Il ricordo di Crateva, medico personale di Mitridate e autore di uno dei primi trattati sulle erbe, è affidato a poche righe di Plinio e di Dioscoride, nonché a un'immagine del più antico codice illustrato della Materia medica. Tanto è bastato agli studiosi per farne il padre dell'illustrazione botanica. A questo precursore, in ogni caso, Linneo volle dedicare il genere Crateva, cui appartengono alcuni bellissimi alberi della flora tropicale. Padre dell'illustrazione botanica? Abbiamo già incontrato Crateva (o Crateuas) come medico personale di Mitridate e direttore della sua equipe di studiosi di veleni e antidoti. A questo personaggio, citato sempre con elogio, dedicano poche righe tanto Dioscoride quanto Plinio. Così ne parla Dioscoride nella prefazione di Materia medica: "Crateva il rizotomo e Andrea il medico - poiché sembra che questi due abbiano trattato questa parte della materia con maggiore rigore di chi li aveva preceduti - descrissero le proprietà di molte radici utili e di alcune erbe". Nel corpo del trattato, lo cita poi a proposito dell'helenion egiziano e dell'halimus. Quanto a Plinio, lo ricorda nel libro XXV di Naturalis historia, dove traccia una breve storia dello studio delle erbe medicinali, insieme a altre due personaggi di cui non sappiamo altro: "Crateva, Dioniso e Metrodoro adottarono un metodo più attraente, anche se non privo di difficoltà. Infatti dipinsero le immagini delle erbe scrivendone sotto gli effetti. Ma non solo la pittura è ingannevole quando i colori sono tanti e si cerca di riprodurre la natura, ma, oltre a questo, molte imperfezioni vengono aggiunte dalla scarsa accuratezza dei copisti. Inoltre, non è sufficiente riprodurre una pianta in un solo periodo dell'anno, visto che cambia il suo aspetto nel corso delle quattro stagioni". A proposito dei suoi rapporti con Mitridate, Plinio ci informa che era il suo medico personale e che gli dedicò un trattato sulle erbe (Rhizotomikon). In una delle miniature del Dioscoride di Vienna, il prezioso codice miniato approntato nel VI secolo d.C. per la principessa bizantina Anicia Giuliana, Crateva è ritratto insieme ad altri sei medici, tra cui l'Andrea citato insieme a lui, lo stesso Dioscoride e Galeno. Anche quest'ultimo lo cita tra i suoi predecessori, in particolare come inventore di quel mithridatium da cui egli trasse la ricetta della teriaca. Da questa manciata di notizie, gli studiosi hanno cercato di estrarre qualcosa di più. A inizio '900, lo studioso di Dioscoride Max Wellmann attribuì a Crateva undici frammenti del codice di Vienna; altri eruditi sono giunti alla conclusione che le miniature che accompagnano questi frammenti (ma anche altri attributi ad altre fonti) risalgano a copie dell'opera originale di Crateva. Diversi studiosi affermano senz'altro che Crateva è niente di meno che l'autore del primo erbario illustrato e qualcuno si è spinto fino ad asserire che le immagini le avesse dipinte egli stesso. Con maggiore prudenza, altri fanno notare che tra il Dioscoride di Vienna e il Rhizotomikon di Crateva sono passati circa seicento anno (e tra Crateva e Plinio circa duecento); nel frattempo saranno state eseguite innumerevoli copie dei manoscritti originali, mentre mutavano anche i supporti scrittori (con il passaggio dai rotoli di papiro degli scrittori antichi al codice di pergamena del testo bizantino) e di conseguenza le tecniche pittoriche. Insomma, non abbiamo alcuna prova che Crateva sia stato il primo a produrre un erbario figurato (del resto, Plinio lo cita insieme ad altri due, non meglio noti), e che avesse dipinto le immagini di persona appare quanto meno improbabile; "dipinsero" può infatti semplicemente significare "effigiarono, fecero dipingere". E' certo invece che fu un medico rinomato che unì alla competenza medica una conoscenza approfondita delle virtù medicinali delle erbe. Un'unione sottolineata dall'appellativo "rizotomo" attribuitogli da Dioscoride: questo termine, letteralmente "tagliatore, quindi raccoglitore, di radici" nell'antica Grecia designava coloro che raccoglievano e vendevano le droghe medicinali. E' possibile che Crateva sia stato il primo a dare dignità scientifica a questa professione, scrivendo di piante medicinali con una competenza ben maggiore dei suoi predecessori. Non abbiamo motivo di dubitare della testimonianza di Plinio e possiamo senz'altro ritenere che quell'opera fosse illustrata, anche se difficilmente lo scrittore romano avrà potuto consultare l'originale. E sicuramente fu una delle fonti principali di Dioscoride, anche se oggi non condividiamo più le certezze di Wellmann sull'entità del suo contributo. Nel sezione biografie, qualche cenno alla vita di Crateva (di cui però sappiamo davvero pochissimo). Alberi sacri e fioriture spettacolari Bene quindi fece Linneo a ricordarsi di questo precursore dello studio della botanica applicata alla medicina dedicandogli il genere Crateva (già pubblicato nella prima edizione di Genera plantarum del 1737, fu confermato in Species Plantarum 1753). Crateva, delle famiglia Capparaceae, è un genere pantropicale (con l'eccezione dell'Australia) che comprende da 9 a 15 specie, con principale centro di diffusione nel sudest asiatico e centro secondario in Madagascar. Si tratta di arbusti o alberi di piccole e medie dimensioni, perenni o decidui in base alle condizioni ambientali, con chioma folta e grandi foglie composte trifogliate; hanno fioritura spettacolare grazie alle grandi cime di fiori generalmente bianchi o poi crema, caratterizzati da quattro petali unguiculati (cioè con la base ristretta simile a uno stelo) disposti quasi orizzontalmente e lunghissimi stami (per questa particolarità alcune specie sono state soprannominate spider tree, "albero ragno"). Il legname (e a volte anche i frutti) ha uno sgradevole odore agliaceo. Molte specie sono importanti piante officinali nella medicina tradizionale. La più nota specie asiatica è C. religiosa, originaria dell'India, del Sud est asiatico e delle isole del Pacifico: è un albero di medie dimensioni dalla fioritura vistosa, ritenuto sacro e perciò spesso piantato nei cimiteri e accanto ai tempi. L'unica specie africana, C. adansonii, molto simile alla precedente, è presente in larga parte del continente in una varietà di habitat; le foglie fresche sono utilizzate in alcuni paesi come verdura, oltre a trovare applicazione nella medicina tradizionale. Ha usi medicinali anche la più nota specie americana, C. tapia (già descritta da Plumier come Tapia arborea triphylla), con frutti eduli, ma piuttosto insipidi, dalla buccia aranciata che ricordano una piccola arancia. Qualche approfondimento nella scheda.
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Si devono alla penna di Giovanni Battista Ferrari, gesuita poligrafo e poliglotta, due delle più raffinate opere editoriali del Seicento, cui contribuirono, tra gli altri, artisti del calibro di Piero da Cortona e Guido Reni: Flora seu de florum cultura, uno dei primi trattati di giardinaggio, del 1633, seguito nel 1646 da Hesperides sive de Malorum aureorum cultura et usu, una monografia altrettanto pionieristica sugli agrumi, probabilmente la prima dedicata a un genere. Sfogliarle è una festa per gli occhi, leggerle uno squisito divertimento barocco. Con tante sorprese, come quel "fiore indiano violato scuro" che molti anni dopo verrà ribattezzato Ferraria crispa. Uno sponsor d'eccezione per un'opera straordinaria Nello stagnante panorama dell'Italia secentesca, la Roma dei papi faceva eccezione; non per particolare acume politico o politiche illuminate, ma per la febbre edificatoria che, alimentata da papi e cardinali, trasformò la Città eterna del XVII secolo in un immenso cantiere. E tra chiese e palazzi, si costruivano anche giardini. Anzi una villa fuori porta con giardini scenografici e un angolo segreto riservato alle piante "peregrine", le specie esotiche che arrivavano dalle "Indie", era uno status symbol, la misura del potere e del prestigio. Tra i più preziosi gli Horti Barberini, voluti dal Cardinale Francesco, nipote del papa Urbano VIII. Durante il pontificato dello zio egli fu senza dubbio il personaggio più influente della corte pontificia: come "cardinal nepote" era il segretario di Stato, e accumulò una incredibile quantità di titoli e cariche. Uomo colto, collezionista, cultore della letteratura, della musica e delle arti (tra i suoi protetti anche Bernini), fece del suo palazzo alle Quattro Fontane - allora un'area suburbana - un punto nevralgico della cultura romana. Tra i suoi interessi non mancavano le scienze: creò un museo di scienze naturali e soprattutto trasformò i giardini del suo palazzo in una specie di orto botanico, ricchissimo di piante rare, che gli giungevano soprattutto grazie ai contatti allacciati in Francia durante varie missioni diplomatiche. Quali piante fiorissero in quel giardino ce lo racconta Giovanni Battista Ferrari, un gesuita di origini senesi che fece parte dell'entourage di Francesco Barberini. Orientalista di una certa fama, grazie alla protezione dei Barberini (Francesco, ma anche suo fratello Antonio), Ferrari ebbe libero accesso ai giardini della nobiltà romana e incominciò ad appassionarsi di floricoltura. Si costruì così una cultura enciclopedica sull'argomento, che trasfuse in una vasta opera, Flora seu de florum cultura, pubblicata in latino nel 1633, poi, visto il successo anche europeo, tradotta in italiano e ripubblicata nel 1646 con il titolo Flora overo cultura dei fiori. Alla sua progettazione, contribuì senza dubbio Cassiano dal Pozzo, che, al servizio del cardinal Barberini, lo accompagnò in molte missioni all'estero e esercitò una specie di ruolo informale di Ministro della Cultura di Urbano VIII. Cassiano era a sua volta un grande collezionista d'arte, incluse le tavole botaniche; fu lui, probabilmente, a concepire la parte iconografica di Flora e a mettere in contatto Ferrari (di cui divenne intimo amico) con i più importanti artisti del tempo. Fece anche da tramite con l'ambiente dei Lincei, di cui era membro. Il risultato è davanti ai nostri occhi: una delle opere editoriali più prestigiose del tempo, un sontuoso in quarto in quattro volumi, con 101 calcografie, che ritraggono piante di giardini, attrezzi, grandi vasi con composizioni floreali e soprattutto molte specie di piante. E' allo stesso tempo un manuale che fornisce informazioni pratiche sull'allestimento di un giardino e sulla coltivazione delle piante, un catalogo delle specie più apprezzate, un ricettario con curiose indicazioni, una guida sui più bei giardini romani, un'opera letteraria. Volendo unire l'utile al dilettevole, Ferrari ha infatti arricchito il suo testo con sette favole allegoriche che mettono in scena gli dei dell'Olimpio e raccontano metamorfosi alla maniera di Ovidio. Ciascuna favola è illustrata da una tavola disegnata da tre tra i maggiori artisti attivi a Roma in quel momento: Guido Reni, Piero da Cortona e Andrea Sacchi (nell'edizione italiana, si aggiungerà Giovanni Lanfranco). La maggior parte delle incisioni si deve a J.F. Greuter. A finanziare la prestigiosa e costosissima opera furono ovviamente i Barberini (cui Ferrari rende ripetutamente omaggio). Le meraviglie barocche di Flora Sfogliamo dunque Flora. Ad aprire il volume è una spettacolare tavola di Piero da Cortona che fa da frontespizio e celebra la gloria della dea Flora. Dopo un'erudita introduzione, seguono indicazioni sull'ubicazione ideale del giardino, sulle siepi che dovranno difenderlo, sulla disposizione delle aiuole e dei sentieri. A illustrare questo capitolo, 7 piante di giardini, incluso un labirinto. Scopriamo come dobbiamo scegliere il cane da guardia (meglio nero: di notte fa più paura ai ladri, e più facilmente li coglierà alla sprovvista), come innaffiare, come disporre i fiori e quando raccoglierli, e così via. Se vi siete mai chiesti perché nei giardini abbondano limacce e bruchi, Ferrari ce lo spiega attraverso la prima e più divertente delle sue favole, dedicata all'improbabile coppia formata dal pigro giardiniere Limace e da suo fratello Bruco, impenitente scalatore di muri e ladro di piante, che un'irata Flora trasforma in Lumaca e Ruca. A completare il primo libro, una rassegna degli arnesi da giardino, indicazioni sui concimi e le terre - qui Ferrari include un excursus sui principali giardini privati romani - e la seconda favola, in cui Flora imbandisce un banchetto floreale agli dei. Per chi, come me, è affascinato dalla storia delle piante, le maggiori sorprese giungono però dal secondo libro. Ferrari vi passa in rassegna i fiori ornamentali indigeni e esotici più ricercati nei giardini del tempo. Scopriamo che i più alla moda erano le bulbose, in una stupefacente quantità di specie e varietà: narcisi (non meno di 36 tipi), crochi, colchici, corone imperiali, tulipani (solo due: a Roma, evidentemente non si erano ambientati), fritillarie, iris, gigli, Orchis, ornitogali, giacinti (altra super star, non meno di 25), ciclamini, anemoni (anch'essi in numerose varietà), ranuncoli, asfodeli, mughetti. A confronto, poche le erbacee perenni (peonie, Lychnis chalcedonica, l'esotica Lobelia cardinalis, sotto il nome di Trachelio americano, numerosi garofani). Piacevano invece le rampicanti: la curiosa Passiflora (Granadiglia), in cui si riconoscevano gli strumenti della passione di Cristo e soprattutto i gelsomini. Gli arbusti si riducono praticamente alle rose. Pochi gli alberi da fiore, soprattutto esotici: peschi e ciliegi doppi, la mimosa, il sommacco, Schinus molle. Se in questi casi le esotiche sono riconoscibili con i loro nomi, più spesso sono celate sotto l'etichetta ingannevole di generi già noti. Sotto il nome di Narciussus indicus riconosciamo così, anche grazie alle dettagliate illustrazioni, Sprekelia, Amaryllis belladonna, Crinum, Haemanthus; e capiamo che, in fondo, indicus vuole dire esotico: se Sprekelia arriva davvero dalle Indie - ovvero dal Centro America - le altre sono sudafricane, giunte a Roma con un tortuoso viaggio attraverso l'Olanda e la Francia. Ugualmente, sotto l'etichetta Hyacinthus si celano non solo Hyacinthoides non-scripta, ma anche Scilla peruviana e varie specie di Muscari. Gelseminum indicum flore Phoeniceo è chiaramente Campsis radicans. Non si sbilanciò invece Ferrari nel nominare il fiore destinato a immortalarlo nella denominazione botanica: è semplicemente Flos indicus e violaceo fuscus, "Fiore indiano violato iscuro". Ne giunse a Roma da Parigi un bulbo mezzo rinsecchito; l'abilissimo appassionato Tranquillo Romauli riusci, in due anni, a portarlo a fioritura. E, come scopriremo tra poco, anche questo fiore indiano non è indiano per niente. Il terzo libro è dedicato alla coltivazione delle piante da fiore: prima una parte generale (molto dettagliato il capitolo sulla lotta agli animali "maggiori" e "minori" che infestano i giardini, soprattutto i topi, da combattere in ogni modo, incluso cacciandoli con una speciale balestra; utile anche un gatto, ma sarà bene sceglierlo tigrato); poi indicazioni specifiche sulla coltivazione delle specie elencate nel libro precedente. A conclusione, un catalogo delle piante esotiche coltivate negli Horti Barberini: molte le abbiamo già incontrate, si aggiungono alcune piante officinali, come la Moringa o il tamarindo, un "fagiolo del Brasile", l'albero del corallo americano (Erythrina corallodendron). Completano il libro una pianta del giardino di Palazzo Caetani di Cisterna e due favole, una dedicata a Flora e alla Luna, l'altra che scomodo addirittura Nettuno per ornare gli Horti Barberini. Il quarto libro è una miscellanea di meraviglie di gusto barocco: le meraviglie dell'arte (che insegna a disporre i fiori, a conservarli, a imitarli, a forzarne la fioritura, a alterarne la forma, il colore, il profumo), ma ancora più le meraviglie della natura stessa, che a sua volta supera l'arte che si è illusa di superarla. Espressione di questa meraviglia è la Rosa della China, che (oh stupore!) nell'arco di una giornata muta il colore dei propri fiori dal bianco al carnicino al rosso. Avrete già capito che si tratta di Hibiscus mutabilis; Ferrari ci informa che i semi erano arrivati a Roma dall'India circa dieci anni prima, avevano prosperato e se ne coltivavano tre tipi: una forma semplice, una doppia e una stradoppia. E tra le tante tavole dedicata alla "Regina delle rose", ce n'è anche una che ne rappresenta i semi visti al microscopio (probabilmente la prima nella storia dell'illustrazione botanica). Nel giardino delle Esperidi Visto il notevole successo dell'opera, probabilmente ancora su suggerimento di dal Pozzo, Ferrari decise di scriverne un'altra, dedicata questo volta agli agrumi, immancabili inquilini dei giardini barocchi e delle loro arancere. Fu un'altra opera enciclopedica, con la stessa formula della precedente: un testo che unisse notizie erudite, favole mitologiche, puntigliose descrizioni delle piante e indicazioni per distinguerne i tipi, dettagliate istruzioni di coltivazione, informazioni di ogni genere sugli usi e gustose curiosità; un apparato iconografico affidato agli artisti più in voga. Il gesuita si mise alacremente al lavoro, ma a venirgli meno fu proprio il finanziatore. Nel 1644 Urbano VIII morì. Seguì la disgrazia di Francesco Barberini, che, messo sotto inchiesta per i modi in cui aveva ingrandito il patrimonio familiare, dovette andarsene in esilio in Francia. Non fu facile per Ferrari trovare un altro finanziatore. Attraverso il pittore Poussin, cercò anche inutilmente di ottenere il sostegno del re di Francia. Alla fine, riuscì a pubblicare Hesperides, sive De malorum aureorum cultura et usu libri IV nel 1646, a spese dell'editore Hermann Scheus. Frutto di un lavoro durato almeno dieci anni, l'opera è forse il primo trattato dedicato a un singolo genere (ovvero a Citrus, cui appartengono gli agrumi). L'apparato iconografico è ancora più sontuoso di quello di Flora: i disegni dai cui furono tratte le incisioni che illustrano le favole mitologiche o raffigurano sculture, bassorilievi, arancere si devono a François Perrier, Nicolas Poussin, Pietro Paolo Ubaldini, Francesco Albani, Andrea Sacchi, Francesco Romanelli, Filippo Gagliardi, Guido Reni, Domenico Zampieri (Domenichino), Giovanni Lanfranco, Girolamo Rainaldi; il frontespizio è di Pietro da Cortona. Non sono firmate le incisioni che raffigurano i fiori e i frutti dei numerosissimi agrumi e arnesi da innesto. Il primo libro, De aditu ad Hesperides ("Ingresso alle Esperidi"), di grande erudizione, è dedicato al mito di Ercole nel giardino delle Esperidi, di cui si ricostruisce la presenza nella letteratura e nell'arte; a conclusione una favola allegorica sul trasferimento delle ninfe Esperidi in Italia. Nei tre libri seguenti gli agrumi vengono classificati in tre grandi gruppi, a ciascuno dei quali è dedicato un libro, sotto la protezione di una delle ninfe Esperidi: i cedri nel secondo libro, Aegle sive malum citreum; i limoni nel terzo, Artehusa sive malum limonium; le arance nell'ultimo, Hesperthusa sive malum aurantium. La medesima struttura ricorre in ciascun libro: prima una discussione sui vari tipi, e gli svariati nomi, dell'agrume trattato, cui segue un minuzioso catalogo delle specie e varietà, illustrate da tavole di eccezionale fattura artistica e grande valore scientifico. Solitamente in alto è riprodotto un ramo con foglie, talvolta fiori, e un frutto maturo, in basso il frutto in sezione; a legare il tutto, un cartiglio in forma di nastro con il nome latino. Talvolta possono esserci anche frutti immaturi, il frutto visto dal basso, o dall'alto, per mostrarne alcune particolarità. Per gli appassionati di agrumi, è un documento eccezionale delle numerosissime varietà che si coltivavano nel Seicento. Seguono poi indicazioni sulla coltivazione, il trapianto, gli innesti, la lotta alle malattie, gli usi (con tanto di ricette) anche presso altri popoli (con una messe di curiose notizie etnografiche). Secondo il gusto barocco per il bizzarro, larghissimo spazio è dedicato alle forme mostruose, che erano particolarmente ricercate dai collezionisti e venivano anche volutamente create attraversi esperimenti di incroci. Al solito, la loro origine è attribuita a mitologiche metamorfosi. Ritiratosi Ferrrari nella natia Siena, dal Pozzo cercò di coinvolgerlo in un terzo lavoro sui pomi, ma il gesuita, ormai stanco e anziano si sottrasse. Morì nel 1655. Quale notizia sulla sua vita nella sezione biografie. Quel fiore indico che non viene dall'India L'illustrazione del flos indicus e violaceo fuscus (con la descrizione che ne dà Ferrari) è la prima attestazione nella letteratura scientifica europea di questa pianta che, come si è detto, era arrivata a Roma dalla Francia. Si rifanno a Ferrari (e non a una conoscenza diretta) il Gladiolus indicus e violaceo fuscus di Robert Morison (Plantarum historiae universalis, 1680) e il Narcissus indicus flore saturate purpureo di Olof Rudbeck (Reliquiae rudbeckianae, 1701). Il primo botanico a studiare dal vivo la curiosa bulbosa, e riconoscerne l'appartenenza a un nuovo genere fu l'olandese Johannes Burman, grande studioso della flora sudafricana, che nel 1761 le dedicò un articolo, comparso negli Atti dell'Accademia Leopoldino-Carolina, dandole il nome di Ferraria. Ma qualche tempo prima aveva comunicato la sua intenzione di creare la nuova denominazione a Philip Miller, che nel 1759 (sia in Figures of Plants sia nella settima edizione di The Gardeners Dictionary) descrisse la pianta, riconoscendo la paternità del nome a Burman. Ecco perché la denominazione completa del genere è Ferraria Burm. ex Mill. Il genere Ferraria, della famiglia Iridaceae, comprende 10-18 specie di cormofite diffuse in aree aride dell'Africa centrale e meridionale. Il maggior numero di specie si concentra lungo la costa occidentale del Sud Africa, preferibilmente in suolo sabbioso. Con l'eccezione di F. glutinosa, che vive nell'Africa tropicale meridionale con estati calde e umide e inverni freddi e aridi, vivono nella zona con piogge invernali e estate arida: in queste condizioni, fioriscono alla fine dell'inverno, poi perdono le foglie e vanno in riposo. I fiori della Ferraria sono davvero particolari: a forma di stella a sei punte, a volte con petali arricciati, hanno colori insoliti (crema, marrone chiaro, bruno, bruno-porpora) e sono spesso macchiettati. Inoltre molte specie emanano un odore sgradevole, che è stato descritto come simile a quello della melassa o dello zucchero caramellato con sentori di decomposizione. Non vi stupirà scoprire che (come le conterranee Stapeliae) queste specie sono impollinate da insetti sarcofaghi. Va detto, però, che per essere un genere così piccolo, Ferraria ha sviluppato strategie di impollinazione differenziate. F. ferrariola ha tepali dai colori delicati, giallo pallido o verde azzurro, quelli esterni con marcature più scure, vere e proprie "guide del nettare" che insieme al profumo dolce con sentori di violetta e di vaniglia attirano irresistibilmente le api. F. divaricata e F. variabilis, pur avendo colori smorti, dal bruno pallido al bruno scuro, uniforme o maculato, non hanno odore; i loro impollinatori sono varie specie di vespe. F. uncinata sembrerebbe invece essere impollinata da due specie di coleotteri. Qualche informazione in più su questo genere indubbiamente affascinante nella scheda. Non risulta che Claude Aubriet abbia mai dipinto una Aubrieta, ovvero un'aubrezia. Ma sicuramente queste piante dai colori accesi sarebbero piaciute a questo pittore, disegnatore dal tratto severo quando illustrava le opere dei suoi committenti botanici, ma colorista dai colori fin troppo esuberanti quando poteva scatenarsi nelle più decorative tavole su pergamena destinate al gabinetto reale o ai suoi clienti privati. Del resto, originario soprattutto dei Balcani e dell'Anatolia, questo genere è perfettamente adatto a celebrare il pittore che accompagnò Tournefort in Levante e disegnò per lui tante piante greche e anatoliche. Nasce l'illustrazione botanica scientifica Con tante avventure da raccontare, parlando del viaggio al Levante di Tournefort, c'è un aspetto che non ho potuto sufficientemente valorizzare: il fatto che della spedizione facesse parte anche un pittore naturalista, l'abilissimo Claude Aubriet. Prima di allora, erano stati piuttosto alcuni naturalisti, versati anche nell'arte del disegno, ad accompagnare la raccolta di piante con i propri disegni dal vivo (il caso più notevole è quello di Charles Plumier); diverso ancora il caso di Mark Catesby, pittore trasformatosi in cacciatore di piante, al servizio di una clientela avida di novità. Il viaggio al Levante è invece la prima spedizione scientifica in cui c'è una divisione dei compiti: i due botanici Tournefort e Gundelsheimer raccolgono, riconoscono e preservano gli esemplari (al primo spetta anche di descriverli), mentre il pittore li disegna. Per ora si tratta di schizzi veloci, in inchiostro di china, con poche sommarie note sui colori (quando i primi arriveranno a Parigi, Fagon si dirà deluso della loro qualità); più tardi, nell'agio del laboratorio di pittore, con l'ausilio degli esemplari essiccati, si trasformeranno in illustrazioni e quindi in incisioni. In effetti i tempi stanno cambiando: i botanici ora lavorano con l'occhio al microscopio e sono spesso i particolari più minuti a permettere di distinguere una specie dall'altra. Le tavole botaniche incominciano a prendere l'aspetto che conservano ancora oggi: c'è l'esemplare completo di tutte le sue parti, radice compresa, al momento della fioritura (per le angiosperme); a fianco, in scala ingrandita, quei particolari che permettono l'identificazione, spesso in dissezione (il fiore, l'ovario, le antere, i semi, il frutto, il rovescio di una foglia, e così via). Un momento importante di questa evoluzione è proprio la collaborazione tra Tournefort e Aubriet. Tournefort sta lavorando ai suoi Elements de botanique e si convince che "senza l'arte del disegno è impossibile che una descrizione sia perfettamente intellegibile". Gli serve un bravo illustratore. Tra le persone che ruotano attorno al Jardin des Plantes c'è anche il "miniaturista del Re" Jean Joubert che, per contratto, deve eseguire ogni anno 24 tavole di soggetti naturalistici per il gabinetto reale. Tournefort nota il talento del suo aiutante, il giovane Claude Aubriet. E' a lui che affida le illustrazioni degli Elements, guidando, si può dire, il pennello e l'occhio del giovane artista: Aubriet osserva, schizza, disegna, Tournefort spiega, indirizza l'osservazione, corregge. Nascono così le 451 tavole che corredano gli Elements e, più tardi, l'edizione latina, Istitutiones rei herbariae. Pur non mancando di pregi estetici, esse colpiscono soprattutto per la naturalezza, l'accuratezza del disegno, l'estrema precisione dei particolari utili alla classificazione. L'illustrazione botanica ha raggiunto la maturità, le esigenze estetiche sono passate in secondo piano rispetto all'esattezza scientifica. Dal contatto quotidiano e dal lavoro comune è nata anche un'amicizia, testimoniata dagli scambi epistolari tra i due. Quando a Tournefort viene ordinato di recarsi in Levante, scegliere Claude come compagno di viaggio è quasi automatico. Sarà un'esperienza estremamente formativa per il giovane pittore: educato come miniaturista, deve invece allargare i suoi soggetti anche alle mappe, ai paesaggi, alle architetture, alle medaglie e ai reperti archeologici, alle figure umane (con le quali, confessa al maestro Joubert, si trova a disagio). Deve anche imparare a schizzare in fretta, a china, finché le piante sono fresche, annotando con un sistema in codice i colori. Ne disegna moltissime (al Musée National d'Histoire Naturelle sono conservate più di 500 sue tavole di piante del Levante, più una quarantina di animali); solo alcune andranno a illustrare la Relation du voyage du Levant di Tournefort: sono quelle delle specie più notevoli, quelle che il botanico ha deciso di descrivere dettagliatamente. Di molte altre ha indicato solo il nome (progettava di scrivere una Histoire des plantes du Levant, che non poté neppure cominciare, a causa della morte precoce); e sono proprio i disegni accuratissimi di Aubriet a permettere di identificarle. Al servizio del Re e della scienza Al rientro a Parigi, Aubriet è impegnato a trasformare gli schizzi fatti durante il viaggio in tavole in bianco e nero e a colori (dipinge a tempera sia su carta sia su vélin, la pergamena più fine e di più alta qualità). Nel 1706, alla morte di Joubert, gli succede come miniaturista del Re. Al titolare dell'incarico spetta un alloggio nel Jardin des Plantes e un villino a Passy, in cambio di 24 tavole all'anno, dipinte su vélin (ce ne sono rimaste 394). Insomma, quasi una sinecura che permette a Aubriet di continuare a collaborare con i botanici del Jardin des Plantes e anche di dipingere per collezionisti privati. Per il re dipinge piante (327 tavole), ma anche soggetti zoologici, tra cui alcune farfalle (forse scoprendo così la sua vocazione di entomologo). Dopo la morte di Tournefort, collabora con Sébastien Vaillant, per il quale esegue 354 tavole per Botanicon parisiense (pubblicato in Olanda nel 1727). In quest'opera spinge ancora oltre la precisione miniaturista delle immagini, che possiamo pienamente apprezzare in piante minute come le briofite, di cui ritrae i minimi particolari servendosi di un microscopio. Per Antoine de Jussieu dipinge 166 tavole originali, 123 delle quali dedicate ai funghi (un soggetto all'epoca relativamente poco studiato). Tra i collezionisti privati che acquistano i suoi lavori, il più notevole è Michel Bégon, per il quale esegue 106 disegni, 59 dei quali su vélin; tra di essi, molte farfalle. Ma intanto Aubriet, collaborando con tanti naturalisti, ha scoperta un'altra vocazione; quella di entomologo. Da una parte collabora con Réaumur con alcune tavole per Mémoires pour servir à l'Histoire des insectes, dall'altra incomincia a allevare farfalle e a annotare metodicamente il momento della schiusa, la durata delle fasi della metamorfosi, le piante nutrici, il momento del volo, disegnando gli insetti in tutte le fasi della loro vita. Frutto di trent'anni di lavoro, le sue osservazioni dovrebbero trasformarsi in una grande opera che, al momento della morte dell'artista, è ancora allo stadio di manoscritto; l'unica testimonianza che ce n'è rimasta è il catalogo di un libraio olandese che lo mise in vendita nel 1765, molti anni dopo la morte di Aubriet; era una grossa raccolta di 2000 fogli di diverso formato, cui si univano 158 tavole di farfalle contenenti 1350 figure. Se tutto ciò è andato perduto (o giace, chissà, dimenticato in qualche collezione privata), c'è rimasto un centinaio di tavole di farfalle disegnate per Bégon e una trentina per il re Luigi XV. Anche in queste tavole, l'intento di documentazione scientifica è in primo piano, anticipando i criteri attuali: invece di dipingere le farfalle su uno sfondo naturale, in mezzo a fiori e piante, come facevano tutti i suoi contemporanei (la più nota è Maria Sybilla Merian), Aubriet monta le specie con le ali aperte, viste sia dall'alto sia dal basso, nelle due forme sessuali; disegna in dettaglio uova, bruchi e crisalidi. E' una disposizione sistematica, che si ripete con rigore in tutte le tavole. A chi fosse interessato a saperne di più, segnalo questa pagina del blog di Jean-Yves Cordier, dove sono riportate anche tutte le tavole di Aubriet sulle farfalle conservate al Musée National de Sciences Naturelles. Per qualche informazione in più sulla vita di Aubriet, che morì in età veneranda nel 1742, rimando alla sezione biografie. Aubrieta o la forza degli errori: errare humanum est? Come abbiamo anticipato, a Aubriet è legato uno dei generi più popolari, ovvero l'aubrezia, regina indiscussa di giardini rocciosi e muretti primaverili. A dedicargli questo omaggio fu Michel Adanson (che sicuramente conobbe Aubriet di persona, quando entrambi collaboravano con Réaumur), che nel 1763, in Familles des plantes, creò il genere Aubrieta staccandolo da Alyssum. Ma per chissà quale malignità della sorte, alla forma corretta si sono affiancate e sovrapposte grafie errate quali Aubrietia o Aubretia; da quest'ultima deriva il nome comune aubrezia. Errore tenace, direi travolgente: digutandi in Google il corretto Aubrieta ho ottenuto 646.000 risultati contro i 738.000 dell'erroneo Aubretia. Appartenente alla famiglia Brassicaceae. il genere Aubrieta comprende una dozzina di specie di piccole erbacee perenni rupicole con foglie persistenti grigio-verdi e fiori sgargianti, soprattutto nelle tonalità del blu, del porpora e del viola. Originario del Mediterraneo orientale, è presente soprattutto in Anatolia e nella penisola balcanica: zone esplorate anche da Tournefort, Gundelsheimer e Aubriet, che però probabilmente ne mancarono la fioritura, visto che i fiori sbocciano all'inizio della primavera. Due specie (A. deltoidea e A. columnae) fanno anche parte della flora spontanea italiana (entrambe sono molto rare da noi e endemiche di piccole aree). L'identificazione delle diverse specie pone molti problemi ai botanici, sia per l'alto grado di variabilità delle singole specie, sia per le differenze poco nette tra una specie e l'altra. Un vero rebus è poi l'origine delle decine e decine di varietà orticole che rallegrano i nostri giardini: commercializzate a volte semplicemente come Aubrieta, a volte come A. deltoidea, a volte come A. x cultorum, sono probabilmente il frutto di ripetuti incroci non documentati tra varie specie, iniziati fin dal 1700 quando la pianta incominciò a diventare popolare. Il risultato è una scelta vastissima, con una ricca gamma di colori (dal lilla chiaro al viola intenso, dal rosa al malva, dal carminio al rosso profondo; c'è anche qualche varietà bianco puro), con portamento più o meno compatto, strisciante o ricadente, foglie talvolta variegate in bianco, argento e panna; non manca qualche forma a fiore doppio. In più la coltivazione è semplice: basta avere un muretto al sole e si può dire che fanno tutto da sé. Qualche approfondimento e una lista delle cultivar più interessanti nella scheda. Nella soffitta della casa di campagna della sua famiglia, un bambino russo di otto anni scopre un tesoro: una raccolta di vecchi, polverosi libri di entomologia. Il più affascinante di tutti è un grande in folio, con meravigliose immagini dai colori vividi, che ritraggono piante esotiche dalle curve sinuose, tra le quali si insinuano, quasi in posa, bruchi, crisalidi, farfalle e altri insetti. Qual bambino si chiamava Vladimir Nabokov, da adulto diventerà uno scrittore famoso e, proprio grazie a quell'incontro, un esperto di lepidotteri. Quel libro era Metamorphosis Insectorum Surinamensium, "La metamorfosi degli insetti del Surinam", l'opera più celebre della pittrice e naturalista Maria Sibylla Merian. Giovinezza "normale" di un'artista All'epoca - siamo all'inizio del '900 - l'artista era da tempo dimenticata, al contrario dei suoi tempi, quando proprio quel libro le assicurò l'attenzione degli studiosi, ma soprattutto dei "curiosi", ovvero i collezionisti di oggetti naturali, di mezza Europa. E di oggi, quando, soprattutto grazie agli studi di genere, è stata riscoperta e esaltata come antesignana dell'ecologia e della scienza al femminile. Maria Sibylla, nata a Francoforte nel 1647 da una famiglia di artisti, ricevette la sua formazione soprattutto dal patrigno, il pittore Jacob Marrel, specialista in nature morte di fiori, perfezionatosi in Olanda. Non c'è niente di inconsueto nella sua giovinezza, almeno per una giovane donna del suo ambiente: a diciotto anni si sposò con un apprendista del patrigno, Johann Andreas Graff (specializzato invece in prospetti architettonici), ne ebbe presto una prima figlia, aiutò il ménage familiare dando lezioni di pittura e ricamo a ragazze di buona famiglia e dipingendo lei stessa il soggetto ritenuto più consono a un pennello femminile, ovvero i fiori. Convenzionale è anche la sua prima opera: Blumenbuch, pubblicato tra il 1675 e il 1680 in tre serie di 20 tavole ciascuna, poi ripubblicate tutte insieme nel 1680 sotto il titolo Neues Blumenbuch. Si tratta di un florilegio - dello stesso genere del Jardin du Roy di Pierre Vallet - che ritrae in modo piacevole e accattivante le più amate piante da fiore, in particolare bulbose, come modelli facili da riprodurre per ricamatrici e pittori dilettanti. Merian non ha pretese di originalità: molte tavole sono adattamenti di dipinti del patrigno oppure del pittore francese Nicolas Robert; il suo lavoro consiste soprattutto nel semplificare le linee e nel creare contrasti e gradazioni di colore più facili da rendere con ago e filo. E' un'opera commerciale (anche se non ne vennero tirate molte copie), venduta in un'edizione economica in bianco e nero e in un'edizione più costosa, con le tavole acquarellate a mano dall'autrice; anzi, pagando ancora un po' di più, erano disponibili copie realizzate secondo la tecnica della controstampa (ricavata posando un foglio su una stampa fresca, in modo da ottenere un'immagine specularmente invertita rispetto alla stampa, quindi riproducente la matrice). L'impressione realizzata con la controstampa è molto più sfumata e morbida rispetto a una normale stampa calcografica, particolarmente adatta per essere dipinta ad acquarello con i colori sfumati prediletti dalla pittrice. Niente di inconsueto, abbiamo detto. Tranne un particolare: fin dall'età di tredici anni Maria Sibylla coltivava una passione senz'altro singolare. Incuriosita dai bachi da seta che si allevavano nella sua città, cominciò a chiedersi se anche gli altri insetti condividessero quelle trasformazioni o "metamorfosi" (da uova minuscole a bruchi voraci a bozzoli setosi a farfalle); iniziò così a raccogliere, allevare e collezionare insetti. Siamo a metà Seicento e la scienza incominciava appena a sfatare l'opinione più diffusa, risalente niente meno ad Aristotele: quella della generazione spontanea, secondo la quale insetti, vermi e altri piccoli animali nascerebbero dal fango o da sostanze in putrefazione. Nonostante i bachi da seta e la loro "muta" fossero sotto gli occhi di tutti, bruchi, crisalidi e farfalle erano generalmente ritenuti animali diversi. Tra il 1662 e il 1669 Johannes Goedaert (anche lui, come Merian, naturalista e pittore-incisore, ma seguendo il cammino inverso, dalla scienza all'arte e non viceversa) in Metamorphosis et historia naturalis insectorum disegnò bruchi, pupe e insetti adulti, ma era ancora un assertore della generazione spontanea, convinto che nel passaggio dal bruco alla crisalide all'insetto adulto si verificasse una specie di trasformazione alchemica, con la morte dello stadio precedente e la rinascita, dai suoi resti, dello stadio successivo. La prima confutazione scientifica della generazione spontanea risale al 1668 e si deve a Francesco Redi (Esperienze intorno alla generazione degli insetti), con i suoi studi sulle mosche carnarie; è dell'anno successivo l'Historia generalis insectorum di Jan Swammerdam in cui per la prima volta vengono definite con precisione le fasi della vita degli insetto: uovo, larva, pupa, adulto. Medico e anatomista, Swammerdam basò le sue conclusione su approfondite indagini anatomiche, avvalendosi del microscopio. Erano tuttavia studi recentissimi, noti a pochi scienziati; l'opinione generale dell'ambiente in cui viveva Maria Sibylla era che gli insetti fossero creature demoniache, segni della collera di Dio, da tenere lontani con preghiere e esorcismi. La mania della ragazza di allevare questi flagelli era considerato dai suoi parenti, in particolare la madre, un passatempo inadatto a una rispettabile ragazza da marito o a una distinta madre di famiglia, sia pure di una famiglia di artisti. Ma lei continuò a coltivare questa passione e il suo amore per gli insetti, in qualche modo, fa capolino nel Blumenbuch: i protagonisti sono i fiori, ma in qualche tavola una farfalla si posa su una foglia di tulipano, un bruco si inarca su un petalo di giglio, una crisalide s'appoggia morbidamente su una peonia. Niente di innovativo, intendiamoci; accostare insetti e piccoli animali ai fiori faceva parte delle convenzioni della natura morta, anche se in genere l'artista vi attribuiva significati simbolici (la farfalla è la rigenerazione, il bruco un memento mori), mentre Maria Sibylla per ora era guidata soprattutto da ragioni estetiche (ad esempio, riequilibrare la composizione, aggiungere un tocco di colore, accentuare una linea). Maturità: da artista convenzionale a artista-naturalista Le novità, la rottura delle convenzioni, arrivano con il secondo lavoro. Nel 1679 Merian pubblica la prima parte di Der Raupen wunderbare Verwandelung und sonderbare Blumennahrung, "La meravigliosa trasformazione dei bruchi e lo straordinario nutrimento tratto dai fiori", seguito nel 1683 dalla seconda parte (l'editore è lo stesso marito, probabilmente convinto delle potenzialità commerciali della curiosa opera). Ora gli insetti sono i protagonisti assoluti: ciascuna delle 100 tavole (50 per ogni parte) ne ritrae una specie in tutti gli stadi della sua trasformazione, accompagnata dalla pianta (o da una delle piante) di cui si nutre. Altrettanto importanti sono i testi di accompagnamento, in cui Merian spiega dove ha raccolto l'animale, come l'ha osservato, come è avvenuta la metamorfosi. Per scrivere questo libro, infatti, la nostra pittrice si è ormai trasformata in una naturalista autodidatta sul campo: ha osservato gli insetti nel loro ambiente naturale, cercando di individuarne le abitudini alimentari, gli eventuali nemici, le interazioni con altre specie; ha raccolto e allevato i bruchi in apposite cassette, fornendo il cibo prediletto, osservandone e registrane con accuratezza la trasformazione in pupa e in adulto, disegnando dal vero ciascuna fase con estrema accuratezza nel suo quaderno di studio. Alcune tavole ricostruiscono una piccola nicchia ecologica con le sue catene alimentari: così, in quella dedicata alla Rosa centifolia, non solo vediamo tutti gli stadi di una falena nottuide, ma anche acari che vengono mangiati da una larva di sirfide, il pupario di quest'ultima e un adulto che visita un bocciolo. Sono questi dettagli che hanno fatto riconoscere a Maria Sybilla Merian il titolo di "prima ecologista". Ma nel frattempo, anche la vita privata dell'artista-naturalista stava mutando. Benché fosse nata una seconda figlia, il matrimonio scricchiolava. Dopo aver vissuto alcuni anni a Norimberga, nel 1681, alla morte del patrigno, Maria Sibylla ritornò a Francoforte per assistere la madre, raggiunta poco dopo dal marito, ma evidentemente qualcosa si era spezzato. La donna rifiutò di tornare a Norimberga come egli le chiedeva e nel 1685 si trasferì, insieme alla madre e alle figlie, in Frisia, in una comunità labadista (un gruppo calvinista che viveva in comunità, seguendo regole molto rigide), dove da tempo già viveva uno dei fratellastri, Caspar, anche lui pittore. Dietro questa scelta estrema, senza voler mettere in dubbio profonde motivazioni religiose, stava probabilmente anche il desiderio di separarsi dal marito, visto che, secondo le regole labadiste, i matrimoni con non adepti erano considerati nulli. Merian visse per alcuni anni nel castello di Walta, sede della comunità labadista; qui, come risulta dai suoi quaderni, poté continuare le sue osservazioni naturalistiche; ma soprattutto, ebbe modo di vedere per la prima volta le sgargianti farfalle tropicali. Il gruppo aveva intenzione di fondare una comunità in Suriname, la recente colonia olandese a Nord del Brasile, e nei loro andirivieni alcuni membri ne avevano portato alcuni esemplari di insetti tropicali. In ogni caso, nell'estate del 1691, l'artista lasciò i labadisti insieme alle figlie, per trasferirsi a Amsterdam; forse, le regole troppo rigide di quella austerissima comunità le stavano strette, forse aveva altri sogni, altri progetti. Finì così la seconda fase della sua vita. Suriname: Maria Sibylla prende il volo Quando giunse ad Amsterdam (Maria Sibylla aveva 44 anni) era ormai una donna indipendente, capace di mantenere se stessa e le sue figlie, anch'esse due valide pittrici di fiori e nature morte, vendendo le sue opere ai ricchi borghesi e collezionisti olandesi. Entrò in contatto con molti di loro e ne poté visitare le prestigiose collezioni: quella di Nicolas Witsen, sindaco della città e direttore della Compagnia olandese delle Indie occidentali, e di suo nipote Jonas, che aveva sposato la figlia del proprietario di una piantagione in Suriname e ne aveva ereditato le collezioni naturalistiche; quella del famoso professo Frederick Ruysch; quella raffinatissima di Levinus Vincent e di suo moglie, Johanna van Breda. Maria Sibylla ne fu allo stesso tempo ammirata e delusa: ammirata per la bellezza degli splendidi insetti esotici custoditi nei loro gabinetti, delusa perché c'erano solo adulti; niente uova, niente bruchi, pupe o crisalidi. A quanto pareva, a nessuno interessava studiare e documentare le metamorfosi degli insetti esotici. La pittrice concepì così l'idea di partire per il Suriname per assolvere lei stessa questo compito, usando i metodi che aveva inventato per studiare gli insetti europei. Tutti cercarono di dissuaderla: in primo luogo, il clima era micidiale, del tutto inadatto a una donna europea di età già avanzata; i costi erano notevoli e lei, che si manteneva con il suo lavoro di artista, non aveva denaro; soprattutto, come pretendeva lei, una donna, un'autodidatta, senza alcuna formazione scientifica accademica, di intraprendere una spedizione che fino ad allora non era stata osata neppure da scienziati maschi ben più titolati? Maria Sibylla non si lasciò scoraggiare e pianificò la sua spedizione con il senso degli affari che la contraddistingueva fin dalla giovinezza: il viaggio sarebbe stato autofinanziato dalla vendita di esemplari rari di insetti, da lei raccolti e preparati (ricercatissimi dai collezionisti, si vendevano a caro prezzo) e del libro che intendeva ricavare dai dipinti dal vivo e dalle ricerche; per gli aspetti logistici, si sarebbe appoggiata sulla comunità labadista (per un certo periodo, infatti, soggiornò nella piantagione "Providentia", che apparteneva alla famiglia labadista Van Aerssen-van Sommelsdijk); l'avrebbe accompagnata la figlia minore (si è anche ipotizzato che essa, e forse anche la sorella maggiore, avessero preparato il viaggio materno visitando il Suriname prima di lei). Anche se è di moda il modello della donna incompresa, circondata dall'ostilità generale, in realtà l'ambiente degli scienziati e dei collezionisti olandesi non rimase indifferente; in particolare, Witsen riuscì a procurarle il prestito necessario a finanziare la spedizione. Così nel giugno 1699, all'età di 52 (ad ogni buon conto, prima di partire fece testamento) l'audace pittrice si imbarcò per il Suriname con la figlia Dorothea Maria. Rimasero in Suriname circa due anni, vivendo prima a Paramaibo poi a Providentia, 65 km nell'interno. L'ambiente delle giungla era impenetrabile e le piante ritratte da Merian sono per lo più esemplari coltivati nelle piantagioni, soprattutto di uso alimentare, talvolta introdotte. A procurargli gli insetti furono gli schiavi neri e gli indiani, i suoi principali informatori sull'ecologia degli animali, mentre i coloni olandesi (non pensavano che allo zucchero, secondo una scandalizzata Maria Sibylla) guardarono alla sua impresa con scetticismo e divertimento. Essa cercò di applicare gli stessi metodi usati in Europa, scoprendo che in quel clima così caldo e umido erano inefficaci: ad esempio, una volta raccolse (o più probabilmente fece raccogliere dagli schiavi messi a sua disposizione) più di cento bruchi e grandi quantità della loro pianta ospite; il giorno dopo erano tutti morti di fame, tranne uno, perché erano bastate poche ore a far seccare le foglie, rendendole dure e immangiabili. Molto prima del previsto, le precarie condizioni di salute (contrasse la malaria o la febbre gialla) la costrinsero al rientro. Aveva comunque potuto raccogliere materiale sufficiente per allestire la sua opera più celebre, Metamorphosis Insectorum Surinamensium, un sontuoso in folio con 60 incisioni (a differenza delle opere precedenti, l'artista non le incise essa stessa) che usci nel 1705 in due edizioni, in latino e olandese. Per ragioni di costi, Merian dovette però rinunciare a un secondo volume, che avrebbe dovuto essere dedicato a rettili e anfibi, come anche alle edizioni tedesca e inglese. In ogni caso, il volume (che dal punto di vista scientifico è di minor valore rispetto a quelli sugli insetti europei, perché non era stato possibile condurre ricerche ugualmente approfondite) le assicurò immediata fama e divenne un costoso e irrinunciabile ornamento di ogni biblioteca naturalistica. A partire dalle tavole originali, nel corso del Settecento ne uscirono ben cinque edizioni, anche in altre lingue, l'ultima in Francia nel 1771. Ma nella seconda metà del secolo, mano a mano che la scienza fissava i propri metodi e si dotava di strutture istituzionali, a Maria Sibylla Merian (donna, autodidatta, artista) incominciarono ad essere negati i meriti scientifici: mentre lei si era concentrata sulle relazioni orizzontali tra mondo vegetale e animale, agli scienziati che le succedettero interessava classificare e catalogare; le sue illustrazioni, che tanto erano piaciute ai contemporanei per la qualità estetica, ora, con l'affermarsi delle convenzioni dell'illustrazione scientifica, apparivano costruite, innaturali, troppo estetizzanti. Così, per oltre un secolo e mezzo venne dimenticata. L'interesse per la sua opera rinasce intorno all'ultimo quarto del Novecento, nell'ambito degli studi di genere sul ruolo delle donne nell'arte e nella scienza, ed è prorompente. Nel 1990 la Germania ne stampa l'immagine sulla banconota da 500 marchi. Le sue opere vengono ripubblicate e volgarizzate in decine di pubblicazioni, utilizzate per copertine di CD, libri, poster o gadget. A luglio di quest'anno, in occasione del trecentesimo anniversario della morte (avvenuta appunto nel 1717) si sta organizzando un grande simposio internazionale (molto ricco il sito che le è stato dedicato in vista dell'evento). Una sintesi della sua vita, passata attraverso tre stadi, come quelle degli amati insetti, nella sezione biografie. La spettacolare ma sconosciuta Meriania L'omaggio di un genere del regno vegetale arrivò a fine Settecento, quando la fama della pittrice-naturalista era da tempo in declino. A creare in suo onore il genere Meriania fu il naturalista svedese Olof Peter Schwarz, nella sua monografia dedicata alla flora delle Indie occidentali (Plantae Indiae occidentalis, 1791). Una dedica azzeccata: infatti, anche se la specie tipo di Schwartz, M. purpurea, è originaria delle Antille, alcune altre specie crescono anche nella Guyana, ovvero il Suriname della cui fauna e flora Maria Sibylla fu la prima studiosa. Appartenente alla famiglia Melastomataceae, questo genere neotropicale comprende 70-90 specie di arbusti o piccoli alberi dalle fioriture decisamente spettacolari, con grandi fiori purpurei o aranciati a 5-6 petali con stami curiosamente ripiegati tutti da una parte. Presenti dal Sud del Messico fino al Sudest del Brasile, passando per le Antille e l'America centrale, hanno il maggior centro di biodiversità in Colombia, con 36 specie. Bastano già i nomi specifici per farne intuire la bellezza sensazionale: splendens, nobilis, speciosa, pulcherrima, addirittura fantastica. Tuttavia, endemiche di piccole aree montane, spesso a rischio, sono ben poco conosciute al di fuori dei paesi d'origine; nonostante il grande potenziale decorativo, con una sola eccezione, sono coltivate solo negli orti botanici. L'eccezione è la specie più nota, M. nobilis, un alberello originario della foresta nebulosa colombiana, dove vive tra i 1900 e 2900 metri, godendo per tutto l'anno di un clima mite e costantemente umido. Questa specie, con grandi fiori porporini, considerata uno degli alberi più belli del pianeta, per prosperare richiede dunque condizioni molto particolari: non sopporta né gli inverni rigidi né le estati calde. Ciò spiega perché nonostante l'eccezionale bellezza è rimasta una pianta per collezionisti, raramente coltivata fuori dei confini patrii. Per qualche informazione in più su queste magnifiche piante che meriterebbero maggiore notorietà si rimanda alla scheda. Sulla strada non di Damasco ma della Virginia, Catesby si converte da gentiluomo di modesti mezzi in raccoglitore e illustratore naturalista. Il frutto di undici anni di viaggio e di venti anni di lavoro di penna, pennello e bulino è la prima opera illustrata mai dedicata alla natura delle colonie britanniche d'America. A ricordarlo tanti nomi specifici e il "curioso" genere Catesbaea. Da gentiluomo di campagna a raccoglitore In un'epoca in cui non esisteva la fotografia, saper disegnare era un'abilità essenziale per un naturalista. Solo uno schizzo dal vero poteva rendere quei particolari che, una volta essiccata la pianta o preparato l'animale per la conservazione, sarebbero andati irrimediabilmente perduti. Le grandi spedizioni, finanziate dalle monarchie o dalle istituzioni scientifiche, comprendevano sempre almeno uno o due pittori; ma la maggior parte degli esploratori-cacciatori di piante si muoveva da solo, o con pochissimi compagni, e doveva saper fare da sé. Le note sul campo dei naturalisti del Settecento sono piene di schizzi e figure, talvolta di notevole qualità (basti pensare ai delicati acquarelli di Rudbeck il giovane o alle lussureggianti tavole di padre Plumier). Ma anche in questo contesto l'opera di Mark Catesby spicca per resa artistica e originalità della concezione. Tanto che Cromwell Mortimer, segretario della Royal Society, ebbe a definire la sua The Natural History of Carolina, Florida and the Bahama Islands, "la più bella opera che io conosca da quando è stata inventata l'arte della pittura". Nel 1712, Catesby, un inglese di buona famiglia, giunse a Williamsburg, allora capitale della Virginia, in visita a una sorella, sposata con un medico stabilitosi nella colonia. Vi sarebbe rimasto sette anni, ospite del cognato e dei suoi facoltosi amici; nel 1714 visitò anche brevemente le Antille. Folgorato dall'esuberanza di una natura pressoché ignota agli europei, dedicò buona parte del suo tempo, da solo o accompagnato da qualche amico (tra cui John Clayton), alle escursioni naturalistiche, alla raccolta di piante, semi e animali, agli schizzi dal vero. Al momento, non era molto di più di passatempo, anche se egli spedì semi e piante essiccate o in vaso ad alcuni "amici curiosi". Dopo il suo rientro in Inghilterra, nel 1719, furono proprio alcuni di loro a proporgli di trasformare la sua passione in una vera e propria attività. Nel 1721, grazie al farmacista e botanico dilettante Samuel Dale, cui aveva donato il suo erbario, fu presentato alla Royal Society. La qualità dei suoi disegni e il suo talento di naturalista convinsero un gruppo di influenti membri della prestigiosa istituzione, tra i quali spiccano Hans Sloane (futuro presidente della RS), William Sherard e Charles Dubois, tesoriere della compagnia delle Indie, a finanziare una vera spedizione nelle colonie britanniche americane. A questi sottoscrittori si unirono anche gentiluomini e ricchi collezionisti (come lord Chandos, il celebre protettore di Händel), studiosi e istituzioni di altri paesi (come Gronovius e il Jardin des plantes di Parigi), ma soprattutto il governatore della Carolina del Sud, Francis Nicholson, che gli garantì una pensione di 20 sterline annue per tutto il periodo che avrebbe trascorso nella colonia. Così nel 1722 Catesby attraversò di nuovo l'Oceano nei panni di raccoglitore e illustratore. Esplorò estensivamente la Carolina, dalla costa fino agli Appalchi, raccogliendo e ritraendo ad acquarello piante, alghe, animali, uova, conchiglie. Ritrasse anche animali marini, ma il suo soggetto di gran lunga preferito erano gli uccelli. Il suo tempo si divideva tra la raccolta degli esemplari, la loro preparazione per la spedizione ai suoi sponsor, la pittura degli acquarelli (spesso in più copie, una per sé e le altre per i suoi esigenti clienti, che chiedevano avidamente sempre nuovi invii, ma non erano altrettanto solleciti a spedirgli i soldi necessari per acquistare la carta, i colori, i materiali indispensabili per la conservazione e la spedizione). Esplorò anche parte della Georgia e nel 1725 passò nelle Bahamas, dove trascorse nove mesi, ospite dal governatore Charles Phinney. L'one man show di Mark Catesby Al suo ritorno in Inghilterra nel 1729, Catesby incominciò a lavorare a un'opera dedicata agli animali e alle piante osservati durante i suoi viaggi; suoi sarebbero stati sia i testi sia le illustrazioni. Sarebbe stata scritta non in latino, ma in inglese e in francese, perché destinata non ai dotti, ma ai "curiosi"; e avrebbe avuto un grande formato (in folio) per valorizzare al meglio le illustrazioni. Insomma, un progetto ambizioso e costosissimo, che, ancora una volta richiedeva il sostegno di ricchi sponsor. Nel mercato editoriale britannico era usuale il metodo della sottoscrizione; dopo un primo fascicolo di lancio, la pubblicazione di un'opera editoriale proseguiva a fascicoli periodici, che venivano inviati a scadenze prestabilite agli abbonati o sottoscrittori (Catesby chiamerà i suoi encouragers). Catesby lanciò la sua opera con un primo fascicolo che comprendeva 20 tavole, che egli presentò personalmente nel maggio 1729 alla regina Caroline, appassionata di giardinaggio. Gli altri avrebbero dovuto seguire al ritmo di uno ogni quattro mesi. Ma occorreva denaro liquido; a prestarglielo senza interessi fu il ricco mercante Peter Collinson; ma poiché la cifra non era sufficiente per pagare un incisore che trasferisse i disegni dagli acquarelli su lastre di rame, Catesby imparò la difficile tecnica e si sobbarcò anche questa parte dell'impresa, che si andava sempre più trasformando in un one man show: come naturalista aveva osservato sul campo piante e animali e scritto le note che ora si andavano trasformano nei testi bilingui in francese e inglese, come artista aveva dipinto gli acquarelli da cui traeva le incisioni; ma non basta: dopo la stampa, ciascuna copia (in bianco e nero) doveva essere colorata a mano. Da chi? Già sapete la risposta: dal solito Mark Catesby! Poiché i sottoscrittori (ci è giunta la lista) furono poco meno di 160 e ogni fascicolo, lo abbiamo detto, aveva 20 tavole, ogni quattro mesi l'indaffaratissimo Catesby doveva colorare uno per uno 3200 fogli ad acquarello (cioè circa 27 fogli al giorno). E intanto proseguire le ricerche consultando la ricca biblioteca di Hans Sloane e mantenersi lavorando come giardiniere presso diversi vivai. Unica collaborazione esterna quella di Sherard, che scrisse i nomi-descrizione latini (al tempo la denominazione binomiale linneana era di là da venire). Inizialmente il lavoro proseguì abbastanza rapidamente; tra il 1729 e il 1731 uscirono 5 fascicoli, con un totale di 100 tavole (la maggior parte delle quali ritrae uccelli) che costituiscono il primo volume, di Natural History of Carolina, Florida and the Bahama Islands, dedicato ancora una volta alla regina Caroline. Arrivò anche il riconoscimento scientifico, con l'ammissione alla Royal Society. Con il secondo volume, le cose si complicarono. Catesby si rese conto che, per completare l'opera, non erano sufficienti i materiali raccolti durante i suoi due viaggi. Poiché amava disegnare dal vero, fece appello a John Clayton (e più tardi a John Bartram) perché gli inviasse nuovi esemplari, soprattutto semi per il suo giardino o per i vivai in cui lavorava. Importante fu anche la frequentazione dei giardini dei suoi ricchi protettori, dove poteva vedere dal vivo, ormai rigogliose e ben ambientate, molte specie che aveva contribuito a diffondere in Gran Bretagna con i suoi invii di semi fin dagli anni in Virginia. Dovette comunque rassegnarsi a chiedere la collaborazione di altri artisti: l'amico George Edwards (che sarebbe stato il suo esecutore testamentario e avrebbe dipinto a mano le tavole della seconda edizione) e il celebre artista tedesco Ehret (che disegnò per lui tre tavole); qualche disegno fu ripreso (ma non si trattò quasi mai di una semplice copia) da opere già stampate. Il secondo volume, ancora formato da 5 fascicoli con 100 tavole, richiese 12 anni e fu completato nel 1743 (con dedica a un'altra regale appassionata, Augusta principessa di Galles); i soggetti si allargarono a mammiferi, insetti e animali marini, quasi sempre associati a una pianta. Prima della morte di Catesby (1749) uscirono ancora 20 tavole, vendute senza testo. Qualche approfondimento sulla sua vita nella sezione biografie. Una pittura "ecologica" L'opera di Catesby, che si era formato come autodidatta, è innovativa sotto molti punti di vista. Anche se alle volte le sue tavole sono ingenue, non rispettano le leggi della prospettiva (come l'immagine di un minuscolo bisonte su cui incombe una gigantesca Robinia pseudoacacia), sono poco accurate nei dettagli e piuttosto piatte, colpiscono per la freschezza; in particolare gli uccelli, il suo soggetto preferito, appaiono singolarmente vivi, come colti in un'istantanea. Prima di lui, le piante venivano ritratte secondo rigide convenzioni che risalivano a tempi di Fuchs; gli animali, evidentemente ritratti da esemplari morti, sembravano disposti in una vetrina di tassidermista. Fin dalla prima (un'aquila americana in picchiata che stringe tra le zampe la preda) Catesby porta vita e dinamismo nelle sue tavole; a partire dalla decima, incomincia ad associare ad ogni animale una pianta, scelta con criteri "ecologici": ad esempio, gli uccelli sono dipinti assieme alle piante dove fanno il nido o di cui si cibano. Si è detto che forse questa scelta nasce anche da esigenze pratiche (in tal modo, saranno necessarie la metà delle tavole, anche meno, visto che alle volte si aggiungono animali più piccoli, in particolare insetti); è molto probabile che sia stata influenzata dalle stupende immagini della pittrice Maria Sybilla Merian, la quale in Metamorphosis insectorum Surinamensium - una copia era posseduta da Sloane - unì una pianta da fiore e il suo insetto impollinatore. In ogni caso, il risultato è davvero straordinario, come potete vedere nella gallery qui sotto. E se volete sfogliare le pagine della sua opera e vedere tutte le tavole, visitate l'edizione elettronica a cura dell'Università della Virginia, completa di indici delle specie con i nomi binomiali aggiornati. Il contributo di Catesby alla conoscenza e alla diffusione della flora americana fu immenso, non solo grazie al suo libro. I suoi esemplari essiccati sono andati ad arricchire alcuni importanti erbari: quelli di Sherard e Dubois oggi conservati a Oxford, quelli di Dale e Sloane oggi al Natural History Museum londinese. Linneo si servì della Natural History come fonte per la tipizzazione e la denominazione di oltre 20 specie. Ma egli arricchì anche i giardini e i parchi d'Europa: grazie ai semi inviati da lui direttamente o ottenuti dai collaboratori americani, furono introdotte in Gran Bretagna, tra l'altro, Stewartia malacodendron, Kalmia latifolia e K. angustifolia, Catalpa bignonioides. Purtroppo alcune immagini di Catesby sono anche l'unica testimonianza di specie nel frattempo estinte, come il piccione migratorio, Ectipistes migratorius, scomparso all'inizio del XX secolo, ma comunissimo all'epoca di Catesby che lo descrisse come avido consumatore di ghiande (e infatti lo dipinse insieme a Quercus laevis (o quercia di Catesby). In occasione del tricentenario dell'arrivo di Catesby in Virginia, nel 2012 è stato fondato il Catesby Commemorative Trust, che gli ha dedicato un ricco volume commemorativo, The Curious Mr. Catesby, a cura di C. Nelson e D. J. Elliott. Il sito del CCT mette a disposizione video, immagini e articoli di approfondimento sull'interessante e poliedrico personaggio. Catesbaea e altri omaggi Fu Gronovius, il suo principale corrispondente europeo, a dedicare a Catesby il genere che l'avrebbe immortalato, Catesbaea: e ringraziando dell'omaggio, l'artista ritrasse C. spinosa nell'ultima tavola del primo volume di Natural History, insieme a una splendida farfalla. Nel 1753 Linneo ufficializzò la denominazione in Species plantarum. Molte sono poi le specie animali e vegetali che lo ricordano nel nome specifico: la rana toro, Lihobates catesbeianus, Lilium catesbaei, Gentiana catesbaei, Clematis catesbyana, Trillium catesbaei. Nel 1968, si è aggiunta Catesbya pseudomuraena, un pesce anguiforme che vive nelle acque delle Bahamas. Catesbaea è un genere della famiglia delle Rubiaceae che raccoglie una quindicina di specie originarie di una piccola area che include le isole Keys in Florida, le Antille e le Bahamas. E' una dedica perfetta per ricordare Catesby: egli fu il primo a descriverne una specie, appunto C. spinosa, e fu consapevole dei rischi dell'impatto ambientale dell'uomo sulla natura. Specie originarie di un ambiente molto particolare (i boschi aridi della fascia subtropicale), spesso endemiche di piccole aree, le Catesbaeae sono oggi minacciate dalla riduzione del loro habitat. La più nota è proprio la bella C. spinosa, un arbusto molto ramificato, nativo di Cuba e delle Bahamas, con rami quasi orizzontali, spinosi e fittamente ricoperti di piccole foglie che ricordano quelle del bosso e curiosi fiori penduli, gialli, a forma di imbuto con lunghissimo calice. Qualche notizia in più nella scheda. La pubblicazione di Flora Danica prosegue fin quasi alla fine dell'Ottocento, sotto sette curatori. Solo tre di loro sono ricordati da un genere botanico: Drejer, Schouw, Jens Vahl. E così scopriamo i minuscoli generi Drejera, Schouwia, Vahlodea e Mostuea (da dove salta fuori? leggete il post per saperlo). 7 curatori, 77 anni di lavoro Trascurata da Martin Vahl, la grande impresa di Flora danica era stata di fatto interrotta fin dal 1799. Le pubblicazioni ripresero solo nel 1806, due anni dopo la morte di Vahl. Per completare l'opera sarebbero stati necessari altri 77 anni e l'impegno di altri sette curatori. Solo tre di loro hanno avuto l'onore di essere ricordati da un genere celebrativo, e stranamente quelli che vi contribuirono in modo più episodico. L'immediato successore di Vahl, Jens Wilkens Hornemann (1770-1841), diede uno dei contributi più significativi: diresse l'opera per 34 anni, pubblicò 18 fascicoli (con più di mille tavole); successore di Vahl anche alla cattedra di botanica e alla direzione dell'Orto botanico di Copenhagen, fu un botanico non particolarmente innovativo, ma di solida preparazione, che si impegnò a fondo nella pubblicazione di Flora danica proprio perché non distratto da impegni scientifici più stimolanti, al contrario di Müller e Vahl. Per quanto riguarda l'onore postumo di dare il proprio nome a un genere botanico, fu insolitamente sfortunato: nel 1809 Willdenow gli dedicò il genere Hornemannia; a causa della priorità di quest'ultimo, vennero considerati non validi gli omonimi generi creati da Vahl (pubblicato postumo nel 1810) e da Bentham nel 1846. Ma per ironia della sorte anche Hornemannia Willd. è oggi un nome non valido: le due specie che ne facevano parte sono state assegnate una al genere Mazus, l'altra al genere Lindernia; il povero Hornemann deve accontentarsi di legare il suo nome all'Epilobium hornemanni (oltre che a un fungo agarico e una specie di cardellino). Da questo punto di vista, miglior sorte toccò ai suoi successori immediati, Drejer, Schouw e Jens Vahl (figlio di Martin) che nel 1843 curarono congiuntamente un unico fascicolo. Ma su di loro torneremo. Vediamo prima velocemente le vicende editoriali successive e citiamo i curatori, nessun dei quali è onorato da un nome celebrativo. Dal 1845 al 1853 l'opera fu affidata a Frederik Liebmann, che pubblicò tre fascicoli (240 tavole) e un volume di supplementi. In gioventù aveva viaggiato a Cuba e in Messico; anch'egli tenne la cattedra di botanica dell'Università di Copenhagen e la direzione dell'Orto botanico. Dopo la sua morte e una nuova lunga interruzione, un singolo fascicolo uscì nel 1848 grazie a Japetus Steenstrup e Johan Lange. Steenstrup (1813-1897) fu un importante zoologo, corrispondente di Darwin, non particolarmente interessato a un'opera come Flora danica. Sarà dunque il solo Johan Lange (1818-1898) a portarla finalmente a termine, facendo uscire tra il 1861 e il 1883 gli ultimi sette fascicoli e due volumi di supplementi, seguiti nel 1887 dagli indici alfabetici, sistematici e cronologici. Lange era un botanico di notevole spessore, che aveva compiuto studi approfonditi sulla flora danese, groenlandese e europea, in particolare spagnola; la sua revisione del sistema linneano ebbe una rilevante influenza nella nascita del Codice di nomenclatura botanica, il sistema oggi in uso. Nonostante tutti questi meriti, anche il suo ricordo è affidato unicamente a nomi specifici, come Armeria langei o Dianthus langeanus. Tre botanici per un fascicolo Curiosamente, come abbiamo anticipato, sono invece ricordati da almeno un nome di genere (sebbene si tratti di generi piccolissimi e poco noti) i tre curatori del fascicolo 40, uscito nel 1843. E' ora di fare la loro conoscenza. Salomon Drejer (1813-1842) morì giovanissimo proprio mentre ne stava preparando la pubblicazione; talentosa promessa della botanica danese, era un esperto di Cyperaceae e aveva già pubblicato alcuni notevoli lavori. La sua morte precoce destò grande commozione; gli vennero dedicati poemi, numeri monografici di riviste e un canto funebre per coro maschile, composto in occasione del suo funerale da Niels Gade, il maggior musicista danese dell'Ottocento; Drejer era stato a sua volta musicista e aveva fondato una società corale studentesca. Qualche informazione in più nella biografia. Dopo la sua morte, fu chiamato a completarne il lavoro Joakim Frederik Schouw (1789-1852), che di Drejer era stato professore. Schouw, di professione avvocato, si era appassionato alla botanica quando nel 1812 aveva avuto occasione di accompagnare Christen Smith e Hornemann in una spedizione in Norvegia destinata alla raccolta di esemplari per Flora Danica. Era stato grandemente colpito dalla relazione tra vegetazione e altitudine; pur continuando ad esercitare la professione forense, aveva incominciato a studiare a fondo la distribuzione geografica delle piante e si era laureato in botanica proprio con una tesi sull'argomento (Dissertatio de sedibus plantarum originariis) in cui tra l'altro sostenne teorie evoluzionistiche. Lasciata ormai la carriera legale, divenne un botanico a tutti gli effetti: fece viaggi in Europa, visitando colleghi come de Candolle; a Copenhagen venne creata apposta per lui una seconda cattedra di botanica. Il suo principale contributo scientifico fu Grundtræk til en almindelig Plantegeographie ("Fondamenti di fitogeografia generale", 1822). Grazie a questi contributi, egli fu uno dei pionieri della fitogeografia, riconosciuto in tutta Europa. Tuttavia a partire dagli anni '30, benché la sua carriera accademica proseguisse (diventò anche direttore dell'Orto botanico di Copenhagen), i suoi interessi scientifici passarono in secondo piano di fronte al crescente impegno politico che lo vide prima difensore della libertà di stampa, quindi leader del partito liberale, infine presidente dell'assemblea costituente nel movimentato '48 e candidato a un ministero. Per approfondire questo poliedrico personaggio, si rinvia alla biografia. La molteplicità degli impegni, oltre a una salute precaria, spiegano perché nella pubblicazione del fascicolo 40 di Flora danica fu affiancato da un altro curatore, Jens Vahl (1796-1854), figlio maggiore di Martin. Laureato in farmacia, ma con una formazione articolata anche come chimico e botanico, Vahl junior fu un importante specialista della flora artica: esplorò nel corso di lunghi viaggi la Groenlandia (1828-30; 1829-36); nel 1838-39 partecipò a una spedizione francese a Capo Nord e all'isola Spitsbergen. I suoi viaggi gli consentirono di raccogliere un grande erbario, con note particolarmente accurate sulle circostanze della raccolta, la localizzazione e l'habitat. Al suo rientro a Copenhagen nel 1840 divenne assistente all'Orto botanico; progettò una Flora groenlandica, che tuttavia non riuscì a completare a causa della morte. Qualche notizia in più nella biografia. Drejera, Schouwia, Vahlodea e... Mostuea (?) Sfortunato in vita come negli onori postumi Solomon Drejer vede appeso a un filo il suo genere celebrativo. Drejera fu istituito qualche anno dopo la sua morte (1847) dal botanico tedesco Nees von Esenbeck separandolo da Justicia (famiglia Acanthaceae). Oggi quasi tutte le sue undici specie sono stati riassegnate ad altri generi; rimane ancora da risolvere lo status di due specie brasiliane, D. polyantha e D. ramosa, forse da includere nel genere Thyrsacanthus. Un secondo genere, Drejerella, creato da Lindau qualche anno più tardi, è oggi considerato una sezione di Justicia. Proprio come Hornemann, dunque, Drejer rischia di perdere il suo genere celebrativo. Qualche notizia in più sullo sfuggente (e molto probabilmente non valido) genere Drejera nella scheda. A ricordare l'amico Schouw provvide invece il grande tassonomista de Candolle nel 1821. Schouwia (Brassicacae) è un genere monotipico che comprende la sola specie S. purpurea, un'erbacea annuale o perennante con foglie semisucculente e fiori violetti, diffusa dal Nord Africa alla penisola arabica, in ambienti deserti montani, che era stata descritta per la prima volta da Forsskål con il nome di Subularia purpurea. Qualche notizia in più, soprattutto sull'habitat e sulla sua importanza ecologica nella scheda. A fare la parte del leone è però Jens Vahl, che di generi se n'è visti assegnare ben due. Il primo è Vahlodea (il nome Vahlia era già "occupato", in celebrazione del padre Martin), una graminacea (Poacea), stabilita come genere dal botanico svedese Fries nel 1842. Anche in questo caso si tratta di un genere monotipico, rappresentato da V. atropurpurea, un'erba perenne circumboreale e sudamericana dei pascoli umidi della zona artica e subartica e dell'alta montagna (in inglese è chiamata Mountain hairgrass). Presente anche in Scandinavia e Groenlandia, è una scelta particolarmente adatta per ricordare un grande esperto di flora artica. Spesso viene assegnata al genere Deschampsia, ma in questo caso gli studi più recenti ne confermano l'indipendenza. Qualche approfondimento nella scheda. L'altro genere dedicato a Jens Vahl è formato a partire dal suo secondo nome, affine al secondo nome dell'onomastica anglosassone (il nome completo era Jens Laurentius Moestue Vahl): si tratta di Mostuea, della minuscola famiglia Gelsemiaceae, che comprende solo due generi, recentemente separata dalla famiglia Loganiaceae, creato nel 1853 dal botanico danese Didrichsen. Con le sue quattro-otto specie, è anche il genere più cospicuo tra i piccolissimi generi dedicati ai nostri tre protagonisti; si tratta di piccoli arbusti o rampicanti legnosi, con infiorescenze con graziosi fiori bianchi o lilla imbutiformi a cinque petali e curiosi frutti cuoriformi, con una distribuzione transoceanica in Africa e Sud America. E' piuttosto ironico che sia praticamente impossibile, a meno di fare una ricerca accurata, risalire dal nome del genere al suo dedicatario. E non si tratta di un caso unico. Anche per Mostuea, qualche notizia in più nella scheda. All'inizio la botanica fu al servizio della medicina e si studiarono le piante officinali; poi se ne scopersero le valenze economiche, e si studiarono le piante utili; ma dalla fine del Settecento, alcuni scienziati iniziano a studiare la natura di per se stessa. E il microscopio apre orizzonti sconosciuti. Una pagina non insignificante di questa storia l'ha scritta Otto Friedrich Müller, secondo curatore di Flora Danica, e dedicatario - grazie al figlio di Linneo - dell'elusiva Muellera. Uno zoologo armato di microscopio Nel 1772, a continuare la grande impresa di Flora Danica, interrotta dl licenziamento di Oeder, fu chiamato Otto Friedrich Müller. Una scelta forse discutibile, dettata da motivazioni politiche: Müller, essenzialmente uno zoologo, era lo scienziato danese più noto all'estero e soprattutto non era tedesco, o, per lo meno, era nato in Danimarca. Infatti, anche se suo padre era un musicista di corte di origine tedesca, era nato a Copenhagen nel 1730; aveva studiato teologia e legge all'Università, poi, prima di laurearsi era passato al servizio della potente famiglia nobile Schulin, come precettore del piccolo Frederik Ludwig detto Fritz. Inspirato dalla splendida natura che circondava la tenuta degli Schulin, Fridrichsdalin, Müller incominciò a studiare scienze naturali da autodidatta, per insegnare a se stesso e al proprio allievo. Si servì in particolare dei libri di Linneo, che a partire dagli anni '60 divenne anche uno dei suoi corrispondenti. All'inizio, a interessarlo fu soprattutto la botanica, ma ad affascinarlo erano anche gli insetti. Nel 1761 si procurò il primo microscopio e incominciò a specializzarsi nello studio degli animali piccolissimi. Tra il 1765 e il 1767, accompagnò il suo pupillo in un grand tour che portò i due in Germania, Svizzera, Italia, Francia, Olanda. Visitarono musei, palazzi e teatri; ovunque, Müller ebbe cura di prendere contatto con gli ambienti scientifici e, in un certo senso, promuovere se stesso; grazie alle nuove conoscenze e alla stesura di brevi opuscoli, divenne così membro di molte accademie europee. Con molti importanti scienziati strinse duraturi rapporti scientifici e corrispose per tutta la vita; citiamo tra gli altri von Haller, Scopoli e Allioni. Fu quest'ultimo, nel 1766, a pubblicare un'opuscolo di Müller, Manipulus insectorum taurinensium, in cui il danese descrisse 185 insetti raccolti a Torino, tra la collina e l'area della Dora. Nel 1767, durante una sosta di cinque mesi a Strasburgo, Müller pubblicò la sua unica opera di botanica, Flora Fridrichsdalina, un catalogo delle piante che vivevano nei pressi della tenuta degli Schulin. Per un breve periodo, tra il 1771 e il 1772, egli lavorò poi come archivista del dipartimento norvegese dello Schacchiere, incarico che fu soppresso dopo la caduta di Struensee. Ma proprio allora per lo scienziato, sposatosi nel 1773 con una ricchissima vedova norvegese, grazie alla sicurezza economica, iniziò il periodo più proficuo. Gli anni 1774-1784 furono segnati da uno stupefacente numero di pubblicazioni, in particolare nei campi della zoologia trascurati da Linneo e dalla sua scuola; oltre a insetti, vermi, molluschi, si dedicò in particolare allo studio degli animali unicellulari con un importante libro sugli infusori. Quando uscirono i primi volumi di Flora Danica, concepì il progetto di realizzarne il contraltare nel campo della fauna, raccogliendo in Fauna Danica le tavole illustrative e le descrizioni di tutti gli animali del regno di Danimarca-Norvegia. Mentre già lavorava a questo progetto, gli venne assegnato l'incarico di continuare la pubblicazione di Flora Danica: due opere mastodontiche di cui ovviamente non era destinato a vedere la fine. Benché il suo interesse prioritario andasse all'opera zoologica (riuscì a scriverne l'introduzione, il Prodromus, importantissimo per la sua classificazione innovativa degli invertebrati, e due dei quattro volumi), il suo intervento su Flora Danica non fu di semplice routine. Anche se a sfogliare le tavole non avvertiamo alcuna discontinuità (la mano di pittore e incisore è ancora quella dei Rössler), in realtà sta cambiando sottilmente il focus dell'opera: dalle piante di interesse economico, secondo il progetto originale del botanico-economista Oeder, al mondo vegetale in tutte le sue manifestazioni, anche le più umili (i funghi, all'epoca, erano ancora considerati vegetali). Ecco allora farsi via via più numerosi, nei cinque fascicoli curati da Müller, le alghe, i funghi, i licheni. Alcune tavole destarono persino l'indignazione di un anonimo recensore: sono quelle che rappresentano le muffe che crescono sulla frutta marcia e su una mosca morta; chi avesse acquistato il libro per conoscere le piante utili e nocive nella produzione dei foraggi, fa notare l'anonimo, a vedersi davanti frutta marcia e mosche schifose, l'avrebbe gettato via per sempre! Ai nostri occhi meravigliati, invece, il fungo saprofita che avvolge la mosca, ingrandito molte volte, appare quasi una flora fantastica, degno di un artista visionario come Leo Lionni. In un'altra tavola, viene ritratta una diatomea: la scoperta e la descrizione della prima diatomea (Bacillaria paradoxa) si deve infatti a Müller, che la scoprì in una delle esplorazioni delle acque del golfo di Oslo a cui si dedicava ogni estate. Esausto dal superlavoro, Müller morì poco più che cinquantenne, nel 1784. Come sempre, qualche notizia in più nella biografia. Muellera: frutti come collane Al grande scienziato danese il figlio di Linneo aveva voluto dedicare nel 1782 un nuovo genere di leguminose sudamericane, Muellera. Nei secoli successivi, esso darà del filo da torcere ai tassonomisti; appartenente alla tribù Millettieae delle Fabaceae (il genere più noto di questo gruppo è Wisteria, quello del glicine), fino a qualche anno fa le si assegnavano per lo più due specie, una più meridionale, un albero delle foreste umide dalla Colombia al Brasile, M. denudata; una più settentrionale, un albero o arbusto delle foreste aride dal Messico al sud America settentrionale, M. frutescens (oggi sinonimo di M. monilis). Elemento più caratteristico gli strani baccelli, detti "moniliformi": i restringimenti e le dilatazioni ricordano le perle di una collana. La maggior parte degli studiosi propendeva anzi per considerare Muellera un sinonimo di Lonchocarpus. A rivoluzionare questa situazione, nel 2012 uno studio basato sul DNA, condotto da un gruppo di botanici brasiliani, ha confermato l'indipendenza del genere Muellera, al quale dovrebbero anzi essere assegnate ben 26 specie, in parte prima attribuite a Lonchocarpus, in parte ad altri generi affini. La proposta ha faticato un po' ad imporsi; nell'estate del 2016, quando ho redatto questo post, Plant list gli attribuiva ancora solo tre specie (due delle quali diverse da quelle citate). Oggi (estate 2019) la situazione si è capovolta: Plants of the world on-line accetta pienamente il genere, cui attribuisce 32 specie distribuite nelle regioni tropicali dell'America centrale e meridionale. Una delle più interessanti tra queste "nuove" specie è M. sericea (sin. Bergerona sericea), un albero nativo della foresta pluviale di Argentina, Bolivia e Paraguay, a volte usato anche come ornamentale per i bei fiori rosa porpora. Rinvio alla scheda per qualche approfondimento. Per un ventennio, il medico tedesco Oeder è l'attivissimo factotum della botanica danese; è lui, tra l'altro, a ideare e a varare la magnifica Flora Danica, uno dei testi più imponenti e belli della storia della botanica. Ma il suo zelo riformatore gli costò molto caro. Grazie a Linneo, gli rimase se non altro la dedica della poco nota Oedera. Un botanico molto impegnato Nel Settecento, con la nascita della dottrina fisiocratica, che lega all'agricoltura la prosperità della nazione, cresce l'interesse per lo sfruttamento economico delle piante. E' in questa atmosfera che nel 1752 J. H. E. Bernstorff, ministro degli esteri danesi, chiama un giovane medico e botanico bavarese, Georg Christian Oeder, a rivestire la neonata cattedra di "Economia sociale" all'Università di Copenhagen; la levata di scudi dell'ambiente accademico danese, ostile alla nomina di uno studioso straniero, fa fallire il progetto. Tuttavia, con l'appoggio del re Federico V e del primo ministro Moltke, Bernstorff rilancia: nasce l'Istituzione Botanica Reale, modellata sul Jardin des Plantes di Parigi, del tutto autonoma dall'università, finanziata dalla Corona, con lo scopo di istituire un giardino botanico e una biblioteca. Oeder diventa così curatore del Giardino botanico e lettore di botanica applicata, con il titolo di Professor botanices regius. Oltre alle lezioni, attivissimo, Oeder si impegna su tre fronti. Il primo luogo, l'allestimento del Giardino Botanico. Fin dal Seicento l'Università di Copenhagen si era dotata di un orto dei semplici ma l'istituzione, priva di fondi, aveva finito per declinare. Il nuovo giardino, fondato nel 1752, era situato a nord dell'Ospedale Frederik, diviso in due parti da Amaliegade: la parte occidentale, con una serra, fu aperta al pubblico nel 1763; la parte orientale non venne mai realizzata. In effetti, già nel 1778 il giardino fu trasferito nei pressi di Charlottenborg, dove si trova ancora oggi. Il secondo impegno fu la realizzazione di una biblioteca specializzata, con particolare attenzione alla botanica applicata. Grazie ai fondi messi a disposizione dal sovrano e ai contatti esteri, nel 1754 venne acquistata l'intera biblioteca del medico britannico Richard Mead, con oltre 1300 volumi; altri testi inglesi e americani furono procurati da Philip Miller, direttore del Chelsea Physic Garden. Il terzo progetto fu il più ambizioso. Nel 1753 Oeder propose di studiare e documentare la flora del regno di Danimarca-Norvegia e dei possedimenti della corona (Schleswing-Holstein, Oldenburg-Dalmenhorst, Islanda, isole Faroe e Groenlandia), pubblicando i risultati in una serie di volumi in folio con descrizione e usi di ciascuna specie, corredate da grandi tavole realizzate in calcografia. Lo scopo era duplice: individuare piante utili in medicina, orticultura, agricoltura e giardinaggio; diffondere la conoscenza della botanica e delle proprietà economicamente utili delle piante. Nasce così Flora Danica, un monumento della botanica e un capolavoro dell'illustrazione botanica, destinato a impegnare Oeder per quasi vent'anni e tre o quattro generazioni di botanici danesi per oltre un secolo: il primo volume uscirà infatti nel 1761, l'ultimo 123 anni dopo, nel 1883. Per raccogliere le piante, Oeder si impegna in diversi viaggi, in particolare tra il 1758 e il 1760 visita le montagne della Norvegia, dove rinnova la conoscenza con Gunnerus, vescovo di Trondheim, che sarà suo corrispondente negli anni successivi. A partire dal 1761, riesce a pubblicare un fascicolo all'anno (per un totale di 10 fascicoli, con 600 tavole). All'inizio degli anni '70, tuttavia, l'energico e abile botanico, come economista, si trovò coinvolto in una delle pagine più discusse della storia danese. Dal settembre 1770, per circa sedici mesi, in seguito alla grave malattia mentale del re Cristiano VII, il potere fu di fatto nelle mani del medico personale del re, il tedesco Johann Friedrich Struensee, convinto illuminista, che varò a ritmo febbrile una serie di riforme invise alla corte e alla nobiltà danese: tra le altre, l'emancipazione dei servi, l'abolizione della tortura, la cancellazione del carcere per debiti. Oeder, a sua volta un riformatore illuminista, convinto sostenitore della necessità di una riforma agraria e dell'emancipazione dei contadini, sui quali gravavano ancora vincoli feudali, diventò uno dei suoi più ascoltati consiglieri ed entrò a far parte di molte commissioni. Quando venne varato un catasto, base indispensabile per una tassazione più equa, fu Oeder a predisporre i dati delle parrocchie di varie aree del paese. Fece parte anche della commissione che doveva elaborare la riforma universitaria. Tuttavia nel gennaio 1772, una congiura di corte portò alla caduta di Struensee che venne arrestato, processato per alto tradimento - con l'accusa, fondata, di essere l'amante della regina - e condannato a morte. Seguì una reazione feroce, che portò alla cancellazione di tutte le riforme e al siluramento dei collaboratori di Struensee. Tra loro, anche Oeder che perse il posto di professore (quindi anche gli incarichi di curatore dell'orto botanico, della biblioteca e di Flora danica). Da quel momento, visse una vita oscura di piccolo funzionario a Oldenburg, località presto ceduta a un duca tedesco - di fatto un esilio mascherato; solo due anni prima della morte (avvenuta nel 1791) venne nobilitato da un altro convinto riformatore, l'imperatore Giuseppe II. Quale informazione in più nella biografia. Dalla botanica alla mensa reale Ma torniamo a Flora Danica. Il progetto varato da Oeder si rivelò ambiziosissimo ed è improbabile che, anche se non fosse stato silurato, egli sarebbe riuscito a realizzarlo. Tanto che, in corso d'opera, l'impresa cambiò natura: poiché i testi che avrebbero dovuto accompagnare le tavole (le descrizioni delle piante e le indicazioni dei loro usi economici e medici) non furono mai scritti, si trasformò in uno spettacolare album illustrato. Oeder riuscì unicamente a scrivere un'introduzione alla botanica e una lista parziale delle piante (relativo alle sole crittogame). Il licenziamento gli impedì di scrivere altri testi e i suoi successori vi rinunciarono definitivamente. Flora Danica si presenta dunque come una raccolta di splendide tavole calcografiche in folio (ben 3240), il catalogo completo della flora spontanea danese; in via di principio, le piante, ritratte dal vero, sono a grandezza naturale (tranne le piante grandi, riprodotte in scala con particolari a grandezza naturale) e occupano una tavola ciascuna - ad eccezione di alcuni muschi. I particolari che permettono di distinguere una specie dall'altra sono disegnati a parte; per le piante più piccole e i particolari minuti, venne utilizzata una lente d'ingrandimento. Gli artisti di cui si servì Oeder erano anch'essi tedeschi, padre e figlio: Michael Rössler (1705-77), il padre, era l'incisore e Martin Rössler (1727-82), il figlio, il pittore. Come si è detto, l'opera aveva anche un fine divulgativo. Per questo, ne vennero predisposte due versioni: una di base, con le tavole stampate in bianco e nero, una di lusso con le tavole colorate a mano; grazie al sostegno del re, vennero vendute a un prezzo "politico": ciascun fascicolo di 60 tavole costava 4 rix-dollari nella versione economica, 6 in quella di lusso. Inoltre per la diffusione si coinvolse la chiesa: copie dell'edizione base vennero inviate ai vescovi che avrebbero provveduto a distribuirle ai pastori, alle scuole parrocchiali e alle persone colte; in effetti, nella Danimarca del Settecento, non esistevano scuole pubbliche laiche, l'istruzione passava totalmente attraverso la chiesa luterana, che d'altra parte, in quanto chiesa di stato, dipendeva dal re. Dopo il siluramento di Oeder, l'opera rischiò di essere a sua volta abbandonata. Tuttavia, dopo qualche anno di interruzione, fu affidata a Otto Friedrich Müller, uno zoologo di chiara fama, scarsamente interessato alla botanica, tanto che in otto anni (1775-1782) pubblicò soltanto cinque fascicoli. Con il terzo curatore l'opera tornò nelle mani di un botanico, il grande Martin Vahl (1787-1799) e proseguì, tra interruzioni e riprese, fin quasi alla fine del XIX secolo, con J. W. Hornemann (1806-1840), S. Drejer, J. F. Schouw e Jens Vahl (1843), F. Liebmann (1845-1853), J. Steenstrup e Johan Lange (1858), Johan Lange da solo (1861- 1883), che concluse l'opera e ne scrisse gli indici. Giunta alla fine, l'enorme pubblicazione era costituita da 51 parti e 3 supplementi. Grazie alla biblioteca nazionale danese, è possibile non solo conoscerne meglio la storia, ma sfogliare la spettacolare opera, che è stata integralmente digitalizzata nel sito Flora danica on-line. Non perdetevi una visita: la bellezza artistica e la precisione scientifica hanno qui raggiunto uno dei loro vertici. Ma nel frattempo Flora Danica conosceva una nuova incarnazione, quella che probabilmente l'ha resa più nota. Nel 1790 il principe ereditario Federico ordinò alle manifattura di Copenhagen un servizio da tavola decorato con disegni tratti dalle tavole di Flora Danica, che avrebbe dovuto essere donato alla zarina Caterina II; in finissima ceramica, completamente dipinto a mano, a realizzarlo fu chiamato Johan Christoph Bayer, uno dei pittori botanici che aveva lavorato per i volumi sotto la supervisione di Martin Vahl. Lo splendido servizio, che comprendeva 1802 pezzi, però non giunse mai in Russia; rimase in possesso della corona danese, che ancora oggi se ne serve in occasione di ricevimenti di stato. Diventato uno dei più prestigiosi servizi di porcellana di ogni tempo, è tuttora in produzione alla Royal Copenhagen (dipinto rigorosamente a mano, scegliendo tra oltre 3000 motivi decorativi tratti dalle illustrazioni di Flora Danica). Oedera, un'asteracea sudafricana Quanto a Oeder, poco prima di essere silurato fece in tempo a ricevere l'omaggio di Linneo che nel 1771 (Mantissa Plantarum altera) gli dedicò il genere sudafricano Oedera separandolo dall'europeo Buphthalmum. Oedera, della famiglia Asteraceae, è un genere endemico del Sud Africa, con circa 18 specie delle Province del Capo orientale e del Capo orientale. Si tratta di piccoli arbusti eretti, di portamento che può ricordare quello dell'erica, con foglioline spesso strette, aghiformi, adatte a sopportare l'aridità, e capolini gialli, singoli in alcune specie, raccolti in dense infiorescenze in altre. Una dozzina di specie è caratteristica di un ambiente molto particolare, il fynbos, la vegetazione arbustiva che riveste una piccola striscia costiera del Capo Occidentale, soprannominato Cape Floral Kingdom per l'abbondanza di piante (almeno 8000 specie) e la ricchezza di endemismi (circa 4000 specie). Similmente alla macchia mediterranea, che ne è l'equivalente nelle nostre latitudini, è una formazione vegetale xerofita dominata da arbusti. Tra i gruppi più importanti, si annoverano anche numerose Asteraceae, appartenenti a generi affini tra loro, Relhania, Rosenia, Nestlera, Leysera, e appunto Oedera, che si distingue dagli altri per alcune caratteristiche, ad esempio per le foglie prive di tomento. Alcune di esse, come O. genistifolia e O. squarrosa possono talvolta assumere il ruolo di specie dominanti. Qualche informazione in più nella scheda. Medico papale, ma anche poeta, Castore Durante inventa una formula vincente per il suo Herbario, che per circa duecento anni sarà un'opera di riferimento per medici e farmacisti. Guadagnandosi anche la dedica del genere Duranta da parte di Linneo, con la mediazione del solito Plumier. Versi mnemonici e xilografie pirata Tra gli amici e corrispondenti di Cortuso, con il quale scambiava poesie piene di elogi reciproci, troviamo anche la poliedrica figura di Castore Durante, archiatra papale e poeta bilingue. Autore di traduzioni in ottave dell'Eneide e di poemi sacri in italiano e latino, si fece una fama di medico e erborista, ovvero semplicista nel linguaggio del tempo, che lo portò a Roma come archiatra e titolare di una cattedra di "semplici" all'Archiginnasio. Frutto di vent'anni di pratica medica e di ricerche (più libresche che sul campo) è il suo Herbario nuovo (1585) che nel panorama dell'editoria botanica del tardi Rinascimento si distingue non per la dottrina o le novità scientifiche - si tratta essenzialmente di un'opera compilativa - ma per la singolare veste editoriale che gli assicurò un successo duraturo. In primo luogo è un'opera agile, volutamente divulgativa che per lo più condensa in una singola colonna la trattazione di ciascuna delle quasi novecento sostanze presentate, in uno stile chiaro e gradevole. Ma soprattutto ad attirare i curiosi, oggi come allora, sono i versi latini che aprono ciascuna voce, sintetizzando in poche righe, pensate per essere apprese a memoria, le virtù di ciascun semplice. Seguono, poi in lingua italiana - altra singolarità del libro è dunque di essere bilingue - i nomi (in greco, latino, italiano e talvolta altre lingue, compreso l'arabo), una succinta descrizione ("forma"), indicazioni sull'habitat ("loco"), le virtù, distinte in "di dentro" e "di fuori" (noi oggi diremmo per uso interno e esterno). Durante fu attento alle novità che arrivavano dal Mediterraneo orientale e dalle Indie; ad esempio, fu tra i primi a dedicare una voce al tabacco, da lui chiamato erba di Santa Croce, dal nome del cardinale Prospero di Santa Croce, nunzio apostolico in Portogallo, che nel 1561 ne riportò a Roma alcuni semi, probabilmente di Nicotiana rustica. Come i suoi contemporanei, anche Durante non manca di elogiare la pianta come panacea di tutti i mali e la celebra in versi latini, che vennero poi anche ripresi e ripubblicati in una miscellanea edita ad Amsterdam. Un elemento di successo del libro furono sicuramente le xilografie che accompagnano ciascuna voce, stilizzate e essenziali - spesso si tratta di plagi semplificati di tavole del Kreüterbuch di Fuchs e dei Ragionamenti di Mattioli - ma proprio per questo di sicuro effetto decorativo. Furono realizzate dall'incisore Leonardo Parasole, originario di Norcia, ma attivo a Roma, dove dirigeva una bottega di incisori-tipografi nella quale lavoravano i suoi fratelli, ma anche due notevoli artiste, sua moglie Girolama e sua cognata Isabella (o Elisabetta). E' purtroppo infondata la notizia, ampiamente ripresa dalla rete, che Leonardo Durante abbia realizzato le xilografie su disegni della moglie Isabella (che, come si è visto, in realtà era sua cognata) o che quest'ultima abbia realizzato le xilografie della terza edizione. Dico purtroppo, perché se l'informazione fosse stata vera si sarebbe trattato di una delle prime illustratrici botaniche. Ma torniamo all'Herbario nuovo; dopo la prima edizione, uscita a Roma nel 1585, fu più volte ristampato da editori veneziani; dopo oltre ottant'anni dal sua uscita, ne venne approntata una seconda edizione - sempre a Venezia - curata da uno speziale veneziano, che integrava molte piante esotiche giunte in Europa nel frattempo (come ribes, tè, cacao); una terza edizione ci porta addirittura al 1718, segno del duraturo successo dell'opera, che nel Cinquecento era stata tradotta anche in tedesco e in spagnolo. Quanto a Durante, il medico-poeta nel 1586 bissò il successo con il Tesoro della sanità, un manuale di consigli igienici e ricette di medicina popolare che in parte tocca anche la botanica, dato che la seconda parte è dedicata agli alimenti giovevoli o nocivi. E' un altro testo divulgativo semplice e chiaro, che ebbe undici edizioni nel Cinquecento e ventiquattro nel Seicento, affermandosi come prontuario di facile lettura. Durante, nato nel 1529, era già in età avanzata al momento di questi successi editoriali, immediatamente dopo i quali si ritirò a Viterbo, dove morì nel 1590. Altre notizie nella biografia. Duranta, grappoli azzurri per i climi miti La grande diffusione dell'Herbario di Durante giustifica l'omaggio che volle tributargli Plumier nel suo Nova plantarum americanarum genera, dedicandogli la Castorea (nome quindi ricavato non dal cognome, ma dal nome di battesimo del medico umbro). A sua volta Linneo, nel 1754, riprese la dedica, ma fissò il nome del genere in Duranta, sulla base del cognome, secondo la regola da lui stesso stabilita. Duranta è un genere di circa 20 specie di arbusti e piccoli alberi della famiglia Verbenaceae, originari dell'America subtropicale e tropicale, dalla Florida all'Argentina. Alcune specie sono state introdotte nei giardini come piante ornamentali, per le fioriture, bianche o viola, e le bacche, arancio brillante o giallo dorato. Per questa via, soprattutto D. erecta, la specie più nota e coltivata, si è naturalizzata nella fascia tropicale, tanto da essere considerata invasiva in Australia, Cina, Sud Africa e in alcune isole del Pacifico. Questa specie (nota anche con il sinonimo D. repens) è un piccolo arbusto dal portamento variabile - talvolta eretto, talvolta strisciante, talvolta arboreo - originario del Centro America, con piccole foglie ovali persistenti; dall'inizio dell'estate all'autunno, all'apice dei fusti porta lunghe pannocchie di fiori viola chiaro o blu con margine bianco; molto decorative anche le bacche dorate, che persistono per settimane (sono però tossiche, come anche le foglie). Qualche notizia in più, soprattutto sulle cultivar selezionate negli Stati Uniti e in Australia, nella scheda. Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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