequela di importanti pubblicazioni che ne facevano il più autorevole botanico d'Olanda. Lo svedese era Carl Peter Thunberg (1743-1828), il migliore allievo di Linneo: era già laureato a Uppsala e stava andando a Parigi per perfezionarsi in chirurgia e medicina; ma soprattutto, non arrivava a mani vuote: a garantire per lui c'era una lettera di raccomandazione del maestro, del cui verbo ora Burman era uno dei più convinti seguaci. Dunque accolse il giovane Thunberg a braccia aperte; e lo stesso fece suo figlio Nicolaas Laurens Burman (1734-1793) che, avendo studiato a Uppsala con Linneo, poteva scambiare con lui anche qualche parola in svedese. Forse anche grazie a questa calorosa accoglienza, Thunberg fu entusiasta della città sull'Amstel: dei suoi canali e delle sue eleganti case patrizie, della pulizia e dell'ordine che regnavano ovunque, dell'atmosfera di libertà e fervore intellettuale. Johannes Burman - qualcuno lo ha definito l'eminenza grigia della botanica olandese - conosceva tutti e non mancò di presentarlo agli appassionati e agli eruditi che facevano parte delle numerose società scientifiche dei Paesi Bassi. Approfittò anche della sua presenza per coinvolgerlo nella classificazione degli esemplari del suo gabinetto di curiosità: Thunberg indentificò diversi minerali, insetti e piante, in particolare Graminaceae e muschi. A Burman fu chiaro che il suo ospite era un naturalista assai preparato e mentre lo aiutava a riordinare grandi generi sudafricani come Ixia, Erica e Aspalathus, gli chiese se gli avrebbe fatto piacere che organizzasse per lui una spedizione in una delle colonie olandesi più ricche di piante: il Suriname o la colonia del Capo. Ovviamente Thunberg - e il suo maestro Linneo con lui - non sognava altro. Mentre Thunberg si trovava a Parigi, dove studiò per un anno accademico, Burman incominciò a muovere tutte le sue pedine per organizzare il viaggio promesso. In primo luogo bisognava coinvolgere la VOC, la potente Compagnia olandese delle Indie. Burman contattò i direttori della Camera di Amsterdam Egbert de Vrij Temminck e Jan van der Poll Pietersz., ottenendo un ingaggio per Thunberg come medico di bordo di una delle navi della Compagnia. Si precisò in tal modo anche la meta: il Sudafrica e, se possibile, il Giappone, la meta più entusiasmante per tutti visto che a causa della politica delle "porte chiuse" la flora giapponese era pressoché sconosciuta e dopo Kaempfer nessun naturalista preparato aveva più visitato il paese. Il viaggio fu approvato dalla VOC e Burman cercò altri sponsor disposti a finanziare le esplorazioni di Thunberg in Sudafrica e in Giappone in cambio di esemplari, semi e piante vive. Del numero facevano parte lui stesso e suo figlio Nicolaas Laurens: di condizione economica molto agiata e imparentati con famiglie ricche e influenti, erano interessati alle raccolte di Thunberg sia come studiosi sia come collezionisti. Un altro cliente era l'orto botanico di Amsterdam, di cui Burman era il praefectus e Temminck uno dei Commissari. Ma a contribuire alle spese furono anche alcuni privati che possedevano grandi giardini ed erano disposti ad allargare i cordoni della borsa in cambio di piante rare: i maggiorenti Jan van der Poll, Jean Deutz e David ten Hoven. I cinque personaggi sono citati nella dedica che apre Flora japonica: "Agli uomini generosissimi e nobilissimi, il signor Vrij Temminck, autorevolissimo console della Repubblica di Amsterdam, commissario dell'Orto botanico; al signor I. van der Poll, autorevolissimo console della Repubblica di Amsterdam; al signor Johan. Deutz, consigliere della Repubblica di Amsterdam e meritevolissimo membro di diverse accademie; al sig. David ten Hoven, consigliere e commissario della Repubblica di Amsterdam; al sig. Nicolaas Laurens Burman, dottore in medicina e professore di botanica, mecenati, sostenitori e patroni sommi!" Come si vede, il Burman ricordato come mecenate è il figlio, non il padre: nel 1784, quando uscì Flora japonica, era già morto, e il figlio gli era succeduto sia come direttore dell'orto botanico sia come professore dell'Ataeneum illustre. Come vedremo tra poco, di Thunberg non era solo un mecenate, ma anche un caro amico. Qualche contributo venne anche dalla Svezia: Thunberg era titolare di una borsa di studio, e inviò duplicati delle sue raccolte, oltre che a Linneo, a suoi amici o allievi Abraham Baeck, il presidente del reale collegio di medicina, Peter Joonas Bergius, medico di successo e fondatore di un orto botanico privato, Lars Montin, medico e membro dell'Accademia reale di Svezia. Ma i finanziamenti più costanti e cospicui vennero dagli sponsor olandesi. Dagli archivi municipali di Amsterdam risulta che l'Hortus botanicus nel novembre 1771 versò a Thunberg una prima somma per le necessità del viaggio; altri versamenti sono registrati per il 1773, il 1774 e il 1776 (quando Thunberg era già a Batavia). Sia dal Sudafrica sia da Batavia Thunberg fece regolari invii in Olanda; i pacchi erano recapitati all'orto botanico di Amsterdam, dove erano aperti alla presenza dei diversi sponsor cui poi veniva distribuito il contenuto. Come Commissario dell'orto botanico, Temminck raccomandava a Thunberg di inviare "solo piante, semi e bulbi di piante veramente rare, e nient'altro". Il resto era per i mecenati privati: "gli invii di uccelli impagliati, insetti ecc. saranno consegnati ai signori Van de Poll, ten Hoven, e ai due professor Burman". Questi ultimi scrissero a Thunberg - che al momento era in Sudafrica - per raccomandare di inviare all'orto botanico piante vive difficili da riprodurre da seme e richiesero espressamente bulbi e Pelargonium (ai quali Burman figlio stava dedicando una monografia). Neppure gli exsiccata interessavano all'Hortus, tanto che il suo erbario giapponese gli fu restituito. Invece i Commissari erano gelosissimi di semi, bulbi e piante vive, tanto che nel 1780 Nicolaas Laurens scrisse a Thunberg: "Il pacchetto con le piante giapponesi è stato consegnato quest'autunno all'Hortus; se ti rimangono dei duplicati delle piante di Ceylon, te ne sarò molto grato, perché dall'Hortus non ho avuto nulla, il che molto mi spiace". Ovviamente gli invii, soprattutto di piante vive, erano difficili, e molti esemplari non sopravvissero al viaggio. Tra quelle che furono sicuramente introdotte da Thunberg attraverso l'Hortus di Amsterdam Hydrangea macrophylla, mentre le prime gardenie fiorirono nel giardino di Deutz. Thunberg inviò piante vive anche ad André Thouin del Jardin des plantes, ma morirono tutte per il gelo nell'inverno 1789-1790. ![]() Gli sponsor olandesi di Thunberg Dopo sette anni di viaggi, Thunberg ritornò in Olanda nell'ottobre 1778. Al suo arrivo a Texel ricevette una affettuosa lettera di benvenuto da Nicolaas Laurens Burman che lo invitò a casa sua "dove vivremo come fratelli e trascorreremo l'inverno nel modo più piacevole possibile". Tra quelle piacevoli occupazioni ci furono anche le visite agli amici e agli sponsor, nei cui giardini Thunberg fu compiaciuto di vedere in buona salute le piante da lui stesso introdotte. E' ora anche per noi di conoscerli meglio. Iniziamo da Temminck, che però tenne i rapporti con Thunberg non a titolo personale, ma come Commissario dell'Hortus botanicus. E infatti, anche se compare in prima posizione nella dedica di Flora japonica, è il solo del gruppo a non essere stato ricordato da un genere botanico. Del resto, era molto esigente e i suoi rapporti con Thunberg non furono idilliaci, come farebbe pensare una lettera in cui lamenta le note insufficienti dei suoi esemplari. Appartenente come gli altri a una famiglia magnatizia, era un uomo politico che rivestì molti incarichi importanti; era curatore dell'Athaeneum illustre e dal 1766 fu uno dei due Commissari dell'Hortus botanicus, che era gestito dalla città di Amsterdam. Morì senza figli; appartiene alla sua famiglia ma non fu un suo discendente l'importante zoologo Conraad Jacob Temminck, dedicatario del genere Temminckia de Vriese, oggi sinonimo di Scaevola L. Passiamo ora ai tre sponsor privati. Jan van de Poll Pietersz. (1726-1781) era un ricco mercante, appartenente a una famiglia attivamente impegnata nella amministrazione della città di Amsterdam. Anch'egli rivestì vari incarichi pubblici e nel 1779 divenne borgomastro. Come abbiamo visto, era uno dei direttori della Camera di Amsterdam della VOC e dal 1779 fu direttore della società del Suriname. A Velsen possedeva una tenuta di campagna chiamata Velseroog e, come Deutz, era membro della Società per l'avanzamento dell'agricoltura (De Maatschappij ter Bevordering van de Landbouw). Allo stesso ambiente sociale apparteneva David ten Hoven (1724-1787), che del resto era genero di Temminck e cugino della seconda moglie di Poll, Jacoba Margaretha van Hoven. Anch'egli era un mercante e un membro del senato di Amsterdam. Mentre Poll desiderava da Thunberg soprattutto arbusti da fiore per il parco della sua tenuta, gli intenti di Hoven erano più pratici: gli servivano alberi per proteggere la sua tenuta di Woestduin dall'avanzata delle dune di Heemstede-Volenzang. Qui grazie ai semi ottenuti da Thunberg piantò molti Pinus, Abies, Cupressus, Cedrus e Juniperus. Al rientro di Thunberg in Olanda, gli versò come compenso 128 ducati d'oro. Certamente i soldi non gli mancavano: qualche anno prima aveva pagato 3050 fiorini al progettista di giardini Adriaan Snoek per il progetto di una "ciotola" nella duna, quella appunto dove sarebbero stati piantati gli alberi di Thunberg. Versò inoltre 3500 fiorini a un certo Hendrik Horsman per la fornitura di materiale vegetale e la costruzione di un viale. Dato che il tracciato di quest'ultimo sostituiva vecchi percorsi attraverso le dune, versò anche consistenti somme come compenso ai poveri dei villaggi di Vogelenzang e Overveen. Il più interessante e noto del gruppo è però Jean (anche Joan o Johannes) Deutz (1743-1784); molto più giovane dei compagni di cordata, anch'egli apparteneva a una famiglia molto influente che si era arricchita con il commercio delle spezie, del tabacco e del vino e aveva raggiunto l'apice verso la metà del XVII secolo quando si era imparentata con il Grande pensionario de Witt e aveva ottenuto il monopolio della vendita del mercurio austriaco in Europa. Il nostro Jean era un avvocato e anche lui sedeva nel consiglio di Amsterdam e fu direttore della Società del Suriname; aveva rapporti di affari e vicinato con gli altri (come quella di Poll, la sua tenuta di campagna Roos-en-Beek, si trovava a Velsen), ma i suoi interessi per la botanica erano più ampi, tanto che chiese a Thunberg di procurargli "tutti i semi e le piante essiccate possibili". Si considerava un botanico dilettante, corrispondeva con il governatore della Colonia del Capo Hendrik Swellengrebel e con Joseph Banks ed era membro di varie società scientifiche. A questo proposito va sottolineato che nel Settecento in Olanda ne esistevano molte, e i loro membri, più che professionisti, erano colti dilettanti come appunto Deutz. Come i due Burman e il botanico Maarten Houttuyn, che avrebbe pubblicato alcune delle piante inviate da Thunberg, faceva parte della Società olandese delle scienze (De Hollandsche Maatschappij der Wetenschappen), all'epoca un ristretto club di gentiluomini che si riuniva nell'aula municipale di Harleem per discutere di argomenti scientifici e promuovere lo studio delle scienze e delle arti. Deutz ne divenne direttore nel 1778 e nel 1781, su sua richiesta, vi venne ammesso anche Thunberg. Subito dopo nel bollettino della società venne pubblicato un suo articolo con i dati metereologici raccolti in Giappone e nel 1782, sempre su istanza di Deutz, un suo articolo sulle palme (nella traduzione olandese di Houttuyn) che contiene la prima descrizione valida di Cycas revoluta. Houttuyn si lamentò della fatica che gli era costata decifrare la minutissima grafia di Thunberg, ma ne fu ricompensato con la dedica del genere Houttuynia, di cui parleremo un'altra volta. Come abbiamo già visto parlando di Poll, Deutz era anche membro della Società per l'avanzamento dell'agricoltura, anch'essa all'epoca un club esclusivo con meno di trenta membri; sempre nel 1781 e ancora su sua proposta vi fu ammesso anche Thunberg come membro onorario. ![]() Due dediche doverose: Pollia e Hovenia Nel suo Flora japonica, pubblicato nel 1784, oltre a porre l'opera sotto l'egida di tutti i suoi sponsor olandesi, Thunberg riservò a tre di loro anche la dedica di un genere. Abbiamo già visto per quali ragioni Temminck fu escluso; quanto ai Burman, ci aveva già pensato Linneo con il genere Burmannia. Per van der Poll, ten Hoven e Deutz il botanico svedese scelse tre piante giapponesi, all'epoca le uniche specie note dei rispettivi generi Pollia, Hovenia e Deutzia. La dedica a Poll è la più laconica, praticamente l'assolvimento di un dovere: "Ho dato il nome in onore del sommo patrono J. van der Poll, meritevolissimo console di Amsterdam". Per lui, che come sappiano era soprattutto interessato ad arbusti e piante da fiore per il suo giardino, Thunberg scelse una bella erbacea perenne nativa del Giappone (ma anche della Cina e del Sud-est asiatico), Pollia japonica. Oggi a questo genere della famiglia Commelinaceae sono attribuite una ventina di specie distribuite principalmente nelle zone tropicali del vecchio mondo, con un solo rappresentante nelle Americhe e qualche propaggine nell'Australia settentrionale. Di particolare interesse l'africana Pollia condensata, i cui frutti sono unici nel mondo vegetale: simili a biglie metallizzate blu profondo dai riflessi cangianti, nello strato esterno della buccia presentano nanocellule disposte ad elica in grado di catturare e riflettere la luce; nel buio delle foreste in cui vivono, è un richiamo irresistibile per gli animali che se ne ciberanno e ne disperderanno i semi. Appena più ampia, ma sulla stessa falsariga di quella di van der Poll, la dedica a ten Hoven: "Ho dato il nome in eterna memoria dell'ottimo mecenate David ten Hoven, Consigliere e commissario della città di Amsterdam". Coerentemente ai suoi interessi, Thunberg gli dedicò un albero Hovenia dulcis: una scelta azzeccatissima se consideriamo non solo la bellezza di questa specie, ma anche la sua grande rusticità, che forse l'avrebbe resa adatta anche al consolidamento delle dune del Mare del Nord. In Giappone egli probabilmente aveva potuto apprezzarne anche i frutti, in realtà i piccioli fiorali ingrossati, che con la loro dolcezza vengono usati nelle insalate di frutta per attenuarne l'acidità. Oggi è la più nota e diffusa delle quattro specie del genere Hovenia (famiglia Rhamnaceae), esclusivamente presente nell'Asia orientale. ![]() Una Deutzia per un patrono speciale Per Thunberg, ricordare con un genere botanico i suoi sponsor van der Poll e ten Hoven era un debito d'onore che in fondo sbrigò con una frase di circostanza; ma la riconoscenza che doveva a Deutz, che dopo il suo ritorno in Olanda si era dato da fare per lanciare la sua carriera scientifica, era assai maggiore. Per notarlo, basta leggere la dedica: "Questo albero vogliamo, dobbiamo consacrare al cultore di scienze naturali e massimo e benevolentissimo patrono dei suoi cultori J. Deutz, consigliere della città di Amsterdam, che a lungo è stato assai meritevole membro e degnissimo presidente di diverse società scientifiche". Vogliamo, dobbiamo: è un dovere che corrisponde al più profondo e spontaneo moto del cuore. Dunque per Deutz scelse una pianta di cui non gli sfuggiva la bellezza: Deutzia scabra, coltivata da secoli nei giardini giapponesi per le abbondanti fioriture candide e profumate. Non poteva sapere che in tal modo avrebbe eternato il nome di Deutz come patrono di un genere cui appartengono alcuni dei più diffusi arbusti da giardino. All'unica specie a lui nota, se ne sono via via aggiunte altre e oggi Deutzia (famiglia Hydrangeacae) è un grande genere con oltre settanta specie; ha distribuzione disgiunta: da una parte il Giappone e l'Asia orientale, dall'altra l'America centrale. Il loro successo come piante da giardino è relativamente recente: è stato notato che due terzi delle specie sono state scoperte solo nel Novecento. La prima ad essere nota in Europa fu proprio D. scabra; era già stata segnalata da Kaempfer e fu decritta appunto da Thunberg; nel 1812 l'ispettore della Compagnia delle India John Reeves - lo stesso che portò la prima Wisteria chinensis in Europa - inviò in Inghilterra questa specie (o più probabilmente la cinese D. crenata), che però fu coltivata in serra e non prosperò. Per la vera introduzione bisogna attendere gli anni '30 e Siebold che riportò dal Giappone D. scabra, D. crenata e D. gracilis. Verso il 1860, Robert Fortune raccolse in Cina una forma doppia di D. crenata (solitamente confusa con D. scabra, che però è endemica del Giappone). Intorno al 1880, molte nuove introduzioni dalla Cina si devono ai missionari francesi che, per integrare le magre entrate delle missioni, inviavano i loro semi alla ditta Vilmorin; il raccoglitore più prolifico fu padre Delavay che introdusse tra le altre D. purpurascens. Questi nuovi arrivi incoraggiarono gli esperimenti del grande ibridatore Lemoine, che intorno al 1891 iniziò un serrato programma di ibridazioni destinato a cambiare la storia della Deutzia: ancora oggi buona parte degli ibridi orticoli che fioriscono nei nostri giardini continuano ad essere quelli creati da lui tra il 1891 e il 1911 oppure dai suoi discendenti tra le due guerre. La moda però stava cambiando, e dopo la seconda guerra mondiale le deuzie incominciarono ad essere sentite come sorpassate e demodé; le si accusava in particolare di presentare pochi motivi di interesse terminata la fioritura. La situazione è di nuovo cambiata nel tardo Novecento, con l'introduzione di nuove specie e la selezione di cultivar più compatte e più adatte ai nostri piccoli giardini. Ne fa senz'altro parte la varietà oggi più coltivata, la nana Deutzia gracilis 'Nikko'. Per una storia più dettagliata degli ibridi e una selezione di specie si rinvia alla scheda.
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Nel corso della seconda spedizione nell'America settentrionale, David Douglas scopre un curioso arbusto con lunghi gattici biancastri e decide di battezzarlo Garrya elliptica in onore di uno dei dirigenti della Hudson's Bay Company, che tanto gli era stata d'aiuto in questa e nella precedente spedizione: Nicholas Garry, un personaggio che sarebbe del tutto dimenticato senza questa dedica e il ruolo che giocò nella storia della HBC, ancora oggi una delle maggiori aziende canadesi. Seguiamolo nel difficile viaggio tra laghi e fiumi canadesi durante il quale gli toccò, con tatto e diplomazia, di mettere pace tra trapper rivali che fino a pochi mesi prima si scambiavano fucilate. Una difficile missione tra i cacciatori di pellicce Tra fine Settecento e inizio Ottocento, la caccia e il traffico delle pellicce in Canada erano controllati da due compagnie rivali, la Compagnia della Baia di Hudson (Hudson's Bay Company, HBC) e la Compagnia del Nord Ovest (North West Company, NWC). Intorno al 1810, la diminuzione dei profitti, causata dalla rarefazione degli animali da pelliccia, dalle tensioni di frontiera con gli Stati Uniti e dall'insediamento di coloni che sottraevano spazio alle foreste, sfociò in una guerra aperta, con sabotaggi reciproci, assassini e addirittura scontri armati. Era una situazione insostenibile che preoccupava tanto le autorità politiche quanto gli azionisti delle Compagnie. Per riportare l'ordine, il segretario di stato per la guerra e le colonie, lord Bathurst, ritenne che l'unica soluzione fosse costringere le due rivali a fondersi in un'unica compagnia, che avrebbe mantenuto il nome della più antica, l'HBC, e avrebbe avuto il monopolio dei traffici su un territorio immenso, da costa a costa. Per spiegare la situazione agli agenti locali, ridefinire la struttura organizzativa e riorganizzare la rete delle stazioni commerciali fu deciso l'invio in Canada di un rappresentante per ciascuna delle vecchie compagnie. Il direttivo della HBC scelse il suo membro più giovane, e l'unico scapolo, Nicholas Garry, un mercante che in precedenza aveva commerciato con la Russia. La missione infatti si presentava difficile e impegnativa anche sul piano fisico. I due incaricati dovevano visitare le principali stazioni commerciali e mettere fine a anni di ostilità convincendone i capi che l'accordo conveniva a tutte le parti. Garry si rivelò una scelta felicissima e seppe dimostrare pazienza, equanimità, diplomazia. Di grande valore storico la testimonianza del suo Diary of Nicholas Garry, deputy-governor of the Hudson’s Bay Company from 1822–1835: a detailed narrative of his travels in the northwest territories of British North America in 1821. Garry partì da Londra alla fine del marzo 1821 e viaggiò fino a New York insieme ai due delegati della NWC che avevano partecipato alle trattative per la fusione, Angus Bethune e John McLoughlin. Alla fine di maggio era a Montreal, il quartier generale della NWC, dove fu raggiunto dal suo corrispettivo della compagnia rivale, Simon McGillawry. Come nota ironicamente nel suo diario, fino a pochi mesi prima costui era "il più attivo e strenuo oppositore degli interessi della Compagnia che sono incaricato di rappresentare". Due settimane dopo si imbarcava con McGillawry e suo fratello maggiore William su una canoa di scorza di betulla manovrata da dodici rematori franco-canadesi. La meta era Fort William (oggi Thunder Bay), sul Lago superiore, il principale deposito della NWC, dove ebbe luogo l'incontro con gli agenti della vecchia compagnia. All'inizio fu alquanto tempestoso, ma più il maggiore dei McGillevry spiegò con franchezza i termini dell'accordo e convinse i suoi compagni dei vantaggi. Seguirono estenuanti trattative sulla distribuzione dei posti. Garry annotò sinteticamente nel diario: "Da giovedì 10 luglio a sabato 14 luglio. Discussioni senza fine". Poi verificò gli inventari e i conti e inviò il suo rapporto a Londra; quindi partì con McGillawry per York Factory, la stazione commerciale della HBC situata all'estremità occidentale della baia di Hudson, punto di arrivo della pista che collegava la baia con Fort Vancouver e il Pacifico. Era un viaggio lungo e impegnativo che durò un mese e mezzo. I due commissari viaggiavano su due diverse canoe, ciascuna con otto rematori, che all'inizio trasformarono il viaggio in una sorta di gara. Sul Rainy Lake incontrarono un consiglio di indiani, ai quali Garry assicurò che non avevano nulla da temere dalla fusione delle due compagnie, anzi al contrario ne avrebbero tratto beneficio. La navigazione proseguì tra un dedalo di laghi e fiumi attraverso il Lago dei boschi e il fiume Winnipeg fino alla colonia di Red River; era stata proprio la fondazione di questo insediamento di coloni scozzesi, voluto da lord Selkirk, a scatenare le peggiori ostilità tra le due compagnie, che erano sfociate addirittura in una battaglia, con il coinvolgimento dei Métis, il gruppo indigeno nato dai matrimoni misti tra nativi, franco-canadesi e altri europei. Selkirk aveva risposto occupando Fort William e facendone arrestare i capi, tra cui McLoughlin e William McGillawray. La morte del lord nel 1820 aveva riportato un po' di pace, ma Garry notò che la situazione era ancora esplosiva e che sarebbero state necessarie misure forti. A Norway House sul lago Winnipeg ci fu un secondo incontro con gli agenti, che confermò gli accordi di Fort William, in particolare l'abbandono della via commerciale della NWC tra Fort William e Montreal a favore di quella più diretta della HBC attraverso York Factory e la baia di Hudson. Quindi navigando lungo il Nelson River, alla fine di agosto i due delegati raggiunsero York River, dove furono accolti dal governatore della HBC William Williams. A causa della sua azione non di rado arbitraria durante le ostilità, quest'ultimo era particolarmente inviso agli uomini della NWC e McGillawry ne pretese la rimozione. Garry riuscì a trovare una soluzione diplomatica: Williams lasciò il posto di governatore del dipartimento settentrionale a George Simpson e fu trasferito al dipartimento meridionale; mantenne tuttavia il titolo di governatore senior. Garry scoprì con sollievo che la soluzione non spiaceva a Williams, che, destinato a una sede meno redditizia ma anche meno periferica, avrebbe potuto finalmente far venire la famiglia dall'Inghilterra. Risolte con successo tutte le questioni, Garry poté così lasciare York Factory e imbarcarsi a metà settembre per l'Inghilterra. In apprezzamento del suo operato, la Compagnia lo promosse vice governatore. In Canada lasciò il ricordo di un uomo umano, pieno di tatto e sopra le parti. In suo onore il nuovo forte costruito dalla HBC nel 1822 sul Red River fu battezzato Fort Garry. ![]() Garrya, la "maggiore curiosità della collezione" Non sappiamo molto del ruolo di Garry negli uffici della Compagnia a Londra nei dodici anni in cui fu vicegovernatore (1822-1835). E' probabile che tra l'altro si occupasse del Museo della Compagnia, dove erano custoditi oggetti di varia natura provenienti dal Canada e dagli Stati Uniti nord-orientali. O almeno, è in questa veste che lo conobbe l'esploratore e cacciatore di piante David Douglas. Tra il 1824 e il 1827 per incarico della Royal Horticultural Society egli aveva visitato il nord America nord-occidentale ed era stato grandemente aiutato dalla HBC: non solo aveva viaggiato sia all'andata sia al ritorno a bordo di navi della compagnia, ma muovendosi lungo la pista che collegava Fort Vancouver a York Factory aveva utilizzato come campo base le sue stazioni commerciali, aveva viaggiato con i suoi agenti ed era stato da loro aiutato in ogni modo. Al suo ritorno a Londra, visitò il Museo della Compagnia per verificare alcuni esemplari e conobbe Garry, con il quale strinse amicizia. Il vicedirettore lo aiutò ad organizzare il suo secondo viaggio, iniziato, di nuovo a bordo di una nave della HBC, nell'ottobre 1829. Così, quando sulla costa dell'Oregon si imbatté in un notevole arbusto mai descritto in precedenza, decise di battezzarlo Garrya elliptica, in onore del nostro Nicholas Garry, al quale dedicò anche Quercus garryana, una quercia endemica della costa settentrionale del Pacifico. Garry seguiva le avventure dell'amico e ci rimane una sua preoccupatissima lettera a Hooker in cui lo informa sulle voci (purtroppo fondate) circa la morte di Douglas alle Hawaii. Di lui sappiamo solo che nel 1835 diede segni di squilibrio mentale tanto che fu costretto a lasciare il lavoro e morì nel 1856 senza aver mai recuperato il senno. Oggi sarebbe del tutto dimenticato senza l'omaggio di Douglas. Garrya Douglas ex. Lindl., appartenente a una famiglia propria (Garryaceae, che oggi include anche Aucuba japonica) è un piccolo genere di una quindicina di specie di arbusti distribuite lungo la costa pacifica dall'Oregon a Panama, con qualche rappresentante nelle Antille. Sono piante dioiche a fecondazione anemofila caratterizzate da fiori raggruppati in lunghi amenti penduli che iniziano a spuntare alla fine dell'estate e raggiungono la maturazione alla fine dell'inverno, quando il vento disperde il polline dei fiori maschili. La specie più nota, coltivata anche nei nostri giardini, è proprio Garrya elliptica, endemica della costa dell'Oregon e della California settentrionale, dove cresce in formazioni vegetali aride. E' un arbusto molto ramificato che tende ad assumere un'ordinata forma sferica, con foglie coriacee dai margini ondulati, densamente tomentose nella pagina inferiore. Solitamente vengono coltivati esemplari maschili, i cui gattici sono molto più lunghi di quelli femminili; fioriscono tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera, ma le brattee persistenti rimangono fino all'estate. G. fremointii e G. flavescens sono simili, ma con margini delle foglie lisci anziché ondulati. G. congdonii, molto comune nella Catena costiera della California, è alquanto simile, ma vive in habitat più montani al di sopra dei 200 metri. Lindley, che pubblicò le piante raccolte da Douglas, giudicò che Garrya fosse meno attraente di altri generi introdotti da questo formidabile cacciatore di piante, ma che fosse "la maggiore curiosità botanica della sua collezione". E' un giudizio forse un po' ingeneroso, se pensiamo alla bella e prolungata fioritura invernale di G. elliptica. Qualche approfondimento nella scheda. Trasportati dalle correnti dell'Oceano Indiano, i giganteschi semi del cocco di mare, o coco de mer, una rara palma endemica delle Seychelles, approdano talvolta su rive lontane, dove le loro curiose forme anatomiche, del tutto simili a un bacino femminile, insieme all'origine misteriosa, non hanno mancato di alimentare leggende. Rari ed ambiti, divennero anche un ricercatissimo oggetto di collezione. Il mistero della loro provenienza fu svelato solo nella seconda metà del Settecento quando i francesi esplorarono e colonizzarono l'arcipelago. Commerson, che poté studiare alcuni semi portati a Mauritius, fu il primo ad assegnarla ad un genere proprio, Lodoicea, cui accoppiò l'inconsueto epiteto callypige, "dalle belle natiche". Tuttavia i più pudibondi botanici ottocenteschi lo abbandonarono, preferendo, per una serie di circostanze, una denominazione geografica derivata non dal luogo dove cresce, ma da uno dei tanti approdi dei suoi semi, le Maldive. La palma delle Seychelles porta dunque il nome fallace Lodoicea maldivica. Resta da chiarire l'etimologia del generico Lodoicea; in mancanza delle note di Commerson, andate perdute, non resta che affidarsi alle ipotesi. La più probabile è che si tratti di una dedica al re Luigi XV che di Commerson, in quanto botanico del re, era anche il datore di lavoro. Sarebbe la più banale delle dediche encomiastiche, se non fosse proprio quell'epiteto imbarazzante. Che, però, vista la scandalosa vita privata del sovrano, forse non è per nulla fuori posto. ![]() Una pianta leggendaria Lodoicea maldivica è una rara palma endemica delle Seychelles, nota come cocco di mare, o anche coco de mer, una denominazione che riflette antiche credenze sulla sua origine. Quando i frutti delle piante che crescono sulla riva del mare cadono in acqua, molto pesanti e densi (pesano tra i 15 e i 20 kg) affondano e si adagiano sul fondale; dopo parecchio tempo, il guscio cade e l'enorme seme (il più grande del regno vegetale) incomincia a decomporsi producendo gas che lo fanno affiorare. Ora può galleggiare e, trasportato dalle correnti dell'Oceano indiano, approda a rive lontanissime dal suo luogo di nascita. A differenza del seme della noce di cocco, non è più vitale e la sua presenza in luoghi dove non c'è nessun albero che lo produca ha alimentato miti e leggende. In Malesia si credeva che fosse il frutto di un albero sottomarino, detto Pausengi, sulle cui fronde faceva il nido il mitico uccello Garuda, metà uomo e metà aquila, il cui equivalente nei paesi islamici è il colossale Roc. Consideriamo poi che questo seme è molto speciale non solo per le dimensioni: bivalve, ha una forma che evoca sorprendentemente la parte inferiore del corpo femminile: visto di fronte, il ventre e il bacino; di dietro, le natiche, come ci ricorda un'altra denominazione francese, coco-fesses, "cocco natiche". Gli strani semi si trovavano talora lungo le spiagge di India, Sri Lanka e Maldive. In India erano venduti per cifre altissime e contesi tra i potentati. Nelle Maldive erano considerati di proprietà del re e chi se ne fosse appropriato era passibile di pena di morte: i sovrani dell'arcipelago ne fecero oggetto di un lucroso commercio, vendendole in Indonesia, in Giappone e in Cina, dove si attribuivano loro proprietà mediche come antiveleno e afrodisiaco. Al loro arrivo nell'Oceano Indiano, anche gli europei ne furono colpiti. La prima testimonianza europea è quella di Garcia de Orta che nel 1563 in Colóquios dos Simples e Drogas he Cousas Medicinais da Índia [...] li descrive come coco das Maldivas. Anche Camoes li menziona nei Lusiadi. Pochi anni dopo l'imperatore Rodolfo II riuscì a procurarsene un esemplare per la sua Wunderkammer sborsando 4000 fiorini d'oro. Nel 1602 il sultano di Banten, per sdebitarsi con l'ammiraglio olandese Wolfert Hermanssen, che lo aveva aiutato contro i portoghesi, gli fece dono di una noce, ma prima ordinò che fosse privata della parte superiore, per non offendere la sua modestia. Nella seconda metà del Seicento, la storia dell'albero sottomarino venne riportata con il dovuto scetticismo nell'Herbarium amboinicum di Georg Everhard Rumphius, che battezzò la pianta Cocus maldivicus: ecco l'origine dell'epiteto che porta ancora, nonostante non cresca nelle Maldive. Come ho anticipato, la sua patria sono infatti le Seychelles. Oggi è presente soltanto a Praslin, la seconda isola per grandezza dell'arcipelago, e nel vicino isolotto di Cousin; in passato, la sua distribuzione era lievemente più ampia, ma non si è mai spinta oltre questo angolo delle Seychelles. Fino a quando non venne colonizzato dai francesi nella seconda metà del Settecento, l'arcipelago, situato a metà strada tra il Madagascar e le Mascarene, era disabitato, salvo offrire punti di sosta e rifugio temporaneo a mercanti e pirati. L'isola dove cresce la nostra palma nel 1744 fu cartografata dall'esploratore francese Lazare Picault che la battezzò appunto "isola delle palme", vedendo che era quasi interamente ricoperta da fitti palmeti; nel 1768 fu esplorata da Marion Dufresne che la rinominò Praslin, in onore del ministro della marina, César Gabriel de Choiseul-Chevigny, duca di Praslin (cugino del duca di Choiseul, il segretario di stato di Luigi XV). L'agrimensore della spedizione, un certo Barre, raccolse una trentina di noci e le portò con sé all'Ile de France; almeno alcune finirono nel gabinetto di curiosità di Poivre, dove le vide e le studiò Philibert Commerson. L'anno successivo, un altro membro della spedizione, Jean Duchemin, tornò nell'isola e raccolse una grande quantità di noci, che andò a vendere in India, determinando un crollo del loro valore. Le leggende, comunque, non erano finite: come molte palme, il cocco di mare è una pianta dioica. Il fiore degli alberi maschili è un lunghissimo spadice della forma fallica. Fu così che nacque la diceria che, nelle notti di tempesta, essi si sradicassero per raggiungere le femmine e accoppiarsi con loro. Ma guai a chi avesse assistito alla scena: sarebbe morto o avrebbe perso la vista. Non è finita: nel 1881 il generale inglese Charles George Gordon visitò le Seychelles e fu talmente colpito dall'esuberante vegetazione della Vallée de Mai nell'isola Praslin da concludere che questa era la vera sede del Paradiso terrestre. E la mela offerta da Eva ad Adamo era una noce di coco de mer. Dal che si conclude che Eva era molto forzuta, visto il peso di quel frutto (per altro privo di ogni pregio alimentare). ![]() Un eponimo che porta fuori strada Forse nel 1771 o nel 1772 Sonnerat visitò le Seychelles, ed ebbe modo di osservare, disegnare e descrivere il "grande palmizio dell'isola Praslin volgarmente detto cocco di mare". Egli era convinto appartenesse al genere Borassus e lo battezzò B. macrocarpus. Da parte sua, Commerson riteneva appartenesse a un genere proprio, e creò una denominazione molto originale, che commenterò più avanti: Lodoicea callypyge. Nel 1791 Georg Friedrich Gmelin pubblicò la pianta come Cocos maldivica, riprendendo la denominazione di Rumphius. Purtroppo la descrizione di Sonnerat non rispetta le regole e quella di Commerson è andata perduta; la sua denominazione fu pubblicata solo molti anni dopo, nel 1805, da Saint-Hilaire. Due anni dopo, La Billardière tentò di correggere il tiro rinominando la specie Lodoicea sechellarum, L. delle Seychelles. Purtroppo il danno era fatto: il primo eponimo valido era quello di Gmelin e in base alla legge della priorità nel 1887 Peerson ufficializzò il nome "sbagliato" che porta ancora, Lodoicea maldivica, L. delle Maldive. Spiegato l'eponimo, è ora di occuparci del nome generico. Come abbiamo visto, Commerson lo accoppiò a un nome specifico inconsueto: callypige, dal gr. calli- "bello" e pigé "natica", attributo di Venere dalle belle natiche. Basta osservare il famoso seme del coco de mer per capire perché. Del resto un aneddoto, non so quanto fondato, vuole che Bougainville, visitando il gabinetto di curiosità di Poivre a Parigi, abbia proposto di chiamarlo Cucul la Prasline. Da dove viene invece Lodoicea? Perdute le note di Commerson e senza altre testimonianze (contrariamente a ciò che scrivono alcuni, né Saint Hilaire né La Billardière si pronunciano in merito), dobbiamo affidarci alle ipotesi. La prima vuole che si tratti di un nome mitologico: evocherebbe Laodice, tirata in ballo come la "più bella delle figlie di Priamo". E' vero che Commerson non rifuggiva dai nomi derivati dal mito (è suo, ad esempio, Hebe), ma non si capisce come un ottimo latinista come lui abbia potuto stravolgere le leggi della fonetica e derivare da Laodice Lodoicea anziché *Laodicea; senza contare che in nessun testo antico si parla del lato B della bella principessa troiana. ![]() Un omaggio o uno sberleffo? Regolarissima è invece la derivazione di Lodoicea da Lodoicus, una delle forme latine di Luigi / Lodovico, in concorrenza con il più comune Ludovicus. Chi potrebbe essere questo Luigi se non il re cristianissimo, sua maestà Louis XV, ovvero il datore di lavoro di Commeson, botaniste du roi? Ovviamente le perplessità sono molte: intanto in medaglie e iscrizioni il sovrano ha sempre usato la forma Ludovicus; inoltre sembra oltraggioso, o per lo meno maldestro, accostare al regio nome un epiteto così scandaloso. Ricordiamoci però della personalità di Commerson: era un noto gaffeur, non aveva peli sulla lingua ed era uno spirito anticonformista. D'altra parte, la noce di coco de mer è stato per secoli un ambitissimo dono regale; le palme, poi, sono simbolo di vittoria e sono spesso associate ai sovrani, e da questo punto di vista Ladoicea maldivica, con la sua altezza che può superare i 30 metri e foglie lunghe più di dieci, certo non sfigura. Luigi XV non ha mai usato il nome Lodoicus, ma lo hanno fatto molti re di Francia prima di lui: è una forma un po' arcaica, ma perfettamente documentata, che potrebbe persino essere considerata un omaggio, la rievocazione di un passato glorioso. Potrebbe però anche essere uno sberleffo, se consideriamo alcuni aspetti della personalità del possibile dedicatario. E' noto che Luigi XV era poco interessato agli affari di stato, e combatteva la noia collezionando favorite ed amanti. La sua condotta sessuale era oggetto di pettegolezzi e pasquinate e a corte tutti sapevano che il modo migliore per fare carriera era contribuire alle regali distrazioni. Sicuramente era un intenditore di bellezze femminili, incluse le belle natiche. Nel 1752, il pittore François Boucher dipinse un nudo femminile, conosciuto come La jeune fille allongée ("La ragazza sdraiata") o L'odalisque blonde ("L'odalisca bionda") che ritrae un'adolescente formosa e indubbiamente callipigia. Si tratta di un ritratto della quindicenne Louise O'Murphy, che secondo la testimonianza di un ispettore di polizia che indagò sulla famiglia della ragazza, fu commissionato dal marchese di Marigny, il fratello minore di Mme de Pompadour. Quando il re vide il dipinto, chiese di conoscere l'originale, che trovò anche più bello del quadro. Per due anni, dal 1753 al 1755, Louise fu una delle sue petites maitresses, come venivano chiamate le amanti non ufficiali che non venivano presentate a corte e alloggiavano discretamente in una delle case del Parc-aux-Cerfs a Versailles. Questa storia Commerson doveva conoscerla meglio di noi: a riferirgliela, di prima mano, sarà stato proprio il marchese, che per un ventennio fu sovrintendente degli edifici e dei giardini reali; il botanico lo frequentò nei suoi anni parigini e gli dedicò il genere Marignia, oggi sinonimo di Protium. Naturalmente non è una prova, ma almeno un indizio. D'altra parte, Luigi XV tutto sommato un genere botanico se lo merita. Per quanto annoiato, frivolo e superficiale, era interessato alle scienze e finanziò, oltre al viaggio di Bougainville, altre spedizioni scientifiche, la più importante delle quali è sicuramente la Missione geodetica franco-spagnola. Inoltre, volle al Trianon un orto botanico che in pochi anni divenne uno dei più importanti del mondo. Anche questa è una storia interessante. Intorno al 1750, avendo saputo che uno dei suoi cortigiani preferiti, il duca di Noialles, aveva messo a disposizione del medico Louis Guillaume Le Monnier e del giardiniere Antoine Richard una parte del suo parco di Saint Germain en Laye perché sperimentassero nuove tecniche di coltivazione e creassero un orto botanico all'avanguardia, il re volle visitarlo. Ne fu ammirato e chiese di conoscere Le Monnier; senza nessun preavviso, il dottore fu convocato e quando si trovò di fronte al sovrano, svenne per l'emozione. Luigi XV lo nominò suo medico personale e, insieme a Richard, lo incaricò di creare un orto botanico al Trianon. Certo non disprezzava il Jardin des Plantes, creato dai suoi antenati; ma viveva a Versailles e da Parigi si teneva il più lontano possibile. Quest'uomo incostante e annoiato per una volta si appassionò: le serre si moltiplicarono e da tutto il mondo arrivarono piante rare che fecero crescere rapidamente il giardino, che arrivò ad accogliere 4000 specie, organizzate secondo il sistema linneano. Di Linneo, infatti, Luigi XV era un fervente ammiratore. Nel 1771, quando il principe ereditario di Svezia, il futuro re Gustavo III, gli fece visita, si congratulò con lui per avere un suddito tanto eminente e gli affidò i semi delle piante più rare (alcune fonti dicono che le raccolse di sua mano) da consegnare al grande botanico. Purtroppo quel giardino bellissimo ebbe vita breve. Alla morte del vecchio sovrano, il nipote Luigi XVI donò questa area del parco alla moglie Maria Antonietta, che fece spianare l'orto botanico per sostituirlo con un giardino all'inglese, a cornice del suo universo privato di finta pastorella. Come avrebbe reagito Luigi XV se fosse stato informato dell'insolita dedica (morì di vaiolo circa un anno dopo Commerson)? ne sarebbe stato indignato? o al contrario lusingato o addirittura divertito? E' inutile chiederselo: era un uomo impenetrabile e imprevedibile, oltre che pieno di contraddizioni. La storia l'ha condannato per aver disonorato la monarchia con la sua condotta scandalosa, per aver perso le colonie in guerre disastrose, per aver lasciato il potere in mano a cortigiani corrotti, per aver lasciato incancrenire i problemi sociali e finanziari del paese. Ma, almeno per la botanica, è un benemerito. Un suo breve profilo nella sezione biografie. ![]() Una palma patrimonio dell'Umanità Per concludere, ancora due parole su Lodoicea maldivica, unica specie del genere Lodoicea, famiglia Arecaceae. E' indubbiamente la pianta dei record: il suo frutto e il suo seme sono i più pesanti dal mondo (per lo meno, allo stato selvatico); il suo fiore femminile è il più grande tra le palme, mentre quello maschile è uno spadice di oltre un metro in grado di produrre polline per dieci anni di seguito. Da record anche il cotiledone germinato, che può allungarsi fino a quattro metri. Produrre frutti e semi così grandi comporta un enorme dispendio energetico; ciascuna pianta in media non ne porta più di sette alla volta, e circa una centinaio in tutta la sua vita. Come abbiamo visto anche la sua altezza e la lunghezza delle fronde sono ragguardevoli: lunghe 10 metri e oltre, possono coprire un'area di dieci metri quadrati. Un'altra caratteristica di questa palma è la sua lentezza, e, correlata ad essa, la sua longevità. Prima di arrivare a maturità e fiorire, passano da 25 a 50 anni; ciascun frutto, per maturare, richiede da sei a dieci anni. Quando poi cade a terra, ci metterà almeno due anni a germinare. In compenso, a meno di essere distrutte dall'uomo o da eventi avversi, queste palme possono vivere e produrre fiori e frutti per 800 anni. Prima dell'arrivo degli europei, Lodoicea maldivica costituiva la specie dominante delle isole Praslin e Cousin e di altri isolotti circostanti, ed era presente in una varietà di habitat dalla costa fino alle zone più alte. Deforestazione, incendi, attività umane l'hanno fatta sparire nelle isole minori e ne hanno ridotta la presenza a una sola stazione a Cousin e a due a Praslin. La più importante, e la sola dove i palmizi formano ancora una foresta densa e continua, è la Vallée de Mai di Praslin, dove Gordon collocò l'Eden. Oggi è una riserva naturale, che a partire dal 1983 fa parte dei Patrimoni dell'Umanità Unesco. Qui Lodoicea maldivica cresce in formazioni miste con altre quattro palme endemiche (Deckenia nobilis, Phoenicophorium borsigianum, Nephrosperma vanhoutteanum e Verschaffeltia splendida) e alberi dicotiledoni endemici (Paragenipa wrightii, Canthium bibracteatum, Syzygium wrightii e Erythroxylum sechellarum). E' l'habitat di felci, briofite e licheni e di una sorprendente serie di endemismi animali: il pappagallo nero delle Seychelles Coracopsis nigra barklyi, cinque gechi dei generi Phelsuma e Ailuronyx, i due camaleonti Calumma tigris e C. seychellensis, la chiocciola Pachnodus praslinus. La salvaguardia della Vallée de mai riveste anche una grande importanza economica: è stato calcolato che il 40% dei turisti che visitano le Seychelles acquistano il biglietto d'ingresso alla riserva. Anche la vendita delle noci (oggi fortunatamente regolamentata, dopo che questo commercio aveva dato un ulteriore colpo alla sopravvivenza della specie) comporta un notevole giro d'affari. Il prezzo, ovviamente, è molto variabile in base alle dimensioni e alla qualità, e non è affatto economico, anche se non è paragonabile a quello che toccava prima della colonizzazione delle Seychelles, quando una sola noce poteva costare quanto una casa. La deliziosa Legousia speculum-veneris, lo specchio di Venere, deve il nome generico alla gratitudine di un botanico nei confronti del suo benefattore (per fortuna, un caso non isolato): il magistrato Bénigne Le Gouz de Gerland che finanziò la fondazione dell'orto botanico di Digione, dove volle che fossero tenuti corsi di botanica aperti e gratuiti. Grato, il primo professore a tenere quella cattedra, il medico e botanico Jean François Durande, nella sua Flore de Bourgogne istituì in suo onore il genere Legousia separandolo dal linneano Campanula. Oggi, dopo una storia tassonomica travagliata, le ricerche molecolari gli danno ragione e confermano l'indipendenza del genere che celebra quel generoso mecenate. ![]() Il mecenate che fu sepolto tre volte Il 30 pratile dell'anno VIII (ovvero il 19 giugno 1800), cinque giorni dopo la vittoria napoleonica di Marengo, le vie della città di Digione sono percorse da uno solenne corteo. Precedute da un gruppo di tamburini, da un picchetto di soldati, da tre drappelli della guardia nazionale, accompagnate da tutte le autorità civili e militari, dai bambini e dai ragazzi delle scuole e dai loro insegnanti, su un carro transitano le ceneri del "buon cittadino Legouze"; a chiudere il corteo, i membri della Società delle scienze, dei tribunali, del municipio e della prefettura, e altri tre drappelli di veterani della guardia nazionale. Il protagonista involontario non è un eroe della rivoluzione o della guerra d'Italia, ma un nobile e un magistrato morto nel 1774, ai tempi dell'Ancien Regime, quando il suo nome era Bénigne Le Gouz de Gerlande, signore di Magny-sur-Tulle, Gerland e Jancigny, con tanto di titoli e particella nobiliare. Per circa vent'anni, ha riposato nella sua tomba nella chiesa della Madeleine, finché la Convenzione ha decretato la chiusura delle chiese e poi la vendita dell'edificio come bene nazionale; l'Accademia delle Scienze di Digione, che adesso sia chiama Società delle Scienze, ha ottenuto che i suoi resti fossero preservati e ha chiesto la loro traslazione nell'orto botanico, di cui Le Gouz era stato il fondatore. Le autorità dipartimentali e il sindaco hanno aderito con entusiasmo: sia perché il ricordo di quel generoso benefattore non è sopito, sia perché l'occasione è ottima per prendere le distanze dagli eccessi del Terrore e della scristianizzazione, celebrare la ritrovata concordia nazionale (in uno dei discorsi tenuti durante la cerimonia si ricorda la pacificazione della Vandea) e valori laici come il progresso scientifico e il mecenatismo. Non a caso, un cartiglio posto sul carro funebre ammonisce: "Onorate le ceneri del fondatore dell'orto botanico. Imitiamo le virtù del benefattore delle scienze e delle arti". Bénigne Le Gouz de Gerlande, nato sul finire del Seicento, membro di una famiglia eminente della nobiltà di toga, era stato un importante magistrato (per vari anni fu grand bailli d'epée du Dijonnais, ovvero il magistrato che esercitava il potere signorile e giudiziario a nome del re). Quando studiava al collegio dei gesuiti di Parigi (dove fu condiscepolo di Voltaire) si appassionò di letteratura, scienze, arti, coltivando interessi diversi con notevole eclettismo: la poesia, la musica, la storia e l'antiquaria, il disegno, le scienze naturali. Membro dell'Accademia delle Scienze di Digione, intervenne assiduamente alle sedute con memorie sugli argomenti più vari: i primi re di Borgogna e l'origine dei borgognoni, le cause fisiche del diluvio universale, la vita di Pompeo, l'elettricità, ecc. Era anche un collezionista, sia d'arte sia di naturalia, e sicuramente faceva coltivare piante rare nei giardini del suo castello di Gouville (chiamato così con un gioco di parole basato sul suo nome, Gouz-ville). A distinguerlo da tanti collezionisti e eruditi più o meno dilettanti, furono però il mecenatismo e la generosità con cui dotò la città natale di importanti istituzioni. Non sposato e privo di eredi, nella vecchiaia fu infatti generoso di lasciti e doni. Nel 1764, donò le sue collezioni naturalistiche all'Accademia delle scienze di Digione, in modo che fossero messe a disposizione di tutti a giovamento del progresso scientifico; il nucleo più importante era costituito da pesci e altri reperti marini raccolti nel frequenti soggiorni nelle isole Hyères. L'anno successivo incoraggiò il pittore François Devosge ad aprire una scuola gratuita e pubblica di disegno, che nel 1767 fu ufficialmente riconosciuta dagli Stati generali di Borgogna. Le Gouz finanziò anche un premio destinato ai migliori pittori e assegnato dall'Accademia delle scienze. La scuola divenne rapidamente così importante che gli Stati generali di Borgogna decisero di farsi carico della scuola e dei premi: è il primo nucleo della prestigiosa École nationale supérieure d'art de Dijon, nonché del Museo di belle arti, concepito inizialmente come raccolta di modelli da copiare e imitare. La generosità di Le Gouz dovette cercare un nuovo sbocco; il segretario dell'Accademia lo persuase a finanziare la creazione di un orto botanico. In città non esisteva nulla di simile, se non forse un giardino dei semplici appartenente all'ordine dei farmacisti; inoltre, all'Università, dove l'unica facoltà prevista era quella di diritto, non si insegnava botanica. Fu così che il vecchio magistrato (all'epoca aveva circa settantacinque anni) acquistò un terreno in Allées de la Retraite (attualmente boulevard Voltaire) e vi fece allestire un orto botanico, destinato alla "dimostrazione" delle piante, con annesso un salone dove sarebbero state tenute lezioni aperte e gratuite di botanica; come insegnante, Le Gouz, che era in contatto con il bel mondo parigino, aveva pensato niente meno che a Rousseau, ma al rifiuto del filosofo ripiegò su un medico locale, Jean-François Durande. Il nuovo orto botanico fu ufficialmente inaugurato il 20 giugno 1773, con un discorso del donatore e una prolusione di Durande sui benefici dello studio della botanica. Le Gouz sarebbe morto circa un anno dopo (per una sintesi della sua vita, si rimanda alla sezione biografie). Negli anni rivoluzionari, l'orto botanico, che il fondatore aveva donato all'Accademia delle scienze, passò sotto la giurisdizione del Comune che nel 1833, visto che la sede originaria era ormai troppo angusta e difficile da irrigare per la scarsità di acqua, decise di trasferire le piante in un vasto terreno precedentemente destinato alle esercitazione della compagnia degli archibugieri che già nel secolo precedente era stato trasformato in un parco paesaggistico all'inglese e dall'inizio del secolo era di proprietà municipale. Fu così che il piccolo orto botanico di Le Gouz si trasformò nel Jardin botanique de l'Arquebuse, oggi uno dei più importanti della Francia. I resti del fondatore non seguirono le sue sorti: esumati una seconda volta, furono trasferiti nella tomba di famiglia. A ricordarlo, nel Jardin de l'Arquebuse fu tuttavia posto un busto in bronzo di pregevole fattura. ![]() Legousia, uno specchio per la dea Da molti anni, il suo nome era stato perpetrato anche in altro modo. Nel 1782 il dottor Durande pubblica Flore de Bourgogne, in cui descrive 1300 specie, classificate seguendo il sistema naturale di Jussieu (è uno dei primi esempi) e coglie l'occasione per ripagare il suo benefattore ribattezzando Legousia arvensis la linneana Campanula speculum-veneris. E' una pianta che cresce comunemente nei coltivi, e piace pensare che Le Gouz, che scrisse anche una memoria sulla fertilità del suolo, la conoscesse, l'amasse e ne avesse parlato con Durande. Il genere Legousia, della famiglia Campanulaceae, comprende erbacee annuali del Vecchio mondo, diffuse da ovest a est tra la Macaronesia e l'Asia centrale e da sud a nord tra il nord Africa e l'Europa centrale, dove vivono in campi aperti (anche come infestanti dei coltivi), foreste sparse, praterie e terreni ruderali. In passato è stata attribuita al genere Specularia o ad altri generi, ma oggi la sua indipendenza è confermata dagli studi filogenetici. Solitamente gli sono attribuite sei specie che differiscono tra loro per particolati del calice e la disposizione dell'infiorescenza. Uno studio recente (2019) riduce le specie a quattro. La più nota è lo specchio di Venere, Legousia speculum-veneris, con fiori viola profondo dai lobi arrotondati raccolti in pannocchie ramificate, che assomiglierebbero a uno specchietto (da cui il nome comune). Un tempo, come papaveri e fiordalisi, era molto comune come infestante dei campi di grano, mentre oggi è diventata più rara a causa dell'impiego di diserbanti. Nel nostro territorio sono presenti anche L. hybrida, con infiorescenza a corimbo, denti del calice più lunghi che larghi e corolla lunga circa la metà del calice, e L. falcata con infiorescenza a spiga, lungo tubo calicino con denti acuminati lunghi il triplo della corolla. Qualche approfondimento nella scheda. Curioso destino, quello del dottor John Boswell, ultimo allievo scozzese di Boerhaave, stimato medico di Edimburgo, collezionista e studioso di cose naturali: per tutti è solo lo zio di suo nipote, lo scrittore James Boswell (che a sua volta vive di gloria riflessa come biografo del dottor Johnson). Eppure, grazie a un atto di generosità, è anche il dedicatario di un genere botanico di enorme importanza culturale: Boswellia, ovvero le piante da cui si ricava l'incenso. ![]() Sacri granelli misteriosi Il sacro profuma d'incenso. Un aroma che aleggia non solo nelle chiese cattoliche, ma nei templi buddisti o indù, nelle moschee e nelle sinagoghe, e che arriva da lontano. La più antica attestazione del suo uso cerimoniale ci porta addirittura nelle tombe dell'antico Egitto 3500 anni fa. Nel suo significato generale, il termine incenso, dal latino incendere "bruciare", può indicare una varietà di sostanze vegetali (resine, foglie, radici, legno, bacche) che quando vengono bruciate emanano un fumo aromatico. Molte sostanze possono rientrare in questa categoria, ma nel significato più specifico il termine designa un gruppo di oleoresine ricavate da diverse specie del genere Boswellia, note come franchincenso, ovvero "incenso vero". Nell'antichità, come è esistita una via della seta, c'era anche una via dell'incenso. Fin dal II millennio a.C., le carovane cariche dei preziosi grani di resina profumata, partite dallo Yemen meridionale, il mitico regno di Saba, la percorrevano per raggiungere l'Egitto, le coste mediterranee, la Mezzaluna fertile, la Persia, mentre le navi, cariche di questa e altre merci preziose, salpavano per l'India. I migliori clienti divennero però i Romani, che importavano da quella che chiamavano Arabia Felice enormi quantità di thus o olibanum (adattamento del gr. libanon, a sua volta da una parola semitica che significa "bianco", il colore dei granelli di resina essiccati). Tuttavia, in seguito a una serie di circostanze politiche, il flusso incominciò ad inaridirsi a partire dal III secolo d.C. e nella tarda antichità la via dell'incenso cessò d'esistere. Solo dopo il Mille, e ancor più con le crociate, le chiese europee tornarono a profumare d'incenso. Ma, visto che la preziosa sostanza arrivava in Europa sotto forma di granuli, nessuno sapeva con precisione da quale pianta si ricavasse. Nei libri degli antichi gli studiosi del Rinascimento trovavano informazioni contraddittorie: secondo Teofrasto era un arbusto di modeste dimensioni, molto ramificato, con foglie simili a quelle del pero, con corteccia sottile come quella del lauro; ma ne conosceva anche un'altra varietà, simile al lentisco. Una veniva dall'Arabia, l'altra dall'India. Secondo Diodoro Siculo, si trattava di un'acacia con foglie allungate come quelle del salice. Anche della terra d'origine si discuteva; era opinione comune che arrivasse dall'Arabia, ma qual era la "libanophora regio"? Secondo Plinio, Augusto per scoprirne l'esatta ubicazione aveva inviato in Arabia una spedizione che aveva dovuto tornare indietro sconfitta dal deserto; e concludeva sconsolato che nessun autore latino aveva la minima idea di quale e come fosse la pianta da cui era ricavato. In tanta confusione, gli studiosi più prudenti, come Clusius e Ray, evitavano di avanzare ipotesi; Thevet sosteneva fosse la resina di un pino, ma l'opinione prevalente era che derivasse dalla resina di un ginepro, Juniperus thurifera (ipotesi inconsistente, trattandosi di una specie del Mediterraneo occidentale). Linneo notò la contraddizione e propose Juniperus lycia, oggi Juniperus phoenicea, che se non altro è presente in tutto il bacino del Mediterraneo, compreso il Libano e la Palestina, ma anche lungo le coste del Mar Rosso e nella penisola arabica. Uno degli obiettivi principali dalla spedizione del suo allievo Pehr Forsskål nell'Arabia Felice era proprio scoprire qualcosa di più sulla misterioso pianta; egli identificò quella da cui si ricava un'altra resina, opobalsamum o balsamo di Gilead, ovvero Commiphora gileadensis, ma sull'incenso non riuscì a sapere nulla. La risposta sarebbe arrivata non dalla penisola arabica, ma dall'India, e non da un linneano, ma da un medico scozzese al servizio della compagnia delle Indie. ![]() Il mistero è stato svelato? Si tratta di William Roxburgh (1751-1815), il "padre della botanica indiana": anche lui un "botanico senza Nobel", visto che purtroppo il genere Roxburghia che gli fu dedicato da W. Jones non è valido. Come sappiamo oggi, il genere Boswellia è relativamente vasto, e comprende una ventina di specie, diffuse in un'ampia area che va dall'Africa tropicale all'India passando per la penisola arabica e il Madagascar. Le specie presenti nel subcontinente indiano sono due, B. ovalifoliata e B. serrata. Quest'ultima, oggi nota come incenso indiano o franchincenso indiano, è una pianta medicinale, un grande albero chiamato salai, ben noto alla medicina ayrvedica, così come la sua resina odorifera che nei trattati medici indiani è nota con il nome sanscrito kunduru. Da tempi immemorabili, anche in India (che tra l'altro oggi detiene il primato mondiale della produzione di bastoncini di incenso) il fumo (e l'aroma) dell'incenso accompagna le cerimonie sacre, le preghiere e molte occasioni della vita quotidiana; è bruciato in varie forme, ma la più tipica sono dei bastoncini di bambù intinti in miscele infiammabili e profumate, a base di vari ingredienti; uno dei più apprezzati sono proprio i granuli di resina di B. serrata, che in lingua bengali si chiama luban, un nome che richiama immediatamente il misterioso olibanum. A segnalare a Roxburgh la resina e a suggerire la sua identificazione con l'olibanum sembra sia stato il chirurgo della residenza di Naipur, D. Turnbull. Il botanico scozzese esaminò la pianta e ne scrisse la descrizione, anche se non la pubblicò direttamente; come faceva spesso, affidò i suoi appunti a un amico, l'orientalista H.T. Colebrooke, che la inserì in un articolo comparso nel 1807 su Asiatic Researches in cui sosteneva che la pianta dell'incenso andava identificata con questo albero indiano; Roxburgh l'aveva denominata Boswellia serrata, ovvero B. con foglie seghettate; da parte sua Colebrooke era così sicuro dell'identificazione che suggeriva di chiamarla Lebanus thuriferus, ovvero Lebanus produttore di incenso. In realtà non era proprio così, ma prima di raccontare questa parte della storia, è ora di fare conoscenza con l'uomo che ha dato il nome al genere Boswellia, il dottor John Boswell di Edimburgo. Come si è guadagnato la dedica è presto detto: negli anni in cui studiava all'Università di Edimburgo, il giovane Roxburgh, uno studente brillante ma privo di mezzi, era stato ospitato nella casa del dottor Boswell; la famiglia Boswell, piuttosto nota e influente, doveva anche aver messo una buona parola per farlo assumere come chirurgo di bordo dalla Compagnia delle Indie. Insomma, il botanico aveva un debito di riconoscenza con il suo vecchio benefattore, con cui strinse anche legami familiari, visto che la sua terza moglie, Mary Boswell, non era altri che la nipote del nostro dottore. ![]() Un medico colto, affabile ed eccentrico Per me, e forse per tutti, John Boswell è soprattutto lo zio di Boswell, ovvero del celebre scrittore James Boswell (1740-1795), il biografo del dottor Johnson. Conosciamo il suo volto da un ritratto a olio, dipinto da C. R. Parker e conservato nelle collezioni del Royal College of Physician of Edinburgh, e il suo carattere da alcune righe di chi lo conobbe all'inizio e alla fine del suo percorso esistenziale. Nelle collezioni del Royal College è conservata anche la sua cassa da dottore, donata da un bisnipote di Roxburgh. A farci conoscere il giovane John Boswell, all'epoca venticinquenne, è un altro medico scozzese, Isaac Lawson, amico e corrispondente di Linneo; nella sua lettera del 2 novembre 1736, egli lo descrive come un giovanotto molto colto e dotato, ben noto negli ambienti colti di Edinburgo. Ha molto gradito la copia di Musa Cliffortiana datagli da Lawson e in cambio sarebbe felice di donare a Linneo una copia della sua tesi di laurea, De ambra, che ha discusso il giorno prima ed è stata appena stampata. Fratello minore di Alexander Boswell, il padre del biografo, John Boswell, come tanti studenti di medicina scozzesi, era dunque venuto a Leida per seguire le lezioni di Boerhaave, anzi è considerato l'ultimo degli "uomini di Boerhave". Tornato a Edimburgo, divenne un ottimo professionista e uno stimato membro dell'establishment medico cittadino; nel 1748 fu ammesso al Collegio dei medici, di cui fu tesoriere dal dicembre 1748 al 1756 e di nuovo dall'agosto 1758 al dicembre 1763; ne fu poi presidente dal dicembre 1770 al 1772. Abitava in una confortevole casa a sud della collina del castello, nota come Boswell's Court, proprio quella dove ospitò Roxburgh, che doveva essere amico di uno dei suoi otto figli, Bruce. Sappiamo che era massone (una tradizione di famiglia) e che tra il 1753 e il 1754 fu Primo grande guardiano della Grande loggia di Scozia; secondo F.A. Pottle, curatore dei carteggi del nipote, era un "medico abile, ma decisamente eccentrico". Un'eccentricità che si manifestava soprattutto nelle sue scelte religiose: abbandonò la chiesa ufficiale per aderire alla setta dei Galassiti, ma ne fu cacciato e scomunicato per la sua abitudine di frequentare le case chiuse. Era anche un uomo generoso: oltre ad ospitare Roxburgh e ad aiutare la sua carriera, protesse il poeta Allan Ramsay che gli dedicò alcuni versi. Il nostro migliore informatore su John Boswell è però il famoso nipote. L'eccentrico zio era indubbiamente il più caro dei suoi parenti, e anche se non si frequentavano spesso ogni incontro era una festa per entrambi. Una di queste visite, quella del 26 ottobre 1726, suggerì a James questo sintetico ritratto: "E' un uomo degnamente affettuoso, un buon medico, un compagno gradevole e un grande virtuoso" (espressione che all'epoca indicava uno studioso dilettante e un collezionista). Il sogno di James era sicuramente far incontrare i suoi due idoli: il caro zio e il dottor Johnson. E l'incontro avvenne nel novembre 1773, come ricorda lo scrittore nel suo Diario delle Ebridi: il dottor Johnson "ha trascorso una mattinata con mio zio il dottor Boswell che gli ha mostrato il suo museo di curiosità; e, dato che è uno studioso elegante e un medico allevato alla scuola di Boerhaave, il dottor Johnson ha gradito la sua compagnia". Settantenne, il simpatico dottore morì il 15 maggio 1780 dopo una lunga malattia che lo aveva lasciato mezzo morto per un anno, come ci informa ancora il nipote James. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Boswelliae d'India, d'Arabia e d'Africa Adesso che sappiamo tutto del dottor Boswell, torniamo a Boswellia. L'identificazione di Roxburgh e Colebrooke fu accettata dagli ambienti colti britannici, tanto più che la Compagnia delle Indie ne approfittò per importare in Inghilterra l'incenso indiano pubblicizzato come il "vero" incenso. Tuttavia non è lo è; è sicuramente di ottima qualità, ma è più balsamico, con maggiori sentori legnosi. Per risolvere davvero il mistero, fu necessario attendere quasi un altro quarantennio. Nel 1846 il dottor H.J. Carter, chirurgo della nave H.M.S. Palynurus, in ricognizione lungo le coste dell'Arabia meridionale, in Oman e nello Yemen meridionale vide e studiò alcuni esemplari che dapprima attribuì alla stessa specie di Roxburgh, ma che più tardi venne identificata come il vero franchincenso, B. sacra. In suo onore una specie somala è stata denominata B. carteri. Come ho anticipato, il genere Boswellia, della famiglia Burseraceae, comprende una ventina di specie; il centro di diversità è lo Yemen, compresa l'isola di Socotra particolarmente ricca di specie endemiche. Da tutte si ricava incenso, ma per la maggior parte delle specie si tratta di piccole produzioni, destinate al consumo locale. Le specie importanti per l'esportazione sono quattro: B. sacra, B. frereana, B. papyrifera e la già citata B. serrata. B. sacra è presente in Yemen, Oman e Somalia settentrionale; è dunque la specie che alimentava la via dell'incenso, il mitico olibanum dell'Arabia felice che già Augusto aveva tentato inutilmente di ritrovare. E' un alberello alto fino a 8 metri, solitamente molto ramificato, con corteccia che si sfoglia, resinoso in tutte le sue parti. Per produrre l'incenso, i raccoglitori praticano delle incisioni nei rami più bassi e robusti; la resina ne fuoriesce in forma di gocce che cristallizzano in superficie, ma continuano ad ingrossarsi finché dopo una decina di giorni sono sufficientemente grandi per essere raccolte. Anche se i granuli potrebbero essere pronti per la vendita dopo una ventina di giorni, in Oman, dove si produce l'incenso di migliore qualità, si usa immagazzinarli in grotte per qualche mese, una pratica che ne migliora la conservazione. B. frereana è originaria della Somalia. E' nota come incenso copto poiché la sua resina è tradizionalmente usata dalla chiesa copta in Egitto; l'80% della produzione è però esportato in Arabia saudita dove viene utilizzato nelle cerimonie legate all'annuale pellegrinaggio alla Mecca. Anche l'incenso copto è di ottima qualità, tanto che è detto anche "incenso dei re". B. papyrfera è la più importante e diffusa specie africana, presente in una vasta area dell'Africa centrale e nord-orientale ( Etiopia, Nigeria, Camerun, Repubblica centro africana, Chad, Sudan, Uganda e Eritrea); è un albero di medie dimensioni alto fino a 10 metri; estremamente resistente alla siccità, è considerato una delle piante più utili e polivalenti di questa regione: oltre alla resina, di eccellente qualità, se ne usa il legname, le foglie come foraggio, diverse parti come medicinali; i fiori sono una importante fonte di nettare e polline per le api. Oggi è minacciata per l'eccessivo sfruttamento e la restrizione del suo habitat, le foreste tropicali aride. Meritano almeno un cenno le specie di Socotra, un'isola che si trova proprio al centro dell'area di diffusione di Boswellia, essendo quasi equidistante dalle coste dello Yemen e della Somalia. In un territorio di appena 3800 km quadrati ne vivono ben sette specie: B. ameero, B. bullata, B. dioscoridis, B. elongata, B. nana, B. popoviana, B. socotrana. B. bullata e B. dioscoridis sono state scoperte e pubblicate solo nel 2001 dal botanico svedese Mats Thulin. Altri approfondimenti nella scheda. Per finire, un'ultima curiosità. Come ho detto all'inizio, in senso generale il termine incenso può essere utilizzato per qualsiasi sostanza vegetale che produce fumo aromatico. E infatti in rete sono presenti moltissimi produttori di "incenso", "incenso religioso", "incenso liturgico", con nomi evocativi come "incenso dei re Magi", "incenso cattedrale", "Bethlem", "Caspar", ecc. Quasi mai è possibile scoprirne la composizione, ma è evidente che sotto l'etichetta incenso può esserci di tutto: franchincenso etiope, yemenita o africano, benzoino, mirra, legno di sandalo, ma anche lavanda, Syderitis, Artemisia, vetiver, e così via. Del resto, diverse piante che nulla hanno a che fare con l'incenso (a bruciare le loro foglie si otterrebbe soltanto fumo... senza arrosto, ovvero senza profumo) vengono chiamate impropriamente "incenso". La più nota probabilmente è Plechtrantus glabratus (sin. P. coleoides). Linneo arriva in Olanda nel giungo 1735, con due propositi: laurearsi in medicina, come esige il futuro suocero per concedergli la mano della promessa sposa Sara Lisa Moraea, e far conoscere al mondo scientifico europeo le sue idee innovative. Nei bagagli ha molti manoscritti. Quello a cui tiene di più è il suo schema per classificare i tre regni della natura: animale, vegetale, minerale. Quando lo mostra al botanico di Leida Jan Frederik Gronovius, quest'ultimo ne è entusiasta e proclama che deve essere immediatamente stampato. Dato che Linneo non ha un soldo, a pagare le spese sarà lui, con il concorso di un altro amico, il "coltissimo scozzese" Isaac Lawson. E' grazie a questo atto d'amicizia che esce la prima edizione dell'opera seminale della moderna sistematica: Systema naturae. Linneo pagherà il suo debito di riconoscenza dedicando ai due finanziatori un genere di piante; a Lawson toccherà Lawsonia, cui appartiene un'unica specie, L. inermis, dalle cui foglie si ricava l'henné. ![]() In Olanda alla ricerca di una laurea... e di uno sponsor Linneo arrivò in Olanda il 2 giugno 1735. Aveva 28 anni, era privo di mezzi, e doveva laurearsi al più presto in medicina: era questa la condizione ultimativa postagli dal dottor Johan Moraeus per concedergli la mano di sua figlia Sara Elizabeth, detta Sara Lisa. Al giovane svedese non mancava la fiducia in se stesso, o se preferite la faccia tosta. Appena sbarcato ad Amsterdam (dove si fermò solo tre giorni) chiese udienza a Johannes Burman, che aveva solo un anno più di lui, ma era già professore universitario e direttore dell'orto botanico. Burman, un uomo pieno di impegni, accettò di incontralo, ma non ne fu minimamente impressionato. La tappa successiva di Linneo fu Harderwijk, una piccola università che richiedeva solo un breve soggiorno per concedere la laurea. Bastarono pochi giorni per sbrigare le formalità, e nell'arco di una settimana egli fu in grado di discutere la tesi che aveva già scritto in Svezia. Il 23 giugno venne proclamato Dottore in medicina. La condizione imposta dal futuro suocero era soddisfatta, ma Linneo era venuto in Olanda con un altro obiettivo: far conoscere (e accettare) le sue teorie innovative al mondo scientifico europeo. Per riuscirci, gli serviva un patrono. Il tentativo con Burman era fallito sul nascere, ma Linneo non si scoraggiò. Appena laureato, si spostò a Leida, il maggior centro accademico olandese, nonché sede del più antico ed illustre orto botanico. E questa volta fece centro. Si presentò a Jan Frederik Gronovius, che non aveva alcuna posizione accademica ma era già un botanico noto per i suoi studi sulla flora americana, e gli mostrò il manoscritto di Systema naturae. Gronovius ne fu entusiasta: non solo scrisse lettere di presentazione per Burman e il celebre medico Herman Boerhaave, ma decretò che l'opera andava stampata immediatamente. E dato che Linneo non aveva soldi, a finanziare la stampa sarebbe stato lui, con il concorso del "coltissimo scozzese" Isaac Lawson (così Linneo stesso lo presenta nella prefazione di Systema naturae). ![]() Una vita attraverso le lettere Isaac Lawson si trovava in Olanda per la stessa ragione di Linneo: anche lui era deciso a laurearsi in medicina, ma anziché conseguire una laurea lampo nel diplomificio di Hardweijk, stava seguendo regolari corsi presso l'università di Leida, la più prestigiosa del paese. Era una tradizione di lunga data per i medici scozzesi studiare a Leida; ad attirarli era soprattutto la fama di Boerhaave, che insegnò qui dal 1701 al 1731 e educò diverse generazioni di medici scozzesi, noti come gli "uomini di Boerhaave". Non conosciamo nulla né dell'origine familiare né della giovinezza di Lawson; maggiore di Linneo di tre anni, quando si conobbero aveva 31 anni. Visto che, oltre a concorrere alle spese di stampa di Systema naturae, soccorse finanziariamente il nuovo amico in più occasioni, doveva appartenere a una famiglia facoltosa. Per altro, sappiamo abbastanza poco di lui. La nostra fonte principale sono le undici lettere che egli scrisse a Linneo tra il 1735 e il 1744 (non possediamo le risposte), le prime indirizzate formalmente al "doctissimo ac celeberrimo doctore Carlo Linnaeo", le ultime confidenzialmente all' "amico suo praestantissimo". Molte informazioni ci arrivano poi da altri corrispondenti di Linneo, in particolare Gronovius per il periodo olandese e Collinson per quello inglese. A presentare Lawson a Linneo sarà stato probabilmente proprio Gronovius che considerava lo svedese il suo protetto e la sua scoperta. Sicuramente lo scozzese era uno dei membri più assidui dell'accademia informale che si riuniva attorno a Gronovius, dove Linneo estasiava i presenti raccontando le sue avventure in Lapponia (in puro stile barone di Munchhausen) e si esibiva suonando il tamburo vestito con un improbabile costume lappone. L'aiuto di Gronovius e Lawson per Systema naturae non si fermò al finanziamento. L'esilissimo opuscolo di appena dodici pagine richiese ben cinque mesi tra la revisione del manoscritto e la correzione delle bozze; iniziato il 30 giugno, il lavoro finì a dicembre. In tutte questi mesi, i due amici furono a fianco di Linneo come consulenti e editor (per usare un termine moderno) e da settembre, quando lo svedese si trasferì a Hartekamp a lavorare per Clifford, si sobbarcarono totalmente i rapporti con il tipografo e la correzione delle bozze. Negli anni successivi, svolsero lo stesso ruolo di editor per le altre opere linneane stampate in Olanda, in particolare la prima edizione di Genera plantarum e Critica botanica (entrambe uscite a Leida nel 1737). Una trionfante lettera di Gronovius, datata la vigilia di Natale del 1736, informa Linneo che ha appena letto le ultime pagine di Genera plantarum e che è pronto a portarle all'editore; en passant, nelle ultime righe aggiunge che Lawson ha appena ottenuto il titolo di "candidato in medicina", ma non ne va troppo fiero. Possediamo poco meno di una decina delle lettere che Lawson scrisse a Linneo mentre quest'ultimo si trovava a Hartekamp, tra il 1736 e il 1737; riguardano soprattutto la soluzione di problemi editoriali, ma qua e là aprono uno spiraglio sulla vita intellettuale dei due amici: ad esempio, nel settembre 1737, Lawson propone a Linneo di andare a visitare il Museo di storia naturale di Haarlem insieme a un amico comune, il tedesco Johann Bartsch. In un'altra lettera, ringrazia per l'invio di un campione di zinco. Il suo interesse principale era infatti la mineralogia. Secondo gli atti dell'Università di Leida, Lawson ottenne il titolo di dottore in medicina il 28 dicembre 1737 con una tesi sull'ossido di zinco; ma prima di tornare a casa, si concesse un lungo giro in Germania, per visitare le miniere della famosa regione mineraria dello Harz e alcune importanti città. Siamo minutamente informati del viaggio grazie a due lettere a Linneo, la prima inviata da Goslar il 10 aprile 1738, la seconda da Londra il 27 maggio 1739. Il viaggio si protrasse dalla primavera all'autunno del 1738; Lawson visitò le miniere di Zellerfeld e Clausthal, quindi si spostò a Sankt Andreasberg e a Züdlinburg, raccogliendo campioni di minerali per la propria collezione o da inviare ad altri studiosi, tra cui Gronovius. Visitò quindi Berlino, Halle, Lipsia, Dresda e i distretti minerari della Sassonia. Quando arrivò nella celebre città termale di Carlsbad, si rese conto che i suoi piani di proseguire per Praga, Vienna e Ungheria non erano realistici (avrà finito i soldi o la sua famiglia si sarà spazientita?) e tornò in Inghilterra, con una sosta di appena qualche giorno in Olanda per salutare gli amici. Durante il viaggio in Germania, Lawson incontrò molti studiosi. L'incontro forse più importante per la diffusione del metodo linneano nel mondo tedesco fu quello con Johann Joachim Lange ad Halle; Lawson gli mostrò Systema naturae e Lange (che era un teologo, e come naturalista un autodidatta) ne fu così entusiasta che decise di pubblicarne un'edizione tedesca. Questa edizione bilingue (in latino e in tedesco) uscì nel 1740. Nel 1739 Lawson si stabilì a Londra, dove esercitava la medicina. Continuò a corrispondere attivamente con Gronovius e con Linneo (anche se di questo periodo ci sono rimaste due sole lettere); come aveva fatto in Germania, continuò a diffondere il verbo linneano, stringendo amicizia con personaggi come Peter Collison, che insieme al pettegolo Gronovius è la nostra principale fonte per questo periodo. Sono notizie sparse e discontinue, che non formano una biografia ma ci danno un'idea del personaggio. Nel marzo 1739 Lawson prese parte alla seduta della Royal Society in cui fu presentata una copia di Hortus Cliffortianus. Nel 1740 fece pubblicare una lista delle regole a cui dovrebbe attenersi il naturalista per raccogliere e preservare correttamente gli esemplari; Gronovius la tradusse in latino e la inviò a Linneo, suggerendogli di pubblicare a sua volta qualcosa di simile. Nel 1742, quando il Presidente della Reale accademia delle Scienze Abraham Bäck (un altro amico di Linneo) visitò Londra, soggiornò nella stessa casa di Lawson. Sappiamo inoltre (anche se la corrispondenza tra di loro è andata perduta) che il medico fu in contatto con lord Bute, un altro scozzese che aveva studiato a Leida, e fu proprio lui, nel 1741, a proporre a Linneo di dedicare al nobile conterraneo il genere Stewardia. Dell'influenza di Lawson sui linneani ci informa una lettera di Pehr Kalm del giugno 1748, in cui leggiamo che a Londra c'è un nutrito gruppo di seguaci di Linneo: studiano accanitamente le sue opere, ne sanno recitare interi brani a memoria, e "Isaac Lawson è il loro maestro". La notizia è quanto meno curiosa: nel giugno 1748, come vedremo tra poco, Lawson era già morto. La frase di Kalm andrà dunque interpretata in senso metaforico. Quello che sappiamo con certezza è che nel 1747 Lawson divenne medico capo delle truppe britanniche inviate in Olanda a respingere l'invasione francese durante la guerra di successione austriaca, e morì nel corso di questa campagna. Forse fu una delle vittime della battaglia di Lauffeldt del 2 luglio 1747. Una breve profilo biografico nella sezione biografia. ![]() Capelli rossi e tatuaggi rituali Proprio come aveva fatto con Gronovius, dedicandogli Gronovia, Linneo pagò il suo debito di riconoscenza con Isaac Lawson dedicandogli il genere Lawsonia. Lo scienziato svedese amava trovare qualche affinità tra i dedicatari e le piante e spesso nascondeva dietro le sue dediche un ritratto vegetale. Sicuramente lo fece per Gronovius, ma è difficile capire quale relazione vedesse tra Lawsonia inermis, ovvero l'esotica pianta da cui si ricava l'henné, e il generoso medico scozzese. Si tratta dell'unica specie del genere Lawsonia (famiglia Lythraceae). Nonostante il nome specifico (che significo "senza spine") è un grande arbusto spinoso con piccole foglie ellittiche e fiori profumati da bianchi a rosati seguiti da piccole capsule brunastre. La pianta è nota fin dall'antichità per le sue proprietà tintorie: la polvere di henné, ricavata dalle foglie essiccate, fornisce una tintura temporanea; unita a un fissatore, può essere impiegata per tingere stoffe e cuoio, ma il suo uso principale è nella cosmesi e nei tatuaggi. La pianta è coltivata da talmente tanto tempo che ne ignoriamo l'origine precisa; nel corso dei secoli è stata diffusa in un'area vastissima, dal Nord Africa fino al Sud Est asiatico; in alcuni di questi paesi i coloranti a base di henné costituiscono anche un importante prodotto di esportazione. In molte culture l'henné ha assunto un rilevante significato simbolico, religioso, rituale, associato alle feste principali dell'anno e ai momenti di passaggio della vita, in particolare la nascita e il matrimonio. Già gli antichi Egizi lo usavano per colorare le unghie, i capelli, le mani e i piedi delle mummie. In buona parte del mondo islamico e in India i matrimoni sono preceduti da speciali cerimonie durante le quali le mani e i piedi della sposa sono decorati con elaboratissimi tatuaggi tracciati con l'henné, un rito purificatore e apotropaico che dovrebbe allontanare il malocchio e propiziare la fertilità e la felicità del matrimonio. I disegni e lo stesso calore dei tatuaggi variano da una regione all'altra. In India i tatuaggi temporanei creati con l'henné sono anche una forma d'arte. In molte medicine tradizionali, l'henné è anche utilizzato per curare affezioni diverse, tanto da essere considerato una vera panacea. Sembra che in Europa l'uso dell'henné per tingere i capelli, oltre ad essere legato alla moda dell'orientalismo, sia stato diffuso dai preraffaelliti, a partire da Elizabeth Sidall, la moglie e musa di Gabriel Dante Rossetti, che esaltava il biondo-rosso naturale dei suoi capelli con impacchi di henné. Passò poi agli Impressionisti, e lunghi capelli rossi tinti con l'henné divennero quasi un marchio di fabbrica delle ragazze della bohème. La moda sarebbe stata poi rinnovata a partire dagli anni '60 del Novecento dal movimento hippie e dalle tendenze new age, che esaltavano il ritorno alla natura e il recupero dei saperi tradizionali. Altre informazioni nella scheda. Due simboli iconici si incontrano in questa storia: da una parte il saguaro, il cactus gigante dei deserti americani, reso familiare dall'immaginario cinematografico; dall'altra, Andrew Carnegie, incarnazione del sogno americano, multimiliardario che ha ispirato la figura di zio Paperone, a suo tempo considerato l'uomo più ricco del mondo, ma anche celebre benefattore e filantropo. Il punto d'incontro tra i due è una collina nei pressi di Tucson, dove i saguaro sono di casa e dove, finanziato da Carnegie, nacque il Desert Laboratory. Qui li studiarono i botanici Britton e Rose, scoprendo che appartenevano a un genere tutto loro; e in onore del finanziatore, il saguaro divenne Carnegiea gigantea. ![]() Prologo: cactus giganti e film western Chiudete gli occhi e provate a immaginare la scena madre di un tipico film western. Siamo alla resa dei conti: l'eroe, pistola in pugno, sta per affrontare il cattivo. A fare da sfondo, il deserto: terra rossastra, in lontananza le sagome della Monument Valley. La vegetazione è ridotta a pochi cespugli spinosi ma qua e là si stagliano le maestose sagome del cactus a candelabro. Lo state vedendo? E' lui, il nostro primo protagonista, il saguaro, ovvero Carnegiea gigantea, simbolo iconico dei film western; eppure, nella Monument Valley, i saguari non ci sono; e neppure nelle tante location in Utah, Colorado, New Mexico, Texas dove la fantasia di registri e scenografi li ha sparsi a piene mani. In realtà, il saguaro vive solo nel deserto di Sonora, anzi in alcune parti della porzione orientale di questo deserto, in Messico e in Arizona meridionale e occasionalmente nella California sudorientale; il cuore del suo regno è il Parco nazionale dei saguaro, nell'Arizona meridionale, con due sezioni rispettivamente nelle Tucson Mountains e nelle Rincon Mountains. Non lontano dalle Tucson Mountains e dal parco, nel 1939 la Columbia Pictures allestì il set dove fu girato Arizona, diretto da Wesley Ruggles. Al termine delle riprese, la casa di produzione decise di trasformarlo in uno studio cinematografico permanente, dove da quel momento sarebbero stati girati tutti i suoi western. Da allora sono stati oltre 300 tra film e telefilm, tra cui un monumento della cinematografia come Sfida all'OK Corral (1957). E' stato così che i saguaro hanno incominciato ad essere associati ai film western e diventarne un immancabile accessorio di scena, andando a popolare il nostro immaginario e paesaggi dove non esistono in natura. ![]() Primo atto: il miliardario filantropo Altrettanto iconico è anche il secondo protagonista di questa storia, il miliardario Andrew Carnegie, incarnazione del sogno americano "dall'ago al milione" e prototipo della figura di zio Paperone. Come da copione, il nostro nasce in Scozia, arriva in America poverissimo e fa i più diversi mestieri: a tredici anni è un bobbin boy, uno dei ragazzi addetti al cambio e alla raccolta delle spolette in una manifattura di cotone, per dodici ore al giorno, sei giorni su sette, per una paga di un dollaro la settimana; lavora poi in una fabbrica di spolette, quindi passa ad una compagnia locale di telegrafi, prima come fattorino, poi come operatore. A 18 anni (adesso il suo salario è di 4 dollari la settimana) diventa operatore telegrafista della compagnia ferroviaria Pennsylvania Railroad Company e poi segretario di uno dei dirigenti; è un avido lettore, che nel tempo libero legge più che può e studia da autodidatta. A 24 anni diventa sovrintendente della Western Division. Siamo nel 1859 e le ferrovie sono un settore in grande espansione; Carnegie conosce le persone giuste e grazie ai loro consigli fa i suoi primi investimenti proprio nelle ferrovie, prendendo in prestito 500 dollari con un'ipoteca sulla casa di sua madre. Conosce per caso T. T. Woodruff, l'inventore del vagone letto, e insieme a lui fonda una piccola società per sfruttare l'invenzione. Il primo affare importante arriva con la guerra di successione; con la sua esperienza sia nei telegrafi sia nelle ferrovie, Carnegie è incaricato dal governo dell'Unione di ristabilire le linee ferroviarie e telegrafiche tagliate dai sudisti. Il trasporto di truppe e di materiali al fronte fornisce altre opportunità di guadagno. Dopo la guerra, Carnegie lascia le ferrovie, e si lancia nel siderurgico. La prima fabbrica, Cyclops Iron Company, fondata nel 1864 insieme al fratello, assorbe via via alcune fucine della zona e diventa la Union Mill. Produce ferro, un prodotto che il mercato chiede sempre meno, ormai soppiantato dall'acciaio. Durante un viaggio in Inghilterra, Carnegie conosce un nuovo metodo di produzione dell'acciaio, il processo Bessemer, e lo introduce nella sua acciaieria, fondata nel 1872. Da quel momento, sarà un successo travolgente. Combinando innovazione tecnologica, organizzazione efficiente e bassi salari, riesce via via ad assorbire i concorrenti, come la rivale Homestead Steel Works acquisita nel 1883, e diventa l'imperatore dell'acciaio; Pittsburgh è la capitale mondiale di quell'impero. Alla fine degli anni '80 la Carnegie Steel è la più grande produttrice di ghisa, rotaie ferroviarie e coke del mondo. Con i suoi associati, controlla l'integrazione verticale di tutte le fasi produttive, dall'estrazione delle materie prime, alla produzione, alla distribuzione del prodotto finito. Nel 1892 nasce ufficialmente la Carnegie Steel Company, che dà una struttura formale a una ragnatela di interessi ed attività, che include la costruzione di locomotive, ferrovie, ponti, porti, edifici e la proprietà di 18 giornali. Lo stesso anno, mentre Carnegie si trova in vacanza in Italia, le sue acciaierie sono al centro di uno scontro sindacale (Homestead Strike), risolto da suoi associati con l'uso della forza. Carnegie è lontano, ma approva pienamente l'operato dei suoi uomini, compreso l'uso di milizie private e l'uccisione di diversi scioperanti. La sua reputazione ne esce compromessa. E' forse anche per questo che nel 1901, all'età di 66 anni, decide di ritirarsi. Trasforma l'azienda in una società per azioni e vende le sue attività industriali al banchiere John Morgan per la cifra record di 480 milioni di dollari. Le cronache del tempo lo considerano l'uomo più ricco del mondo (gli studiosi lo ritengono il quarto uomo più ricco di tutti i tempi). Da questo momento in avanti, non sarà più un industriale, ma un filantropo; anche se le sue attività filantropiche erano già iniziate da qualche anno, ora saranno la sua occupazione esclusiva. Autodidatta, crede nel valore dell'istruzione, e si impegna nella creazione di biblioteche: per suo impulso ne nasceranno oltre 2500, non solo negli Stati Uniti, ma in tutti i paesi anglofoni. Per gli amanti della musica, il suo nome è perpetrato dalla Carnegie Hall, una delle più importanti sale da concerto del mondo, costruita a New York per sua volontà nel 1890; per quelli delle arti, dal Carnegie Museum of Pittsburgh. ![]() Secondo atto: un laboratorio nel deserto I musei, le fondazioni, le università, gli istituti di ricerca finanziati da Carnegie sono innumerevoli; sono una ventina le fondazioni che portano il suo nome, impegnate nei campi più diversi. Soffermiamoci su una soltanto, Carnegie Institution for Science di Washington. Molto interessato al progresso scientifico, subito dopo il ritiro, il miliardario-filantropo pensò di fondare una università nazionale a Washington, simile ai grandi centri di ricerca europei; temendo però lo scontento delle università già esistenti, vi rinunciò, puntando su un istituto di ricerca indipendente impegnato ad accrescere le conoscenze scientifiche di base. Comunicò al presidente Theodore Roosvelt che era pronto a dotare la nuova istituzione di 10 milioni di dollari; nel 1907 ne aggiunse 2, e altri 10 nel 1911. Inizialmente, l'istituzione finanziò soprattutto ricerche individuali, ma creò anche alcuni laboratori di ricerca. E finalmente stiamo per scoprire qual è il legame tra Andrew Carnegie e il saguaro. Nel 1891 Frederick V. Coville, botanico capo del Dipartimento federale di Agricoltura, aveva esplorato la Death Valley in California ed era rimasto affascinato dalla varietà di forme di vita in un ambiente così estremo. Poco dopo la sua fondazione, egli propose alla Carnegie Institution for Science di finanziare un laboratorio dove studiare le condizioni di vita delle piante dei deserti; l'istituto approvò la proposta e concesse un finanziamento di 8000 dollari. Restava da trovare un sito appropriato: insieme a Daniel T. MacDougal, direttore assistente del New York Botanical Garden, Coville visitò varie aree promettenti in California, New Mexico, Chihuaha, Sonora e Arizona; alla fine la scelta cadde su Tumamoc Hill, un'area collinare ricca di vegetazione ma facilmente accessibile nei pressi di Tucson. Nasceva così il Desert Botanical Laboratory, inaugurato il 7 ottobre 1903. Diretto inizialmente da MacDougal, che mantenne l'incarico fino al pensionamento nel 1928, divenne la base del Carnegie Department of Botanical Research, dotandosi via via di edifici per ospitare lo staff, di una serra, di aiuole sperimentali, di una rivista. Nella primavera del 1906, Volney Spalding, professore in pensione dell'Università del Michigan, che si era trasferito a Tucson in cerca di un clima più mite, propose di delimitare 19 quadrati di 10 metri x 10, e monitorare le piante perenni, identificando, mappando e fotografando tutti gli individui. Era un metodo innovativo che faceva i suoi esordi proprio in quegli anni. Lo stesso anno vennero acquisiti ulteriori terreni e l'intera area fu circondata da una palizzata per tenere lontano il bestiame. Primo laboratorio al mondo dedicato alla flora dei deserti, il Desert Laboratory in pochi anni divenne un'istituzione di punta e uno stimolo per la nascita dell'ecologia negli Stati Uniti; nel 1915, tra i 30 fondatori della Ecological Society of America, sette erano ricercatori del Desert laboratory. Nel 1938, in seguito a problemi economici, la Carnegie Institution for Science decise prima di tagliare drasticamente i finanziamenti, riducendo all'osso il personale, poi di liberarsi del laboratorio, vendendolo simbolicamente per un dollaro. Propose l'acquisto all'Università dell'Arizona, che rifiutò; ad accettare fu invece il dipartimento federale delle foreste, che fino al 1956 lo usò come stazione sperimentale. Fu un periodo di sostanziale decadenza, con poche ricerche condotte soprattutto dall'Università dell'Arizona. La quale, nel 1956 si decise ad acquistare il laboratorio: ma invece di pagarlo un dollaro, dovette sborsarne 100.000. Il laboratorio rinacque. Nel 1964, venne realizzato un censimento dei saguaro, da confrontare con la mappa disegnata da Spanding nel 1907; il censimento fu ripetuto nel 1970, nel 1993 e tra il 2011 e il 2012. Nel 1982, furono creati nuovi quadrati per studiare le piante annuali. Nove di quelli creati da Spanding per le piante perenni esistono ancora: è la più lunga serie di dati fornita da quadrati ecologici al mondo. Oggi, con il nome di Desert Laboratory on Tumamoc Hill, è allo stesso tempo un'area protetta che preserva un ambiente unico, un laboratorio di studi ambientali, un'istituzione educativa collegata con l'Università dell'Arizona. Molte informazioni nel sito, inclusi coinvolgenti filmati. ![]() Epilogo: come il cactus gigante divenne Carnegiea Tra i primi progetti del Desert Laboratory, figura la collaborazione con Britton e Rose per la grande ricerca sulle Cactaceae che sfocerà nei magnifici volumi su questa famiglia pubblicati tra il 1919 e il 1923 dalla Carnegie Institution. Fu MacDougal a suggerire a Nathaniel Britton, all'epoca direttore dell'orto botanico di New York, di ampliare la sua ricerca sulle cactacee americane e di chiedere il finanziamento del Carnegie Institution per un progetto molto più ambizioso. Le trattative richiesero tempo, ma alla fine l'istituzione accettò di finanziare le ricerche e la pubblicazione e nel 1912 tanto Britton quanto Rose furono nominati ricercatori associati alla Carnegie. Il progetto si configurò fin da subito come una collaborazione tra l'orto botanico di New York, lo Smithsonian (dove a lungo aveva lavorato Rose) e il Desert Laboratory, che fu anche una delle sue basi logistiche. Tra le piante più caratteristiche di Tumamoc Hill ci sono proprio i saguaro; fu qui che li studiarono Britton e Rose, capendo che dovevano essere assegnati a un genere proprio (all'epoca erano ancora attribuiti al genere Cereus con il nome C. giganteus); era un'ottima occasione per ingraziarsi lo sperato finanziatore, ovvero Mr. Carnegie. Fu così che nel 1908 i due botanici crearono in suo onore il genere Carnegiea, con questa motivazione: "Questo genere è dedicato a Mr. Carnegie. Il Desert Laboratory della Carnegie Institution di Washington, a Tucson, Arizona, è circondato da esemplari tipici di questa pianta unica". Qualche maligno ha osservato che la dedicata era azzeccata non solo per la bellezza e l'unicità di questa specie, ma anche per le sue micidiali spine, evocative del carattere spinoso del dedicatario. Spinosità dimostrata anche in occasione della presentazione della nuova denominazione: inizialmente, Carnegie fu molto lusingato, ma quando scoprì che non si trattava di una nuova specie, ma solo di un cambio di nome, perse ogni interesse. Per inciso, egli morì nel 1919, pochi mesi dopo l'uscita del primo fascicolo di Cactaceae di Britton e Rose. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Sia come sia, da allora il saguaro è Carnegiea gigantea Britton & Rose, unica specie del suo genere. E' un cactus colonnare, con un tronco imponente, che mediamente raggiunge i dieci metri. Il più grande esemplare conosciuto è alto 13 metri e ha una circonferenza di 3 metri. I fusti colonnari hanno in genere 11-15 coste, lungo le quali si trovano areole ben separate, distanziate di circa 2-3 cm tra loro, ciascuna delle quali porta da 15 a 30 spine, lunghe da 5 a 11 cm, che provocano ferite dolorose e facili ad infettarsi. Sono piante a lentissima crescita. Quando nascono, sono minuscole, e a due anni non misurano ancora un cm. Una pianta di 15 anni è alta intorno ai 30 cm, mentre una pianta di un metro ha tra 20 e 50 anni di età. Intorno a 30 anni, incomincia a produrre i primi fiori e i primi frutti, ma la vera maturità arriva tra i 50 e i 75 anni, quando incomincia a sviluppare rami laterali; gli esemplari più vecchi e imponenti ne hanno molti (il record è di 49 rami, o braccia, su una singola pianta): lo sviluppo di molteplici rami è importante per la riproduzione, dal momento che la fioritura avviene soprattutto agli apici di fusti. Molti esemplari, tuttavia, non li sviluppano mai. I rami laterali sono piuttosto diversi dal fusto principale: hanno costolature molto più numerose, poco profonde, con spine più ravvicinate ma molto più brevi e meno acuminate, in modo da permettere l'accesso degli ospiti che impollinano i fiori e si cibano dei frutti. I bellissimi fiori bianchi, di consistenza cerosa, ricchissimi di polline, si aprono nel tardo pomeriggio e durano meno di una giornata; sono impollinati da numerosi animali, tanto diurni quanto notturni: api da miele, pipistrelli e molte specie di uccelli, tra cui colombe dalle ali bianche e diversi colibrì. I fiori sono seguiti da frutti che ricordano i fichi d'India, appetiti dagli uccelli. Ognuno contiene circa 2000 semi; in effetti, anche se hanno un'alta germinabilità, l'aridità e la predazione comportano molte perdite, tanto che si stima che solo l'1% produca una pianticella. Appena nata è minuscola, e ha bisogno di essere protetta per sopravvivere e crescere; a provvedere sono alberi e cespugli, come le leguminose Olneya tesota o Parkinsonia florida, che forniscono ombra e trattengono l'umidità. Negli ambienti più aridi, tuttavia, queste piante sono assenti e i saguaro iniziano la loro vita in mezzo a ciuffi d'erba o cespugli di Ambrosia dumosa o ancora accanto ad altre Cactaceae come Opuntia kunzei. Il saguaro è una specie chiave nel suo ambiente, che provvede cibo, riparo e protezione a molti animali. L'abbondantissimo polline è una fonte di cibo importante per i suoi impollinatori, come lo sono i frutti per le formiche e vari uccelli, in particolare le colombe dalle ali bianche. I picchi Melanerpes uropygialis e Colaptes chrysoides scavano i loro nidi nei tronchi; in genere, li usano per una sola stagione, rinnovandoli ogni anno. I loro nidi abbandonati, attorno al quale la pianta ha prodotto un callo legnoso, si trasformano in case "chiavi in mano" per molte altre specie di uccelli. Anche i nativi hanno sfruttato i saguaro per secoli in vari modi: le costole lignificate degli esemplari morti venivano usate per palizzate e gli antichi nidi dei picchi come cestini; con i frutti si preparavano marmellate, sciroppi e bevande fermentate per le cerimonie religiose. Qualche approfondimento nella scheda. Nel 1817, il matrimonio dell'arciduchessa Maria Leopoldina d'Asburgo con l'erede al trono del Portogallo offre l'occasione per organizzare la prima grande spedizione scientifica in Brasile, le cui frontiere fino ad allora erano rimaste chiuse agli scienziati stranieri. Di grande significato politico e propagandistico per l'Austria, vede anche la partecipazione di due naturalisti bavaresi e di un botanico italiano. Le tensioni interne al gruppo e la turbolenta situazione politica (sono proprio gli anni in cui il Brasile diventa indipendente) ridimensioneranno in parte gli obiettivi; tuttavia, i risultati saranno grandiosi e segneranno una tappa decisiva per la conoscenza della natura brasiliana. Dei cinque botanici coinvolti in questa grande avventura, tre sono dedicatari di generi validi; li ritroveremo in altrettanti post riservati solo a loro, per dedicare almeno un ricordo e un pensiero a Leopoldina, che da adolescente sognò di diventare naturalista e morì forse di dolore, forse di femminicidio da imperatrice del Brasile. A renderle omaggio le svettanti palme del genere Leopoldinia. ![]() Un matrimonio imperiale e una spedizione in terre lontane Dopo la prova del fuoco delle guerre napoleoniche, l'Austria si ritrovò superpotenza. Certo, aveva dovuto subire terribili umiliazioni e Francesco II non era più Imperatore dei Romani, ma semplicemente Imperatore d'Austria; tuttavia governava un territorio raddoppiato, perno della Santa Alleanza, con l'assoluta egemonia sull'Italia. Vienna, sede dell'omonimo congresso, era la capitale diplomatica (e modaiola) d'Europa. Era ora di guardare più lontano. Così, quando il re di Portogallo chiese in moglie una principessa asburgica per l'erede al trono, Pietro di Braganza, Francesco II pur avendo qualche titubanza (le notizie sul pretendente non erano del tutto rassicuranti), convinto dal cancelliere e ministro Metternich, finì per accettare, sacrificando una delle figlie alla ragion di stato. L'alleanza conveniva ad entrambi: al Portogallo, che sperava di limitare l'egemonia economica inglese e cercava aiuto contro il movimento liberale; all'Austria, che contava d'estendere la propria sfera d'influenza all'America latina. Il re del Portogallo era infatti anche re del Brasile, e dal 1808, quando Napoleone aveva occupato la penisola iberica, si era rifugiato con la corte a Rio de Janeiro, divenuta la capitale di fatto del Regno. La scelta cadde sull'arciduchessa Maria Leopoldina. Per lei era ora di sposarsi. Aveva già 19 anni (il futuro marito ne aveva uno in meno) e fino ad allora non aveva avuto proprio la coda di pretendenti. Intelligente, colta, seria, fosse stato per lei avrebbe preferito un destino ben diverso: era appassionata di scienze naturali, soprattutto botanica e mineralogia, e sognava di dirigere la Collezione imperiale dei minerali, un'aspirazione impensabile per una donna del suo tempo. Quando seppe che l'attendeva un matrimonio nel lontano Brasile, l'accettò di buon grado, non solo per senso del dovere, ma anche per il fascino esotico di quella terra, uno scrigno i tesori naturali. La pensava così anche il cancelliere Metternich, appassionato di scienze naturali e amico personale di Humboldt; propose dunque all'Imperatore di approfittare dell'occasione per inviare in Brasile, insieme al seguito di Leopoldina, una spedizione scientifica in grande stile. Fino ad allora le frontiere brasiliane erano state ermeticamente chiuse alla scienza e sponsorizzare la prima spedizione scientifica ufficiale in quel paese avrebbe dato grande prestigio alla monarchia asburgica, con importanti ricadute economiche: accesso a risorse minerarie, legnami pregiati, animali esotici per lo zoo imperiale, piante per i giardini ma anche da naturalizzare, a giovamento dell'agricoltura nazionale, Francesco II, fin da bambino cultore di botanica, tanto da essersi guadagnato il soprannome "imperatore dei fiori", accettò con entusiasmo, affidando a Metternich l'organizzazione logistica della spedizione, incluso l'itinerario, e a Karl Franz Anton von Schreibers, il direttore dell'Imperiale gabinetto di storia naturale, la direzione scientifica. Per l'impresa vennero scelti lo zoologo Johann Natterer, con l'assistenza del cacciatore imperiale e tassidermista Ferdinand Dominik Sochor; il mineralogista e botanico Johann Baptist Emanuel Pohl; il giardiniere Heinrich Wilhelm Schott; il pittore paesaggista Thomas Ender e l'illustratore Johann Buchberger. La spedizione avrebbe dovuto essere diretta da Natterer, ma l'imperatore impose la presenza e la direzione di Johann Christian Mikan, professore di storia naturale a Praga. Una scelta che fu vissuta da Natterer come un affronto personale. Intanto, il re di Baviera Massimiliano I, che si trovava a Vienna per il Congresso, venne a sapere della spedizione e raccomandò due giovani naturalisti bavaresi, lo zoologo Johann Baptist von Spix e il botanico Carl Friedrich Philipp von Martius, che vennero così ad aggiungersi alla lista dei partecipanti. Il 13 maggio 1817 Leopoldina si sposò per procura; insieme al suo seguito, che comprendeva due dei suoi insegnanti, il mineralogista Rochus Schüch e il pittore Frick, tre dame di compagnia, l'ambasciatore imperiale conte von Eltz, Pohl e Buchberger, partì per Livorno, dove avrebbe atteso la flotta portoghese che doveva condurla a Rio. Circa un mese prima, il 9 aprile, il grosso degli scienziati si era già imbarcato a Trieste sulle fregate Austria e Augusta. ![]() Scienziati litigiosi e raccolte naturalistiche Dopo due giorni di navigazione, i due vascelli austriaci incapparono in una violenta tempesta e dovettero rifugiarsi per riparazioni una a Chioggia, l'altra a Pola. Quindi l'Austria, su cui erano imbarcati Mikan, Ender e i due bavaresi, fece direttamente rotta per il Brasile, con una sosta a Malta, giungendo a Rio il 14 giugno. In attesa dei compagni, si dedicarono all'organizzazione logistica della spedizione; un contatto particolarmente utile fu quello con il console russo, il barone Langsdorff, che divenne un punto di riferimento anche nei mesi successivi. Quanto all'Augusta, su cui viaggiavano Natterer, Socor e Schott, fece vela per Gibilterra, dove sostò ad aspettare delle navi portoghesi. L'attesa si prolungò oltre ogni aspettativa. Infatti i vascelli Joao VI e São Sebastião, con a bordo la principessa e il suo seguito, salparono da Livorno solo il 5 agosto. A bordo troviamo anche una new entry: il botanico Giuseppe Raddi, cui il granduca di Toscana aveva ordinato di unirsi alla spedizione. Le tre navi si ricongiunsero a Gibilterra e salparono insieme per Rio solo il 1 settembre; erano finalmente a destinazione il 4 dicembre dopo una difficile navigazione durata ben 82 giorni. L'inizio della spedizione vera e propria ne risultò fortemente ritardato. Poiché si prevedeva che le fregate austriache avrebbero lasciato il Brasile per il viaggio di ritorno alla fine di marzo o all'inizio di aprile, in accordo con l'ambasciatore von Eltz, i naturalisti optarono per brevi spedizioni, in modo da poterne approfittare per un primo invio. Per ottimizzare le forze, si divisero in tre gruppi; una decisione dovuta anche alle tensioni interne, alimentate dalla rivalità tra Natterer e Mikan e dall'autoritarismo di quest'ultimo. Accompagnati da guide, portatori, personale ausiliario, i tre gruppi poterono mettersi in marcia solo alla fine di gennaio; i due bavaresi, insieme al pittore Ender, si diressero a São Paulo; i due gruppi austriaci, formati uno da Mikan, Schott e Buchberger, l'altro da Natterer, Sochor e Pohl, si divisero l'esplorazione della provincia di Rio, all'epoca ancora ricca di foreste e terre vergini. Raddi, che l'avaro granduca aveva dotato di finanziamenti insufficienti, fu costretto a fare parte per se stesso. Lo ritroveremo in un prossimo post. Il gruppo di Mikan fu costretto a rientrare già all'inizio di marzo, a causa di una brutta caduta da cavallo di Buchberger , mentre la assai più fruttuosa spedizione di Natterer e compagni si protrasse fino ad aprile. Il primo giugno 1818 l'Austria e l'Augusta ripartirono per l'Europa, con varie casse di animali imbalsamati, piante essiccate, conchiglie, semi, qualche animale curioso vivo e vasi di piante rare raccolte da Schott e Pohl. A bordo c'erano anche i due pittori, gravemente malati; Raddi, rimasto senza fondi; e Mikan, cui l'ambasciatore von Eltz aveva ordinato di rientrare a causa della pessima atmosfera creata dal suo autoritarismo. Quando la notizia arrivò in Europa, anche se il rientro di Mikan venne diplomaticamente attribuito al suo stato di salute, chi non aveva simpatia per l'Austria incominciò a mormorare di fallimento. Non era proprio così, ma certamente si trattava di un ridimensionamento degli obiettivi iniziali. In Brasile rimanevano un nutrito gruppo di scienziati austriaci e i due bavaresi. Questi ultimi, non riuscendo a concordare un itinerario comune, si separarono dagli altri e si diressero a nord, intenzionati a esplorare l'Amazzonia. Anche a loro sarà dedicato un post a parte. Gli austriaci concordarono con l'ambasciatore di rimanere in Brasile ancora un anno e mezzo o due anni; tuttavia era chiaro che neppure l'esautorazione di Mikan aveva trasformato quell'insieme di individualisti in una squadra affiatata. Il più disciplinato era indubbiamente Schott, che obbedì a malincuore all'ordine di rimanere a Rio a creare e curare un giardino di acclimatazione per i semi e le piante raccolti nei dintorni; solo dopo circa un anno, quando da Vienna venne inviato in suo aiuto il giardiniere Schücht, poté affrontare alcuni viaggi più lunghi, in compagnia del pittore Frick che si era offerto di sostituire Buchberger come illustratore botanico. Natterer e Socor erano ormai una affiatatissima squadra; avevano intenzione di visitare il Mato Grosso, ma, non avendo ottenuto il necessario passaporto, si diressero a São Paulo, dove misero insieme una ragguardevole raccolta soprattutto di uccelli e insetti, per poi spostarsi a Soracaba e Ipanema. Anche Pohl era molto attivo, anche se i suoi interessi dalla botanica andarono via via allargandosi alle miniere e all'etnografia; nell'arco di circa due anni, i suoi viaggi lo portarono nelle province di Rio de Janeiro, Minas Gerais, Goias, Bahia. Tuttavia a causa del deterioramento della situazione politica dopo il rientro di Giovanni VI in Portogallo, alla fine del 1820 von Elck convocò i naturalisti a Rio de Janeiro e ordinò loro di rientrare prontamente in Europa. Pohl e Schott obbedirono: il primo si imbarcò nell'aprile 1821 per Amsterdam insieme a Schücht e una coppia di indios Botocudo, che al loro arrivo a Vienna divennero l'attrazione del giorno; il secondo a maggio si imbarcò per Lisbona, con 35 casse di materiali raccolti da Pohl e 30 da lui stesso. Natterer e Socor decisero invece di rimanere in Brasile e proseguirono le ricerche, ormai non più al servizio dell'Impero d'Austria, ma come esploratori indipendenti. Rimasto solo per la morte del fedele Sochor (1826), Natterer riuscì a penetrare nel bacino del Rio delle Amazzoni, spingendosi fino al confine con la Bolivia. Il suo viaggio avventuroso, che tra mille difficoltà si sarebbe protratto fino al 1835, segnò una tappa decisiva nella conoscenza della fauna brasiliana, con la scoperta di decine e decine di nuove specie. Non poche portano il suo nome: molti uccelli, come il colibrì gola-cannella Phaethornis nattereri, la pispola petto-ocra Anthus nattereri, il motmot amazzonico Momotus momota nattereri; diversi pipistrelli, come Vampyressa nattereri; il pesce siluride boliviano Farlowella nattereri. ![]() Notarella botanica a mo' d'epilogo Tutti i botanici che parteciparono a questa avventura ebbero la fortuna di tornare in patria, di vivere ancora a lungo e di pubblicare le piante che avevano raccolto in contributi di diversa importanza. Tra tutti spicca la monumentale Flora brasiliens diretta da von Martius, che sarà oggetto di un prossimo post, così come i lavori di Raddi e Schott. Ci rimangono dunque Mikan e Pohl. Johann Christian Mikan (1769-1844), boemo, era figlio d'arte: suo padre era infatti Joseph Gottfried Mikan, professore di botanica e chimica presso l'università di Praga e direttore dell'orto botanico praghese. Studiò medicina e botanica; incominciò a insegnare scienze naturali nella sua alma mater fin dal 1796, divenendo ordinario di storia naturale nel 1800 e di botanica dal 1812, al pensionamento del padre. Nonostante la brevità della sua partecipazione all'impresa brasiliana, le sue scoperte sulla fauna e sulla flora del paese sudamericano, pubblicate in Delectus Florae et Faunae Brasiliensis (1820-1825), sono tutt'altro che trascurabili; tra l'altro, vi si trova la prima descrizione scientifica della scimmia leonina nera Leontopithecus chrysopygus. Tuttavia, era più uno zoologo che un botanico. I generi botanici Kanimia Gardner, Mikania Willd. e Mikaniopsis Milne-Redh. non sono dedicati a lui, ma a suo padre, un botanico molto noto per i suoi lavori sulla flora boema. Molto maggiore per quantità e qualità, in ogni caso, il contributo di Johann Baptist Emanuel Pohl (1782-1834). Anche lui boemo e formatosi all'Università di Praga, nel 1808 si era laureato in medicina. Iniziò la sua carriera di naturalista come bibliotecario e curatore delle collezioni della principessa Kinsky; contemporaneamente insegnava botanica all'Università. Lavorò anche come medico presso gli ospedali militari di Náchod e Praga. Era un naturalista a 360 gradi, che prima della spedizione in Brasile pubblicò lavori sulla flora ceca, sull'anatomia animale e sui fossili. Come abbiamo visto in precedenza, in Brasile fu instancabile, soprattutto nei viaggi in solitaria tra 1819 e 1821. Le sue imponenti collezioni, con oltre 4000 esemplari botanici, andarono ad arricchire il Gabinetto di storia naturale e il Brasilianum, il Museo allestito per esporre al pubblico le raccolte della spedizione. Di entrambi fu nominato curatore. Il suo Reise im Innern von Brasilien "Viaggio nel Brasile interno", in due volumi (1817-1821), fu molto letto e influì grandemente sull'immagine del Brasile in Europa. Alle piante brasiliane dedicò Plantarum Brasiliae icones et descriptiones (1827), un'opera molto curata anche dal punto di vista iconografico, in cui pubblicò diversi nuovi generi. Spiace che questo interessante naturalista non sia celebrato da alcun genere valido. Pohlana Mart. & Nees è infatti stato ridotto a sinonimo di Zigophyllum. Lo ricordano nell'epiteto diverse specie sudamericane, come la brasiliana carapià Stenandrium pohlii, ma anche l'europea Taraxacum pohlii. ![]() La mineralogista mancata che divenne imperatrice Ma allora di cosa stiamo parlando, se dei colleghi di Mikan e Pohl si parlerà altrove? C'è ancora una persona degna di essere ricordata, cui non manca la gloria di un genere celebrativo. Chi? Proprio lei, l'arciduchessa Maria Leopoldina Giuseppa Carolina d'Asburgo Lorena, alias Dona Leopoldina, prima imperatrice del Brasile. La principessa che sognava di diventare direttrice del reale gabinetto di minerali arrivò in Brasile piena di sogni e di speranze. Del neosposo gli avevano fatto un ritratto elogiativo, e a prima vista non rimase delusa. Pedro era indubbiamente un bel ragazzo, ma, ahimè, niente di più. Era rozzo, incolto, e sebbene Leopoldina parlasse fluentemente quattro lingue, finché non padroneggiò anche il portoghese fu difficile persino comunicare. Sembra che a interessarlo fossero solo i cavalli e le belle ragazze (la scialba Leopoldina con il prominente labbro asburgico non rientrava nella categoria). Con il senso del dovere che le era stato inculcato fin dall'infanzia, la principessa si adattò serenamente alla nuova vita. Tra una gravidanza e l'altra (in nove anni di matrimonio ebbe sette figli) cercava di mantenere vivi i suoi interessi naturalistici: leggeva, dipingeva acquarelli botanici, collezionava molluschi, faceva quotidiane passeggiate nella foresta di Tijuca alla ricerca di orchidee; cavalcando all'amazzone andava a caccia e aiutava i tassidermisti a impagliare uccelli e piccoli mammiferi. Nella Fazenda Imperiale di Santa Cruz creò una moderna postazione zootecnica; nel palazzo di Boa Vista, fece allestire una biblioteca costantemente aggiornata con volumi di botanica e mineralogia che ordinava in Europa e un gabinetto di storia naturale, diretto dal suo maestro Rochus Schüch. Diede impulso alla creazione del Museo di Storia naturale, istituito con decreto reale nel 1818. Dona Leopoldina, come la chiamano in Brasile, divenne anche una figura molto amata. Nel 1821, quando Giovanni VI e la corte rientrarono in Portogallo, anziché approfittarne per tornare in Europa, preferì rimanere a fianco del marito e successivamente giocò un ruolo importante negli eventi che portarono alla Dichiarazione di indipendenza. Mentre Pietro si trovava a San Paolo, il 2 settembre 1822 arrivò a Rio il decreto reale che imponeva al principe di tornare in Portogallo e ripristinava lo stato di colonia del Brasile; nella sua posizione di reggente, Leopoldina riunì il Consiglio dei ministri e inviò al marito questo messaggio: "Il frutto è pronto. E' il momento della raccolta". Appena ricevuta la lettera, il 7 settembre, Pietro dichiarò l'indipendenza e si proclamò primo imperatore del Brasile. Secondo lo storico Paulo Rezzutti, molto del merito va proprio a Leopoldina: "Abbracciò il Brasile come suo paese, i brasiliani come suo popolo e l'Indipendenza come sua causa". Sul piano personale, gli ultimi anni di Leopoldina furono molto infelici. Pochi giorni prima dell'Indipendenza, a São Paulo Pietro conobbe una giovane donna, Domitila da Castro, e ne fece la sua amante. Non fu l'unica relazione extraconiugale di Pietro, che aveva già avuto e ebbe contemporaneamente a Domitila molte altre amanti, ma certamente fu la più scandalosa: non solo l'imperatore riconobbe pubblicamente la paternità di una figlia avuta da Domitilla, ma nobilitò l'amante, la nominò dama di compagnia della moglie e all'inizio del 1826 ne impose la presenza in occasione di viaggio ufficiale a Bahia. Leopoldina, come possiamo ricavare dalle lettere alle sorelle, si sentì totalmente umiliata. La sua vita era diventata un inferno; secondo le male lingue, non contento di offenderla di fronte a tutta la corte, Pietro prese anche a maltrattarla e picchiarla. Leopoldina morì non ancora trentenne nel dicembre 1826, dieci giorni dopo un aborto. Su questa morte si accavallarono le dicerie; se la causa più probabile fu una setticemia, secondo alcuni l'infelice arciduchessa, ormai priva di ogni desiderio di vivere, si sarebbe lasciata morire; secondo altri fu vittima di femminicidio: l'aborto che l'avrebbe portata alla morte sarebbe infatti stato causato da un violento calcio del marito. Meglio, molto meglio per lei, se fosse rimasta a Vienna a dirigere il reale Gabinetto dei minerali. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Una palma brasiliana per la principessa che si fece brasiliana A ricordare questa amica della scienza, questa donna intelligente e coraggiosa che il Brasile amò e non ha mai dimenticato, c'è anche un genere di piante, Leopoldinia, che von Martius le dedicò nel 1824 nella sua monografia sulle palme. Per una volta, si tratta di una dedica meritatissima, al di là del solito omaggio cortigiano a una sovrana. Il genere Leopoldinia della famiglia Arecaceae comprende tre specie di palme diffuse nel bacino del Rio delle Amazzoni tra Venezuela, Colombia e Brasile nord-occidentale, nella foresta tropicale umida periodicamente allagata: L. major, L. pulchra e L. piassaba. Le prime due crescono su isole rocciose e sulle rive del Rio Negro e di alti fiumi dalle acque nere e hanno fusto cespuglioso. L. piassaba, che ha fusto unico, cresce invece su isole sabbiose solitamente non allagate, in gruppi cospicui. Mentre la chioma di L. major, una specie rara nota solo in poche stazioni del bacino dei Rio Negro, può emergere sullo stato alto della foresta, le altre due sono specie tipiche del sottobosco. Hanno foglie basali molto fibrose, tanto che le fibre ricavate da L. piassaba, conosciuta come palma da fibra, sono utilizzare per cestini, scope, corde, cappelli e altri prodotti intrecciati. Hanno eleganti foglie pennate, pendule, lunghe fino a 5 metri. Per lo più monoiche, portano fiori maschili e femminili in infiorescenze diverse distribuite alternativamente lungo lo stesso ramo; talvolta tuttavia i fiori maschili spuntano vicino al tronco, mentre quelli femminili all'apice. Raramente possono avere fiori ermafroditi o essere dioiche. Qualche informazione in più nella scheda. Il Rancho Santa Ana Botanical Garden (RSABG) è una delle più importanti e benemerite istituzioni botaniche della California (anzi, degli interi Stati Uniti). Situato a Claremont, a est di Los Angeles, è il più ricco giardino botanico dello stato integralmente dedicato alla flora locale, con 22.000 piante native appartenenti a 2000 tra specie, ibridi e cultivar. Svolge anche una rilevante attività di ricerca e formazione, con un dipartimento di ricerca specializzato in tassonomia e botanica evolutiva; offre corsi di laurea di secondo livello e stage post laurea, in collaborazione con l'università Pomona di Claremont. Pubblica una rivista e altre pubblicazioni scientifiche. Custodisce una biblioteca specializzata, un archivio di 23.000 documenti (incluse fotografie e illustrazioni botaniche originali), un erbario di 1.200.000 esemplari che comprende tutte le specie della area floristica californiana; promuove la conservazione della flora della California meridionale attraverso una banca dei semi, la salvaguardia, la riproduzione e la diffusione delle sue specie; in campo orticolo, è attivamente impegnato nel produrre e testare nuove cultivar. Organizza innumerevoli attività per le scuole e le comunità locali. Tutto questo è nato dal sogno di una donna tenace e volitiva, Susanna Bixby Bryant, circa 90 anni fa quando solo pochi pionieri si rendevano conto di quanto fosse importante la conservazione delle flore locali. Grazie a uno dei ricercatori che lavorano nel RSABG, da qualche anno a ricordarla contribuisce anche il genere Bryantiella (Polemoniaceae). ![]() Il sogno di una donna di carattere Con circa 6000 specie, un terzo delle quali endemiche, la California è lo stato con la flora più ricca degli Stati Uniti. Ma già all'inizio del '900, dopo che la Febbre dell'oro vi ebbe riversato migliaia di uomini in cerca di fortuna, quel tesoro naturale incominciava ad apparire in preoccupante e veloce declino per la pressione delle coltivazioni e dell'urbanizzazione e l'invasione di piante aliene. Tra i primi a rendersene conto, Theodore Payne (1872-1963), giardiniere e vivaista inglese trapiantato in California, dove si era innamorato della peculiare e variegata flora della patria d'adozione. Cominciò così a raccogliere bulbi e semi in natura e a moltiplicarli nel suo vivaio di Los Angeles, specializzandosi nella coltivazione di piante locali. Nel 1915 la città di Los Angeles gli affidò la sistemazione di un'area di 20.000 metri quadri nell'Exibition Park, nel quartiere centrale della città; Payne usò esclusivamente piante native, piantandone 262 diverse specie. Fu probabilmente questa realizzazione di Payne ad ispirare a Susanna Bixby Bryant, una dama dell'alta società californiana, il progetto che avrebbe portato alla nascita di Rancho Santa Ana Botanical Garden. La giovane donna era nata in una famiglia di ricchissimi latifondisti, proprietari di immensi ranch gestiti con modalità industriale, ed aveva trascorso la prima infanzia in una delle proprietà dei Bixby, Rancho Los Alamitos, dove grazie al padre, un imprenditore dalle idee innovative, aveva sviluppato un forte legame con la natura di quei luoghi così particolari, tra mare, colline e deserto. Rimasta presto orfana, fu inviata in un ottimo collegio di Boston dove ricette un'educazione formale insolita per le ragazze dell'epoca, quindi viaggiò a lungo con la madre in Europa e altrove. Al suo ritorno in California, nel 1904, si sposò con Ernest Albert Bryant, il medico personale del magnate delle ferrovie Henry Hungtington (che proprio in quegli anni stava facendo costruire un giardino botanico ricco di essenze esotiche a San Marino, oggi una delle maggiori attrazione dell'area di Los Angeles). Nel 1906, quando la madre morì, Susanna si trovò comproprietaria, con il fratello, di due vaste proprietà, Rancho Los Alamitos e Rancho Santa Ana; decise che ne aveva abbastanza di dividere le sue giornate tra tè, ricevimenti e riunioni di comitati di beneficenza, e, prima donna a farlo, incominciò a gestire di persona l'azienda, dove piantò aranci, noci, peri, melograni e sperimentò nuove introduzioni come pompelmi e litchi. Da tempo desiderava fare qualcosa per onorare la memoria del padre, che aveva perso quando aveva solo sette anni ma non aveva mai dimenticato. Il giardino californiano creato da Payne all'Exibition Park le diede l'idea che cercava: avrebbe trasformato una parte del Rancho Santa Ana (di cui nel frattempo aveva acquisito l'intera proprietà) in un orto botanico interamente dedicato alla flora californiana e l'avrebbe intitolato alla memoria del padre John William Bixby. Non si sarebbe trattato di un giardino privato di piacere; Susanna lo concepì fin da subito come un'istituzione pubblica, con compiti di conservazione, ricerca ed educazione. Per definire il progetto, si avvalse della consulenza di vari esperti, in particolare lo stesso Payne e il professor Willis Linn Jepson dell'Università di California, autore di una flora californiana di riferimento. Il progetto incominciò a prendere corpo nel 1926. All'interno del Rancho Santa Ana, la signora Bryant scelse un terreno singolarmente adatto per riprodurre, sebbene in miniatura, i diversi habitat della California: esteso su circa 160 acri sulle colline lungo il fiume Santa Ana tra 130 e 340 m. sul livello del mare, presentava una grande varietà di suoli e esposizioni, dal pieno sole all'ombra profonda; al momento, era uno spazio nudo, quasi privo di alberi. Prima di iniziare i lavori, ella volle comunque ancora sentire il parere del patriarca della botanica americana, Charles Sprague Sargent, il direttore dell'Arnold Arboretum di Boston. La risposta del burbero botanico fu deludente: a suo parere, riprodurre i vari ambienti della regione e piantare ogni tipo di pianta era assolutamente sconsigliabile; sarebbe stato meglio limitare lo spazio destinato all'arboreto e accontentarsi di una selezione di specie capaci di vivere senza irrigazione, che una volta cresciute avrebbero potuto fare da sé. La signora Bryant non si lasciò scoraggiare e replicò con un pizzico di ironia: "In maniera squisitamente femminile, ho deciso di correre il rischio e intendo procedere con il mio progetto iniziale". Accettò tuttavia il secondo consiglio di Sargent: affidare la progettazione a Ernest Braunton, architetto del paesaggio dell'Università della California meridionale. I lavori iniziarono nel 1927; i primi sette anni vanno considerati sperimentali: furono occupati nella costruzione di una serra, della direzione e degli altri edifici necessari, nella messa a dimora delle piante, inizialmente procurate da Payne, ma poi raccolte dal piccolo staff del giardino (di cui fin dall'inizio fece parte un botanico) in spedizioni in natura, e soprattutto nella verifica della fattibilità del progetto. Nel 1934 Susanna e i suoi collaboratori decisero che la prova era superata ed era ora di trasformare il giardino in un'istituzione formale. Con la stesura dello statuto, la creazione di una fondazione, la nomina di un consiglio d'amministrazione (Trustee), il conferimento di un capitale sociale (grazie a una donazione della signora Bryant) nacque così ufficialmente il Rancho Santa Ana Botanical Garden (RSABG). Negli anni successivi l'orto botanico continuò a crescere, con la creazione di alcuni "giardini speciali": quello dei cactus, quello delle succulente (dedicato in particolare ai generi Sedum e Dudleya), la collezione dei Penstemon, il giardino dei bulbi, quello delle piante acquatiche e di palude, il felceto, il prato naturale di fiori selvatici (con piante della prateria come Clarkia, Gilia, Phacelia). Parallelamente si sviluppò l'attività di ricerca e formazione, in collaborazione sempre più stretta con Pomona University di Claremont, grazie all'arrivo a Santa Ana in qualità di botanico di Philip Munz, grande esperto di flora dei deserti, che insegnava botanica in quella Università. Furono creati un erbario e una biblioteca; vennero organizzate mostre, conferenze, visite guidate; nel 1948 incominciò anche la pubblicazione di una rivista semestrale, Aliso (dal nome locale del platano della California o sicomoro, Platanus racemosa), che poi si sarebbe specializzata in tassonomia e botanica evolutiva. In quel momento, già da due anni la signora Bryant non c'era più: era infatti morta all'improvviso nel 1946; una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Una grande istituzione botanica Al momento della scomparsa di Susanna Bixby Bryant, l'istituzione nata dal suo sogno e dalla sua determinazione era ormai in grado di reggersi sulle sue gambe. Da tempo la signora Bryant e i suoi collaboratori pensavano che la collocazione del giardino, pur eccellente sotto molti punti di vista e così colma di significato simbolico e affettivo, fosse però troppo periferica per permettere la frequentazione continuativa degli studenti e dei dottorandi di Claremont. Fu così che, senza tradire la volontà della fondatrice, nel 1950 il giardino venne trasferito nell'attuale sede, ai piedi della collina San Gabriel a Claremont; invariati rimanevano gli obiettivi: in primo luogo, la conservazione della flora della California attraverso lo sviluppo delle collezioni vive del giardino botanico; il suo studio attraverso la ricerca sul campo, i laboratori, la collaborazione con l'Università; la divulgazione della conoscenza delle piante native e la loro diffusione in giardini pubblici e privati. Oggi il RSABG è una grande istituzione scientifica, retta da un nutrito staff professionale ma anche dall'entusiasmo di centinaia di volontari; è aperta alle scuole e al territorio, ospita stages di formazione e i corsi di dottorato in botanica dell'Università di Claremont; ha un dipartimento di ricerca specializzato in sistematica e botanica evolutiva; si è dotato di una banca dei semi e partecipa attivamente ai progetti di reintroduzione con semenzali prodotti e testati nei propri vivai. Per altre informazioni sulle collezioni, i progetti scientifici, i progetti di ricerca, le attività divulgative e didattiche si rimanda al sito del RSABG. Su un'estensione di 86 acri (35 ha), il giardino ospita oltre 20.000 piante native, appartenenti a circa 2000 tra specie, ibridi e cultivar. Si incontrano le prime già a far ombra al parcheggio; tra di loro due esemplari di Juglans californica, il noce della California. Subito dopo l'ingresso, si trova il negozio del vivaio, dove il visitatore può trovare in vendita le piante native e le cultivar sviluppate nel giardino: sono oltre 75, e tra di esse si annoverano numerosi Arctostaphylos, Ceanothus, Fremontodendron, Heuchera. Subito dopo, si passa in mezzo a un prato naturale, Fay's Wildflower Meadows, un tappeto fiorito ricchissimo di specie sempre mutevole nel corso delle stagioni, con il massimo di fulgore tra metà inverno e inizio dell'estate; tra gli altri, ad attirare visitatori, farfalle e colibrì, Eschscholzia californica, Lupinus albifrons e Calochortus clavitus. La visita può proseguire lungo il sentiero facilitato che conduce alla parte bassa o arrampicarsi immediatamente sulla Indian Hill Mesa. Il giardino è infatti diviso in tre settori principali: in basso, l'East Alluvional Garden e le Plant Communities, in alto, con un dislivello di una dozzina di metri, appunto la Indian Hill Mesa, una tipica formazione rocciosa con fianchi scoscesi e cima pianeggiante. L'East Alluvional Garden ospita le piante di vari habitat: le succulente del non lontano deserto di Mojave nel California Desert Garden, le specie costiere nel Costal Dune Garden, la peculiare flora delle isole nel Grafton Channel Island Garden. Di grande impatto la Palm oasis, che riproduce una oasi del Colorado Desert, dominata dall'unica palma nativa, Washingtonia filifera, di cui si possono ammirare esemplari che superano i 20 metri, con le foglie secche lasciate al loro posto, come in natura, a fare da gonnellino e a proteggere dall'arsura. Al limitare di questo settore, si incontra il patriarca del giardino, il Majestic Oak, un esemplare di Quercus agrifolia la cui età stimata è di 250 anni. Su un'area di circa 55 acri si estende il settore più selvaggio del giardino, le Plant Communities, in cui le piante sono lasciate il più possibile allo stato di natura. Qui il momento migliore è l'inverno, dopo che le piogge autunnali hanno risvegliato le piante assopite dai calori estivi. Tra le varie comunità rappresentate, i chaparral della California meridionale e settentrionale, il bosco pedemontano umido, i boschetti di ginepri della California settentrionale nonché comunità specifiche dominate rispettivamente dai pini di Torrey (Pinus torreyana), dai Joshua Trees (Yucca brevifolia), dai ginepri (Juniperus occidentalis). E' un'area ricca di esemplari notevoli, come un altissimo Boojum tree (Fouquieria columnaris), un enorme Big Berry Manzanita (Arctostaphylos glauca), gli spinosi Crucifixion Thorn (Canotia holacantha), le dorate fioriture di Parkinsonia florida e Fremontodendron californicum, le macchie rosa di Chilopsis linearis. La Indian Hill Mesa è il cuore del giardino, di cui ospita anche la direzione, le strutture didattiche e i vivai; vi si trovano un padiglione delle farfalle, il Giardino delle cultivar, un piccolo stagno ombroso dove nuotano le tartarughe, e naturalmente una distesa di arbusti e alberi, tra cui non possono mancare i giganti della California, Sequoia sempervirens e Sequoiadendron giganteum. Possiamo concludere che il sogno di Susanna Bixby Bryant ha dato buoni frutti. ![]() Bryantiella, un fiore per il più arido dei deserti Tra i numerosi botanici che lavorano al RSABG come ricercatori, c'è anche J. Mark Porter, attualmente professore associato di botanica all'Università di Claremont, uno specialista di sistematica e botanica evolutiva. I suoi studi più noti riguardano due famiglie ben rappresentate nella flora californiana, le Cactaceae e le Polemoniaceae. Nel 2000, insieme a L.A. Johnson della Brigham University, ha pubblicato un importante studio su quest'ultima famiglia, in cui ha proposto di staccare cinque piccoli generi da Gilia Ruiz. & Pav., uno dei generi più variegati dei deserti americani. Uno ha voluto dedicarlo alla nostra Susanna, denominandolo Bryantiella. Al momento della sua creazione, gli furono assegnate due specie, con un areale disgiunto: Bryantiella palmeri, un endemismo della Baja California, e B. glutinosa, che vive in diversi ambienti aridi del Cile. Poiché più recentemente (2015) quest'ultima è stata trasferita nel genere Dayia, oggi Bryantiella è un genere monotipico, rappresentata dalla sola B. palmeri. E' un'erbacea che può comportarsi come annuale o perenne, in base al regime delle piogge; ha foglie lineari intere o pennatosette, fusticini sottili, fiori solitari a coppa con cinque lobi bianchi o rosa-violaceo. All'apparenza fragile, si è adattata a uno deserti più aridi del Nord America, il San Felipe Desert in Baja California. Un breve profilo nella scheda. A fare da sfondo alla nostra storia è un braccio di ferro diplomatico, fatto di mosse e contromosse, una guerra di spie che per quasi un secolo contrappose l'orso russo e il leone britannico. E' il Grande gioco, che ragazzini abbiamo imparato a conoscere dalle pagine del romanzo di Kiplig Kim. Tra le prime pedine di quel gioco, a muoversi sulla scacchiera del torneo delle ombre, come lo chiamarono i russi, sono due agenti britannici e un generale russo spericolato, ovvero il nostro protagonista, Vassilij Perovskij. Come protettore delle scienze (ma gli scienziati che lavoravano per lui erano anche, a tutti gli effetti, addestratissime spie), si è guadagnato il genere Perovskia, che dopo un giallo durato dieci anni torna a recuperare il suo nome, mentre non ha mai spesso di donarci le sue azzurrissime fioriture. ![]() Inizia il Grande gioco A partire dagli anni '20 dell'Ottocento, e poi per tutto il secolo, Gran Bretagna e Impero russo furono divisi da una sorda rivalità per l'egemonia sul Medio Oriente e l'Asia centrale. Combattuta, più che sul piano miliare, su quello diplomatico, con un ruolo importantissimo dello spionaggio, fu come una sottile partita a scacchi, fatta di mosse e contromosse: gli inglesi la chiamarono the Great Game, il "Grande gioco", i russi Turniry tenej, il "Torneo delle ombre". Uno dei primi atti di quella partita fantasmatica fu la crisi di Khiva. Situato nell'attuale Uzbekistan, Khiva, insieme a Bukhara, Kazakh e Kokand, era uno dei khanati indipendenti dell'Asia centrale. La Russia aspirava ad annetterli al proprio impero, la Gran Bretagna voleva a tutti i costi preservarne l'indipendenza, convinta che la conquista di quei territori avrebbe fornito allo zar una testa di ponte verso l'Afghanistan, da dove avrebbe potuto minacciare direttamente gli interessi inglesi in India. Posto in posizione strategica tra mar Caspio, Mare d'Aral e bacino dell'Amu Daria, il khanato di Khiva sollecitava la cupidigia russa per ragioni geopolitiche, ma anche economiche: vi veniva prodotto un cotone di ottima qualità, reso tuttavia costoso dal lungo viaggio attraverso le steppe kazake. Inoltre i russi mal tolleravano l'aggressività del khanato, che si rivolgeva sia contro gli altri staterelli dell'area, sia contro la Russia, con la devastazione dei villaggi di frontiera e la cattura di un numero crescente di russi, poi venduti come schiavi. La questione degli schiavi russi offriva allo zar il migliore dei casus belli. Se ne rese perfettamente conto il Foreign Office, che mise in moto il Grande gioco per cercare di eliminare un pretesto tanto perfetto. Su ordine dell'agente britannico in Afghanistan, la vigilia di Natale del 1839, il capitano James Abbott, travestito da afgano, lasciava Herat per raggiungere Khiva, dove giunse alla fine del gennaio 1840. Nonostante i sospetti sulla sua identità, riuscì ad ottenere un'udienza dal khan Quli Bahadur e a convincerlo ad affidargli una lettera per lo zar sulla questione degli schiavi. Tuttavia, mentre tentava di raggiungere Fort Aleksandrovsk in Russia, egli fu tradito dalla guida, derubato, sequestrato, e rilasciato solo mesi dopo, quando i banditi ebbero capito con chi avevano a che fare. Nel frattempo, non avendo sue notizie, i suoi superiori avevano inviato a Khiva un secondo agente, il luogotenente Richmond Shakespear, che, molto più abile o fortunato di Abbott, riuscì a convincere il khan a liberare tutti i cittadini russi sotto il suo controllo e a introdurre la pena di morte per chi continuasse a possedere schiavi russi. Il 15 agosto 1840 Shakespear raggiunse Fort Aleksandrovsk in compagnia di un contingente di russi liberati dalla schiavitù. Il pretesto era stato eliminato, ma troppo tardi: la mossa britannica era stata anticipata da quella russa. Infatti, come Londra sospettava, a San Pietroburgo era già stata scelta l'opzione militare. Fin dal marzo 1839, lo zar aveva ordinato un attacco a Khiva, con l'obiettivo non di annettere il khanato, ma di deporre il khan ostile per sostituirlo con un fantoccio manovrato dalla Russia. A giugno, due reggimenti furono inviati sul fiume Emba, dove venne anche costruito in forte che avrebbe costituito una testa di ponte per il grosso della spedizione; quest'ultima sarebbe partita da Orenburg, situata circa 1500 km a nord di Khiva, per raggiungere la quale era necessaria una lunga marcia attraversando le steppe kazake. Scartata la torrida estate, si decise di far muovere le truppe d'inverno, una stagione solitamente non troppo inclemente in quella regione, che offriva il vantaggio di porre meno problemi di approvvigionamento dell'acqua. Quanto al cibo e al foraggio, i russi avrebbero dovuto portarli con sé in ogni caso. La spedizione partì infine da Orenburg il 16 novembre 1839; comprendeva 3000 effettivi, 2000 ausiliari, 10000 cammelli, 2000 cavalli e migliaia di carri con le vettovaglie, cui vanno aggiunti un numero imprecisato di cammellieri e carrettieri reclutati più o meno a forza tra la popolazione locale. A comandarla, il protagonista della nostra storia, il generale Vasilij Aleksejevič Perovskij. Va detto subito che l'impresa si rivelò un disastro: l'inverno giunse prima del previsto e fu caratterizzato da nevicate e freddo eccezionali. I soldati russi, proprio come era successo a Napoleone nella campagna di Russia qualche anno prima, dovettero fare i conti con il generale inverno. A decimarli non furono le truppe nemiche (non ci fu nemmeno una battaglia), ma la neve, la fame, il freddo, lo scorbuto. All'inizio di febbraio (negli stessi giorni in cui Abbott cercava faticosamente di convincere il khan), Perovskij dava l'ordine di rientrare. A maggio quanto rimaneva del suo distaccamento faceva ritorno a Orenburg, dopo aver perso almeno 1000 uomini e quasi tutti i cammelli. Fu così che nella partita del Grande gioco il primo tempo se lo aggiudicò la Gran Bretagna. Per annettersi Khiva, la Russia dovette attendere fino al 1873. ![]() Un generale spericolato E' ora di concentrarci sul nostro protagonista, il generale Perovskij. La sua vita sembra uscita da un romanzo, di quelli che scriveva suo nipote Aleksej Tolstoj, per non parlare del più illustre cugino di questi, Lev Tolstoj. Era uno degli undici figli nati dalla relazione extraconiugale tra il conte Aleksej Razumovskij, ministro dell'Educazione nazionale, e Maria Sobolevsakaja, una donna colta con fama di filosofa. Non potendo trasmettere loro il proprio cognome, il padre li aveva chiamati Perovskij, nome tratto da una delle tenute di famiglia, Perovo. Ammessi alla nobiltà dagli zar che successivamente servirono, alcuni dei fratelli Perovskij furono personaggi di primo piano della vita russa: Lev fu ministro dell'interno, Aleksei un notevole scrittore (con lo pseudonimo Anton Pogorelskij); una delle sorelle, Anna, sposò il conte Konstantin Tolstoj, da cui ebbe il famoso scrittore Aleksej Tolstoj. Come i fratelli, anche il nostro Vasilij ebbe un'ottima istruzione; iniziò la carriera militare a sedici anni con il grado di capocolonna. Era un giovane ufficiale dalle abitudini eccentriche, come quella di non separarsi mai dalla sua pistola; spesso infilava un dito nella canna e camminava con la pistola carica appesa al dito; una volta accidentalmente partì un colpo, strappandogli una falange. Da quel momento, Perovskij prese a indossare un ditale d'oro, da cui pendeva un occhialino. Nel 1812 (all'epoca aveva solo 17 anni) venne fatto prigioniero dei francesi nel corso della battaglia di Borodino; le sue vicissitudini avrebbero ispirato le avventure di Pierre Bezuchov in Guerra e pace. Liberato, riprese la carriera militare; inizialmente fu attratto dai decabristi, ma poi si legò sempre più all'imperatore Nicola I, che lo nominò aiutante di campo. Il 14 dicembre 1825, in piazza del Senato, mentre difendeva l'imperatore dalla folla inferocita, fu colpito alla schiena da un tronco. Nominato maggiore generale, poi aiutante generale, si distinse nella guerra russo-turca del 1828-29; si racconta che quando una bomba cadde di fronte a lui e a un gruppo di ufficiali, disse semplicemente "Appoggiati", e, appoggiatosi alla montagna, attese con calma lo scoppio, senza fare troppo caso alle schegge che piovevano da ogni parte. In quella guerra fu ferito gravemente e dovette rinunciare al servizio attivo, anche se continuò a servire lo zar come direttore della cancelleria del quartier generale della marina. Nel 1833, con il grado di tenente generale, fu nominato governatore militare di Orenburg, una posizione chiave, come già si sarà capito, per la penetrazione russa in Asia centrale. Oltre a capeggiare la sfortunata spedizione a Khiva, represse con il pugno di ferro le rivolte dei Baschiri e promosse l'esplorazione del territorio, guadagnandosi anche la fama di protettore della scienza. Intendiamoci: Perovskij era sicuramente un uomo colto, ma per lui, come per il sovrano che serviva, le spedizioni scientifiche erano un tassello del controllo economico e militare di un'area ancora ben poco conosciuta e malamente documentata dalle carte, nonché una premessa indispensabile per ogni ulteriore espansione. Tra gli studiosi protetti di Perovskij, il più noto è senza dubbio l'etnologo e lessicografo Vladimir Dal' (1801-1872), che in precedenza era stato militare e arrivò a Orenburg come funzionario del Ministero degli Interni con "incarichi speciali". Negli otto anni (1833-1841) in cui collaborò con Perovskij, visitò in lungo e in largo la regione, raccogliendo testimonianze linguistiche, materiali folclorici e ampie collezioni di animali e piante. Le sue erano spedizioni geografiche e scientifiche, ma anche missioni più o meno spionistiche in un territorio spesso ostile dove la presenza militare diretta non era consigliabile. Non a caso, Perovskij lo volle con sé nella spedizione di Khiva; il suo compito principale avrebbe dovuto essere mappare un territorio per il quale esistevano solo carte molto imprecise, verificando se c'era un collegamento tra il mar Caspio e il mare d'Aral e se era possibile individuare o anche realizzare vie d'acqua navigabili, attraverso le quali il cotone uzbeko potesse raggiungere la Russia in modo più rapido ed economico. Il disastro dell'operazione militare lasciò questi obiettivi allo stadio di progetti. Quanto a Perovskij, dopo il fallimento della spedizione a Khiva, fu momentaneamente richiamato, ma rimase nelle grazie dello zar, tanto da diventare membro del Consiglio di Stato. L'insuccesso non aveva comunque messo fine alle ambizioni russe, che tentarono una strategia diversa. A partire dal 1847, vennero costruite due piazzeforti sul lago d'Aral, a Raymsk e Kazalinsk, provocando le reazioni dei canati di Khiva e Kokand. In questo nuovo quadro, l'esperienza di Perovskij tornava utile; fu così che nel 1851 ritornò a Orenburg, nelle vesti di governatore generale delle province di Orenburg e Samara. Durante il suo secondo mandato iniziò l'esplorazione del bacino del Syr e del lago di Aral, per mezzo di imbarcazioni costruite a Orenburg o giunte dall'estero, smontate e trasportate pezzo per pezzo fino all'Aral a dorso di cammello. Nel 1853 si prese la soddisfazione di prendere la fortezza di Ak-Mecet, ribattezzata in suo onore Perovsk; riuscì poi a negoziare un trattato favorevole con il suo vecchio nemico, il khan di Khiva. Poco dopo si ritirò per ragioni di salute. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Il giallo del genere Perovskia L'intreccio tra esplorazione geografica, spedizioni scientifiche, spionaggio ed espansione militare è ben visibile anche nella biografia di un altro protetto di Perovskij, il naturalista Grigorij Karelin, che visitò il governatorato di Orenburg più volte e fu ospite del generale durante il suo primo mandato. Precedentemente aveva partecipato all'esplorazione del bacino del Caspio, con un ruolo a metà tra il geografo-naturalista e la spia; del resto in origine egli era un funzionario del Dipartimento asiatico del Ministero degli esteri. Insomma un'altra pedina del Grande gioco, un collega dei britannici Abbott e Shakespear. Si deve proprio a Karelin se Perovskij è entrato nell'olimpo dei dedicatari di un genere botanico. Fu lui nel 1841 a intitolargli Perovskia, con la seguente motivazione: "Ho dedicato questo genere in onore di V.A. Perovskij, uomo molto illustre, fautore delle scienze, governatore militare della provincia di Orenburg". Il genere Perovskia, della famiglia Lamiaceae, comprende nove specie (più un ibrido) di suffrutici a foglia caduca originari di zone aride e rocciose dell'Asia centrale, con qualche propaggine in Iran e nell'Himalaya occidentale (ovvero, molto opportunamente, il territorio dove si giocarono le principali partite del Grande gioco). Per i botanici però è stato anche il protagonista di un'altra più incruenta partita, che ha rischiato di cancellarlo dalla tassonomia (o per lo meno, di ridurlo al rango di sinonimo). Nel 2004 un'équipe di studiosi statunitensi e messicani pubblicò uno studio che destò grande scalpore: poiché tutte le evidenze dimostravano che l'importantissimo genere Salvia era polifiletico (dunque artificiale), per risolvere il problema proposero di allargarne i confini, includendo cinque piccoli generi minori che vi risultavano annidati, due dei quali molto importanti per giardinieri e coltivatori: appunto Perovskia e Rosmarinus. In forza di questa proposta, che fu largamente accettata, Perovskia atriplicifolia diventava Salvia jangii e (ahi dolore!) Rosmarinus officinalis si trasformava in Salvia rosmarinus. Anche se questa è ancora la situazione registrata in molte fonti, incluso Plants of the World on line, il quadro da allora è ulteriormente cambiato. Nel 2012 tre ricercatrici dell'Università di Mainz pubblicarono un articolo in cui sostenevano che la proposta di un grande genere Salvia andava rigettata; semplificando e sintetizzando, facevano notare che se Perovskia e Rosmarinus erano davvero annidate nel gruppo (clade) di Salvia cui erano stati assegnati, avrebbero dovuto essere più recenti delle altre specie dello stesso gruppo, mentre risultava vero il contrario. Sarebbe stato più opportuno, concludevano, ripristinare i generi satelliti e dividere ulteriormente Salvia. Le ricerche sono continuate e hanno confermato questa linea; in un articolo del 2017 altri ricercatori tedeschi affermano tranquillamente "E' ora di dividere Salvia" e propongono di suddividerlo in sei generi, due dei quali sono appunto Perovskia e Rosmarinus. Negli anni in cui i tassonomisti così dibattevano, complice il riscaldamento globale, almeno una specie di Perovskia, appunto P. atriplicifolia, diventava una star dei giardini di fine estate. E' un grande arbusto eretto (anche se, senza sostegni, tende ad afflosciarsi) con fusti e foglie quasi argentei che tra fine estate e inizio autunno si ricopre letteralmente di spighe di fiori azzurri, richiamo irresistibile per api e farfalle. Estremamente rustica, resistente alla siccità, di abitudini parche, è a suo agio nelle aiuole assolate anche con suolo povero, Del resto arriva dalle steppe e dagli altopiani dell'Afganistan, del Pakistan e dell'Himalaya occidentale, anche se è per lo più nota come "salvia russa". Qualche informazione in più sulle sue numerose cultivar e sulle altre specie nella scheda. |
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Pronti a sfogliare il quinto calendario dell'Avvento? dal 1 dicembre a Natale, dietro ogni casella una pianta endemica o rara della nostra flora. calendar.myadvent.net/?id=8b089xwwhdfg8sfkltlu5himuqh28up6 CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2023
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