Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda.
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Nel Settecento il medico e botanico Kniphof tenta per primo di sfruttare commercialmente il metodo della stampa naturale. Perfeziona la tecnica, riuscendo a produrre tavole qualche volta di una precisione insuperata, qualche volta stile "mostro di Frankestein". I lettori apprezzano, i colleghi pure e uno di loro gli dedica il fiammeggiante genere Kniphofia. Un metodo alternativo per ritrarre le piante Visti i costi e l'impegno richiesto da un'opera botanica illustrata, i botanici cominciarono presto a pensare a sistemi alternativi; un'idea in teoria semplice, ma difficile da mettere in pratica, era utilizzare le piante stesse come matrici naturali, stampando la loro impronta con diverse tecniche. L'idea risale ancora al Medioevo e fu applicata variamente nel Rinascimento; nel codice Atlantico, Leonardo da Vinci stampò una foglia di salvia, dopo averla cosparsa di una mistura di olio e nerofumo (di cui fornisce anche la ricetta). Nel Cinquecento il profumiere fiorentino Zenobio Pacini, per identificare le piante usate nella sua professione, realizzò un erbario pressando tra due fogli di carta piante inchiostrate da entrambi i lati. Tecniche simili usò nel Seicento il botanico napoletano Fabio Colonna. In tutti questi casi, di ciascuna pianta veniva realizzato un singolo esemplare, destinato a uso privato. Il primo a pensare a un utilizzo commerciale della "stampa naturale" fu il medico e botanico tedesco Johann Hieronymus Kniphof. In effetti, nel Settecento, anche grazie alle numerose introduzioni di nuove, magnifiche piante da Americhe, Asia e Africa, l'interesse per la botanica era sempre più diffuso e esisteva un vasto pubblico potenziale per belle opere illustrate dai costi non proibitivi. Nel 1733 l'allora giovane medico fece stampare un Kräuter-Buch, cioè un libro sulle piante officinali, dal titolo Botanica in originali, das ist Lebendig Kräuter-Buch ("Botanica in forma originale, cioè Erbario vivo"), accompagnato da 200 tavole realizzate con piante appiattite, seccate, inchiostrate quindi stampate in bianco-nero con un torchio da stampa su carta sottile ma robusta, tale da ricevere facilmente l'impronta dell'esemplare vegetale. Alcune copie - quelle più costose - erano poi dipinte a mano. La tecnica da lui usata (sebbene nota nelle linee generali) si avvaleva di alcuni "segreti di bottega" che ancora oggi rimangono misteriosi. Il prodotto dovette avere un certo successo se nei vent'anni successivi Kniphof continuò ad accrescere il suo erbario, ricavandone due nuove edizioni, davvero imponenti, questa volta in latino, utilizzando (fu tra i primi a farlo) la nomenclatura linneana e le descrizioni di Species Plantarum. Il frontespizio, debitamente incorniciato da foglie e fiori stampate secondo la nuova tecnica, è un vero e proprio manifesto pubblicitario: "Botanica in forma originale o Erbario vivo, nel quale sono presentate le elegantissime immagini delle piante indigene e esotiche, stampate in inchiostro con un procedimento peculiare e laborioso, con i loro nomi secondo il metodi di Linneo e Ludwig, illustri botanici del nostro tempo". L'edizione del 1747 (stampata a Erfurt da Funke) comprendeva 1185 tavole, quella del 1757-64 (stampata a Halle da Trampe) 1200. Altre informazioni sugli studi botanici di Kniphof nella sezione biografie. Fedeltà alla natura o mostro di Frankenstein? Il lavoro di Kniphof fu lodato (tra gli altri, dallo stesso Linneo) per la fedeltà ineguagliata alla natura. Né la xilografia né la calcografia, le due tecniche di stampa allora usate nell'illustrazione botanica, potevano eguagliare la resa della tessitura delle foglie (vedi nella gallery le immagini del luppolo e del pomodoro); con le piante minute, con foglie, fiori e semi piccoli, la tecnica era al suo meglio, garantendo davvero una riproduzione diremmo oggi quasi fotografica. Ma con esemplari con fiori più grandi, foglie carnose, potremmo dire più tridimensionali, gli effetti erano ben diversi: la pianta appiattita e costretta nelle due dimensioni appare imbalsamata, rigida e deformata. E' anche vero che confrontando le tavole delle diverse edizioni (tuttavia in rete è disponibile una versione digitalizzata solo della prima edizione, per quelle successive sporadiche tavole) si nota un netto progresso (nella gallery si confronti l'aquilegia del 1733 con quella, in bianco e nero, della terza edizione). Inoltre i ritocchi di colore spesso coprono e di fatto eliminano i dettagli della tessitura, più rispettati dalla stampa in bianco e nero (si veda la tavola della fritillaria). Ma soprattutto il metodo è economicamente poco efficiente: dopo poche stampe l'esemplare inchiostrato si deteriora e va sostituito, il che significa anche che non esistono due esemplari del libro esattamente uguali. Non sappiamo quale fosse la tiratura di ciascuna edizione, ma sicuramente le copie non erano molte, come possiamo dedurre dal fatto che oggi dell'edizione di Halle non esisterebbero più di 10 copie complete. Per farvi un'idea dell'operazione, dei suoi successi e dei suoi limiti, comodamente dallo schermo del vostro computer, grazie all’Herzogin Anna Amalia Bibliotek di Weimar, potete sfogliare le tavole della prima edizione tedesca. Le mie sensazioni sono state contraddittorie, miste di ammirazione e disagio. Qualcuno vuole provare? Nonostante i problemi, il metodo della stampa naturale continuò ad essere usato, seppure sporadicamente, soprattutto nell'area tedesca ed elvetica; un esempio di poco successivo è Ectypa vegetabilium di Christian Friedrich Ludwig (citato insieme a Linneo nel frontespizio di Botanica in originali), ancora stampato da Trampe. Nell'Ottocento, dopo l'invenzione della stampa litografica, Alois Auer Ritter von Welsbach (1813-1869) riprese e perfezionò il procedimento, avvalendosi di impronte impresse su piombo o gomma, da cui poi venivano ricavate le matrici; una tecnica simile fu utilizzata verso fine secolo anche dall'illustratore botanico Henry Bradbury. Al di là delle opere di botanica, il natural printing o eco-printing, in italiano stampa naturale, è una tecnica tuttora diffusa, praticata con diversi livelli di sofistificatezza da bambini, hobbisti e artisti. I curiosi troveranno moltissime informazioni nel sito dell'attivissima Nature Printing Society, inclusi una stupefacente gallery e video dimostrativi. E se volete assolutamente provare, nel documento collegato trovate anche semplici istruzioni fai da te. Quanto a me, ho usato questa antica tecnica per decorare fogli di carta inconsapevole di tanta storia, come il M. Jourdain di Molière, che scoprì di aver sempre scritto in prosa senza saperlo. Fonti The story of nature prints, http://ngm.nationalgeographic.com/2012/10/leaves/nature-prints Nature printing, http://mediengeschichte.dnb.de/DBSMZBN/Content/EN/MakingOnesMark/02-naturselbstdruck-en.html Propagating Eden: Uses and Techniques of Nature Printing in Botany and Art, http://www.ipcny.org/sandbox/wp-content/uploads/2014/06/23.-Propagating-Eden-Brochure-Entire-PDF.pdf Kniphofia o Tritoma? Nelle due edizioni latine di Botanica in originali una tavola ritrae quella che Linneo aveva denominato Aloe uvaria. Conrad Moench in Methodus Plantas horti botanici et agri Marburgensis, 1794, riconobbe che essa apparteneva a un nuovo genere, che dedicò a Kniphof, ribattezzando la pianta Kniphofia alooides (oggi Kniphofia uvaria). Blunt e Stern, autori di The Art of botanical illustration, sostengono che ci sia una certa ironia nell'accostamento tra il "tetro metodo di illustrazione botanica" messo a punto da Kiniphof e gli allegri e brillanti fiori della Kniphofia. Non particolarmente amante di quest'ultima, trovo invece un tratto comune nella rigidità di entrambi. Ma inorridisco nell'immaginare la bella infiorescenza appiattita sotto il torchio di quel torturatore di piante! Comunque ci fu chi cercò di strappargli l'onore. Nel 1804 Ker Gawler ribattezzò la pianta Tritoma (cioè "con tre tagli", alludendo ai tre spigoli vivi all'estremità delle foglie di Kniphofia uvaria); ma arrivava in ritardo e ad essere considerato valido fu il nome attribuito da Moench, anche se di tanto in tanto il vecchio sinonimo Tritoma compare ancora in cataloghi di bulbi, libri o pagine web. Altre informazioni sul genere Kniphofia, in particolare sulla sua introduzione in Europa, nella scheda. Nel Cinquecento nel curriculum di ogni futuro medico c'era l'accurato studio dei testi di medicina e farmacologia ereditati dall'antichità, che di ogni pianta indicavano le virtù e gli usi. Ma come essere certi che a un dato nome greco o latino corrispondesse davvero la pianta giusta, conosciuta con infiniti nomi volgari? Fuchs risolve il problema con una trovata degna dell'uovo di Colombo; e si guadagna per sempre la riconoscenza dei botanici e il nome di uno dei generi più amati, una vera superstar del giardinaggio: la Fuchsia. Piante ritratte dal vero La conoscenza delle piante era essenziale per la medicina; infatti da esse - i semplici, come venivano chiamate - veniva ricavata la maggior parte dei medicamenti. Dunque non solo era importante conoscerne le diverse virtù medicamentose, ma bisognava distinguerle con sicurezza. Tuttavia le confusioni erano all'ordine del giorno: la stessa pianta veniva chiamata con nomi diversi nelle varie regioni e anche la più accurata delle descrizioni era spesso insufficiente per un riconoscimento sicuro; impossibile poi usare i "sacri testi" della medicina classica ignorando a quale pianta reale corrispondessero i nomi greci e latini di Dioscoride piuttosto che Plinio. Il medico e botanico tedesco Leonhardt Fuchs risolve il problema in modo semplice e geniale: accompagnare le descrizioni delle piante e i loro nomi nelle varie lingue con illustrazioni dal vero, dettagliate ed affidabili. Già prima gli herbaria (cioè i libri di descrizioni di piante e delle loro proprietà medico-farmacologiche) erano spesso illustrati; ma le illustrazioni era irrealistiche, grossolane, spesso ricavate dalle descrizioni stesse, quindi creavano più dubbi di quanti non ne risolvessero. La novità del libro di Fuchs De historia stirpium commentarii insignes ("Notevoli commenti sulla storia delle piante"), pubblicato nel 1542, consiste sostanzialmente nella qualità delle illustrazioni delle piante, per la prima volta ritratte dal vero con grande precisione; per la loro realizzazione il botanico diresse una piccola équipe di artisti: il pittore Albrecht Meyer disegnava le piante dal vero, ritraendone i particolari nelle diverse stagioni; il copiatore Heinrich Füllmaurer trasferiva i disegni su tavole di legno; l'incisore Vitus Adelphus Spreckle incideva le matrici e colorava le incisioni ad acquarello (il libro era stampato in bianco e nero, ma in alcuni esemplari, più costosi, le xilografie erano successivamente colorate a mano). Per la prima volta nella storia del libro, i nomi degli artisti che avevano collaborato alla realizzazione dell'opera è riportato del testo, in cui sono presenti anche i loro ritratti. L'eccezionale qualità delle illustrazioni di De historia stirpium è frutto di tre circostanze: il perfezionamento dell'arte della stampa, che ormai permetteva di stampare da matrici di legno (xilografia) con incisioni di notevole qualità e finezza; l'ideale del naturalismo, diffuso dal Rinascimento, che propugnava una riscoperta diretta della natura, da studiare di per se stessa e non come specchio del creatore; l'esigenza pratica di dotare gli studenti di medicina e i medici praticanti di uno strumento efficace. In effetti, Fuchs era un medico rinomato e un professore universitario. Le tavole del testo di Fuchs sono importanti nella storia dell'illustrazione botanica, perché in qualche modo ne fissano le convenzioni che - con minime modificazioni - rimarranno invariate per secoli: la pianta viene disegnata intera, con tanto di radici, nel momento del suo massimo rigoglio, completa di fiori in boccio, fiori sbocciati, frutti. Esse in effetti costituirono un modello, molto imitato quando non semplicemente riprodotto con vere operazioni di pirateria editoriale. A oltre due secoli dalla loro realizzazione, saranno ancora utilizzate nel 1774 in un'opera di Salomon Schinz. Un peperoncino latino L'opera è meno innovativa per i contenuti. Fuchs - anche se dichiarava di partire dalle proprie esperienze di medico e da conoscenze dirette - per la descrizione delle piante note e delle loro proprietà si rifaceva ai testi classici; del resto, una delle sue aspirazioni era che gli studenti e i medici potessero identificare con certezza le piante descritte dagli antichi, in primo luogo Dioscoride. Su questa strada commise anche errori, ad esempio identificando piante tedesche con piante mediterranee, che semplicemente non conosceva. Il libro descrive 497 piante, accompagnate da 517 illustrazioni e ordinate in ordine alfabetico sulla base del nome greco. Ogni voce ha una struttura ricorrente da cui ben si può notare il carattere prescientifico dell'opera:
Tra le circa cento piante descritte per la prima volta, De historia stirpium contiene anche la più antica descrizione di alcune piante americane: il mais (chiamato Turcicum frumentum), quattro varietà di peperone o peperoncino, alcuni tipi di zucche, un fagiolo americano, una specie di Tagetes. E' curioso che anche in questo caso Fuchs assimili queste piante a specie descritte dagli autori classici e non sembri conoscerne la provenienza: le zucche e il fagiolo americano sono semplicemente inseriti nei generi corrispondenti del vecchio mondo, il Tagetes (chiamato già con il nome latino Tagetes indica) è assimilato a una specie di Artemisia (e il nome è collegato alla divinità etrusca Tages). Il caso più divertente è quello del peperoncino, identificato con una pianta descritta da Plinio con il nome siliquastrum, grazie al fatto che la bacca è grande (siliquastrum significa letteralmente 'con un grande baccello'). Quanto al mais, Fuchs deve rassegnarsi ad ammettere che gli antichi non lo conoscevano (è descritto nell'ultima parte del volume, dove egli elenca le specie prive di nome greco), ma pensa che arrivi dalla Grecia, ai suoi tempi sottomessa dai turchi (donde il nome Turcicum frumentum, il nostro granoturco). Pur con questi limiti, il testo è un caposaldo della nascente botanica e ottenne un immediato successo, tanto che già l'anno successivo l'autore ne predispose un'edizione ridotta (quindi più maneggevole e meno costosa) in lingua tedesca, Neue Kreüterbuch (1543). Di entrambe le versioni e delle traduzioni che ne vennero ricavate in olandese, francese, tedesco, spagnolo uscirono ben 39 edizioni nel corso della vita di Fuchs (che morì nel 1566). Quanto alle incisioni, furono largamente riprodotte e plagiate per almeno duecento anni. Approfondimenti sulla vita di Fuchs nella sezione biografie. Un fiore rosa fucsia Un personaggio del calibro di Fuchs non poteva essere ignorato dal buon padre Plumier, che nel suo Nova plantarum americanarum genera (1703) aveva celebrato i big della botanica dedicando loro molte delle nuove piante scoperte nei suoi viaggi nelle Antille. Anzi, bisognava scegliere una pianta degna di tanto personaggio. La sua scelta cadde sulla magnifica Fuchsia triphylla flore coccineo (oggi Fuchsia triphylla). Intorno al 1788 le prime fucsie arriveranno nei giardini inglesi; e sarà fuchsiomania, che da allora non è mai cessata. Per altre notizie sul genere Fuchsia, si rimanda come sempre alla scheda. Il vecchio Fuchs ha avuto anche l'onore di battezzare un giovanissimo colore: nel 1859 il chimico francese François-Emmanuel Verguin produsse sinteticamente una nuova anilina che chiamò fuchsina; anche se poco dopo il nome fu cambiato in magenta, per celebrare la battaglia di Magenta del 4 giugno 1859, il color fucsia è rimasto; e come la pianta da cui prende il nome, è amatissimo, soprattutto dalle ragazzine. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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