Questa storia inizia come una fiaba. C'è un bambino nato in orto botanico creato dalla mente e dal cuore di un vecchio zio; c'è un giovanotto che si impegna per risollevare l'orto della sua infanzia dalle ingiurie degli uomini e della storia; c'è un uomo maturo che con sagacia e intelligenza trova i collaboratori giusti per trasformare quel giardino nell'istituzione scientifica più importante del mondo; c'è un vecchio che, ormai ritiratosi dalle glorie e dagli affanni del mondo, nel suo giardino chiude gli occhi in pace. Quel bambino, quel giovanotto, quell'uomo, quel vecchio, sono la stessa persona: Guy-Crescent Fagon, il medico del Re Sole, il vero fondatore della reputazione scientifica del Jardin des Plantes di Parigi. Il giardino del destino Nel 1637, le frenetiche attività di Guy de la Brosse per allestire il tanto sospirato Jardin royal des plantes médicinales di Parigi, sono momentaneamente interrotte da una lieta circostanza: il matrimonio di sua nipote Louise con Henri Fagon, commissario ordinario della guerra. Un anno dopo, proprio nell'appartamento assegnato all'intendente, alla coppia nasce un bambino, il piccolo Guy-Crescent (il nome è un omaggio allo zio Guy, suo padrino). Il padre è spesso lontano per le incombenze del suo ufficio, così il bambino cresce nel Jardin e secondo Fontenelle (che di Fagon, molti anni dopo, scriverà l'elogio funebre) "i primi oggetti che vide furono le piante, le prime parole che balbettò furono nomi di piante; la lingua della botanica fu la sua lingua materna". Ma, come sappiamo dai tempi di Adamo ed Eva, dai giardini dell'Eden si viene sempre cacciati; quando Guy-Crescent ha solo quattro anni, il prozio muore e per il giardino inizia il periodo delle dispute legali e della trascuratezza (se ne è parlato in questo post). Quanto a Guy-Crescent, ha un solo sogno: diventare medico e studiare botanica, in modo da poter tornare nel suo giardino per farlo rivivere. Anche se rimane presto orfano di padre, si impegna con tenacia per riuscirci. E' uno studente brillante e dalle idee innovative che nel 1664 si laurea all'Università di Parigi con una tesi audace in cui sostiene le idee di Harvey sulla circolazione del sangue. Ha una solida reputazione sia come medico sia come botanico. E' dunque a lui che pensa Antoine Vallot, nuovo primo medico del re e sovrintendente del Jardin, per ripopolare le aiuole del giardino svuotate da tanti anni di abbandono. Facciamo un passo indietro: nel 1652, Antoine Vallot, medico della regina madre Anna d'Austria, succede come primo medico del re (l'adolescente Luigi XIV) a François Vautier; tra le incombenze della sua carica, gli spetta di diritto - ormai risolte le questioni legali con Bouvard - la sovrintendenza del Jardin. Trova una situazione desolante, nonostante lo zelo del dimostatore Vespasien Robin. Nel 1663, alla morte di questi, nomina a succedergli un altro valido botanico, Denis Joncquet, e lo invia a Montpellier a incontrare Pierre Magnol per chiedergli lumi su come ristrutturare l'orto parigino. Joncquet è entusiasta sia dei consigli ricevuti da Magnol sia della lussureggiante natura del Sud, che potrà offrire molti esemplari per ripopolare il giardino. E qui torna in scena il nostro Fagon. Su richiesta di Vallot, Fagon parte per la Linguadoca. Va a Montepellier, dove conosce Magnol (i due sono coetanei, come del resto lo è il re Sole, essendo tutti e tre nati nel 1638) e stringe con lui una fervida amicizia. E poi - a sue spese, anche se non è ricco - incomincia a esplorare la Provenza, l'Alvernia, le Alpi e i Pirenei, dove raccoglie un ricchissimo bottino di piante; è una raccolta storicamente importantissima, perché getta le basi di quello che sarà il glorioso Herbier national, il grande erbario nazionale francese ancora oggi custodito nel Museo di storia naturale di Parigi. Altre piante arriveranno nei mesi e negli anni successivi tramite una rete di viaggiatori e raccoglitori che Fagon contribuisce a creare, anche grazie ai contatti di Magnol. Il giardino rinasce ed è ora di presentare i risultati al re. Vallot chiede a Jonquet di scriverne il catalogo, che uscirà nel 1665 con il titolo Hortus Regius, in cui si descrivono circa 4000 piante. La maggior parte di quelle descrizioni sono redatte da Fagon, che all'epoca è dimostratore supplente di chimica. Nel 1670 diventa anche sottodimostratore di botanica (colui a cui era affidato l'insegnamento pratico della botanica "dimostrando" le piante vive e essiccate agli studenti); l'anno successivo, alla morte di Joncquet, diventa dimostratore, ovvero professore titolare della cattedra di botanica, cui nel 1672 aggiunge la cattedra di chimica. Il suo insegnamento, con aperture a tutto campo anche alla zoologia e alla mineralogia, attira un vasto pubblico, gettando le basi per la reputazione scientifica dell'istituzione parigina. Nonostante l'aspetto fisico assai infelice - un volto grottesco, gobbo, magrissimo - è un abilissimo oratore, oltre che uno studioso preparato e aperto alle novità. Un grande sovrintendente per il giardino del Re Sole Intanto prosegue la sua carriera come medico. Tra il 1666 e il 1667 esercita all'Hotel-Dieu, dal 1668 diventa uno dei medici della corte, occupando posti sempre più prestigiosi (è medico della delfina, poi della regina e degli Enfants de France, ovvero i numerosi figli naturali del re). Ma per prendere il bastone del comando nel Jardin des Plantes deve diventare primo medico. A dire la verità, alla morte di Vallot (1671), Colbert, che ne giudicava la gestione fiacca e trascurata, aveva sottratto la sovrintendenza del Jardin des plantes all'archiatra Antoine d'Aquin, legandola alla sovrintendenza degli edifici reali, che amministrava lui stesso come Controllore generale delle finanze: segno dell'importanza economica che ormai si assegnava alla coltivazione delle piante esotiche, medicinali e no. A d'Aquin era rimasto il titolo di intendente, costringendo Fagon a una mal sopportata convivenza (in teoria era il suo capo). Abile come cortigiano non meno che come medico, Guy-Crescent sa usare le armi dell'intrigo; la carta vincente è la protezione di Mme de Maintenon, che lo ha conosciuto e apprezzato quando era ancora la governante dei figli illegittimi del re. Fagon non perde occasione per denunciare l'incompetenza professionale del rivale; molto più tradizionalista di lui, questi rifiuta la radice di Chincona, che invece Fagon sostiene e che il re stesso apprezza, come efficace rimedio contro il paludismo che ha contratto quando combatteva nelle Fiandre. Si aggiunga la insopportabile avidità di d'Aquin, che irrita il re con la sua continua richiesta di prebende per sé e i propri familiari. Auspice la potentissima favorita, nel 1693 il re allontana d'Aquin e nomina Fagon primo medico, assegnandogli anche l'intendenza del Jardin royal; nel 1699 egli otterrà anche il titolo di sovrintendente (anzi, da questo momento cessa la bipartizione tra intendente e sovrintendente: d'ora in avanti il direttore dell'orto botanico di Parigi sarà unico). L'ambizione di Fagon, degna del suo illustre paziente, è una sola: fare del Jardin des plantes l'orto botanico e il centro di studi naturalistici più importante del mondo. Un obiettivo che raggiunge attraverso due mosse vincenti. Da una parte Fagon, che sa delegare, si circonda di brillanti scienziati che confermeranno una volta per tutte il primato del Jardin nel campo degli studi della natura: fa venire da Aix il più importante botanico dell'epoca, Joseph Pitton de Tournefort, suo supplente alla cattedra di botanica e direttore di fatto dell'orto botanico; alla morte di questi, chiamerà da Lione Antoine de Jussieu, capostipite di una dinastia di botanici che dominerà il Jardin des plantes per tutto il Settecento. Dall'altra parte, Fagon promuove grandi spedizioni naturalistiche, soprattutto alla ricerca di piante medicinali (nella sua concezione, la botanica non si era ancora del tutto affrancata dalla medicina): i tre viaggi di Plumier nelle Antille; la sfortunata spedizione di Lippi in Egitto e nel Sudan; la spedizione dello stesso Tournefort in Levante; il viaggio di Feuillée nelle Antille e in Sud America; il viaggio in Spagna dei fratelli Jussieu. Il giardino viene dotato di due serre e la "butte Coypeu" si trasforma in un arboretum, che sarà il celebre labirinto del Jardin des plantes. Nel 1715, alla morte di Luigi XIV, che lo segna profondamente (il suo rapporto con il sovrano andò ben al di là della pura prestazione professionale), si ritira nel piccolo appartamento che spetta al sovrintendente nel Jardin, dove morirà nel 1718, a ottant'anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La discontinua Fagonia Sia Tournefort sia Plumier vollero rendere omaggio al loro protettore e al grande organizzatore della botanica francese dedicandogli un genere: Tournefort Fagonia, sulla base di una pianta da lui raccolta a Creta; Plumier Guidonia, sulla base di diverse specie delle Antille. Oggi quest'ultimo non esiste più: soppresso da Linneo e recuperato da Philip Miller (che volle dedicarlo insieme ai due Guidi: Guy de la Brosse e Guy Crescent Fagon), fin dall'Ottocento è stato suddiviso tra vari generi della famiglia Salicaceae. Ma prima di tornare a Fagonia, ben vivo e ufficializzato da Linneo nel 1753 in Species plantarum, un cenno ad altri due generi obsoleti, che in passato hanno celebrato altrettante comparse di questa storia, Denis Joncquet e Antoine Vallot. A Denis Joncquet, interessante botanico che tra l'altro creò un proprio giardino privato, ricchissimo di piante, che metteva a libera disposizione degli studenti della facoltà di medicina, nel 1789 il tedesco von Schreber dedicò Joncquetia (sinonimo di Tapirira, famiglia Anacardiaceae). A Vallot toccò invece la sudafricana Vallota, dedicatagli da Salisbury nel 1821. Anche questo genere non è più valido, anche se molti ancora conoscono con il nome di Vallota speciosa la bellissima Amaryllidacea che oggi porta la più infelice etichetta di Cyrthantus elatus. Ma è ora di parlare di Fagonia (famiglia Zygophyllaceae), un genere di 34-35 erbacee, suffrutici e arbusti delle zone aride, con una interessante distribuzione discontinua. Distribuito nella fascia temperata calda e subtropicale di quattro continenti, è un genere essenzialmente del Vecchio mondo (26 specie vivono tra Africa, Mediterraneo, Asia, soprattutto in un'ampia fascia che, partendo dalle Canarie, attraverso il Nord Africa, il Medio Oriente e la penisola arabica, raggiunge l'India nord-occidentale), ma con rappresentanti isolati nell'America occidentale (Stati Uniti sud-occidentali e Messico nord-occidentale; ma anche i Perù e Cile). La specie più occidentale del Vecchio mondo, F. cretica - propria quella descritta da Tournefort - è un semi arbusto eretto o prostrato, con caratteristici rami angolati e corte stipole semi-spinose, con graziosi fiori ascellari con cinque petali azzurro-purpurei. Ha un aerale assai vasto che si estende dalle Canarie al Nord Africa a occidente dell'Egitto; unica specie europea, è presente in una stazione isolata in Portogallo, nella Spagna meridionale (Alicante), in molte isole mediterranee (Baleari, Malta, Cipro e, ovviamente, Creta), ma anche in Italia. In passato è stata segnalata in Sicilia; oggi se ne conoscono solo sei stazioni, vicine tra loro, presso Melito Porto Santo in Calabria. Diverse specie di Fagonia (in particolare F. arabica e F. indica) sono note per il loro uso officinale nella medicina tradizionale; studi recenti ne hanno confermato l'importante azione antiossidante, che appare promettente nella prevenzione e nella cura di molte gravi patologie. Qualche approfondimento nella scheda.
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Oggi il Jardin des plantes di Parigi è il maggiore orto botanico di Francia e il cuore pulsante del Museo nazionale di storia naturale. Eppure i suoi esordi furono tardivi e difficili: aperto al pubblico quasi mezzo secolo dopo l'orto di Montpellier, la sua nascita si deve alla congiunzione tra la caparbietà del suo fondatore, Guy de La Brosse, la benevolenza dei medici di corte, in particolare l'archiatra Charles Bouvard, la volontà della corona di indebolire i corpi intermedi (in questo caso, la potente Università di Parigi). Ricordato dalla toponomastica del quartiere dove sorge il Jardin, de La Brosse non è celebrato da alcun nome di genere valido, al contrario di Bouvard, eponimo del grazioso genere Bouvardia. La Brosse e la battaglia per il Giardino Nonostante le prime proposte di fondare anche a Parigi un orto botanico siano contemporanee alla creazione del giardino di Montpellier (1593), rimasero lettera morta, forse per la morte di Enrico IV, poi per la minore età di Luigi XIII. Dopo che era stato chiuso anche il piccolo giardino della facoltà di medicina per far posto alla costruzione di un teatro anatomico, il botanico e giardiniere Jean Robin, che lo gestiva, presentò al re la sua Request au Roy pour l'establissement d'un Jardin royal en l'Université ("Richiesta al re per la creazione di un giardino reale nell'Università"). La proposta fu immediatamente fatta propria da Guy de la Brosse, "medico ordinario del re", ma su tutt'altre basi. Egli puntava a un luogo dove le piante si potessero studiare tanto dall' "esterno" (cioè nella loro morfologia) quanto dall' "interno" (cioè nelle loro proprietà farmaceutiche e chimiche), sulla base del metodo sperimentale; un'istituzione del genere doveva essere indipendente dall'Università. La facoltà di medicina parigina era infatti la roccaforte dei tradizionalisti, grandi sostenitori dei salassi e delle purghe e nemici giurati dei "botanici" di Montpellier, la facoltà rivale che sfornava medici più aggiornati e spesso più apprezzati dalla clientela titolata. Vi si erano formati anche molti medici di corte, compreso Jean Héroard, l'archiatra o primo medico del re, che vide subito con favore la richiesta di la Brosse. Favore condiviso dal cardinale Richelieu, per ragioni eminentemente politiche: la creazione di un Jardin royal, finanziato e gestito dalla corona, oltre a dare lustro alla capitale, avrebbe eroso il potere dell'Università, sottraendogli il controllo dei farmacisti, che sarebbe passato al sovrintendente del nuovo giardino, da cui si attendeva che rifornisse le farmacie delle regione anche di quelle piante esotiche spesso avversate dalla facoltà. Nel gennaio 1626, Guy de la Brosse ottenne una prima vittoria, ovvero una lettera patente del re che stabiliva la creazione di un "giardino delle piante medicinali" in un sobborgo parigino, affidandone la sovrintendenza a Héroard. Tuttavia quest'ultimo morì nel 1628, durante l'assedio della Rochelle. A sostituirlo fu nominato Charles Bouvard, un medico che si era laureato e insegnava proprio all'Università di Parigi. Ma se quest'ultima aveva sperato di trovare in lui un alleato, fu presto delusa: forse in modo non del tutto disinteressato, Bouvard si schierò dalla parte di La Brosse. La creazione di un orto botanico reale, finanziato dalla corona, rafforzava infatti il potere del primo medico del re, che ne sarebbe diventato sovrintendente (un incarico di natura essenzialmente politica), mentre La Brosse ne assumeva la direzione scientifica, con il titolo di intendente. Ma l'università non demordeva e riuscì a bloccare il progetto per qualche anno. Solo nel 1633 Guy de la Brosse poté acquistare un vasto terreno nel faubourg Saint-Victor, nei pressi dell'abbazia omonima. Nel 1635 giunse anche il decreto reale che istituiva il Jardin royal des plantes médicinales, stabilendo che vi si sarebbero studiate le piante e le loro proprietà medicinali; a tal fine si istituirono tre cattedre (materia medica, ovvero botanica farmaceutica, chimica, anatomia), affidate a altrettanti "dimostratori", assistiti da un sottodimostatore, che avrebbe insegnato a riconoscere le piante a partire dagli esemplari coltivati nelle parcelle del giardino. Il primo fu Vespasien Robin, già "arboriste" del re e esperto giardiniere. La facoltà cercò allora di impugnare il decreto di fronte alla Corte dei Conti; riuscì solo ad ottenere che la nuova istituzione non potesse assegnare diplomi; svolti in francese anziché in latino, i corsi, che non prevedevano esami, erano aperti a tutti; comprendevano insegnamenti pratici e teorici e accettavano molte novità ancora tabù per la facoltà di medicina ufficiale: la circolazione del sangue di Harvey, medicamenti esotici come la corteccia di Cinchona, i preparati chimici come l'antimonio. Dopo alcuni anni febbrili dedicati alla sua costruzione, il Jardin royal fu finalmente inaugurato al pubblico nel 1640. Collocato nell'area che ancora oggi lo ospita, il giardino comprendeva tra l'altro una collinetta artificiale (il "labirinto") e ospitava migliaia di piante anche esotiche. Guy de la Brosse ne redasse il catalogo, per il quale fece preparare 400 incisioni su rame. Ma nel 1641, forse esausto per la lunga battaglia, moriva ad appena 55 anni. L'opera non uscì mai, e gli eredi vendettero le incisioni a un calderaio (se ne salvarono appena cinquanta). Dispute legali e un giardino trascurato Altre morti illustri seguirono a ruota: nel 1642 il cardinale di Richelieu, nel 1643 il re Luigi XIII. Con la morte del quale, cessava anche il ruolo di archiatra di Bouvard, che avrebbe dunque dovuto lasciare la sovrintendenza del Giardino. Tuttavia si accordò con il nuovo primo medico del re Jacques Cousinot (suo genero) e mantenne l'incarico, mentre suo figlio Michel fin dal 1641 era stato nominato intendente. Nel 1646 tuttavia Cousinot morì e gli succedette come primo medico François Vautier, intenzionato a recuperare la remunerativa carica di sovrintendente. Tra Vautier e Bouvard iniziò una battaglia legale; nel 1647 il Consiglio di Stato si pronunciò a favore di Vautier e "dimise" Michel Bouvard, sostituendolo con lo scozzese William Davidson. Bouvard fece appello al Parlamento parigino; in questa situazione di incertezza, Davidson preferì andarsene in Polonia a curare i giardini della regina Maria Luisa Gonzaga. Ampiamente trascurato, il giardino dovette aspettare la sovrintendenza di Antoine Vallot per risorgere. Ma di questa storia si parlerà in un altro post. Torniamo a Charles Bouvard e ai suoi discutibili meriti botanici, sufficienti tuttavia a spingere il botanico britannico R. A. Salisbury a dedicargli nel 1805 il genere Bouvardia. Un onore che invece non è toccato al ben più meritevole Guy de la Brosse: a dire la verità, Linneo non aveva certo dimenticato il fondatore dell'illustre Jardin des Plantes, e nel 1753 gli aveva dedicato il genere Brossaea. Ma quest'ultimo fu unito a Epigaea da de Candolle (1839), quindi a Gaultheria da Hooker (1876). Oggi è una delle numerosi sezioni del grande genere Gaultheria della famiglia Ericaceae. A ricordare La Brosse una delle strade parigini nei pressi della sua creatura, il Jardin des plantes. Quanto all'intrigante Bouvard, dobbiamo ammettere che non era solo un carrierista e un medico di dubbia abilità (alcuni lo accusano di aver accelerato - o provocato - la morte del suo reale paziente, al quale nei suoi due ultimi anni di vita inflisse 34 salassi, 1200 clisteri e 250 purghe). Secondo la testimonianza dello stesso de Brosse, fu lui a volere le tre cattedre che caratterizzarono il Jardin royal des plantes médicinales come un'istituzione scientifica innovativa. Fu dunque grazie alla sua intuizione che l'insegnamento della botanica venne unito a quello della chimica e dell'anatomia, gettando le basi per quello studio a tutto tondo delle scienze della natura che avrebbe poi caratterizzato fino ai nostri giorni la grande istituzione parigina. Anche grazie a Bouvard, dunque, per la prima volta la botanica, da ancella della medicina, cominciava ad affermarsi come scienza autonoma. Inoltre egli volle dotare il Jardin della sua prima serra calda e elaborò alcune ricette tratte da fiori di uso comune. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Un profumato bouquet di Bouvardia Il genere Bouvardia, della famiglia Rubiaceae, comprende 30-50 specie di erbacee perenni e arbusti sempreverdi, nativi soprattutto del Messico (con qualche rappresentante negli Stati Uniti meridionali e in America centrale). Sono piante estremamente attraenti soprattutto per i lunghi fiori tubolari, solitamente con quattro lobi, talvolta solitari ma più spesso riuniti in dense cime terminali (possono ricordare quelli della più nota e affine Pentas, che tuttavia ha cinque lobi), a seconda della specie rossi, rosa, bianchi, delicatamente profumati. La specie più nota, la messicana Bouvardia longiflora, a lungo è stata soprattutto una pianta da serra, coltivata per la produzione di fiori recisi, grazie alla sua lunga durata - anche due o tre settimane - e alla disponibilità per gran parte dell'anno. I suoi densi e eleganti bouquet di fiori candidi e fragranti sono particolarmente apprezzati dalle spose in sostituzione dei tradizionali fiori d'arancio. Di un vibrante scarlatto è invece B. ternifolia, la specie più diffusa in natura (dall'Arizona all'Honduras, passando per il Messico) che fu anche la prima ad arrivare nelle serre europee (a Kew, nel 1794). Ma oggi, quando si parla di Bouvardia, si fa riferimento soprattutto agli ibridi, immessi sul mercato da meno di vent'anni dagli ibridatori olandesi, interessati alle sue potenzialità anche come pianta da appartamento o da patio; sono meno profumati dei progenitori, ma di più facile coltivazione, e soprattutto offrono una più ricca gamma di colori, che include anche delicate sfumature di crema, pesca, albicocca. Da noi sono soprattutto disponibili come fiori recisi; ma è prevedibile che anche in Italia nei prossimi anni invaderanno i bancali dei Garden center e abbelliranno le nostre case. Qualche informazione in più nella scheda. La carriera accademica di Pierre Magnol, uno dei più grandi botanici del Seicento, decollò solo quando egli aveva abbondantemente superato la cinquantina. Due gli ostacoli: la sua appartenenza alla perseguitata minoranza protestante e una cricca familiare onnipotente che monopolizzava le cattedre e la direzione dell'orto botanico più antico di Francia. Curioso che a questa vittima del familismo si debba il concetto di famiglia botanica. Ma a ricompensarlo con gli interessi c'è la dedica del magnifico genere Magnolia. Una carriera a ostacoli Nella Francia dell'Ancien Régime erano migliaia le magistrature e gli incarichi distribuiti secondo il sistema della venalità delle cariche: si compravano, si vendevano, si ereditavano (previo il versamento di una tassa più o meno modica, la Paulette). A questa prassi, che coinvolgeva magistrati e funzionari, non era estranei neppure gli incarichi scientifici. Fu così che per centocinquant'anni alla testa dell'Orto botanico di Montpellier si succedette un'autentica dinastia. In riconoscimento delle sue benemerenze di fondatore dell'orto, il re aveva concesso a Richer de Belleval di nominare il suo successore come insegnante di botanica all'Università e intendente (cioè direttore) dell'orto; Belleval fece venire un nipote, Martin Richer (1599-1664), che dal 1641, con privilegio regio, divenne anche cancelliere dell'Università. A sua volta, Martin Richer chiamò a succedergli un parente, Michel Chicoyneau (1626-1701), che riuscì a accumulare nelle sue mani le cattedre di anatomia e di botanica e gli incarichi di sovrintendente dell'orto e cancelliere dell'Università. Costui inaugurò una dinastia che si trasmise tutte o alcune di queste funzioni per quattro generazioni, per quasi un secolo, dal 1664 al 1759. I contemporanei hanno descritto Michel come un uomo superbo, imperioso e violento, che svolgeva i suoi compiti senza alcun particolare talento (i suoi talenti andavano tutti agli intrighi e alla capacità di ingraziarsi i potenti, primo fra tutti Antoine Vallot, il medico del re). Eppure uomini competenti, che avrebbero saputo tenere alto l'onore della prestigiosa università e del più antico orto botanico del paese, non mancavano. In quegli anni, il più competente di tutti era proprio un uomo di Montpellier, Pierre Magnol. Figlio di un farmacista, Magnol si era appassionato alla botanica fin da ragazzo e aveva acquisito una competenza eccezionale percorrendo in lungo in largo la Linguadoca e le Cevenne. Fu lui, e non certo l'irrilevante Chicoyneau, a destare l'ammirazione di John Ray durante il suo soggiorno a Montpellier, tra il 1665 e il 1666. A lui si rivolse lo stesso Vallot (di cui pure Chicoyneau era un protetto) quando, desiderando rilanciare il trascurato Jardin du Roy di Parigi, inviò a Montpellier per consultarlo e chiederne l'aiuto prima Denis Jonquet, poi Guy-Crescent Fagon. Il primo fu così entusiasta da convincere Vallot a ottenere per Magnol il titolo di medico del re (del resto, del tutto onorifico: non comportava né uno stipendio né una funzione effettiva). Con il secondo strinse una profonda amicizia, "concimata" dalla comune passione per le piante. Ma alla carriera accademica di Magnol si aggiungeva un altro ostacolo, ben più insuperabile dell'ingombrante Chicoyneau: Magnol era protestante e nella Francia di Luigi XIV non gli era consentito rivestire un incarico pubblico. Nel 1664 egli presentò la sua candidatura a dimostratore dell'orto botanico; fu respinta a causa della sua fede religiosa. Lo stesso avvenne nel 1668, quando, essendosi rese vacante due cattedre alla facoltà di medicina, partecipò al concorso, con le prove più brillanti; questa volta il re stesso pose il veto. Così fu piuttosto come privato che Magnol incominciò ad attirare attorno a sé molti giovani allievi, che seguivano le sue dimostrazioni anche sul campo. Tra di loro, il più celebre è senza dubbio Joseph Pitton de Tournefort, che frequentò la facoltà di medicina tra il 1669 e il 1671 e seguì con entusiasmo l'insegnamento informale di Magnol. Fu per questi allievi che Magnol scrisse una flora dell'area di Montpellier, Botanicum Monspeliense (1676). La revoca dell'editto di Nantes costrinse Magnol, come i suoi correligionari, a una scelta drastica: l'emigrazione o l'abiura. Magnol scelse la seconda. L'anno successivo, arrivò il primo incarico ufficiale: fu nominato dimostratore di botanica come supplente di Michel Chicoyneau, trattenuto a Parigi dagli affari della facoltà. Dopo questa breve parentesi, fu solo nel 1694 che Magnol, grazie ai buoni uffici degli amici Fagon e Pitton de Tournefort, ottenne finalmente una cattedra universitaria (di medicina, non di botanica). Le cattedre di anatomia e botanica, infatti, Chicoyneau, ormai anziano, le teneva in caldo per i suoi figli: nel 1689 era riuscito a far nominare il figlio maggiore, Michel-Amatus, che morì dopo appena un anno; stessa sorte toccò al terzogenito Gasparetus, nominato nel 1691 e morto nel 1693. Rimaneva in vita ancora un figlio, François, che al momento non aveva ancora una preparazione sufficiente per assumere effettivamente i suoi compiti. Chicoyneau padre si rivolse di nuovo a Magnol, che venne nominato supplente Intendente del Giardino per tre anni. Allo scadere del mandato, François Chicoyneau divenne l'intendente in carica - sia detto per inciso, fu una figura ben più degna del padre, un medico di fama che si distinse quando a Montpellier scoppiò la peste e divenne primo medico di Luigi XV - ma di fatto il giardino continuò ad essere gestito da Magnol, che ne venne nominato ispettore a vita. Del resto, era ormai un membro a tutti gli effetti dell'establishment scientifico francese, tanto da essere chiamato nel 1709, alla morte di Tournefort, a sostituirlo all'Accademia delle scienze. Qualche approfondimento sulla sua vita nella sezione biografie. Nasce il concetto di famiglia Durante la sua lunga vita, Magnol pubblicò solo tre opere. La prima fu Botanicum Monspeliense (1676), una flora dei dintorni di Montpellier sul modello del catalogo della flora di Cambridge di John Ray. Vi si descrivono, in ordine alfabetico, circa 1300 specie, buona parte delle quali Magnol aveva raccolto personalmente. Nata per esigenze didattiche, di ogni pianta l'opera indica l'habitat e gli eventuali usi officinali. Fu apprezzata da Linneo che la utilizzò come base per Flora Monspeliensis, dissertazione discussa dal suo allievo Theophilus Erdman Nathorst nel 1756. Più importante nella storia della botanica è Prodromus historiæ generalis plantarum, in quo familiæ per tabulas disponuntur (1689) in cui Magnol sostiene un nuovo metodo di classificazione delle piante e introduce il concetto di famiglia. Analogamente a Ray (che era rimasto tra i suoi numerosi corrispondenti), Magnol respinge le classificazioni basate su un unico carattere; per raggruppare correttamente le piante, bisogna basarsi sull'insieme delle loro caratteristiche (dunque radici, fusti, foglie, fiori, frutti, semi, portamento). Osserva poi che tra le piante si possono notare affinità e parentele e su questa base crea il concetto di famiglia, intesa come un raggruppamento di piante con caratteristiche affini. Nelle tavole accluse all'opera, le piante vengono raggruppate in 76 famiglie, anche se i criteri di classificazione non sono esplicitati e risultano spesso vaghi. Nel 1697, come supplente intendente dell'Orto di Montpellier, Magnol ne pubblicò il catalogo, sotto il titolo Hortus regius monspeliensis (1697), un'opera imponente accompagnata da illustrazioni di ottima fattura, in cui descrisse 2000 piante, adottando come criterio di classificazione non il proprio sistema, ma quello di Tournefort (che rifletteva la disposizione fisica del giardino, in cui le piante erano appunto state riorganizzate in tal modo). Un'ultima opera, Novus character plantarum, uscì postuma nel 1720 a cura del figlio Antoine; Magnol vi rivide il proprio sistema di classificazione, tenendo conto delle osservazioni dei suoi numerosi corrispondenti e stabilendo come carattere principale il calice fiorale. Il sistema fu apprezzato da Linneo che nel suo Classes Plantarum (1738) deplora che abbia trovato pochi seguaci. Magnifiche magnolie Fu un altro botanico del sud della Francia, che con Magnol era in contatto anche attraverso il comune amico Pitton de Tournefort, Charles Plumier, a dedicargli una delle piante da lui scoperte nelle Antille, Magnolia dodecapetala (1703). Il nome fu fatto proprio da William Sheridan, un allievo di Tournefort che lo diffuse in Inghilterra. Linneo lo riprese nella prima edizione di Systema naturae (1735) e lo ufficializzò in Species plantarum (1753). E così, dopo tante vicissitudini e umiliazioni, Magnol ha donato il suo nome a uno degli alberi più belli e amati (un nome straordinariamente eufonico, che non sembra neppure derivato da un cognome). Gloria dei parchi e dei giardini, Magnolia - dopo varie vicende tassonomiche - è oggi un grande genere di oltre 200 specie, uno dei due (l'altro è Liriodendron) della famiglia Magnoliaceae. Dal punto di vista della coltivazione le magnolie si dividono in due grandi gruppi: quelle a foglia caduca, di origine per lo più asiatica, fioriscono all'inizio della primavera; tra le specie più note, M. stellata, M. liliiflora, M. campbellii, e l'ibrido M. x soulangeana. Quelle a foglia persistente, o sempreverdi, sono per lo più americane e fioriscono d'estate; la più nota è M. grandiflora. La storia dell'introduzione di questa specie ora addirittura inflazionata è curiosa e affascinante. Sembra che il primo esemplare a sbarcare in Europa sia arrivato a Nantes nel 1711, per essere piantato nella serra di René Darquistade, sindaco della città, a La Maillardière. Dopo vent'anni, insoddisfatto dello scarso sviluppo della pianta, coltivata rigorosamente in serra, egli decise di disfarsene. La moglie del giardiniere la salvò e convinse il marito a piantarla all'esterno, in un'area riparata. In queste nuove condizioni, la magnolia si sviluppò e regalò una magnifica fioritura. I vivaisti della città la moltiplicarono per margotta e la diffusero nel resto del paese. Quanto alla magnolia di La Maillardière, trascurata e danneggiata durante la rivoluzione, morì intorno al 1848. Naturalmente questa storia è contestata dagli inglesi, che sostengono che le prime magnolie arrivarono invece a Exmouth, in Inghilterra, intorno al 1720, nei giardini di sir John Colliton. La magnolia di Exmouth ebbe vita più breve di quella di Nantes perché, a quanto pare, nel 1794 fu tagliata accidentalmente. Ne è discesa però un'apprezzatissima cultivar a fiori particolarmente grandi, M. grandiflora 'Exmouth'. Questa rivalità e queste storie - a metà tra storia e leggenda - testimoniano la popolarità delle magnolie, come del resto le migliaia di locali,catene di negozi, prodotti di bellezza, case di moda, gruppi musicali, associazioni e ditte di ogni genere che ne portano il nome. Se ne fregiano anche diverse città statunitensi. Magnifiche magnolie. Una bella rivincita per Monsieur Magnol. Come sempre, qualche approfondimento nella scheda. Mentre Napoleone combatte le battaglie disperate della "Campagna di Francia", i medici parigini affrontano un nemico ancora più devastante dei temuti cosacchi: l'ennesima epidemia di tifo. Al contrario dell'imperatore, vinceranno la loro battaglia. Ma non senza qualche vittima; tra loro il giovane medico e botanico Henri Auguste Duval, che sarebbe del tutto dimenticato senza uno scambio di favori con un collega che gli dedica il genere Duvalia. Da medico e botanico a caso clinico Nella memoria dei Belgi e dei Francesi, quello del 1813-1814 è passato alla storia come "inverno dei cosacchi". In quella stagione freddissima, una delle più inclementi del secolo, si combatté la "Campagna di Francia" che si concluse con la sconfitta di Napoleone, la sua abdicazione e l'ingresso degli eserciti della coalizione (proprio loro, i famosi cosacchi) a Parigi. Dopo la battaglia di Lipsia (16-19 ottobre 1813), gli alleati decisero infatti di non lasciare all'imperatore il tempo di riorganizzarsi e lanciarono una campagnia invernale. Inutilmente Napoleone cercò di impedire agli eserciti nemici di congiungersi e di convergere verso Parigi. Proprio il giorno di Natale, le frontiere francesi furono violate e iniziò l'invasione. La guerra portava con sé fame, furti e violenze di ogni tipo; ingigantito ad arte dalla propaganda napoleonica, si diffondeva il mito dei cosacchi, barbari e bestiali. E mentre dilagava la paura, i medici di Parigi dovevano fronteggiare un altro, immediato, concreto e terribile spettro: l'epidemia. Gli studiosi che si sono occupati delle guerre napoleoniche hanno dimostrato che, più delle battaglie, a mietere vittime tra i soldati dell'Armée furono le pessime condizioni sanitarie, e in particolare le epidemie. Tra i morbi più devastanti, il tifo, un'etichetta generica per diverse malattie infettive; le forme più comuni nella Francia ottocentesca erano il tifo petecchiale o esantematico, provocato da un batterio trasmesso dal morso delle pulci, e la febbre tifoide, causata da un batterio del genere Salmonella. Entrambi imperversavano tra i soldati, favoriti dalle loro condizioni di vita: denutrizione, fatica e prostrazione, scarsissima igiene, promiscuità e concentrazione in ambienti sovraffolati e malsani. Dopo ogni campagna, i reduci portavano con sè i germi e anche tra la popolazione civile si scatenavano ondate epidemiche, contro le quali la medicina del tempo aveva ben pochi strumenti. Allora non si sapeva nulla di batteri e virus. Si era capitò però che la sporcizia e la cattiva igiene avevano molto a che fare con il diffondersi delle malattie contagiose. Così, in quell'inverno terribile, mentre l'imperatore vinceva qualche battaglia e perdeva la guerra e il trono, i medici parigini riuscirono, con la prevenzione e l'attenzione alle misure igieniche, a limitare i danni. Quell'anno, almeno a Parigi, l'epidemia fu fermata; i morti non si contarono a centinaia o a migliaia, ma a poche decine. Uno di essi fu un medico, che, non potendo servire il suo paese in altro modo, aveva voluto combattere in prima linea almeno contro l'epidemia: Henri-Auguste Duval. Della sua vita non sappiamo quasi nulla: era normanno, nato a Alençon, oltre che medico era un botanico stimato e appassionato. Il suo maggior contributo alla botanica è una breve opera, il catalogo di una collezione di succulente appartenente a un giardiniere-collezionista della sua città natale, Plantae succulentae in horto Alenconio (1809); in essa Duval riconobbe per la prima volta i generi Haworthia e Gasteria, separandoli da Aloe. Sappiamo invece quasi tutto della sua morte, perché è stata esposta come caso clinico dal medico che lo curò e non poté far nulla per salvarlo; grazie a B. Pellérin (Considération sur les maladies qui ont regné à l'hospice de la Salpetrière dans 1814) sappiamo ad esempio che Duval era da tempo molto angosciato dalla situazione politica; era agitato, aveva perso l'appetito, era dimagrito e dormiva male. Nonostante chi lo sconsigliava, probabilmente per senso civico aveva chiesto di essere trasferito nel reparto infettivi dell'ospedale parigino della Salpêtrière e prima di essere contagiato si era prodigato senza risparmio e con qualche imprudenza. Fu così che dopo circa quindici giorni dalla comparsa dei primi sintomi, si spense il 14 marzo 1814. Aveva 36 anni. Due settimane dopo i cosacchi entravano a Parigi e si accampavano (alimentando altre leggende) nel Bois de Boulogne. Una sintesi delle poche notizie che abbiamo su Duval nella biografia. Io dedico una succulenta a te, tu una a me... Benché per noi sia quasi uno sconosciuto, il promettente botanico ai suoi tempi dovette godere di una certa fama. Infatti, poco prima della sua morte, ben due colleghi gli dedicarono un genere: l'inglese Haworth nel 1812 e il francese Bonpland nel 1813. Per la legge della priorità, ad essere valido è il primo (Duvalia Haw.). I due generi validi creati da Duval, Gasteria e Haworthia, comprendono piante succulente endemiche del Sud Africa che prima di lui erano assegnate al genere Aloe. Oggi sono tra le più popolari e note "piante grasse" dei nostri appartamenti. Un esperto di succulente era anche il dedicatario del secondo genere, Adrian Hardy Haworth, che ricambiò il favore battezzando Duvalia uno dei generi descritti nel suo Synopsis Plantarum Succulentarum. Evidentemente, anche se in quegli anni francesi e inglesi si scambiavano fucilate e cannonate sui campi di battaglia, nel mondo della botanica prevalevano la cortesia e il savoir faire... Duvalia è un genere molto affine a Stapelia (sottotribù Stapeliinae della sottofamiglia Asclepiadoideae, in base alla nuova classficazione che ha fatto confluire le Asclepiadaceae nelle Apocynaceae), di cui condivide parecchie caratteristiche. Comprende piccole succulente tappezzanti, con fusti angolati che radicano alla base formando densi tappeti; anche se tendiamo ad associare le succulente ai deserti, vivono in zone aride ma non amano il sole diretto; crescono infatti preferibilemente in mezzo all'erba o alle macchie di arbusti. Sebbene le più note arrivino dal Sud Africa, un piccolo gruppo di specie è nativo del Corno d'Africa. A essere straordinari sono soprattutto i fiori che a me ricordano decisamente stelle di mare, con i loro cinque lobi a volte molto stretti e appuntiti, strani colori che includono il porpora e il marrone cioccolato e in alcune specie marezzature e macchie degne di un tappeto orientale. Ma guai ad avvicinare il naso per annusarle! Le Stapeliinae si sono evolute in aree desertiche dove non ci sono né api né farfalle, ma solo coleotteri e mosche che non si nutrono di polline, ma di carogne e materiali in decomposizione. Quegli strani colori, quelle marezzature, talvolta quei peli serici e soprattutto quell'odore (di formaggio andato a male, di calzino sporco, di carne putrefatta) sono lì apposta per confonderli e attirarli! Per fortuna sono piccole piante con piccoli fiori, e, al contrario delle mosche carnarie, noi umani ne avvertiamo l'odore solo da vicino. Qualche notizia in più su questo intrigante genere nella scheda. A ricordare lo sfortunato Duval, alla Duvalia si affianca anche un secondo genere, costituito da un'unica specie: la rarissima Duvaliandra dioscoridis, un endemismo di Socotra, un'altra parente delle Stapeliae che deve il nome generico alla somiglianza con la Duvalia. E' una specie fortemente a rischio: in natura se ne conosce una sola popolazione, con una cinquantina di esemplari in tutto. Anche in questo caso, qualche approfondimento nella scheda. Arrivato in Cina per insegnare scienze agli studenti cinesi del Collegio fondato dai padri lazzaristi, il sacerdote Armand David si trasforma in un leggendario esploratore naturalista. Percorre per lo più a piedi 11.000 chilometri, affronta la fame, un tentativo di avvelenamento, un naufragio e ogni genere di malattie, salva dall'estinzione il cervo che porta il suo nome, individua il panda e centinaia di animali e piante. Ma anche l'albero che lo ricorda, Davidia involucrata, è protagonista di una storia molto avventurosa. Da missionario a esploratore naturalista Al termine della seconda guerra dell'Oppio, la Cina è costretta a firmare la Convenzione di Pechino (1860) che, tra l'altro, concede ai missionari cristiani di muoversi liberamente nel paese. Ad approfittarne per primi, i missionari francesi, da tempo presenti in Cina: dopo la soppressione dei gesuiti (come padre d'Incarville, primo diffusore della flora cinese in Europa), dal 1783 a Pechino si sono installati i lazzaristi (nome con cui è comunemente conosciuta la Congregazione della missione). Come i loro predecessori, sono riusciti a rimanere in Cina e ad ottenere un sia pur minimo radicamento utilizzando come copertura le competenze tecniche e scientifiche. Nel corso degli anni, soprattutto dopo il trattato di Nanchino, hanno creato piccole missioni in diverse parti del paese. La nuova situazione apre favorevoli prospettive; con l'appoggio del ministero degli esteri francese (che vede nei lazzaristi uno strumento per estendere la sfera d'influenza della Francia in Cina), l'ordine decide di aprire a Pechino un grande Collegio, destinato alla formazione dei proseliti cinesi. E' così che nell'estate del 1862 arriva a Pechino, con il compito di insegnare scienze naturali nel Collegio appena fondato, un giovane sacerdote lazzarista, Armand David. Ha una notevole esperienza in campo educativo (per dieci anni ha insegnato scienze al Collegio di Savona), ed è un naturalista le cui competenze spaziano a 360° dalla zoologia alla botanica alla mineralogia. Fin da subito, inizia ad affiancare all'intenso lavoro didattico e all'attività sacerdotale brevi escursioni naturalistiche nei dintorni della capitale per raccogliere materiali, destinati in parte al museo didattico del Collegio, in parte ad alcuni professori dell'Accademia delle Scienze e del Museo di storia naturale di Parigi, cui li ha promessi prima di partire. Sia nel 1862 sia nel 1863, fa anche due viaggi più lunghi (a Kalgan, a nord ovest di Pechino, a piedi della grande muraglia, e a Jehol, a nord est) che, se hanno lo scopo principale di apprendere meglio la lingua, gli permettono anche di incrementare le sue collezioni. In entrambi i casi, invia a Parigi alcune casse di semi e esemplari di animali e piante, lasciando stupefatti i professori parigini, certamente per la loro quantità e qualità, ma soprattutto dell'eccezionale valore delle note di David. E' un'occasione da non perdere! Su loro richiesta, il ministro della Pubblica Istruzione chiede al superiore generale dei lazzaristi di liberare padre David dal lavoro del collegio, in modo che possa dedicare tutto il suo tempo all'esplorazione naturalistica. Il superiore accetta, e il missionario naturalista si trasforma in un esploratore a tempo pieno, le cui spese saranno da questo momento a carico del Ministero della pubblica istruzione e del Museo di Scienze Naturali di Parigi. La rete missionaria fornirà invece l'appoggio logistico, sia fornendo servitori e aiutanti, sia soprattutto mettendo a disposizione di David i locali delle missioni distaccate, dove il sacerdote naturalista farà tappa o creerà le proprie basi operative. Avrà così inizio una delle più straordinarie epopee della ricerca naturalistica, destinata a gettare le basi della conoscenza scientifica del territorio cinese, e - per quanto ci riguarda - ad arricchire i nostri giardini di decine e decine di nuove piante. Il primo eccezionale risultato venne raggiunto mentre ancora David si preparava alla prima spedizione. Arrampicandosi sul muro che circondava il vietatissimo parco imperiale di Nanhaizi, a una lega a sud di Pechino, egli scorse in lontananza un branco di cervo di curiosissimo aspetto. Corrompendo i guardiani, riuscì a procurarsi dapprima alcune pelli, poi le ossia di quella che risultò una specie del tutto sconosciuta (oggi si chiama Elaphurus davidianus, ovvero cervo di padre David); come, proprio grazie all'intraprendenza del sacerdote, questi rari cervidi siano riusciti di misura a scampare all'estinzione lo potete leggere in questo articolo. Tre spedizioni a nord, a sud e al centro della Cina Tra il 1866 e il 1874, padre David fu impegnato in tre spedizioni. La prima durò sette mesi e mezzo (marzo-ottobre 1866) ed ebbe per meta la Mongolia meridionale (regione dell'Urato); il sacerdote viaggiò insieme a un cinese convertito, Ouang Thomas, e, nella fase centrale dell'esplorazione, della famosa guida di origine mongola Samdadchiemba e del confratello laico Chevrier. Il gruppo dovette affrontare la fatica di una strada spesso impercorribile, il clima rigido, la scarsità d'acqua e di cibo, il pericolo dei lupi (che li costringeva a dormire nelle tende insieme ai loro muli), dei banditi e dei drappelli di soldati tatari. Ogni sera padre David annotava scrupolosamente sul diario di viaggio ciò che aveva osservato durante la giornata: la natura del suolo, la flora e la fauna, i gruppi umani con la loro cultura materiale e le loro credenze. Nonostante si trattasse di una regione aspra e semidesertica, dove la penetrazione cinese stava distruggendo quanto rimaneva sia della cultura mongola sia del fragile manto forestale, alla fine il risultato non fu disprezzabile: 176 uccelli, 59 mammiferi, 150 piante e 680 insetti. Ma David ne fu molto deluso, come scrisse ai corrispondenti parigini: "Forse sapete che l'anno scorso ho passato otto mesi nell'Urato. Vi ho speso molto denaro, perso il mio tempo e le mie fatiche, perché è un paese poverissimo, anche se a Pechino mi aveano fatto credere il contrario". Per il secondo viaggio (che durerà circa due anni, maggio 1868-giugno 1870), David sceglie dunque la Cina sudoccidentale e il Tibet orientale, alla ricerca delle foreste primitive segnalate da altri missionari. E questa volta farà centro: la regione di Ya'an (nell'attuale Sichuan) è ancora oggi una delle più ricche di biodiversità. Raggiunta Shangai, la piccola spedizione (David ha sempre con sè Ouang Thomas, altri compagni di viaggio si aggiungono nei diversi tratti) dapprima risale il Fiume Azzurro in nave, ma a causa delle piene rimane per quattro mesi a Jiujiang (una zona modesta agli occhi di padre David, che tuttavia gli frutta la scoperta di una nuova specie di rana, Rana latrans). Il 13 ottobre riparte; il viaggio è reso difficile dalle rapide, dall'ostilità della popolazione, e padre David si ammala gravemente, forse vittima di un avvelenamento (era un metodo consueto in Cina per liberarsi dei "cani stranieri"). Ultima tappa del viaggio in nave è Chongquing, nella provincia di Sichuan; da qui, in portantina (gli è stato raccomandato di mostrarsi il meno possibile: l'ostilità contro gli stranieri, in una Cina frustrata dagli accordi diseguali imposti dalle potenze occidentali, è generale) raggiunge il principato semi indipendente di Muping (oggi Baoxing), dove i lazzaristi avevano fondato un collegio; è una regione di etnia tibeto-birmana (Mantze), di religione buddista, situata a più di 2000 m di altitudine. Al centro di un'area ricchissima di biodiversità, nel Tibet orientale, questa sarà la base di padre David per i successivi nove mesi. Nelle casse che da Muping spedisce a Parigi (nonostante le enormi difficoltà, in mancanza di tutto, per conservare e imballare il materiale) prenderanno posto 676 piante, 441 uccelli, 145 mammiferi; tra questi ultimi, le acquisizioni più note, il rinopiteco dorato ma soprattutto il panda (che sarà identificato e descritto scientificamente nel 1870 da Milne-Edwards). Le acquisizioni botaniche non sono meno significative: moltissime delle piante che associamo a padre David grazie agli specifici davidii, davidianus, armandii vengono da qui, come pure - lo vedremo meglio tra poco - la Davidia involucrata; altre ricordano la loro provenienza con lo specifico moupinensis. A novembre David lascia Muping (dove ha sofferto ogni tipo di privazioni e varie gravissime malattie); prima di rientrare fa una lunga deviazione sull'altopiano del Quingai (dicembre 1869-marzo 1870) dove scopre molte nuove specie di uccelli e la salamandra cinese, la più grande del mondo (Andrias davidianus). Da qui raggiunge Chengdu, dove si imbarca nuovamente sul Fiume azzurro alla volta di Shangai. Lungo la strada conta di fermarsi alla missione francese di Tientsin; ma al suo arrivo scopre che appena una settimana prima l'intera missione è stata massacrata in una rivolta. La terza e ultima spedizione (ottobre 1872-marzo 1874) ebbe per terreno la Cina centrale, dai monti Quinling allo Jiangxi. Poiché il suo fisico era ormai provato dalle tante malattie, accompagnato da due servitori cristiani ora il sacerdote si muoveva in carretta; ricadute e episodi di prostrazione fisica lo costrinsero più volte a soste prolungate. Dopo aver rinunciato alla meta che si era proposto, il Gansu (inaccessibile per una ribellione musulmana), decise di esplorare i monti Qinling, una barriera montana che fa da spartiacque tra i bacini del Fiume giallo e del Fiume azzurro e segna il confine tra il clima temperato del nord e quello subtropicale del sud (proprio per questo è un'altra area particolarmente ricca di animali e piante). Quando raggiunse la valle dello Han, un affluente del Fiume azzurro, decise di ridiscenderlo in barca fino alla confluenza a Hankou (dove sorgevano alcune concessioni straniere). Fu una decisione catastrofica: durante l'attraversamento di una rapida, l'imbarcazione naufragò e almeno metà delle preziose casse con gli esemplari raccolti andò perduta. Raggiunta fortunosamente Hankou, padre David si riposò presso la missione italiana. Nel marzo 1873, ripartì verso sud (questa volta in portantina), fino a raggiungere Fǔzhōu nello Jiagxi, fissando la sua nuova base nel collegio Tsitou, a sud-est della città. Era un'area particolarmente insalubre; alla lunga lista di malattie già sperimentate, si aggiunse la malaria che colpì tanto padre David quanto i suoi portatori. A settembre, appena si fu ripreso, si trasferì sulle montagne del Fujian, in cerca di un clima più gradevole e di alcune rare scimmie; le sue condizioni di salute precipitarono, tanto che ricevette l'estrema unzione. La sua forte fibra lo salvò ancora una volta; ma ormai era ora di mettere fine alle esplorazioni, e di rientrare in Francia, come gli ingiunse a malincuore il suo stesso superiore. Altre informazioni su questo straordinario naturalista nella biografia. L'epopea della Davidia I viaggi di padre David (si calcola che abbia percorso non meno di 7000 miglia, ovvero più di 1100 km, per lo più a piedi) segnarono una tappa fondamentale per la conoscenza scientifica della natura cinese. Al di là delle celeberrime "scoperte" del cervo e del panda, per rimanere alla botanica, raccolse non meno di 1500 piante, con 250 nuove specie e 11 generi. Tra di essi troviamo 12 specie di rododendri, diverse specie di aceri, gigli, primule, genziane, Astilbe chinensis, Buddleja davidii. Si calcola che siano circa 75 le specie che lo ricordano nel nome specifico (davidii, davidianus, armandii). Tra le tante piante scoperte a Muping, c'era anche un albero molto raro, di cui padre David vide un solo esemplare. Sulla base dei materiali spediti a Parigi, nel 1870 Henri Baillon stabilì che si trattava di un genere e di una specie nuovi e lo battezzò Davidia involucrata. Come oggi sappiamo, è l'unica specie di questo genere (appartenente alla famiglia Cornaceae, un tempo Nyssaceae). E' un albero molto raro, e la sua storia è sorprendente. Dopo la segnalazione di padre David, nel 1888 di nuovo un singolo albero fu visto nelle gole dello Yangtze Ichang nell'Hubei da Augustine Henry, che ne inviò fiori e frutti a Kew, suscitando l'interesse del celebre vivaista Veitch. Quest'ultimo nel 1899 finanziò una spedizione apposita per ritrovare la preziosissima pianta, affidandola a Ernest Wilson, allora un giovane di 22 anni (era destinato a diventare a sua volta un leggendario cacciatore di piante, noto come "Chinese Wilson", Wilson il cinese); questi, giunto sul luogo segnalato da Henry dopo infinite peripezie aiutandosi con una carta disegnata a mano, scoprì che l'albero era stato abbattuto per costruire una casa; per fortuna, più tardi ne trovò un boschetto e raccolse molti semi. Durante il viaggio di ritorno, anche la sua imbarcazione fece naufragio, ma Wilson riuscì a salvare i preziosi semi. Indipendentemente, un altro botanico missionario che esplorò la Cina, Farges, nel 1897 ne inviò 37 semi all'arboretum di Vilmorin, il più agguerrito concorrente francese di Veitch. Solo uno riuscì a germinare e giunse a fioritura nel 1906. Per doppia ironia nella sorte, non solo Farges gli strappò il primato, ma i discendenti dell'unica pianta ottenuta da Vilmorin si rivelarono molto più adatti al clima europeo dei molti discendenti nati dal grosso invio di semi di Wilson. In patria, anche se era considerata una pianta da proteggere, la Davidia non destò particolare attenzione fino al 1954, quando Zhou Enlai, primo ministro della Repubblica popolare cinese, in visita a Ginevra, fu colpito dalla bellezza delle Davidiae in fiore in alcuni parchi ginevrini e scoprì che si trattava di un albero cinese; la stessa scena si ripeté all'inizio degli anni '70, quando i leader cinesi ne videro le alcuni esemplari in fioritura di fronte alla Casa Bianca. In effetti lo spettacolo di una Davidia involucrata in fiore è davvero incantevole; da noi è nota con il nome di "albero dei fazzoletti" per le due grandi brattee bianche che circondano l'infiorescenza e cadono a terra con la delicatezza di un fazzoletto. Ancora più poetico uno dei nomi inglesi, dove-tree, "albero delle colombe". Qualche notizia in più nella scheda. Nel 1703 il re Sole invia un'ambasceria all'imperatore d'Etiopia. Due anni dopo, a Sennar, nel Sudan, tutti i componenti della spedizione saranno massacrati per ordine del re locale. Tra loro anche un giovane medico e botanico di origini italiane, Augusto o Augustin Lippi. Il suo ricordo, ancora una volta, è affidato alle piante: l'aromatica Lippia e la sua sorella spinosa, Acantholippia. Diplomazia, religione e ricerca scientifica Nel 1699 un medico francese, Charles-Jacques Poncet, si recò a Gondar, la nuova capitale del regno d'Abissinia (o impero d'Etiopia), per curare l'imperatore Yiasu e suo figlio. Si aprì così uno spiraglio per stabilire relazioni diplomatiche tra la Francia e il paese africano, di cui il re Sole decise di approfittare inviando un'ambasceria ufficiale. Oltre che diplomatici, gli obiettivi erano religiosi (si sperava di potere inviare missionari che riconducessero la chiesa copta nel seno di Roma) e economici; si puntava all'accesso diretto a un mercato fino ad allora raggiungibile solo attraverso la mediazione dell'impero ottomano, anche in risposta agli empori aperti a Aden e Moka dalle compagnie olandese e inglese. Dopo una lunga e complessa preparazione (occorreva il benestare dell'Impero turco, di cui l'Egitto faceva parte, e l'assenso del papa per gli aspetti religiosi) la missione poté partire solo nell'agosto del 1703. A capeggiarla il viceconsole francese a Damietta, Lenoir du Roule: infatti il console, scettico e consapevole dei rischi, si era diplomaticamente defilato; lo accompagnavano due servitori e un interprete, un pittore-incisore e un medico-naturalista. Grazie all'intervento di Fagon, medico del re e grande patron del Jardin du Roy, la missione aveva infatti assunto anche il volto di una spedizione naturalistica; il pittore, Bayard, avrebbe disegnato piante, frutti, animali, paesaggi e ogni curiosità degna di nota; il naturalista avrebbe dovuto raccogliere esemplari interessanti soprattutto della flora di Egitto, Sudan e Etiopia, largamente sconosciuta alla scienza europea. E' così che entra in scena il nostro protagonista: Augustin (o Augusto) Lippi, un giovane medico di venticinque anni, di origini italiane (la sua famiglia era di Lucca, ma lui era nato a Parigi), molto dotto e assai versato nella chimica e nella botanica. Una missione difficile, un esito tragico Fin dall'inizio, la missione Lenoir du Roule fu segnata dal destino avverso. Ripetute tempeste rallentarono la navigazione nel Mediterraneo, costringendo i viaggiatori a lunghe soste forzate in diversi porti, tanto che giunsero al Cairo soltanto nel maggio del 1704. Vi trovarono un ambiente totalmente ostile; mercanti francesi e missionari francescani (contrari all'invio in Etiopia di missionari gesuiti, come caldeggiato dal re Sole) avevano contribuito a diffondere i più incredibili pettegolezzi sui veri intenti dei francesi: si diceva che gli inviati di Luigi XIV fossero in realtà consiglieri militari; che nei loro bagagli nascondessero cannoni; che du Roule fosse un figlio segreto del re Sole; ma soprattutto che tutti quanti fossero pericolosi stregoni capaci di tagliare il Nilo e impedirne le benefiche piene. L'ostilità della popolazione era tale, lamenta Lippi in una delle sue lettere a Fagon, che gli era stato impossibile esplorare le campagne per erborizzare. A luglio il gruppo partì in direzione sud, ora lungo il corso del Nilo ora attraverso il deserto. Alle difficoltà del viaggio (la carovana avrebbe dovuto percorre più di 2000 km) si aggiunsero ovunque segni di ostilità e diffidenza, che resero molto difficile il lavoro di Lippi. Ad agosto, mentre si trovavano a Asuit , a circa 300 km a sud del Cairo, vennero raggiunti dal primo interprete dell'ambasciata francese che, per incarico del Bey ottomano, ingiunse loro di tornare indietro: secondo le autorità turche, la missione era fallita in partenza per l'ostilità del patriarca copto e le calunnie diffuse dai francescani e li avrebbe esposti a morte sicura. Du Roule decise di proseguire; il gruppo si addentrò sempre più a sud nell'alto Egitto. A marzo dell'anno successivo, toccarono i confini dell'Egitto (da qui, prudentemente, Lippi inviò a Fagon l'ultimo pacco di piante e l'ultima parte del manoscritto). A maggio, seguendo il corso del Nilo Azzurro giunsero infine a Sennar, capitale del regno Fung. Dapprima l'accoglienza del re Badi III e del suo primo ministro apparve assai cordiale. Tuttavia, i mesi passavano senza che venisse accordato il permesso di proseguire il viaggio verso l'Etiopia. Esasperato, du Roule, tramite un mercante etiope, comunicò all'imperatore il suo arrivo a Sennar, chiedendogli di intervenire presso il re. Forse fu proprio questa mossa a scatenare la tragedia. Fossero i timori superstiziosi e xenofobi della popolazione, fosse il rifiuto di du Roule di pagare le mance richieste per ogni nonnulla, fosse l'ostilità delle donne dell'harem regale che non aveva trattato con sufficiente deferenza, fosse la mancata piena del Nilo (che venne attribuita ai malefici stregoni francesi), fosse soprattutto il desiderio di impadronirsi di tutti i loro beni e dei doni per l'imperatore d'Etiopia, il 10 novembre del 1705 il re di Sennar ordinò ai suoi servitori di organizzare una trappola e di uccidere tutti i francesi. Fatti uscire di casa con tutti i loro beni (con il pretesto di un trasloco in un'abitazione poco lontana), nella piazza principale vennero circondati dai soldati e fatti a pezzi. Solo l'interprete cercò di difendersi uccidendo due assalitori, ma presto dovette soccombere. Anche Lippi fu tra i caduti; l'unico sopravvissuto fu il pittore che, malato, non aveva mai raggiunto Sennar. I cadaveri, i vestiti, le carte vennero bruciati per eliminare ogni possibile sortilegio. L'aromatica Lippia Dopo questa storia terribile, torniamo alla botanica. Lippi (qualche notizia in più nella biografia) era un botanico preparato e diligente. Nel corso del suo viaggio, fin dalla sosta a Marsiglia e persino durante il tormentoso viaggio in mare, raccolse numerosi esemplari e li descrisse puntigliosamente in note inviate a Fagon. Anche se mancano le piante sudanesi (presumibilmente andate perdute per la sua tragica morte) ne risulta un'opera notevole (Table alphabétiques des plantes observées par M. Augustin Lippi), che passa in rassegna oltre 250 piante, una quarantina delle quali fino ad allora sconosciute, all'epoca la maggiore rassegna disponibile delle piante egiziane. Sebbene mai pubblicata, era comunque nota agli ambienti scientifici, tanto che nel 1730 Houstoun volle dedicare al giovane medico una delle nuove piante da lui raccolte in Messico, Lippia americana. Il genere sarà poi validato da Linneo nel 1753. Lippia è un genere della famiglia Verbenaceae che comprende circa duecento specie di arbusti diffusi nelle aree tropicali di tutto il mondo; la loro caratteristica più saliente è il fogliame profumato, per la presenza di diversi oli essenziali. La specie più nota è probabilmente Lippia graveolens, nativa del sud ovest degli Stati Uniti, del Messico e dell'America centrale, una pianta aromatica le cui foglie sono usate nella cucina messicana e tex-mex; è detta "origiano messicano". Anche nell'area esplorata da Lippi sono presenti varie specie del genere che gli sarà dedicato, come L. abyssinica o L. multiflora (una specie presente anche in Sudan con tradizionali usi erboristici); è possibilissimo dunque che lo sfortunato botanico abbia incontrato qualcuna delle piante che oggi portano il suo nome. Di alcune di esse si parla nella scheda. Curiosamente, non fanno più parte del genere Lippia le specie probabilmente più note - e spesso commercializzate - sotto questo nome: l'aromatica Lippia citriodora (oggi Aloysia citriodora), ovvero la limoncina o erba cedrina; la vigorosa tappezzante Lippia nodiflora (oggi Phyla nodiflora). E' invece da poco ritornata a farne parte il cosiddetto zucchero azteco Lippia dulcis, dopo essere stata assegnata anch'essa al genere Phyla come P. dulcis. A ricordare Lippi, concorre anche il piccolo genere Acantholippia (una rassegna delle specie nella scheda) che comprende sei specie delle regioni aride delle Ande e della Patagonia, che si distinguono dall'affine Lippia per essere piante xerofile con foglie ridotte, spesso munite di spine. Il bello della ricerca è che spesso riserva sorprese. Tutti crediamo di sapere che la Robinia si chiama così in onore del giardiniere del re di Francia Jean Robin che primo la piantò in Europa, e a testimoniarlo c'è anche il matusalemme degli alberi parigini. Ma a scavare, a interrogare le fonti, si scopre che, forse, non è andata proprio così. Jean Robin, un giardiniere intraprendente Lungo la rive gauche della Senna, proprio di fronte a Notre Dame, Square Viviani è una piccola oasi verde che si vanta di ospitare l'albero più vecchio di Parigi: è un'acacia, o meglio una Robinia pseudoacacia. Secondo la tradizione, l'avrebbe piantata qui nel 1602 Jean Robin, farmacista e erborista del re Enrico IV. Il venerabile esemplare, per quanto imponente (30 m d'altezza, 3,5 m di diametro), è alquanto acciaccato: per permettergli di rimanere ancora in piedi, cemento è stato colato nelle fessure del tronco, a sua volta sostenuto da tre pilastri sempre di cemento, dove si arrampica un'edera che deve periodicamente essere rimossa affinché non soffochi il fragile quattro volte centenario. Ma chi era Jean Robin e come gli è giunta questa pianta americana (la Robinia pseudoacacia è originaria degli Appalachi, nell'America settentrionale) a cui avrebbe per sempre legato il suo nome? Iniziamo dalla prima domanda. Farmacista, con una discreta formazione (scrisse in latino la maggior parte delle sue opere, in cui dimostra una buona conoscenza delle acquisizioni della botanica del tempo; Pitton de Tournefort lo riteneva il miglior conoscitore delle piante della sua epoca), Jean Robin intorno al 1586 fu nominato "arborista e erborista" del re Enrico III, incarico che gli sarebbe stato confermato dai successori Enrico IV e Luigi XIII. Nel 1597 la facoltà di medicina gli affidò la cura del piccolo orto annesso all'école de medicine di rue de la Bucherie, creato già nei primi anni del secolo, dove si coltivavano i semplici da "dimostrare" ai futuri medici. Non si trattava di un vero orto botanico, ma di un semplice horticulus (simile a quello creato da Rondelet nel cortile della facoltà di medicina di Montpellier) con non più di duecento specie. Il curatore, oltre a occuparsi della gestione dell'orto, impartiva anche lezioni di botanica pratica e erboristeria ai futuri medici. Per quanto prestigiosi, non erano tuttavia gli incarichi di "botanico del re e curatore del giardino della celeberrima scuola di medicina", ad arricchire l'intraprendente Robin che, stimolato dalla moda dei fiori esotici introdotta a corte dalla regina Maria de' Medici, negli stessi anni creò un giardino privato sulla punta occidentale dell'Ile de la Cité, dove coltivava piante esotiche di cui si procurava i semi e i bulbi attraverso una vasta rete di contatti, che includevano tra l'altro John Tradescant il vecchio, Mathias de l'Obel e Carolus Clusius. Suo stretto collaboratore fu il figlio Vespasien che tra fine Cinquecento e inizio Seicento viaggiò moltissimo per raccogliere piante e rinsaldare la rete di fornitori; fu in Inghilterra, nelle Fiandre, in Germania, in Italia, in Spagna e visitò addirittura alcune isole al largo della Guinea portoghese. Che cosa coltivasse Jean Robin nel suo giardino lo sappiamo grazie al Catalogus stirpium tam indigenarum quam exoticarum quæ Lutetiæ coluntur (1601), "Catalogo delle specie sia indigene sia esotiche che si coltivano a Parigi", in cui si elencano le 1300 specie che vi crescevano. Tra di esse quella che riscuoteva maggiore successo era la tuberosa (Polyantes tuberosa) che era appena stata introdotta dal Messico ed era ancora estremamente costosa; un contemporaneo accusò Robin di essere così geloso dei suoi bulbi più esclusivi da distruggerli piuttosto che donarli agli amici. Guy Pantin, il mordace decano della facoltà di medicina di Parigi, rincarò la dose soprannominandolo "Eunuco delle Esperidi", ovvero feroce guardiano del suo harem vegetale. Forse una critica un po' esagerata, se pensiamo che il giardino - vicinissimo al Louvre e a Notre Dame - era aperto ai visitatori, era frequentato sia dalle dame di corte sia dagli studiosi che i due Robin accompagnavano lungo i viali, mostrando le specie più interessanti e dissertando sulle loro proprietà. Uno splendido florilegio Per promuovere la sua impresa commerciale, nel 1608 Jean Robin si associò con Pierre Vallet (o Valet), "ricamatore del re", un grande pittore botanico e incisore che lavorava per la corte disegnando modelli floreali da ricamare: la moda degli abiti con ricami di fiori esotici, lanciata da Maria de' Medici, furoreggiava tra le dame di corte. Il frutto della loro collaborazione fu lo spettacolare florilegio Le jardin du Roy très chréstien Henry IV. Preceduto da un pomposo frontespizio, che ritrae l'ingresso di un giardino alla francese, con ordinate aiuole e serre (immagine ideale o reale riproduzione del giardino di Robin?), fiancheggiato dalle statue dei numi tutelari Clusius e l'Obel, comprende una sessantina di splendide tavole in cui Vallet ha ritratto dal vero piante da fiore spesso esotiche e assai ornamentali, coltivate nel giardino di Robin o nei giardini del Louvre; particolarmente notevoli le bulbose, tra cui anche alcune specie africane. I brevi testi e la dedica alla regina, in latino, si devono a Jean Robin. Lo scopo della squisita opera era duplice: fornire modelli destinati ai ricamatori e far conoscere alcune specie recentemente importate da Vespasien dalla Spagna e dalla Guinea. L'opera ottenne abbastanza successo da indurre gli autori a pubblicarne una seconda edizione accresciuta nel 1626, con il titolo Le jardin du Roy tres chrestien, Loys XIII. Alla morte di Jean Robin (1629), i suoi incarichi passarono al figlio Vespasien che era stato da lui formato e che, come abbiamo visto, da tempo era il suo principale collaboratore. Insieme nel 1624 avevano pubblicato la seconda edizione del catalogo del loro giardino, Enchiridion isagogicum ad facilem notitiam Stirpium tam indigenarum quam exoticarum quæ coluntur in horto D.D. Joan. & Vespasiani Robin, dove le piante elencate sono ben 1800. Ma intanto anche a Parigi, per la tenace volontà di Guy de La Brosse, stava per nascere un vero orto botanico. Istituito con patente reale nel 1626, il Jardin du Roi (il futuro Jardin des Plantes) nasce nel 1635 e viene inaugurato nel 1640. Vespasien Robin, che ormai ha una cinquantina di anni ed è un botanico di grande preparazione ed esperienza, viene nominato sottodimostratore del giardino; di fatto, sarà il braccio destro e il principale collaboratore di de La Brosse fino alla morte (1662). Anche le sue piante traslocano nel nuovo giardino, tanto più che l'area in cui era sorto il vecchio giardino di Jean Robin era stata nel frattempo inglobata in place Dauphine. Qualche notizia in più sui due Robin nella sezione biografie. Nella gallery alcune immagini tratte da Le jardin du roy très chréstien Henry IV. Le tavole furono stampate in bianco e nero, ma Vallet allegò le indicazioni dei colori; ci sono pervenute alcune copie con le immagini successivamente colorate a mano. Il mistero si infittisce: chi ha introdotto davvero la Robinia? Ma torniamo alla Robinia di Square Viviani. La targa apposta dalla Municipalità di Parigi informa che fu piantata da Jean Robin nel 1602. Altri parlano invece del 1601. Secondo la versione più nota, nel 1601 Jean Robin avrebbe ricevuto alcuni semi della pianta dal corrispondente inglese John Tradescant il vecchio (come si è visto in questo post, il figlio del giardiniere inglese visitò l'America settentrionale e ne riportò molte piante); sarebbe riuscito a farne germinare alcuni e ne avrebbe piantato un esemplare nel suo giardino dell'Ile de la Cité. Improbabile in effetti che l'Eunuco delle Esperidi avesse trapiantato il primo, preziosissimo esemplare, nel giardino della scuola di medicina; dunque quello di Square Viviani sarebbe un secondo esemplare, piantato/trapiantato l'anno dopo (dal punto di visto topografico i conti tornano: rue de la Bucherie sbocca in square Viviani). Ma, con buona pace dei parigini, non è finita qui. La Robinia (che all'epoca veniva chiamata Acacia) non è menzionata né nel Catalogo del suo giardino pubblicato da Robin padre nel 1601, né in Histoire des plantes nouvellement trouvées en l'isle de Virginie et autres lieux scritta da Robin figlio nel 1620, né nella seconda edizione del catalogo del 1626. La prima opera francese a menzionarla (con il nome Acacia americana Robini, l'acacia americana di Robin) è Plantarum canadensium historia del 1635, del botanico Jacques Philippe Cornuti, allievo di Jean e amico di Vespasien. L'anno prima, 1634, la pianta è invece citata da John Tradescant nel catalogo del suo giardino; nel Theatrum botanicum di Parkinson del 1640 si dice che nel giardino di Tradescant ce n'era un grande esemplare (quindi doveva essere stato piantato da qualche anno). Un'altra data sicura è il 1636, anno in cui Vespasien Robin trapiantò una Robinia nel Jardin des Plantes (l'esemplare non esiste più, ma ancora sopravvivono piante ricavate dai suoi polloni). Dunque, la Robinia di Square Viviani non è il primo esemplare mai seminato in Europa, non è nato né né nel 1601 né nel 1602, ma in una data imprecisata tra il 1626 e il 1636, seminato da Jean oppure da Vespasien (più probabilmente da quest'ultimo); con qualche anno di meno, continua a conservare il primato di pianta più vecchia di Parigi e presumibilmente di più antica Robinia pseudoacacia d'Europa ancora in vita (in effetti, la sua longevità è del tutto eccezionale: si tratta di alberi che in genere non superano i sessant'anni). Probabilmente la data tradizionale è un falso, dovuto a motivi nazionalistici. Ma nazionalismo per nazionalismo, è bene ricordare che la presenza della Robinia è attestata all'orto padovano proprio nel 1602 (prima o dopo Tradescant? mistero!). Nel 1738 Linneo visitò Parigi e anche a lui, come a ogni turista che si rispetti, fu presentata la famosa pianta. Prendendo per buona la sua storia e avendo riconosciuto che apparteneva a un genere diverso dall'Acacia, in Species plantarum (1753) la ribattezzò Robinia pseudoacacia, in onore dei due Robin, Jean e Vespasien. Robinia (famiglia Fabaceae, un tempo Leguminose) è un genere esclusivamente nord americano, dal Canada al Messico settentrionale. Il numero delle specie è discusso (da 4 a 10); la più nota è proprio R. pseudoacacia che, dai tempi dei Tradescant e dei Robin, ha fatto in tempo a naturalizzarsi in Europa, diventando la specie esotica più diffusa in Italia, apprezzata per il legname resistente e duraturo, gli splendidi fiori dolcemente profumati e l'abbondante produzione di nettare, da cui le api ricavano il rinomato miele d'acacia. E' tuttavia anche una specie invasiva che, grazie alla rapidità di crescita dei polloni, compete vittoriosamente con le specie autoctone, creando boschi con poche specie e scarso sottobosco. Coltivata invece nei giardini, nei viali e nelle piazze cittadine, non desta problemi e offre anche numerose cultivar che ne allargano le potenzialità ornamentali. Altre informazioni nella scheda, dove si parla anche delle sue sorelline meno note ma estremamente interessanti. Ardono gli ultimi fuochi delle guerre di religione quando un giovane medico, Pierre Richer de Belleval, propone a Enrico IV di dotare l'Università di Montpellier di un orto dei semplici degno della sua fama. E' così che nasce, tra gelosie di colleghi e cronica mancanza di fondi, il primo Orto botanico di Francia, creato da un cattolico in una cittadella del protestantesimo, destinato ad essere distrutto dal fuoco amico del cardinale di Richelieu e a risorgere dal nulla, sempre per merito del pertinace Belleval. Che si guadagnerà ben due generi: Richeria e Bellevalia. La modesta proposta di Richer de Belleval Dicembre 1593. Il governatore della Linguadoca, duca di Montmorency, presenta un giovane medico a un Enrico IV ancora in assetto di guerra (da quattro è nominalmente re di Francia, si è già convertito al cattolicesimo, ma ancora Parigi rifiuta di aprirgli le porte). Il dottore si chiama Pierre Richer de Belleval e espone al sovrano il suo sogno: dotare l'Università di Montpellier di un giardino dei semplici che rivaleggi con quello di Padova. Il re, già proiettato verso la pace e la ricostruzione del paese, è entusiasta. Ed è così, che con decreto reale nasce il Jardin du Roy, il giardino del re, ovvero l'Orto botanico di Montpellier; poiché nessuna delle cattedre di medicina dell'Università di Montpellier è vacante, con un secondo provvedimento ad hoc viene istituita per Belleval una quinta cattedra (il primo insegnamento di botanica in terra francese): d'inverno dovrà insegnare anatomia, in primavera e d'estate raccogliere e "dimostrare" i semplici. Nonostante le "lettere patenti" reali, c'è ancora qualche ostacolo: manca la ratifica del Parlamento di Linguadoca (arriverà solo nel 1596) e Belleval deve completare gli studi: ha conseguito il titolo medico a Avignone, gli manca il dottorato che solo Montpellier, appunto, gli può conferire. Ottenuto il titolo e giunta l'approvazione del Parlamento e i primi finanziamenti, Belleval si mette all'opera: acquista una serie di appezzamenti al di fuori delle mure cittadine, nel quartiere di Saint Jacques, altri ne requisisce. Si getta anima e corpo nell'impresa, anticipando anche di tasca sua il denaro necessario per gli uomini, i cavalli, i materiali, le piante (si è da poco sposato con una ricca ereditiera, di cui sta rapidamente esaurendo la dote). Estraneo all'ambiente di Montpellier (la sua famiglia è originaria della Champagne), "papista" in una città protestante (ha compiuto gli studi nella cattolicissima Avignone, che fa parte del territorio pontificio), con la sua fortunata carriera Belleval non può che suscitare invidie e rancori nella città che, nel frattempo, con l'editto di Nantes, è diventata anche ufficialmente una roccaforte ugonotta. I più zelanti fanno arrivare a André Dulaurens, primo medico del re, denunce e proteste: la più grave è che Richer de Belleval ha lasciato all'abbandono l'insegnamento dell'anatomia. Accusa fondata: sempre in giro ad erborizzare nelle campagne della Linguadoca, quando non all'estero, per fare visita ai colleghi di Padova, Bologna, Vienna, Londra, Leida (entrando il quella rete di relazioni e scambi che abbiamo già incontrato parlando dell'Orto padovano), in effetti Belleval ha occhi e tempo solo per il Giardino. E alla fine, trovata una soluzione di compromesso (l'insegnamento di anatomia sarà affidato a un sostituto), l'appassionato botanico può finalmente concentrarsi nell'opera della sua vita. Un giardino per i semplici e per le piante La concezione del Jardin royal di Montpellier è per molti aspetti innovativa: non sarà solo un giardino dei semplici, destinato alle piante medicinali la cui conoscenza è richiesta nel curriculum dei futuri medici, ma un giardino botanico dove le piante esotiche e le piante del territorio potranno essere coltivate rispettando le loro esigenze di suolo e esposizione. L'idea più innovativa è il monticulus, il "monticello", un rialzo artificiale alto circa due metri, con orientamento est-ovest, formato da cinque terrazze sovrapposte; lo scopo è duplice: riparare dal vento le piante medicinali coltivate nelle parcelle destinate ai semplici; offrire alle piante "selvagge" l'esposizione più adeguata. Nelle cinque terrazze esposte a sud vengono trapiantate le piante della garrigue, amanti del sole; nelle cinque terrazze esposte a nord le piante amanti dell'ombra. Di concezione ugualmente innovativa il labirinto, uno spazio protetto da muri con una struttura a spirale che trattiene l'umidità e fornisce ombra alle piante. Per le esotiche c'è un giardino recintato e sono previste aree specifiche per le piante acquatiche, quelle delle sabbie e quelle delle rocce. E' la prima volta che in un giardino si cerca di ricreare le condizioni naturali adatte a ciascuna pianta. Più tradizionale la parte propriamente didattica, il giardino dei semplici vero e proprio, destinato alla formazione degli studenti di medicina dell'Università, collocato a sud del monticulus; comprendeva due gruppi di tre aiuole rialzate parallele, dotate di canaletti di irrigazione, dove le piante erano sistemate in ordine alfabetico (esattamente come negli erbari del tempo) e contraddistinte da numeri incisi sulla pietra che permettevano l'identificazione (lo stesso Richer de Belleval provvide a scrivere il catalogo, in cui le piante erano contrassegnate con quegli stessi numeri). All'ingresso, un'iscrizione latina ammoniva i visitatori: Hic Argus sit et non Briareus, "Qui bisogna comportarsi come Argo dai cento occhi, non come Briareo dalle cento mani" (insomma, "guardare e non toccare"). Nel 1622, il Giardino aveva ormai raggiunto la maturità, conteneva almeno 1300 specie, era il fiore all'occhiello dell'Università di Montpellier e attirava studenti e visitatori da tutta Europa; Parigi, che ancora non aveva un suo orto botanico, guardava a quel modello per dotarsi di un'istituzione di pari livello. Quell'anno il Cardinale di Richelieu, nella sua controffensiva contro gli ugonotti, inviò le sue truppe ad assediare la città, che, come si è visto, era una delle piazzeforti protestanti previste dall'editto di Nantes. Il cavaliere d'Argencourt, ingegnere della città, per rafforzare le difese in vista dell'assedio, cacciò i giardinieri e trasformò il giardino in un bastione; Richer de Belleval riuscì solo a salvare le piante più preziose, trasferendole in quello che era stato il piccolo orto di Rondelet. Due anni dopo, quando venne firmata la pace, del giardino non era rimasto nulla. Bisognò ricominciare tutto da capo; nel 1629 Richelieu visitò la città e promise aiuti finanziari che tardavano ad arrivare (forse perché, nel frattempo, stava per sorgere il Jardin des plantes di Parigi, che stava molto più a cuore al re e al cardinale). Belleval, negli otto anni che gli sarebbero rimasti da vivere, ricostruì e ingrandì la sua creatura, lasciando in eredità il difficile compito a un nipote (come molte cariche della Francia dell'Ancien Régime, anche quella di curatore del Jardin royal di Montpellier era ereditaria). Fondatore del più antico orto botanico francese, titolare della prima cattedra di botanica, pioniere dell'ecologia botanica, Belleval fu anche uno botanico sul campo che esplorò a fondo la flora della Linguadoca, ma anche dei Pirenei e delle Alpi. Fu anche un antesignano della nomenclatura binomiale, anche se la sua idea oggi appare francamente bizzarra: denominare le piante con un nome più generale (il genere) in caratteri latini, un nome più specifico (la specie) in caratteri greci. Qualche notizia in più nella biografia. Tra alti e bassi, nei secoli successi il Jardin des Plantes de Montpellier, il più antico orto botanico francese, secondo in ordine di importanza solo a quello parigino (fondato nel 1626), manterrà il suo prestigio e sarà diretto da importantissimi botanici, come Augustin Pyramus de Candolle; oggi è uno dei pochi a trovarsi ancora nella collocazione voluta dal suo fondatore, e al centro è ancora visibile il monticulus, la "Montaigne di Richer", all'estremità della quale da quasi quattro secoli continua a fiorire l'albero di Giuda (Cercis siliquastrum) da lui piantato. Due nomi, due generi: Richeria e Bellevalia Diversi botanici onorarono Richer de Belleval con la dedica di un genere. Oggi due sono quelli considerati validi: Richeria Vahl e Bellevalia Lapeyr. Forse è giusto, considerando che il nostro aveva due nomi e due volte ha creato il giardino. Richeria Vahl. è un piccolo genere della famiglia Phyllantaceae (un tempo sottofamiglia delle Euphorbiaceae) che comprende alcune specie di alberi originari del centro e sud America e delle Antille. E' stato dedicato a Richer de Belleval nel 1797 dal botanico danese Martin Vahl. La specie più nota è Richeria grandis, un grande albero sempreverde comune nelle foreste dei Caraibi e del Sud America. Alla sua scorza, nota con il nome di bois bandé, sono attribuite proprietà afrodisiache. Torniamo nel vecchio mondo con Bellevalia Lapeyr., un genere della famiglia Asparagaceae (una delle diverse famiglie staccate dalle Liliaceae), abbastanza affine a Muscari o Hyacinthus. E' stato stabilito nel 1808 da un naturalista francese dal nome chilometrico: Philippe-Isidore Picot de Lapeyrouse, grande studioso della fauna, della flora e dei minerali dei Pirenei. Comprende una sessantina di specie, diffuse dal Mediterraneo all'Asia centrale. Sono bulbose con infiorescenze a spiga molto simili a quelle dei giacinti (e infatti al genere Hyacinthus in passato sono state assegnate diverse specie). Sei specie e due sottospecie sono presenti anche in Italia; la più diffusa è B. romana, nota come giacinto romano, una bulbosa con fiori bianco-verdastri con stami viola, raccolti in racemi laschi portati su caratteristici fusti violacei. Per altre informazioni sui generi Richeria e Bellevalia si rimanda alle rispettive schede. Gli epiteti di molte piante ci ricordano l'importanza dell'Università di Montpellier, culla della botanica francese. E gran parte del merito va a un grande medico, scienziato e didatta, Guillaume Rondelet, che seppe attirare nella città della Linguadoca tante giovani menti, soprattutto dal mondo protestante, diventando il vero "maestro di color che sanno" della botanica francese (e non solo) di fine Cinquecento. A ricordarlo la bella, e non abbastanza nota, Rondeletia. La botanica francese nasce a Montpellier Acer monspessulanum, Cytisus monspessulanus, Dianthus monspessulanus, Cistus monspeliensis, Chrisanthemum monspeliense, Ranunculus monspeliacus (e via elencando)... Avete notato quante piante ricordano nel nome specifico la città francese di Montpellier (in latino Monspessulanus)? E' dunque un paradiso botanico questa città della Linguadoca? In realtà, molte di queste piante non sono affatto esclusive di quella località, anzi alcune non vi crescono neppure spontaneamente. Se il nome di Montpellier è legato a tante specie, si deve al ruolo che ebbe la sua Università nella storia della botanica. Già durante il Medioevo, la scuola di medicina di Montpellier, fondata nel 1180, contendeva a Salerno, Bologna e Padova il primato negli studi medici. Con questa lunga storia alle spalle, proprio qui, nel Rinascimento, era destinata a sorgere la botanica scientifica francese. Il merito va in gran parte a un grande professore, Guillaume Rondelet, che fu per la Francia quello che Ghini fu per l'Italia e Fuchs per la Germania; un ricercatore, ma soprattutto un insegnante carismatico, capace di creare una scuola e di richiamare attorno a sé le più belle menti del tempo. Proprio a Montpellier Rondelet era nato nel 1507, figlio di un aromatarius (un po' speziale, un po' droghiere, un po' farmacista) e aveva studiato medicina, per poi perfezionarsi in anatomia a Parigi. Come anatomista dà anzi scandalo, quando - nell'intento di individuare la causa della morte -disseziona il cadavere del suo stesso figlio. All'inizio degli anni '40, entra al servizio del cardinale François de Tournon, che accompagna nei suoi viaggi in Italia e nei Paesi Bassi. Rondelet ha così modo di incontrare Ghini - da cui pare abbia appreso le tecniche per predisporre un erbario - e Aldrovandi. Durante i suoi viaggi incomincia anche a raccogliere e studiare sistematicamente la fauna acquatica che, insieme all'anatomia e alla botanica, sarà il principale campo di studio di questo scienziato dottissimo e polivalente. Tornato a Montpellier, nel 1545 diventa professore di medicina dell'università; nel 1550 (cinque anni dopo l'analogo provvedimento padovano) inserisce nel corso di studio dei futuri medici l'obbligo di raccogliere piante e organizza il primo corso ufficiale di botanica in Francia. Anziché sui libri di Dioscoride - come si farà a Parigi ancora un secolo dopo - gli allievi di Rondelet si formano sul grande libro della natura: i giovani aspiranti medici che accorrono da tutta l'Europa vengono inviati dal maestro a erborizzare nelle garrigues della Linguadoca, nelle Cevenne e nei Pirenei e a raccogliere esemplari che, preparati secondo le tecniche apprese da Ghini, saranno "dimostrati" nel corso delle lezioni. La botanica incomincia anche a emanciparsi dalla medicina: oggetto delle erborizzazioni non sono solo i semplici, ma ogni tipo di pianta, che viene ora studiata e descritta nelle sue caratteristiche; incomincia a delinearsi quell'interesse per la classificazione, la sistematica, la tassonomia che sarà il grande contributo della scuola francese alla botanica (da Tournefort a de Candolle, passando per i Jussieu). Con la sua formazione di anatomista, Rondelet abitua i suoi allievi ad osservare le parti e gli organi delle piante, a paragonarli tra di loro, a interrogarsi sulla loro funzione. Botanica e Riforma Intanto, l'Europa in generale e la Francia in particolare, si dividono tra Cattolici e Protestanti e l'Università di Montpellier diventa uno dei centri di diffusione del calvinismo nella Francia meridionale, mentre la città è teatro di scontri tra le due fazioni. E' discusso se Rondelet stesso abbia aderito o no alla fede riformata; certo a quegli ambienti fu vicino ed espresse la sua simpatia anche con gesti clamorosi, come nel 1551, quando il vescovo della città, l'umanista Guillaume Pellicier, suo buon amico, fu arrestato dal Parlamento di Tolosa con l'accusa di eresia (cioè di posizioni filoprotestanti): per protesta, Rondelet bruciò pubblicamente tutti i suoi libri di teologia. In ogni caso, mentre le università cattoliche si chiudevano ai protestanti, Montpellier diventava l'unica università francese che continuò ad accoglierli. Questa circostanza, insieme al carisma di Rondelet, che nel 1556 era diventato anche cancelliere dell'Università, attirò a Montpellier molti studenti sia dalla Francia sia dai vicini paesi protestanti. E di fede riformata erano molti di loro (anche se non tutti). Tra i più celebri nella storia della botanica ricordiamo almeno i francesi Charles de l'Écluse (ovvero Carolus Clusius, che di Rondelet per qualche tempo fu anche segretario), Matthias de l'Obel (Lobelius) e il suo amico Pierre Pena, Jacques Daleschamps; gli svizzeri Jean e Gaspard Bauhin e Felix Platter. A parte il provenzale Pena, arrivavano dai quattro angoli della Francia e anche da più lontano, e non conoscevano la flora mediterranea; furono proprio loro, nelle loro descrizioni delle piante che andavano raccogliendo nelle loro spedizioni botaniche, ad assegnare con tanta generosità l'etichetta monspessulanus, monspeliacus ecc. anche a specie non strettamente legate ai dintorni di Montpellier. Grazie alle lettere che Felix Platter (1536-1614) - studente svizzero destinato a diventare un celebre anatomista - scambiò durante l'intero corso degli studi con il padre, che viveva a Basilea, conosciamo la vita quotidiana degli studenti di Montpellier, che non era fatta solo di studi severi e di discussioni teologiche, ma anche di danze, serenate con il liuto e bevute in compagnia (anche, se sullo sfondo, incombevano le perquisizioni, gli arresti, i processi e i roghi per eresia). Scopriamo che Rondelet - proprio come Linneo dopo di lui - sapeva interessare gli studenti con piccole storie e aneddoti divertenti; era una personalità aperta, amante degli scherzi e delle battute, un padre affettuoso e bonario per i suoi studenti, che spesso accompagnava ad erborizzare. Al tempo degli studi, fu anche buon amico di un altro studente di Montpellier, il grande scrittore François Rabelais, che a lui si ispirò per la figura del dottor Rondibilis nel terzo libro del Pantagruel. Entrambi pronti alla battuta e amanti della buona tavola, a quanto pare, da giovani studenti avevano recitato insieme in ruoli farseschi. Così importante per la storia della botanica grazie al sapere trasmesso ai suoi allievi, Rondelet non ha pubblicato nulla in questo campo. La sua opera più importante è Histoire des poisson, "La storia dei pesci", pubblicato dapprima in latino (1554), quindi in francese (1558); nonostante il titolo, il trattato, l'opera fondatrice dell'ittiologia, non parla solo di pesci, ma anche di altri animali acquatici; anzi Rondelet fu forse il primo scienziato, dissezionando un delfino, a capire che non di un pesce si trattava, ma di un mammifero. Oltre ad aver dotato l'università di un piccolo hortulus, nel 1556 promosse la costruzione di un teatro anatomico. Negli ultimi anni della sua vita, funestati dallo scoppio delle guerre di religione (1562) e da problemi di salute, si ritirò nella cittadina di Réalmont dove morì nel 1566. Qualche notizia in più nella biografia. Una profumata (?) Rondeletia E' ancora una volta Charles Plumier (1703) a dedicare a Rondelet uno dei suoi nuovi generi americani; del resto l'omaggio al fondatore della botanica francese era atto dovuto per un botanico provenzale, amico di tanti naturalisti formati all'Università di Montpellier. La dedica, come sempre ricca di superlativi, suona: "Guillaume Rondelet, eccellentissimo nell'arte della medicina, scrisse una celeberrima opera sui pesci e sulla natura dei pesci, ma anche realizzò un'opera somma nella raccolta e nel riconoscimento delle piante, e in ciò eccelse assai; fu il primo a esporre Dioscoride (= cioè la materia medica, la botanica) a Montpellier". Il genere Rondeletia (Rubiaceae) sarà convalidato da Linneo nel 1753. Rondeletia è uno dei più ampi generi della sua famiglia nell'area dei Tropici che va dal Messico al nord del Sud America, con massimo centro di diversità nelle Grandi Antille, in particolare a Cuba. Sottoposto di recente a una parziale revisione tassonomica, che ne ha separato alcune specie - per ironia della sorte, proprio alcune di quelle più coltivate nei giardini e normalmente conosciute con il nome Rondeletia - comprende circa 120 specie di arbusti e piccoli alberi, con foglie sempreverdi lucide, tondeggianti, e infiorescenze di fiori spesso profumati, che attirano le farfalle. La specie più nota, la sola relativamente diffusa in coltivazione, è R. odorata, originaria di Cuba e Panama, un arbusto con brillanti corimbi di fiori rosso aranciato con gola gialla; nonostante il nome, i fiori non sono molto profumati, anche se in passato hanno trovato impiego in profumeria. Molto decorativa, è stata introdotta nei giardini della fascia tropicale. Qualche informazione in più nella scheda. Nel 1753, in uno dei momenti di massima chiusura della Cina dei Qing, il pittore cinese Lang Shining (che in realtà tanto cinese non è) dipinge un bonsai di una pianta che arriva dal Sud America. La spiegazione del mistero sta nell'astuzia di un gesuita e botanico francese, Pierre d'Incarville, che grazie alle curiose proprietà di quella pianta riesce ad ingraziarsi l'imperatore e a farsi aprire i cancelli dei favolosi giardini imperiali. Spedisce tanti semi in Europa da cambiare per sempre l'aspetto di viali, parchi e aiuole del vecchio continente; nel fatidico 1789, con un gesto non troppo rivoluzionario, il nipote del suo maestro gli dedica il genere Incarvillea. La pianta dell'Occidente che dice il tempo Nel Museo Nazionale di Taipei è conservato un singolare dipinto da Lang Shining, al secolo Giuseppe Castiglione, padre gesuita e pittore alla corte di tre imperatori cinesi, eseguito nel 1753. La curiosità non sta nel soggetto (un bonsai in un vaso azzurro), ma nella pianta protagonista: è una sensitiva, Mimosa pudica. E' una pianta che molti conoscono per una curiosa proprietà: quando se ne sfiorano le foglie, queste si chiudono. Dato che è originaria dell'America latina, è ovvio chiedersi come sia giunta nella Cina del Settecento, all'epoca un paese notoriamente chiuso in se stesso. E' qui che entra in scena un altro gesuita, il francese Pierre d'Incarville; era arrivato in Cina nel 1740, in un periodo in cui il nuovo imperatore Qianlong praticava una politica di ulteriore restrizione dell'accesso agli stranieri e di ostilità aperta al cristianesimo. Da più di un secolo, tuttavia, i gesuiti erano riusciti a crearsi uno spazio a corte, non come missionari ma come tecnici e scienziati il cui sapere era altamente apprezzato. Lo stesso d'Incarville lavorava per la vetreria imperiale. La sua formazione e la sua inclinazione andavano però alla botanica; fin dal suo arrivo nel paese, si era reso conto che la Cina era uno scrigno inesauribile di tesori botanici ma che accedervi era praticamente impossibile. I pochi esemplari e i semi che poteva procurarsi in città, nelle brevi ed occasionali escursioni nei dintorni e dai venditori di sementi erano poca cosa e dopo pochi anni erano sempre gli stessi; molto frustrante, pensando che dentro le mura degli immensi giardini imperiali c'era un inaccessibile tesoro di piante! Avendo scoperto che l'imperatore, uomo di fine cultura, era amante dei fiori - l'arte del giardinaggio, del resto, in Cina era secolare e aveva raggiunto risultati di estrema raffinatezza - elaborò una strategia (come scrisse in una lettera al suo maestro e corrispondente Bernard de Jussieu, dimostratore del Jardin Royal di Parigi) che mirava a farsi riconoscere in primo luogo come "curioso dei fiori", quindi come "botanico". Chiese quindi sia al maestro sia a Cromwell Mortimer, segretario della Royal Society di Londra, di inviargli bulbi e semi di piante "occidentali" interessanti, con le indicazioni di coltivazione. Dopo averli amorosamente coltivati nel giardino della residenza e nella sua stessa stanza, pensava di farne omaggio all'Imperatore destandone la curiosità. Il piano riuscì, proprio grazie alla Mimosa pudica. Quando d'Incarville gliene presentò due pianticelle e lo invitò a sfiorarne le foglie, il figlio del cielo rimase meravigliato e divertito. Gradì talmente il dono (che egli considerava, secondo lo stile cerimoniale in auge alla corte del Celeste impero, un omaggio dell'Occidente alla sua augusta persona) da ordinare a Castiglione di ritrarre la meravigliosa pianta; al dipinto volle unire una poesia da lui composta e scritta di suo pugno in cui la sensitiva viene chiamata "Pianta dell'Occidente che dice il tempo"; l'imperatore aveva infatti constatato che le foglie si riaprivano dopo cinque minuti al mattino e dopo dieci alla sera. Il perseverante gesuita ottenne così quanto si era ripromesso: gli vennero aperte le porte dei giardini imperiali, venne messo in contatto con i direttori di tre giardini e con il "Mandarino delle serre"; inoltre, venne chiamato, come botanico imperiale, a progettare il giardino all'occidentale che circondava i padiglioni in stile europeo creati da Castiglione nei Giardini della perfetta Chiarezza. Rimane ancora da chiedersi come fossero arrivati a d'Incarville dei semi di una pianta sudamericana; l'ipotesi più probabile, secondo Jane Kilpatrick che ha studiato i primi scambi botanici tra Europa e Cina, è che gli fossero stati inviati da Mortimer o da altri corrispondenti inglesi con cui questi lo aveva messo in contatto, in particolare Peter Collinson, il celebre collezionista e mercante di piante che nel 1751 ricevette proprio da d'Incarville i primi semi di Ailanthus altissima. Fonte: Yu-Chi Lai, "Overview the Network of European Botany in the Imperial Palace of Qing Dynasty via Giuseppe Castiglione’s “Time-telling Plant from the West”, Academia Sinica of Modern History, ASDC E Newsletter, 6, 10/06/2015 Pierre d'Incarville mediatore botanico Il ruolo di mediazione di Pierre d'Incarville è stato duplice: non solo ha fatto conoscere alla Cina piante coltivate in Occidente (l'elenco inviato a Jussieu include papaveri dai grandi fiori, tulipani, ranuncoli, anemoni, garofani, narcisi, fiordalisi, nasturzi, gigli), ma, nonostante tutti gli ostacoli, con ripetuti invii di semi è alla base dell'introduzione nei giardini d'Europa e America di piante oggi molto comuni e popolari. Oltre al già citato ailanto, l'elenco comprende tra l'altro sofora del Giappone (Styphnolobium japonicum), seminata nel 1747 da Jussieu al Jardin des Plantes di Parigi dove ancora vive; Koelreuteria paniculata; Gleditsia chinensis; giuggiolo (Ziziphus jujuba); astro della Cina (Callistephus sinensis); cuor di Maria (Lamprocapnos spectabile); goji (Lycium chinense); indaco giapponese (Persicaria tinctoria). Con viaggi lunghi e complessi (una lettera scritta da d'Incarville a Pechino nel novembre 1751 viene letta da Mortimer alla seduta della Royal Society del giugno 1753) i semi da lui inviati raggiungono Parigi, Londra (e attraverso Collinson, Philadelphia e Baltimora), San Pietroburgo (per mezzo delle carovane di mercanti russi che ogni tre anni potevano raggiungere Pechino per scambiare pellicce siberiane con balle di tè). D'Incarville inviò a Jussieu anche i suoi erbari; alcuni sono andati perduti per la distanza, i naufragi, gli eventi bellici; uno ragguardevole (con 144 esemplari raccolti a Macao e 149 nella regione di Pechino) è conservato al Jardin des Plantes, ma è stato studiato e pubblicato solo alla fine dell'Ottocento. Anche le sue lettere ai numerosi corrispondenti (dal 1751 è membro corrispondente estero della Académie royale des Sciences) contribuiscono alla conoscenza della flora cinese: nel 1740, ancora a Macao, vede e descrive una pianta di Kiwi (Actnidia chinensis); qualche mese dopo, a Canton, dove si ferma in attesa del necessario permesso imperiale per raggiungere Pechino, è la volta di una pianta di tè in fioritura; nella citata lettera a Mortimer, descrive tra l'altro l'albero della lacca (Toxicodendron verniciflua), alcune piante usate per fare la carta e il giuggiolo. Inoltre il gesuita inviò all'Académie diverse memorie, tra cui una sui bachi da seta selvatici (bombice dell'ailanto). Compilò vari cataloghi di piante cinesi, il più ampio dei quali nell'Ottocento era conservato nella Biblioteca del Museo asiatico di San Pietroburgo. Per risolvere il problema dell'identificazione delle piante (spesso doveva accontentarsi di inviare semi o esemplari secchi con indicazioni come arbor cinesorum incognita "albero sconosciuto dei cinesi") curò la realizzazione di due copie del Yuzhi bencao pinhui jingyao, un catalogo delle piante medicinali cinesi con circa quattrocento disegni a colori, una con la traduzione dei testi, l'altra con le sole tavole accompagnate dal nome in cinese; tuttavia, a parte poche tavole, l'opera è andata perduta. Altre notizie nella biografia. Incarvillea, una bignonia terrestre Tra le piante contenute nell'Erbario inviato a Bernard de Jussieu una era identificata come "Bignonia". Una quarantina di anni dopo, nel 1789, un altro Jussieu, il celebre tassonomista Antoine-Laurent, nel suo Genera Plantarum riconosce la sua appartenenza a un nuovo genere, che chiama Incarvillea con la seguente motivazione: "Ne ho ricavato le caratteristiche da un esemplare secco dell'erbario inviato nel 1743 a Bernard de Jussieu dal Padre d'Incarville, missionario gesuita a Pechino, esperto di botanica, insieme a moltissimi semi di nuove piante, in particolare degli astri della Cina (= Callistephus chinensis), prima di allora sconosciuti in Europa". Anche se non può certo rivaleggiare in popolarità con la sua compagna di viaggio (conosciuta anche come Regina Margherita) l'Incarvillea è una perenne dalle splendide fioriture, con i grandi fiori a imbuto tipici della famiglia delle Bignogniaceae (nota soprattutto per le magnifiche rampicanti). E' un piccolo genere nativo dell'Asia centrale e orientale, per lo più dell'area himalayana; la specie più nota è Incarvillea delavayi che ricorda un altro gesuita missionario in Cina: Jean-Marie Delavay (1834-95), grande viaggiatore e scopritore di piante nella seconda metà dell'Ottocento. Informazioni sulle specie più coltivate di questa splendida pianta da bordura e giardino roccioso nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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