In gioventù, Joseph Dombey fu un uomo amabile, di notevole prestanza fisica e di mente acuta, uno scienziato versatile e un botanico appassionato; ma dalla grande spedizione in Sud America da cui si attendeva sicura gloria (è ironico che tutti la chiamino Spedizione di Ruiz e Pavón e non, come sarebbe giusto, Spedizione di Ruiz, Pavón e Dombey) fu totalmente distrutto nella salute fisica e mentale e nella stessa reputazione. Intorno a lui e alle sue piante scoppiò un caso diplomatico internazionale, l'affare Dombey, che coinvolse tre paesi in un momento storico delicatissimo: la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna. Ne vedremo qui la prima fase, quella di cui fu protagonista diretto. Unica consolazione in una vita infelicissima lo spettacolare genere Dombeya, dedicatogli da uno spagnolo che non si faceva condizionare dal nazionalismo, l'abate Cavanilles. Una spogliazione o il rispetto di un contratto? Come ho raccontato in questo post, mentre i suoi compagni proseguivano le ricerche in Perù, il 14 aprile 1784 Joseph Dombey si imbarcò con le sue collezioni sul Peruano, lo stesso vascello che sei anni prima lo aveva condotto a Callao con Ruiz e Pavón. Portava con sé l'erbario, le descrizioni, le collezioni di conchiglie e minerali, reperti archeologici e etnografici; le raccolte degli spagnoli, molto più copiose delle sue, viaggiavano su una nave più piccola, la San Pedro de Alcantara. Il viaggio fu particolarmente lungo e difficile. Le due navi, partite insieme, ben presto furono costrette a separarsi . Appena superato Capo Horn, il Peruano fu investito dai venti contrari e solo con grande difficoltà riuscì a raggiungere Rio de Janeiro, dove dovette essere riaddobbato. Dombey, malato da tempo, versava in uno stato di grave prostrazione fisica a causa della dissenteria e dello scorbuto. Il soggiorno in Brasile, che si protrasse dall'inizio di agosto alla fine di novembre, gli permise di recuperare in parte la salute e di integrare le sue collezioni, soprattutto con acquisti di pietre preziose, uccelli impagliati e farfalle. E' dunque soltanto il 28 febbraio 1785 che un Dombey esausto e frastornato sbarca finalmente a Cadice; lo accoglie la notizia che, per ordine di Galvez, il Ministro delle Indie, le sue 78 casse verranno poste sotto sequestro in un locale della dogana. Poco dopo si viene a sapere che la San Pedro de Alcantara, per evitare il naufragio, è stata costretta a gettare a mare tutto il carico: le collezioni di Ruiz e Pavón sono perdute. In virtù di una clausola del contratto stipulato con la Spagna nel 1777, Dombey si era impegnato a consegnare metà delle sue collezioni all'orto botanico di Madrid. E' possibile che egli pensasse in tutta sincerità di aver già assolto questo obbligo con gli esemplari scambiati in Perù e in Cile con Ruiz e Pavón; è sicuramente con costernazione che ad aprile apprende che la Spagna intende rispettare alla lettera la clausola, imponendogli di spartire le sue raccolte per reintegrare il carico perduto della San Pedro de Alcantara. Obbedendo alle indicazioni che arrivano da Parigi, Dombey si rassegna, tanto più che, raccoglitore scrupolosissimo, ogni volta che gli è stato possibile ha conservato nel suo erbario dodici esemplari di ciascuna pianta; da Madrid però arriva una seconda richiesta, ancora più dolorosa: si chiede al botanico francese di promettere di non pubblicare nulla fino al ritorno dal Perù di Ruiz e Pavón, sempre sulla base del contratto del 1777. Dombey cerca di resistere, o per lo meno di temporeggiare, in attesa di istruzioni da Parigi; temendo il sequestro dei suoi diari di campo, li affida al capitano di una nave francese in partenza per la Francia. Di una cosa è certo: dietro tutti questi maneggi c'è una persona: Casimiro Gomez Ortega che ha organizzato tutto il complotto per riservare a se stesso (o ai suoi protetti) la gloria della pubblicazione della flora peruviana. Purtroppo per Dombey, per la diplomazia francese una collezione di piante secche o una pubblicazione botanica in più o in meno non valgono una crisi diplomatica: gli ingiungono di accettare tutto, anzi il Jardin des Plantes si impegna a non pubblicare prima degli spagnoli le specie inedite nate nel giardino dai semi inviati da Dombey dal Sud America. E qui l'"affare Dombey" si tinge di giallo. Il povero botanico si sente tradito, abbandonato, vittima di una congiura; sostiene di aver subito un attentato, che una persona che gli assomigliava è stata uccisa davanti alla sua porta. La sua partenza da Cadice, dopo dieci mesi di soggiorno forzato, è quasi una fuga. Imbarcatosi sulla Jeune Henry per le Havre con le 36 casse che gli restano, rientra a Parigi il 13 ottobre 1785. Un uomo piegato e distrutto, una fine tragica L'uomo che rivede infine la dolce Francia è il fantasma del giovane e promettente botanico che ne era partito nove anni prima. Quel giovanotto dal carattere amabile è oggi un uomo ombroso, sospettoso, afflitto da un (giustificato?) complesso di persecuzione; sparite sono la forza fisica e l'acutezza del pensiero. Ben presto è travolto dalla depressione, tanto che, quando Jussieu gli offre il seggio dell'Accademia delle Scienze lasciato vacante dalla morte di Guettard, rifiuta; poco dopo (siamo all'inizio del 1786) lascia Parigi per cercare sollievo prima a Gex, poi a Lione, infine a Tullins. Nelle lettere che invia agli amici, sfoga il suo umore nero e l'odio per i suoi persecutori veri o presunti, ovvero Ortega e Galvez, Prima di lasciare Parigi, tuttavia, ha consegnato l'erbario e le sue note al Jardin des Plantes; Buffon a sua volta li ha trasmessi a L'Héritier de Brutelle, che l'anno prima ha pubblicato alcune delle "specie proibite" nate dai semi di Dombey al Jardin des Plantes in Stirpes novae; L'Héritier si mette al lavoro e annuncia la pubblicazione di una Flora peruviana. Gli spagnoli la prendono male (tornerò su questa seconda parte dell'affare Dombey in un prossimo post) e il povero Dombey è costretto a giustificarsi con il ministro Calonne, cui giura di non saperne nulla. Si sente sempre più vittima di un complotto, al punto che scrive ad André Thouin (da sempre il suo amico più caro) che è deciso ad abbandonare la Francia per sottrarsi ai suoi persecutori. Ritornato a Lione, in una crisi di disperazione nell'ottobre 1786 brucia tutti i suoi manoscritti. Vanno in fumo nove anni di osservazioni sui minerali, la geografia, la meteorologia, le miniere, il chinino e altri argomenti studiati dal versatile e sfortunato scienziato. Per sei anni vive una vita oscura di provincia. Chi lo visitò in quel periodo, come il botanico Villars, lo descrive come un uomo triste, chiuso, che ha abbandonato la lettura, gli studi, la vita pubblica, disinteressato anche agli eventi politici che scuotono il paese. Unica traccia dell'uomo del passato è il soccorso che come medico continua a prestare agli ammalati più indigenti. Furono forse i terribili eventi di cui fu teatro Lione durante il Terrore a riaccendere in lui il desiderio di partire e, allo stesso tempo, di servire nuovamente la scienza e la sua patria. A offrirgliene l'occasione fu Thomas Jefferson, all'epoca Segretario di Stato degli Stati Uniti. Tra le urgenze del nuovo stato c'era quello di uniformare il sistema dei pesi e delle misure, diverse da un angolo all'altro del paese. L'illuminista Jefferson era favorevole all'adozione del razionale sistema metrico decimale, che era stato da poco introdotto nella Francia rivoluzionaria; si rivolse perciò alla repubblica sorella perché inviasse un esperto. La scelta cadde sul nostro Dombey, che il 24 nevoso (17 gennaio 1794) partì da Le Havre su un brigantino statunitense, portando con sé un peso campione del chilogrammo. Costretto da una tempesta a riparare in Guadalupa, si trovò nel bel mezzo di uno scontro tra sostenitori e avversari della rivoluzione che lo trassero in arresto come inviato ufficiale della repubblica; liberato dai filo rivoluzionari, poté poi reimbarcarsi sul brigantino che lo aveva condotto nell'isola, ma appena la nave uscì dal porto fu catturata da vascelli corsari britannici. Dombey fu fatto prigioniero e condotto nell'isola di Montserrat. Così non giunse mai negli Stati Uniti, con due conseguenze: in quel paese tuttora si usano iarde, miglia, once e libbre, mentre Dombey, spezzato da tante disgrazie, morì in prigionia. Solo sei mesi dopo, nell'ottobre 1794, la notizia della sua morte arrivò a New York e da qui in Francia. Una sintesi della sua vita sfortunata nella sezione biografie. Dombeya, dal Madagascar con fioriture A consolarci da questa tristissima storia, ci sono per fortuna le splendide piante del genere Dombeya. A dedicarlo al nostro sventuratissimo botanico nel 1786 fu Cavanilles, abbastanza equanime dal non farsi condizionare dalle accuse di tradimento e spergiuro che i suoi conterranei riversavamo sul povero Dombey. Un tempo incluso nella famiglia Sterculiaceae, oggi confluita in Malvaceae, Dombeya nell'attuale delimitazione è uno dei generi più ampi della famiglia, con circa 250 specie di piccoli alberi e arbusti diffusi in Africa, in Madagascar, nella penisola arabica e nelle isola Mascarene. Il centro di diversità è il Madagascar, dove si incontrano oltre 200 specie. Genere molto vasto e morfologicamente vario, cresce in habitat diversi, dal bosco tropicale alla boscaglia d'altitudine. Le foglie alternate e semplici possono essere lobate, cuoriformi, quasi rotonde, glabre o pelose; i fiori a cinque petali, simili a quelli della malva, bianchi, rosati, galli o rossi, sono raccolti in fitte cime o ombrelle pendule. Alcune specie sono coltivate come ornamentali nelle zone a clima mite. La più nota è probabilmente D. wallichii, originaria dell'Africa orientale e del Madagscar, le cui rosee infiorescenze globose le hanno guadagnato il nome improprio ma suggestivo di "ortensia tropicale". Ugualmente spettacolare grazie alle fitte cime di fiori rosa pallido con cuore porpora è la fioritura di B. burgessiae, una specie diffusa in una vasta area che si estende dal Sudan al Sudafrica, . Molto coltivato nei paesi tropicali è D. x cayeuxii, un ibrido orticolo tra le specie precedenti ottenuto dal francese Henri Cayeux nel 1895. La più stupefacente è forse un'altra malgascia, D. cacuminum, con infiorescenze rosso vivo. Qualche approfondimento su queste e altre specie nella scheda.
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La botanica francese esordisce con un traduttore e un erudito, Jean Ruel, autore di eccellenti traduzioni dal greco in latino e di due sillogi del sapere scientifico degli antichi, la prima dedicata alla medicina veterinaria, la seconda alle piante officinali. Si tratta di De natura stirpium, in cui le nozioni estratte da Teofrasto, Dioscoride e Plinio vengono attualizzate cercando di ritrovare - spesso con risultati poco credibili - le piante degli antichi negli orti, nei giardini e nei prati di casa. Al di là dei suoi limiti, l'opera (che è anche quasi l'unica a riprendere gli insegnamenti di Teofrasto) ha il merito di trasmetterci il più antico elenco di piante in lingua francese. Di questo antesignano della botanica d'oltralpe non poteva dimenticarsi Charles Plumier, che gli dedicò lo splendido (e vario) genere Ruellia. La botanica francese inizia con un grande traduttore Nel 1499, con l'aiuto di eruditi greci, Aldo Manuzio pubblica la prima edizione a stampa del testo greco di Dioscoride. Questa edizione, che include anche due trattati apocrifi sui veleni, fornirà la base per le traduzioni cinquecentesche in latino e nelle lingue moderne. Una delle prime, e delle più prestigiose, esce a Parigi nella primavera del 1516 ad opera del medico e filologo Jean Ruel (1479?-1537). Della vita di questo personaggio poco conosciamo, ad eccezione di qualche aneddoto. Il primo vuole che avesse appreso da autodidatta le lingue classiche, che tanto mirabilmente padroneggiava. Il secondo ci racconta che, rimasto vedovo, fu sollecitato dal vescovo di Parigi a abbracciare lo stato ecclesiastico, in modo da avere più tempo per lo studio; fu così che divenne canonico di Notre Dame. Sappiamo inoltre che tra il 1508 e il 1510 fu preside della facoltà di medicina di Parigi e per un certo periodo fu anche uno dei medici del re Francesco I, dedicatario di diverse sue opere. Una sintesi di queste poche notizia nella vita. Ma torniamo alla traduzione di Dioscoride. Pubblicata per i tipi di Henri Estienne il vecchio, si tratta di un lavoro eccellente in cui Ruel poté unire all'eleganza del linguaggio e alla competenza di filologo quella di medico e di botanico; la seconda edizione, riveduta e corretta (1530), ebbe successo europeo e divenne il punto di partenza per i tanti commenti di Dioscoride del Rinascimento, compreso quello di Mattioli. Nel corso del secolo ne uscirono venti edizioni. L'opera di traduzione di Ruel proseguì con Hippiatrika o Veterinariae medicinae (1530), a quanto pare commissionatagli da Francesco I, che consiste in una silloge di tutto ciò che era stato scritto in greco sui cavalli e la medicina veterinaria. Tradusse anche diverse opere di medicina, la più importante delle quali è De Methodo Medendi del medico bizantino Johannes Auctarius, uscita postuma (1539) con il titolo De Medicamentorum Compositione. Grazie a traduzioni, caratterizzate da una lingua elegante e da una perfetta intelligenza del testo di partenza, fu soprannominato, forse dall'amico Budé, l'"aquila degli interpreti". L'opera che lo fa entrare di diritto nella storia della botanica non è però una traduzione: De natura stirpium ("Sulla natura delle piante", 1536), analogamente al volume sulla medicina veterinaria, è una silloge in cui il medico-filologo riunì tutte le conoscenze dell'antichità sulle piante e sulla botanica applicata alla medicina; il grosso volume di oltre mille pagine, caratterizzato dall'alta qualità tipografica ma privo di immagini, si apre con un bel frontespizio: sotto una lussureggiante pergola d'uva vediamo un orto-giardino con piante locali ed esotiche (come la palma sulla sinistra) e una fontana che culmina in un amorino; sulla destra una curiosa figura alata con gambe caprine (un demone? un fauno? l'allegoria del tempo?), sulla sinistra una elegante coppia che, lasciata da parte la chitarra, si intrattiene a leggere in un grande libro (forse il libro della natura, o questo stesso che qui si apre). Il primo dei tre libri esordisce con una introduzione generale alla botanica tratta da Teofrasto; è questo un tratto originale del lavoro di Ruel, di fatto il solo autore del Rinascimento (ad eccezione del molto posteriore Cesalpino) a valorizzare l'insegnamento del poco studiato filosofo greco; di notevole interesse è anche il tentativo del nostro medico linguista di definire con precisione un vocabolario latino per le diverse parti delle piante. Segue poi la trattazione di circa seicento piante medicinali: prima gli alberi in ordine alfabetico (seconda parte del primo libro), poi le erbe coltivate (secondo libro), poi tutte le altre (terzo libro), parte in ordine alfabetico, parte raggruppate secondo criteri non sempre evidenti. Qui i nomi di riferimento sono Dioscoride e, anche di più Plinio. Tuttavia Ruel tentò di attualizzare l'insegnamento degli antichi, accostandovi le ricerche dei moderni e la sua stessa esperienza di medico e di conoscitore delle piante officinali. Fu così che ai nomi latini e greci unì quelli volgari, cercando di identificare nella flora francese (o meglio, dei dintorni di Parigi) le piante descritte da Dioscoride e Plinio. Queste identificazioni, che hanno anche un intento nazionalistico - l'opera è dedicata al re Francesco I e vuole dimostrare la grandezza del Regno di Francia anche in questo campo - sono per lo più arbitrarie, ma hanno il merito di fornirci il più antico elenco di piante in lingua francese. Inoltre, alle piante degli antichi Ruel volle aggiungere anche qualche specie esotica: proprio nelle sue pagine, ad esempio, troviamo la prima attestazione del dragoncello, pianta russa e asiatica che da pochissimo era stata introdotta in Europa. Ruellia, ovvero viva le differenze! A questo antesignano della botanica francese Charles Plumier volle dedicare uno dei suoi nuovi generi americani, Ruellia, poi validato da Linneo. Il secondo per grandezza della famiglia Acanthaceae, è un genere sempre più presente nei nostri giardini grazie alle bellissime fioriture. Estremamente ricco e vario, per secoli è anche stato un vero rompicapo per i tassonomisti, che ora lo hanno allargato, ora ristretto, finché a soccorrerli non è arrivato il contributo dell'analisi molecolare. Diffuso in un gran numero di specie (valutate in circa 350) nell'America temperata e nella fascia tropicale di Americhe, Africa, Asia, il genere non è solo vastissimo e diversificato (comprende erbacee, suffrutici, arbusti), ma anche caratterizzato da fiori sorprendentemente diversi per forme e colori, anche in specie affini: una diversità che potete facilmente notare nel collage di fotografie (tratto da un recente articolo di Zhuang & Tripp). Studi recenti hanno dimostrato che questa varietà è il risultato di una iper-specializzazione evolutiva, ovvero un adattamento ai diversi impollinatori. Le specie che sono impollinate da insetti, in particolare api e altri imenotteri, hanno fioritura diurna, tubo fiorale breve e aperto, grandi lobi viola, organi sessuali collocati all'interno del tubo. Le specie impollinate da colibrì hanno fiori rossi diurni con tubi lunghi e lobi retroflessi, organi sessuali all'esterno del tubo. Le specie impollinate da falene hanno fiori bianchi con tubo lunghissimo, lobi molto aperti e organi sessuali all'ingresso del fiore. Infine, quelle impollinate da pipistrelli sono notturne, da gialle a verdastre, con gola molto aperta e organi sessuali che sporgono al di fuori della corolla. Vistosi, colorati e decorativi, i fiori delle Ruelliae non piacciono solo a insetti, colibrì e pipistrelli, ma anche a noi umani e diverse specie hanno trovato posto nei nostri giardini. La più diffusa è probabilmente R. simplex (spesso commercializzata con il sinonimo R. brittoniana o anche R. angustifolia), anche nota con il nome del tutto arbitrario "petunia messicana" o "petunia selvatica" (le Petuniae, ricordo, sono Solanaceae, le Ruelliae Acanthaceae); molto apprezzata per i grandi fiori color lavanda, nei climi miti può formare con il tempo dense colonie, tanto da poter diventare invasiva. Sono disponibili anche cultivar con fiori rosa e bianchi. Ma altre specie sono sempre più facilmente disponibili nei migliori vivai; su alcune di loro quale informazione nella scheda. Quando nel 1793 la spedizione Entrecasteaux collassa e gli ufficiali monarchici istigano gli olandesi ad arrestare i loro compagni repubblicani, tra i naturalisti l'unico a sfuggire a questa sorte è Louis-Auguste Deschamps. Durante il lungo periplo non sembra essersi distinto per particolare zelo naturalistico, ma ora accetta con entusiasmo la proposta del governatore van Overstraten di esplorare l'interno dell'isola. Sicuramente fa collezioni importanti, ma quando rientra in Francia la sua nave viene intercettata dagli inglesi, che sequestrano tutti i suoi materiali. Deschamps vivrà ancora a lungo la vita un po' oscura del medico e dell'erudito di provincia, ma il sogno di essere il primo a scrivere una Flora di Giava è ormai tramontato per sempre. Unica traccia del suo lavoro pionieristico un manoscritto, che dopo oltre secolo di oblio è stato studiato solo negli anni '50 del Novecento, rivelando che il botanico francese fu il primo a vedere e disegnare una Rafflesia. A ricordarlo il genere Deschampsia, che comprende aeree graminacee molto interessanti anche in giardino. Dalla spedizione di soccorso all'esplorazione di Giava Durante la spedizione Entrecasteaux, Louis-Auguste Deschamps sembra l'unico a non integrarsi, a non fare gruppo con i suoi compagni naturalisti. Gli altri a Parigi hanno fatto parte degli stessi ambienti - le societés savantes e i club rivoluzionari -, hanno le stesse idee politiche e stringono forti vincoli d'amicizia. Deschamps invece appartiene a un'illustre famiglia della nobiltà di toga di Saint-Omer, è monarchico, non sembra avere legami né personali né familiari con l'ambiente scientifico parigino, anche se all'inizio del 1791 è stato ammesso alla Societé d'Histoire naturelle. Non sembra neppure essere acceso dal fuoco sacro della ricerca che spinge gli altri a scontrarsi con il comandante e a prendere anche troppi rischi, come capita a Riche; è quasi defilato, in secondo piano. In Tasmania, quando per sfruttare al massimo il poco tempo disponibile, i naturalisti si dividono in tre squadre, non ne dirige nessuna. La Billardière - ma probabilmente è accecato dalla passione politica e dal rancore - ne mette addirittura in dubbio la competenza sia come chirurgo sia come naturalista. Sicuramente dovette invece fare la sua parte, in particolare in Nuova Caledonia dove sappiamo raccolse una notevole collezione. Quando a Giava gli echi degli eventi francesi scatenano la lotta aperta tra monarchici e repubblicani, Deschamps è il solo naturalista a non essere arrestato come agitatore rivoluzionario, sia che il comandante d'Auribeau ne conosca le idee, sia che egli si sia apertamente schierato dalla parte degli ufficiali controrivoluzionari. Ed è a questo punto, quando l'avventura dei suoi compagni finisce nell'angoscia della prigionia, che comincia la sua vera storia. Si trova anche lui a Semarang quando il governatore olandese van Overstraten gli propone di entrare al suo servizio per esplorare l'interno dell'isola, in vista della stesura di una storia naturale di Giava. Deschamps non si lascia sfuggire l'occasione di essere praticamente il primo naturalista occidentale a visitare la grande isola e tra il 1794 e il 1798 è impegnato in quattro intense campagne di esplorazione. Nel 1794, per prendere confidenza con il territorio, batte i dintorni di Ungaran, nella regione centrale. L'anno successivo, tra maggio e novembre 1795, un lungo giro lo porta prima nella regione centrale quindi lungo la costa sud, quindi di nuova nella piana centrale, infine sulla costa nord, fino a rientrare a Semarang, dove risiede tra un viaggio e l'altro, trascorrendo la stagione delle piogge a riordinare e classificare le raccolte. La campagna del 1796 lo vede raggiungere Surabaya navigando lungo i fiumi Solo e Mas, quindi esplorare la costa orientale, la parte più a est della costa meridionale (dove raccoglie tra l'altro una nuova specie di Passiflora e una Limonia) e l'isola di Madura, prima di ritornare nella regione centrale e rientrare a Semarang. Nel 1797 si dirige invece a occidente lungo la costa nord, per poi attraversare l'isola e raggiungere il settore centrale della costa sud, dove visita tra l'altro l'isola di Nusa Kanbangan; quindi muovendosi in diagonale verso nord ovest, tocca Bandung, Buitenzorg e Batavia. E' di fatto l'ultimo grande viaggio, cui nel 1798 seguirà solo una breve escursione nei dintorni di Buitenzorg. Durante questi lunghi e faticosi viaggi, in cui è accompagnato da disegnatori e portatori messi a disposizione dal governatore, scala montagne, visita boschi di teak e piantagioni di pepe, raccoglie informazioni sul bohun upas (Antiaris toxicaria, considerato l'albero più velenoso del mondo), esplora crateri, grotte e fonti termali, raccogliendo piante ma anche animali (a quanto pare, soprattutto pesci). Su quello che succede in seguito abbiamo due versioni. Secondo alcuni biografi, rientrò in Francia nello stesso 1798; molto più probabilmente, rimase invece a Giava fino al 1802, lavorando come medico a Batavia. In effetti, nel frattempo la situazione era cambiata: in Olanda era stata proclamata la Repubblica Batava e gli olandesi, da nemici della Francia e alleati della Gran Bretagna, si trovavano ora sul fronte opposto. A partire dal 1800, il porto di Batavia fu sottoposto al blocco navale britannico. Nel 1802 a cambiare la situazione intervennero due eventi: in primo luogo, l'amnistia concessa da Napoleone agli immigrati che non avessero impugnato le armi contro la repubblica; in secondo luogo, la pace di Amiens tra Francia e Regno Unito. Non sappiamo se nel frattempo Deschamps si fosse ufficialmente dichiarato immigrato; in ogni caso il nuovo quadro politico gli offriva l'occasione di tornare in patria senza rischi politici; partì dunque portando con sé i diari di campagna, numerosi disegni e presumibilmente le sue ricche collezioni naturalistiche. Tuttavia nello stretto della Manica la nave su cui viaggiava fu fermata dai britannici e tutto gli fu sequestrato. Come già La Billardière, anch'egli si rivolse a Banks per ottenerne la restituzione, ma nonostante le rassicurazioni di quest'ultimo, senza esito. Deschamps visse ancora a lungo. Tornato a Saint Omer, servì come chirurgo nell'ospedale cittadino; privo dei diari e delle collezioni, dovette rinunciare a scrivere la progettata Flora javanica, accontentandosi di una memoria sull'upas bohun e di alcuni articoli sui costumi di Giava. Gli rimase la passione per la botanica: raccolse un notevole erbario delle piante della regione (che i suoi eredi lasceranno alla biblioteca della città natale) e collezionò piante esotiche (come dimostrano alcuni acquisti di piante grasse messicane e fucsie sudamericane). Una sintesi della sua lunga vita (mori nel 1842) nella sezione biografie. Di manoscritti e erbari a lungo si perse ogni traccia, ma a Giava come a Londra girava la voce che durante il soggiorno nell'isola Deschamps si fosse imbattuto in una pianta straordinaria. Solo molti anni dopo John Reeves acquistò all'Indian House un pacco di documenti e piante essiccate che nel 1861 donò al Natural History Museum. E lì le carte giacquero a lungo; l'erbario andò perduto, mentre il manoscritto - consistente nei diari di campo di Deschamps, in un elenco delle specie raccolte e in un abbozzo di Flora Javanica, con diversi disegni - fu esaminato solo nel 1954 da C.A. Backer. Tra quei disegni, inequivocabile, l'immagine di un bocciolo di Rafflesia, che Deschamps vide nel 1797 nell'isola di Nusa Kanbangan. Anche se i botanici discutono di quale specie si trattasse (R. keithii secondo alcuni, R. horsfieldii secondo altri), è in ogni caso la prova che il primo occidentale a vedere e studiare un esemplare di questo stupefacente genere non fu né Horsfield né Arnold, ma proprio il nostro sfortunato Deschamps. Deschampsia, dai ghiacci dell'Artide ai giardini naturali Nel 1812, quando presumibilmente Deschamps si era ormai rassegnato alla sua vita di oscuro medico di provincia, il botanico Palisot de Beauvois gli dedicò il genere Deschampsia, separandolo dal linneano Aria, con le seguenti parole: "Dal nome di M. Deschamps, medico a Saint Omer, uno dei sapienti naturalisti nominati per la spedizione alla ricerca dello sfortunato La Pérouse". Tra il percorso esistenziale di Deschamps e quello di Palisot de Beauvois osserviamo coincidenze che non possono essere casuali: entrambi nobili e monarchici, si trovavano all'estero negli anni rivoluzionari e subirono qualche anno di esilio prima di poter ritornare in patria (Palisot nel 1798, Deschamps, come abbiamo visto, nel 1802). Inoltre, erano entrambi originari dell'Artois. Il genere Deschampsia, della famiglia Poaceae, comprende una trentina di specie di graminacee per lo più perenni ampiamente distribuite dalle zone artiche a quelle temperate fresche nonché nelle montagne tropicali, in pascoli umidi e radure boschive, in genere in terreno acido. Sono piante cespugliose che formano densi ciuffi di foglie lineari o oblunghe, da cui spuntano aeree infiorescenze a nuvola. Molte specie hanno un importante ruolo ecologico, come ospiti e cibo delle larve di diversi lepidotteri. La specie più nota è l'ubiqua D. caespitosa, il cui areale comprende entrambe le coste degli Stati Uniti, alcune zone del Sud America, l'intera Eurasia, l'Africa tropicale e l'Australia. Già ammirata da Karl Foerster che ne selezionò alcune varietà, questa specie molto variabile è di grande interesse in giardino, grazie al contrasto tra il fogliame verde scuro e le vaporose e aeree infiorescenze, soprattutto per le cultivar con spighette giallo-argenteo, come 'Goldschleier', o giallo-dorato come 'Goldtau' o 'Schottland', che crescono bene anche all'ombra. D. anctartica, una delle due sole piante superiori che vivono nel continente antartico, vanta invece il record di essere la monocotiledone più meridionale del mondo, capace di sopravvivere fino a -30°, nei lunghi inverni artici con luce minima o assente, grazie a un gene che inibisce la ricristallizzazione del ghiaccio. Qualche approfondimento nella scheda. Alla vigilia della Rivoluzione francese, un piccolo gruppo di amici fonda una nuova società scientifica, caratterizzata dall'interdisciplinarietà, dall'indipendenza e dalla fedeltà al metodo sperimentale. E' la Societé Philomatique, destinata a un grande avvenire. Tra i soci fondatori, Claude-Antoine-Gaspard Riche, che dopo esserne stato il primo segretario, nel 1791 lascerà la Francia come naturalista dell'Espérance, una delle due navi della spedizione Entrecasteaux. A ricordarlo il singolare genere Richea, con nove specie endemiche della Tasmania che egli esplorò insieme all'amico La Billardière. Studio e amicizia Il 10 dicembre 1788, a Parigi, sei amici fondano una nuova associazione scientifica. Tutti giovani o giovanissimi, sono Augustin-François de Silvestre; Charles de Broval, matematico e fisico; il dicottenne Alexandre Brongniart che diventerà un famoso geologo; e tre medici: Claude-Antoine-Gaspard Riche, Joseph Audirac e un certo Petit. I promotori dell'iniziativa sono senza dubbio Silvestre e Riche, entrambi ventiseienni e innamorati delle scienze naturali. Il primo per classificare i libri del suo patrono si è sentito in dovere di studiare matematica, fisica, chimica, scienze naturali; è diventato così uno studioso autodidatta, una figura familiare nei salotti letterari e scientifici del tempo, amico di molti eminenti scienziati. Il secondo si è laureato in medicina a Montpellier nel 1787, per poi spostarsi a Parigi dove, grazie anche al fratello maggiore, l'ingegnere Gaspard Riche de Prony, ha stretto amicizia con scienziati come Vicq d'Azyr e Cuvier. Di carattere ardente e entusiasta, è anche vicino alla Societé Linéenne, di cui condivide la battaglia per la diffusione del sistema di Linneo (che, per diverse ragioni, è invece avversato tanto dal vecchio Buffon quanto dai naturalisti del Jardin des Plantes). All'inizio l'associazione è solo un gruppo di amici che si incontrano settimanalmente, a turno, a casa di uno dei membri, per leggere i loro lavori, discutere delle ultime novità scientifiche, replicare esperimenti. Tre caratteristiche sono evidenti fin dall'inizio: l'indipendenza tanto dall'autorità politica quanto delle istituzioni scientifiche riconosciute; l'interdisciplinarità (gli interessi dei soci toccano matematica, fisica, chimica, scienze naturali, geologia, scienze della salute); la vocazione pedagogica e l'interesse per le applicazioni pratiche della scienza a beneficio della società. Nel nuovo clima di libertà dei primi mesi della Rivoluzione, la società si consolida e si espande: nell'autunno si dota di uno statuto, di un motto (Studio e amicizia), di un nuovo nome: Societé philomatique de Paris, ovvero società degli amanti della ricerca. Il suo programma è nobile e ambizioso: "diventare un luogo di incontro generale dove confluiranno le nuove conoscenze e da cui si espanderanno nel mondo degli studiosi, in una catena luminosa e ininterrotta di verità e insegnamenti". Per elezione e cooptazione entrano nuovi membri: il primo, sempre nell'autunno 1789, è il chimico Vauquelin, scopritore del berillo e del cromo. Tra il 1790 e il 1791 l'associazione continua ad allargarsi, raggiungendo 18 membri effettivi e 18 corrispondenti. Ma a farla decollare sono gli eventi del 1793: l'8 agosto la Convenzione sopprime le Accademie e le società scientifiche legate al vecchio regime; di conseguenza nell'autunno molti ex accademici chiedono di essere ammessi ai Philomathes, che ormai riuniscono il fior fiore della scienza francese: Berthollet, Fourcroy, Lavoisier, Lefebvre d'Hellancourt, Ventenat, Vicq d'Azyr, Lamarck, Monge, Prony, Laplace. Ma questa è ormai un'altra storia. Nel frattempo, ad eccezione di Silvestre (segretario fino al 1802) e Brongniart, i soci fondatori sono ormai usciti di scena: Audirac è morto nel 1790, Broval è emigrato nel 1792, di Petit si sono perse le tracce. Quanto a Riche, dal settembre 1791 è coinvolto nella grande avventura della spedizione Entrecasteaux alla ricerca di Laperouse, come naturalista dell'Espérance. Fino a quel momento è stato l'anima dell'associazione; come segretario, ne ha redatto i bollettini mensili (che fino al 1792 erano manoscritti, copiati in 18 copie, una per ciascun corrispondente). Passione naturalistica, disavventure e disastri A convincerlo a partire, oltre all'amore per la scienza, una serie di considerazioni: quella principale è la salute; fin dagli anni di Montpellier il giovane naturalista soffre di tubercolosi, tanto che sono i suoi stessi amici a spingerlo a partire, nella speranza che il viaggio per mare e il mutamento di clima gli giovino; poi il desiderio di gloria, alimentato, secondo Cuvier (che di Riche ci ha lasciato un commosso elogio funebre) da una storia d'amore: temperamento appassionato e romantico, negli anni universitari Claude si innamorò perdutamente di una giovane, tanto appunto da ammalarsi; questo amore contrastato l'avrebbe spinto prima a venire a Parigi a cercare la gloria scientifica, per rendersi degno dell'amata, poi a partire per i mari del Sud, a trovare o la morte o la fama. Ho già raccontato delle vicende della spedizione in questo post. Riche si legò di amicizia soprattutto con La Billardièere, cui lo univano sia l'amore per la scienza sia la passione politica (sembra che a Parigi avesse fatto parte del club giacobino); inoltre come naturalisti erano per così dire complementari: La Billardillière era soprattutto un botanico, Riche soprattutto uno zoologo. Dunque collaborarono senza rivalità ciascuno alle ricerche dell'altro, scambiandosi esemplari, osservazioni e insegnamenti, in puro spirito di amicizia filomatica. Fedele allo spirito interdisciplinare della società, durante la spedizione Riche si occupò anche di meteorologia, geologia e chimica, nonché di misurare i venti, la salinità, la luminescenza delle acque; il suo interesse principale era tuttavia la fauna acquatica. Anche per lui, dopo gli entusiasmi iniziali, subentrò la frustrazione delle soste troppo brevi rispetto ai lunghi tratti di mare, che divenne rabbia per l'indifferenza quando non l'ostilità degli ufficiali. In una lettera a Entrecasteaux, scritta nell'agosto 1792, mentre veleggiavano verso le Molucche, Riche lamenta che non solo durante gli scali non gli è stato prestato alcun aiuto, ma che gli uomini dell'equipaggio si appropriano delle prede migliori per arricchire le proprie collezioni private. La risospota del comandante, come possiamo immaginare, fu negativa e alquanto minacciosa. L'avventura più pericolosa toccò a Riche durante la sosta a Esperance Bay, nell'Australia occidentale (14-16 dicembre 1792). Attratto da fumi intravisti in lontananza, si allontanò dagli altri, finendo per perdere l'orientamento; vagò poi per due giorni nei pressi di un lago interno, finché riuscì in qualche modo a raggiungere il mare. I compagni lo trovarono esausto su un piccolo capo ribattezzato in suo onore Cape Riche; a un certo punto aveva anche dovuto abbandonare le sue raccolte. In quelle ore disperate non aveva incontrato anima viva, eccetto tre canguri; si era sostentato solo con l'acqua di una fonte e le bacche di un'Ericacea, battezzata Leucopogon richei (oggi L. parviflorus) da La Billardière. Quest'ultimo, sollevato ma anche seccato per la sventatezza dell'amico, ne approfittò comunque per erborizzare, raccogliendo, oltre a questa pianta, Banksia repens e B. nivea, Chorizema ilicifolia, Eucalyptus cornuta e Anigozanthus rufa (la pianta nota come "zampa di canguro"). Quando la spedizione a Giava finì in catastrofe, Riche fu tra i naturalisti imprigionati come agitatori giacobini. Dopo mesi di prigionia, il 13 luglio 1794, insieme a Willaumes, Legrand, Laignel, Ventenat e 19 marinai, gli fu concesso di partire per Mauritus (Ile de France). Dopo aver deposto la sua testimonianza sul tradimento degli ufficiali, egli era tuttavia tormentato dall'angoscia di aver perso il risultato di anni di fatiche (anche le sue raccolte e le sue carte erano finite nella mani degli olandesi); chiese dunque all'assemblea coloniale il permesso di tornare a Batavia per cercare di recuperarle. Nel novembre 1794 poté infine imbarcarsi sulla Natalie, una nave che riportava a Giava dei prigionieri olandesi; a Batavia le autorità olandesi ignorarono le richieste, e, di nuovo a bordo della Natalie, il 29 marzo 1795 Riche ripartì per l'Ile de France senza i materiali, ma con la soddisfazione di aver ottenuto il riscatto di una cinquantina di altri compagni di sventura, tra cui La Billardière. Tornò poi in Francia nel giugno dell'anno seguente, ma in condizioni di tale prostrazione che si spense nel settembre del 1797, senza aver potuto riabbracciare la famiglia (avendo scoperto, anzi, che la donna amata era caduta vittima del Terrore). Una sintesi della sua vita breve ed intensa nella sezione biografie. Nelle foreste e nelle praterie alpine della Tasmania Oltre a Leucopogon richei, La Billardière nella sua Relation du Voyage à la Recherche de la Pérouse (1800) volle dedicare all'amico perduto Richea glauca (oggi Craspedia glauca, dopo essersi chiamato C. richea). Per quanto la denominazione di La Billardière abbia la priorità, è stata soppiantata a favore (come nomen conservandum) del genere Richea creato da Robert Brown in Prodromus Florae Novae Hollandiae (1810). In tal modo Riche ha tenuto a battesimo un genere strettamente legato ai luoghi che esplorò, oltre che un'indubbia meraviglia della natura che non avrebbe mancato di affascnarlo. Il genere Richea R. Br. della famiglia Ericaceae (un tempo Epacridaceae) comprende 11 specie di alberi e arbusti, nove dei quali endemici della Tasmania. Molto variabili per dimensioni, dalla nana R. alpina all'arborea R. pandanifolia, sono accomunate dai rami segnate dalle cicatrici anulari delle foglie cadute; dalle foglie che avvolgono totalmente il fusto alla base, per poi incurvarsi e assottigliarsi all'apice; i fiori, raccolti in cime o pannocchie terminali, hanno corolla chiusa e petali fusi in un opercolo. Alcune specie sono piuttosto comuni in Tasmania, dove occupano ambienti soprattutto alpini e subalpini alquanto diversificati: aree aperte aride come R. acerosa, zone paludose come R. gunnii, macchie con suolo povero come R. procera, foreste umide come R. dracophylla. La specie più singolare è R. pandanifolia, un vero e proprio albero che può superare i dieci metri: in genere ha un solo fusto non ramificato, rivestito di foglie secche persistenti, coronato da un ciuffo di lunghissime foglie lanceolate, alle cui ascelle spuntano grappoli di fiori crema o bianchi: a prima vista, nessuno penserebbe che si tratta di un'Ericacea, anzi sarebbe facile scambiarla per una palma. Fiori a parte, è ingannevole anche R. dracophylla, un arbusto eretto dal portamento disordinato che sembra evocare una Draceana. Le specie arbustive di medie dimensioni, che formano ampie brughiere, si rivelano invece per quel che sono al primo sguardo: eriche dalle fioriture stupende, soprattutto la magnifica R. scoparia, con le sue pannocchie di un ricco rosa carico. Qualche informazione in più nella scheda. Nei due anni cruciali in cui in Francia cade la monarchia e si scatena il Terrore, la surreale spedizione Entrecasteaux, decretata dall'Assemblea nazionale e finanziata da Luigi XVI, ignara di quanto avviene in patria naviga nei mari australi in nome del re e della nazione alla ricerca di quanto resta della spedizione di La Pérouse. Fallita nel suo obettivo principale - le navi avvisteranno l'isola di Vanikoro, dove La Pérouse aveva fatto naufragio, ma inspiegabilmente la supereranno senza esplorarla - e risoltasi in una catastrofe umanitaria (quasi metà degli uomini morirà durante il viaggio) sarà tuttavia un grande successo scientifico: al suo attivo, la circumnavigazione di Australia e Tasmania, la scoperta o l'esplorazione di molte isole del Pacifico, la correzione delle carte nautiche, la nascita stessa dell'idrografia scientifica, con l'ingegner Beautemps-Beaupré. Eccezionali poi i risultati botanici, grazie soprattutto al combattivo Jacques Julien Houtou de La Billardière, che, gettati alle ortiche i nomi nobiliari, volle chiamarsi semplicemente cittadino Labillardière. A ricordarlo lo splendido genere australiano Billardiera. Prologo; una spedizione di soccorso in nome del Re e della nazione Quei 219 uomini che il 28 settembre 1791 - due settimane prima il re ha giurato sulla nuova Costituzione e due giorni dopo l'Assemblea nazionale si scioglierà per lasciare il posto all'Assemblea legislativa - lasciano il porto di Brest al grido "Vive le Roi! Vive la Nation!" non sanno che il fragile compromesso tra re e nazione sta per spezzarsi, e presto non ci sarà più alcun re. Forse uno degli ultimi atti di concordia tra i due poteri è proprio la loro missione, voluta dall'Assemblea nazionale e finanziata dal sovrano: a bordo di due bagnarole, riaddobbate in tutta fretta e ribattezzate pomposamente La Recherche e L'Espérance, partono per i mari del sud alla ricerca della spedizione La Pérouse, di cui non si hanno notizie da tre anni. Sotto il comando dell'esperto ammiraglio Antoine de Bruni d'Entrecasteaux, dovranno battere palmo palmo il Pacifico, ripercorrendo l'ipotetica rotta dell'Astrolabe e della Boussole, le navi di La Pérouse. La loro sarà anche una missione scientifica, che dovrà proseguire gli obiettivi della spedizione perduta. Ecco perché a bordo c'è una quindicina di scienziati: tra gli altri, il geografo e astronomo Claude Bertrand, il mineralogista Jean Blavier, l'astronomo Ambroise Pierson, l'ingegnere idrografo Charles-François Beautemps-Beaupré. Particolarmente nutrito il drappello dei naturalisti; tutti giovani, hanno un'età media di ventisette anni. Il decano e capo in pectore è il trentunenne Jacques Julien Houtou de La Billardière, un botanico esperto che ha già all'attivo una spedizione in Siria e Libano; c'è poi il brillante naturalista e geologo Claude Riche, membro fondatore e segretario della Societé philomatique; Louis Ventenat, elemosiniere della Recherche, fratello del botanico Etienne Pierre, più interessato alla natura che al suo creatore; il chirurgo e naturalista Louis Auguste Deschamps. Li affiancano i pittori Jean Piron e Chailly-Ely e il giardiniere Félix Delahaye, scelto personalmente da André Thouin di cui è stato allievo e collaboratore. Sulle onde dell'Oceano, quegli uomini portano con sé tutte le lacerazioni e le passioni ideologiche della Francia rivoluzionaria: ci sono i bleus, gli ufficiali, nobili e monarchici; i sottoufficiali, di origini borghesi, cui è negata ogni speranza di carriera, sensibili alle parole d'ordine dei club rivoluzionari, di cui sono membri attivi più di uno degli scienziati: i più sfegatati sono i giacobini La Billardière e Riche; ai marinai tocca ovviamente il ruolo dei sanculotti. Ma tutto questo, nell'entusiasmo del viaggio, per ora non conta. Il primo scalo, a Tenerife (12-23 ottobre), offre ai naturalisti l'occasione di sfidarsi nella scalata del picco del Teide; a vincere la partita è il gruppo della Recherche, guidato da La Billardière, anche se Deschamps e Piron cedono e tornano indietro. Il destino di sventura che aleggia sulla spedizione incomincia a manifestarsi nel secondo scalo, la colonia del Capo (16 gennaio 1792). Scendendo dalla Table Mountain, Claude Bertrand scivola e fa un volo di 15 metri. Gravemente ferito, abbandona la spedizione insieme a Blavier e Chailly-Ely, provati dal viaggio. Decederà poco tempo dopo. In mare, due giorni dopo la partenza (18 febbraio), muore anche il quartiermastro; sulla base di alcune ambigue testimonianze raccolte al Capo, Entrecasteux ha deciso di dirigersi al più presto verso l'arcipelago dell'Ammiragliato, doppiando l'Australia meridionale e risalendola in direzione nord est. Non è la rotta più breve, ma è l'unica possibile con due imbarcazioni poco adatte ad affrontare i forti venti della rotta più settentrionale. Un viaggio nei mari australi Attraversato l'Oceano Indiano, il 21 aprile le due navi raggiungono l'isola Van Diemen (ovvero la Tasmania) e gettano l'ancora nella baia - ribattezzata la Recherche - dove poi sorgerà la capitale Hoban. Mentre i vascelli vengono raddobbati, gli scienziati esplorano l'interno e scoprono cigni neri (Cygnus atratus) e due nuove specie di eucalipti (Eucaliptus globulus e E. resinifera). Non lontano dalla costa il giardiniere Félix Delahaye, secondo un'abitudine che si incontra anche in spedizioni precedenti, pianta un orto con semi portati dall'Europa, che dovrebbe costituire una risorsa per le navi europee che vi faranno scalo in futuro, oltre che uno strumento di civilizzazione degli indigeni. Ripartite il 17 maggio, le navi fanno rotta a nord ovest verso la Nuova Caledonia, che raggiungono un mese dopo. Dopo aver rischiato il naufragio sugli scogli dell'isola, ne esplorano la costa occidentale, all'epoca sconosciuta, quindi proseguono verso nord fino all'arcipelago dell'Ammiragliato (28 luglio). Nessuna traccia di La Perouse. Proseguendo verso nord, Entrecasteaux tocca diverse isole; l'unico scalo di una certa importanza è la Nuova Irlanda, dove La Billardiere e Riche fanno un abbondante bottino. Costeggiata la Nuova Guinea, mentre a bordo lo scorbuto miete diverse vittime, all'inizio di settembre le navi sono costrette a fare scalo a Ambon, principale colonia olandese delle Molucche. In questo angolo lontano dal mondo le notizie tardano mesi ad arrivare; nessuno sa che nel frattempo in Europa è scoppiata la guerra e Francia e Olanda sono nemiche. I francesi sono accolti generosamente, riforniti di vettovaglie, curati; i naturalisti - a cui tuttavia non è concesso di penetrare all'interno - devono accontentarsi dei lussureggianti giardini dei loro ospiti. La sosta dura oltre un mese e le tensioni latenti incominciano a emergere; La Billardière presenta all'ammiraglio una petizione, firmata dagli scienziati e da alcuni ufficiali,con la richiesta di essere parte in causa nella scelta della rotta e degli scali. Entrecasteaux rifiuta, minacciando di lasciare gli scienziati a Ambon; a sua volta La Billardière lo minaccia di sottoporre l'affare all'Assemblea nazionale... Il caso sembra chiuso, ma in realtà tra i due partiti - monarchici e repubblicani - si sta scavando un solco; gli scienziati mettono al bando Delahaye, che non aveva firmato la petizione, mentre per il motivo opposto gli ufficiali Willaumez, Gicquel e Legrand sono esclusi dallo stato maggiore. Partita da Ambon il 13 ottobre, la spedizione passa al largo di Timor, quindi si spinge in avanti nell'Oceano Indiano, per poi tornare verso est, a nord dell'attuale città di Perth. Dopo una tempesta che rischia di gettare i due vascelli sugli scogli, si salvano attraccando in una baia prontamente ribattezzata Espérance. Agli scienziati è concesso di scendere a terra, esclusi La Billardiere e Ventenat che sono agli arresti per aver protestato contro la decisione di Entrecasteux di non esplorare la costa occidentale dell'Australia. Preso dall'entusiasmo, Riche si spinge troppo all'interno e si perde; dopo cinque giorni di assenza, l'ammiraglio decide che, se non sarà ritrovato entro ventiquattro ore, le navi partiranno senza di lui. La Billadière riesce a strappare un rinvio di 48 ore: può così scendere a terra e cercare di salvare l'amico. Riche verrà ritrovato esausto sul piccolo capo che da quel momento porta il suo nome. Il 17 dicembre si riparte in direzione sud, completando il periplo dell'Australia, di cui Beautemps-Baupré rileva con precisione la costa meridionale. Il 20 gennaio 1793 sono di nuovo in Tasmania, dove Delahaye ritrova il suo orto in pessimo stato. Ignorando che il 21 gennaio Luigi XVI è stato ghigliottinato, i nostri naturalisti si danno alla pazza gioia; divisi in tre équipes, dirette rispettivamente da La Billardière, Ventenat e Riche esplorano a fondo il territorio, fanno ricche raccolte, entrano in contatto amichevole con gli aborigeni che Piron ritrae nei suoi disegni. Il mozzo dodicenne Gabriel Abelen dice a Ventenat di aver visto lungo il fiume Huon uno strano animale con il pelo di lontra, il becco d'anitra, la coda di castoro; nessuno gli crede: l'ornitorinco dovrà aspettare altri cinquant'anni per essere scoperto. Il 14 febbraio si riparte, in direzione Nuova Zelanda; La Billardière e Riche insistono per uno scalo che permetta di ritrovare Phormium tenax, una pianta descritta da Banks e Forster, che ritengono molto utile per fabbricare cordami. La risposta di Entrecasteuax già la immaginate: i due botanici giacobini finiscono un'altra volta ai ferri. Possono invece sbarcare a Tongatapu, l'isola principale delle Tonga. All'inizio sono accolti con danze e festini erotici, ma poi l'atmosfera si guasta, finché, temendo un agguato, i francesi lasciano l'isola dopo due settimane, non senza aver caricato duecento alberi del pane che La Billardière e Delahaye, secondo gli ordini ricevuti a Parigi, intendono importare a Mauritius. Di isola in isola continuano a risalire a nord, finché ad aprile toccano la Nuova Caledonia, dove sono favorevolmente accolti dagli indigeni antropofagi e La Billardière può arricchire la sua collezione di piante. Lo scorbuto fa una vittima illustre: Huon de Kermadec, comandante in seconda della spedizione e capitano dell'Espérance. Ripreso il viaggio, nell'isola Sainte-Croix un marinaio è ucciso con una freccia da un indigeno. L'area è pericolosa e, senza fermarsi, la flotta passa al largo dell'isola di Vanikoro, ignara che proprio lì aveva fatto naufragio La Pérouse. Nei mesi successivi, errano nel clima malsano delle isole della Melanesia. Le condizioni sanitarie diventano sempre più difficili. Il 20 luglio, al largo di alcuni isolotti detti degli Anacoreti, muore anche l'ammiraglio Entrecasteaux. Il comando è assunto da Alexandre d'Hesmivy d'Auribeau, che si ammala a sua volta; mentre diversi marinai muoiono di dissenteria, il giovane luogotenente Elisabeth Rossel fatica ad imporre la disciplina a un equipaggio sempre più recalcitrante. Guarito, Auribeau riprende il comando effettivo; dopo due scali nelle isole di Buru e Bouton, gettano infine l'ancora a Madura, all'entrata del canale che porta a Surabaya, nell'isola di Giava. Epilogo: nostoi Passano giorni incerti. Un primo emissario inviato a terra non fa ritorno; un secondo torna con una scorta di soldati olandesi; dopo una breve riunione, Auribeau annuncia ai suoi uomini che sono in guerra con l'Olanda e devono considerarsi prigionieri. E' concesso di sbarcare solo ai malati e ai medici (dunque tra loro anche La Billardière, Riche e il medico capo Roussillon, a sua volta botanico) che organizzano un ospedale di fortuna. Solo in questo momento, scoprono che cosa è successo in Francia durante la loro assenza. Nella confusione generale, il governatore di Surabaya permette addirittura ai naturalisti (La Billardière, Riche, Ventenant, Deschamps, Delahaye) di continuare le loro ricerche, non sappiamo se da soli o in gruppo. Gli olandesi considerano le due navi preda di guerra; nonostante ciò, Auribeau cerca di venderle al miglior offerente; gli ufficiali repubblicani Du Portail, Willaumez e Gicquel progettano di fuggire con le navi alla volta di Mauritius. Presumbilmente in combutta con Auribeau, Chateauviux, un emigrato provenziale come lui che si è arruolato sotto bandiera olandese, prende d'assalto le navi; mentre gli ufficiali repubblicani e una parte dell'equipaggio cercano di resistere, Auribeau ammaina il tricolore e innalza la bandiera bianca con i gigli, consegnando i vascelli agli olandesi. Denunciati come sovversivi gli ufficiali Laignel, Legrand, Willaumez, i naturalisti Riche, Ventenat, La Billardière, il pittore Piron vengono posti agli arresti. I diari, le raccolte naturalistiche, le carte e i rilievi di Beautemps-Beaupré sono requisiti come preda di guerra. Tra i naturalisti due soli scampano: Louis Auguste Deschamps e il giardiniere Delahaye. Il primo lo incontreremo di nuovo in un altro post. Quanto al secondo, i suoi rapporti con La Billardière rimangono ambigui; nel suo giornale di viaggio, quest'ultimo afferma di avergli affidato parte dei suoi materiali e sicuramente la custodia dei dieci alberi del pane sopravvissuti al viaggio, che l'abile giardiniere riesce a mantenere in salute e a moltiplicare per margotta, portandoli poi con sé a Mauritius, dove li trapianterà con successo. Rientrato in Francia nel settembre 1797, diventerà giardiniere della Mailmaison, al servizio dell'Imperatrice Giuseppina. Ma torniamo ai nostri naturalisti prigionieri. Insieme a una trentina di marinai "sanculotti", con una marcia di venti giorni attraverso la giungla sono condotti sotto scorta a Samarang, dove sono rinchiusi nella fortezza. Ventenat, che è stato trasportato in barella dagli amici, è alloggiato presso un medico della città. Più tardi, quasi tutti saranno trasferiti a Batavia, mentre a Samarang rimangono solo Piron e La Billardière. Nel famigerato clima di Batavia, muoiono in molti (compreso l'ultra realista Auribeau). Nel luglio 1794, grazie a uno scambio di prigionieri, a un primo gruppo è concesso di imbarcarsi per Mauritius; tra di loro Riche (anche su di lui tornerò con un post apposito) e Ventenat, che muore poco dopo l'arrivo nell'isola. La Billardière dovrà invece attendere la libertà fino al marzo 1795. Oscura è la sorte di Piron, che in ogni caso non tornò mai in Francia; sicuramente fu al lungo insieme a La Billardière, che portò con sé in Francia alcuni dei suoi disegni. Al nostro eroe, più ancora della prigionia, pesa di essere stato privato del frutto di tante fatiche. La sua ricca collezione di piante, minerali, insetti a un certo punto viene consegnata dagli olandesi a Rossel, l'ultimo capo nominale della spedizione che le porta con sé nell'ottobre 1794 quando si imbarca su una nave olandese alla volta dell'Europa; a sua insaputa, nel frattempo in Olanda è stata instaurata la repubblica batava, alleata dei francesi, Nelle acque dell'Atlantico, la nave "nemica" è dunque abbordata e catturata dai britannici. Rossel e compagni finiscono agli arresti, mentre le casse di La Billardière, preda di guerra, vengono portate a Londra. Secondo Rossel, appartengono al legittimo re di Francia, ovvero Luigi XVIII, al momento in esilio in Inghilterra; quest'ultimo, diplomaticamente, le dona alla regina Carlotta. Ma nel frattempo La Billardière è tornato in Francia e non è disposto ad accettare il fatto compiuto. Con l'appoggio del direttorio, scrive a Banks, di cui era stato ospite in gioventù al tempo dei suoi studi londinesi, perché usi tutta la sua influenza per convincere il governo britannico che quel dono è illegittimo e l'unico proprietario di quelle collezioni è colui che per raccoglierle ha rischiato la vita. Per una volta, la ragioni della scienza hanno la meglio su quelle della politica, e le casse di La Billardière prendono la via di Parigi, mentre Banks giura che a quel materiale, pur desiderandolo, non ha dato neppure un'occhiata e non si è appropriato né di un fiore né di una foglia. Per La Billardière (anzi, per il cittadino Labillardière, come ora si firma), dopo il viaggi e la prigionia, è arrivata l'ora dello studio e della scrittura. Nel 1799 pubblica Relation du voyage à la recherche de La Pérouse che tradotto in più lingue diventa un best-seller internazionale. Illustrati con 26 tavole di ritratti e paesaggi di Piron, 3 tavole di uccelli di Audebert e 14 tavole botaniche di Redouté, i suoi due volumi hanno un valore pionieristico per la conoscenza dell'etnografia della Tasmania e della Nuova Caledonia, nonché della flora e della fauna della Tasmania e dell'Australia occidentale. Tra le piante pubblicate per la prima volta, Eucaluptus cornuta e E. globulus, Banksia nivea e B. repens, Anigoxanthus rufus e Chorizema ilicifolia. Tra il 1804 e il 1806 è la volta di Novae Hollandiae plantarum specimen, un'ampia descrizione della flora australiana, in cui La Billardière dà conto, oltre della propria collezione, anche delle raccolte di Riche e della spedizione Baudin (1800-2); include 256 disegni, alcuni dei quali ancora di Redouté. Si tratta dell'opera più ampia sulla flora australiana prima del Prodromus di Robert Brown (1810). Tra le piante descritte per la prima volta, la carnivora Cephalotus folicularis, Adenanthos obovatus, Cahnia trifida per la costa meridionale; Adenanthos, Calytrix, Astartea fascicularis, Hakea clavata, Taxandra marginata, Acacia saligna per l'Australia sudoccidentale; Eucryphia lucida e Phyllocladus aspeleniifolius per la Tasmania. Talvolta criticata per una certa confusione nelle localizzazioni e per aver incluso piante raccolte da altri botanici senza dichiararne la provenienza, l'opera fu tuttavia lodata per l'eleganza del latino e l'accuratezza delle descrizioni. Come sempre, una sintesi della vita di La Billardière nella sezione biografie. Le campanelline e le bacche di Billardiera Quasi profetica del grande ruolo di La Billardière per la conoscenza della flora australiana fu la dedica del genere Billardiera da parte di James Edward Smith in A Specimen of the Botany of New Holland, pubblicato nel 1793, quando il nostro ancora navigava ignaro nelle acque australi. Altri generi omonimi, quindi non validi, gli furono dedicati da Moench nel 1794 e Vahl nel 1796. Molto opportunamente, questo genere della famiglia Pittosporacea è endemico dell'Australia, soprattutto delle zone esplorate da La Billardière. Comprende una ventina di arbusti e rampicanti legnosi diffusi in macchie e boschi aperti delle regioni temperate, in particolare in Tasmania e nell'Australia sudoccidentale. Molte specie sono di notevole valore ornamentale come rampicanti leggere, per i fiori a campanella aperta e le bacche solitamente eduli dai colori talvolta sgargianti; tra le più notevoli, la specie tipo, la comune B. scandens, che può essere coltivata come rampicante, tappezzante o alberello, con fiori verdastri, rosati o viola e frutti elissoidali verde oliva, quindi gialli a maturazione; B. longiflora, con fiori verdastri a campana lunga e stretta, seguiti da smaglianti bacche viola; curiosamente a descriverla per primo fu lo stesso dedicatario, che l'aveva raccolta in Tasmania e la pubblicò nella sua opera sulla flora australiana. Ma sicuramente la palma della bellezza va a B. heterophylla, che fino al 2004 - quando il genere Sollya è confluito in Billardiera - era nota come Sollya heterophylla, nome con cui fu descritta da John Lindley nel 1831. E' un arbusto rampicante le cui foglie cambiano aspetto dallo stadio giovanile a quello adulto, caratterizzato da aeree cime di fiorellini a campana blu profondo, un colore insolito nei giardini. Fu introdotta in coltivazione nei paesi a clima mite almeno dalla seconda metà dell'Ottocento. Qualche approfondimento nella scheda. Le storie della botanica riservano continue sorprese. Nel periodo ancora eroico di inizio Ottocento poteva capitare che un giovane botanico, partito da Ginevra e dal lago Lemano, finisse la sua vita nel fiume San Fernando in Messico. Non senza avere cacciato, nel frattempo, orsi e bisonti insieme ai temibili indiani Comanche ed essere diventato consulente militare di un futuro presidente, grazie alla sua conoscenza ineguagliabile del territorio e ai suoi studi pionieristici sulle tribù indiane stanziate lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Questo fu il destino di Jean Louis Berlandier, allievo di de Candolle, trasformatosi per una serie di circostanze in un vero botanico della frontiera. E' giustamente endemico dell'area che esplorò il genere Berlandiera, la cui specie più nota, con il suo profumo di cioccolato, è perfetta per un ginevrino, anche se preferì dichiararsi prima francese, poi messicano. Incidenti di frontiera Nel 1821, al momento dell'indipendenza, faceva parte del territorio messicano anche il Texas, un'area tanto vasta quanto spopolata; i coloni non erano più di 3500, concentrati a San Antono e La Bahia. Per incoraggiare il popolamento, nel 1824 il governo messicano emanò la Ley General de Colonisation, che concedeva una terra a qualsiasi capo famiglia disposto a trasferirsi in Texas, quale che ne fosse la nazionalità, la religione, lo status di immigrazione. A rispondere all'appello furono sì messicani e spagnoli, nonché qualche altro europeo, ma soprattutto statunitensi. Bastarono pochi anni perché la crescente penetrazione di cittadini statunitensi, presto organizzata da imprenditori senza scrupoli, destasse la preoccupazione del governo messicano, tanto più che i confini stessi tra i due stati non erano ben definiti e si faceva sentire un'altra ingombrante presenza: quella dei nativi, in particolare i temibili Comanche. Questi ultimi, grazie alle superiori capacità militari ma anche all'abilità nel gestire i commerci a lunga distanza, avevano imposto il loro controllo sulle altre tribù; nei confronti dei coloni, alternavano l'approccio diplomatico con veri e propri attacchi, imposizione di tributi, sequestri di persona e saccheggi. Vista la scarsa presenza dell'esercito messicano, debole numericamente e privo di fondi, i coloni rivendicavano il diritto di creare proprie milizie di autodifesa contro gli attacchi indiani. Un altro motivo d'attrito con i coloni statunitensi era il possesso di schiavi, proibito o almeno ostacolato in Messico. Nel 1826, un impresario statunitense, H. Edwards, incominciò a sequestrare terre di messicani che non potevano esibire certificati di proprietà, per distribuirle ai coloni che faceva arrivare dagli Stati Uniti; di fronte alle rimostranze del governo messicano, con un gruppo di 30 coloni giunse a proclamare l'indipendenza. Il tentativo fu prontamente represso delle forze messicane, ma era un segnale decisamente preoccupante. In questa situazione esplosiva, fin dal 1825 fu decisa la creazione della Comision de Limites (Commissione della frontiera), con l'incarico di visitare il Texas per fare osservazioni astronomiche e meteorologiche, esplorare le risorse naturali, studiare la presenza indiana, censire gli insediamenti dei coloni nordamericani e determinare la linea di confine tra Messico e Stati Uniti tra i fiumi Sabina (Sabine) e Red River. Fortemente voluta dal ministro degli esteri Lucas Alamán, che aveva studiato in Europa e aveva una formazione scientifica, la commissione fu concepita come missione militare unilaterale, ma anche come una spedizione scientifica (la prima di uno dei neonati stati latinoamericani). Al comando vi era il generale Manuel de Mier y Terán, che, oltre ad essere un eroe della guerra d'indipendenza, era un uomo colto che ne curò attentamente la preparazione, procurando tra l'altro molti degli strumenti scientifici; oltre a una scorta militare, lo accompagnavano il suo segretario, il colonnello José María Díaz Noriega; il medico e tenente colonnello José Batres e il tenente colonnello del genio Constantino Tarnava, incaricati dei rilievi militari e geografici; un mineralogista, Rafael Chovell, un cartografo e disegnatore, José María Sánchez y Tapía e un medico-botanico, che avrebbe raccolto esemplari naturalistici e si sarebbe occupato della salute dei suoi compagni. Arrivava niente meno che da Ginevra; infatti Alamán, che aveva studiato con de Candolle, si era rivolto al suo maestro perché gli trovasse un naturalista che avesse anche competenze mediche; con il consenso della Società di storia naturale di Ginevra, la scelta di de Candolle cadde su Jean Louis Berlandier, allora ventitreenne, che aveva collaborato al suo Prodromus con un saggio sulle Grossulariaceae. Farmacista di formazione, Louis (come preferiva firmarsi) aveva conoscenze di base di medicina, una buona preparazione in sistematica ed era anche un ottimo disegnatore. Partito da Le Havre il 14 ottobre 1826, Berlandier circa due mesi dopo sbarcava nel porto di Tampico. Dopo circa quattro mesi trascorsi sulla costa del Golfo del Messico, da cui inviò due casse di esemplari a de Candolle, a maggio 1827 si spostò a Città del Messico, passando dalla regione di Huasteca. In attesa della partenza della spedizione, ne esplorò i dintorni, inviando ulteriori materiali a Ginevra. Nelle pianure del Texas La Commissione lasciò Città del Messico il 10 novembre 1827 per dirigersi verso i "paesi del nord". A febbraio raggiunse Laredo, sulla riva sinistra del Rio Bravo, dove era atteso dal Comandante delle Province interne del Nord, Anastasio Bustamante. Il gruppo iniziò a esplorare il territorio texano, arrivando alla fine del mese al fiume Medina, dove incontrò il generale Elosúa, che lo guidò fino a Béjar (oggi San Antonio), dove venne fissato il quartier generale. Tra marzo e maggio Berlandier raccolse esemplari botanici intorno a Béjar, Gonzales e San Felipe, quindi, dopo un breve viaggio nell'interno, durante il quale contrasse la malaria, ritornò a San Antonio. La sua attenzione si concentrò soprattutto sulle piante utilizzate dagli indigeni nell'alimentazione quotidiana o come medicinali, come Terania (oggi Leucophyllum) frutescens, che gli indiani usavano contro la sifilide, dedicata al capo della spedizione. Sviluppò anche un forte interesse per la vita e la cultura delle tribù indiane (ce n'erano circa una quarantina), in particolare per i due gruppi maggiori, gli Apache Lipane e i Comanche; con questi ultimi furono stretti rapporti cordiali, tanto che a novembre, con un gruppo di trenta soldati comandati dal colonnello José Francisco Ruiz, Berlandier poté partecipare a una battuta di caccia all'orso e al bisonte a nord ovest di San Antonio, accompagnato dai capi Comanche Reyuna e El Ronca. Alla fine dell'anno accompagnò Ruiz ad esplorare le miniere d'argento presso il fiume San Saba. Intanto il generale Mier y Terán si occupava della parte politica della missione: stabilire la linea di frontiera con gli Stati Uniti e, ancor più, visitare gli insediamenti degli immigrati statunitensi per valutare se la loro presenza fosse legale. Il risultato fu desolante: la popolazione messicana era in netta minoranza rispetta a quella anglosassone, costantemente accresciuta da un flusso di emigrati illegali, e tra i due gruppi c'era uno stato di tensione permanente. Quando, nel gennaio 1829 il generale rientrò a Città del Messico (fu richiamato per bloccare un tentativo di invasione spagnola), nel suo rapporto raccomandò di mettere fine all'immigrazione di statunitensi, costruire forti di confine, rafforzare le guarnigioni militari attorno agli insediamenti già esistenti, incoraggiando al contrario l'arrivo di coloni messicani e europei. Le misure vennero adottate troppo timidamente per essere efficaci: gli insediamenti statunitensi continuarono a crescere in modo esponenziale e nel 1836, dopo insurrezioni e battaglie, il Texas si rese indipendente, per poi aderire un decennio dopo agli Stati Uniti. Ma torniamo a Berlandier, che durante l'assenza di Mier y Terán capeggiò di fatto la commissione. A febbraio si unì a un distaccamento comandato da Antonio Elosúa, inviato a reprimere una sommossa contro il presidio militare di Goliad. Poi, in base agli ordini ricevuto da Mier y Terán, tornò a San Antonio per sistemare le proprie raccolte, da spedire a New Orleans e da qui in Europa. Secondo alcuni biografi, lo stesso Berlandier si sarebbe recato a New Orleans per mare per curare la spedizione; il viaggio è però negato da altri studiosi. Certi invece sono due fatti: il materiale giunto a Ginevra era immenso (tra il 1827 e il 1831, circa 52.000 esemplari di piante essiccate), ma invece degli elogi che si aspettava, dai de Candolle (Augustin Pyrame e suo figlio Alphonse) giunsero aspre critiche sul cattivo stato di conservazione dei materiali, a loro parere non adeguatamente preparati da Berlandier. Sarò stato forse questo a spingere il nostro botanico a decidere di rimanere in Messico; contò sicuramente anche il legame personale con il generale Terán, che, dopo aver respinto gli spagnoli a Tampico divenne un eroe nazionale; nominato comandante generale delle Province interne orientali, fissò il suo quartiere generale a Matamoros, nello stato di Tamaulipas. Qui lo raggiunse Berlandier che almeno fino al 1831 fu coinvolto in alcune missioni per conto del generale (come un'ispezione dello stato delle strade). Dopo la tragica scomparsa di Terán (che nel 1832 morì suicida), divenne medico e farmacista. Nella sua casa di Matamoros, custodì la monumentale collezione raccolta da lui stesso e dai suoi compagni, che includeva piante essiccate, animali imbalsamati, minerali, note naturalistiche sul campo, osservazioni meteorologiche e astronomiche, dati etnografici e oggetti materiali delle culture indigene del Texas e del Messico nordorientale, diari di viaggio, mappe e disegni (alcuni dei quali di sua mano). Lui vivo, a parte alcuni brevi articoli, venne pubblicato solo il diario di viaggio (Diario de viaje de la Comisión de Límites, 1850), scritto insieme a Chovell. Berlandier divenne cittadino messicano, si sposò con una messicana, da cui ebbe diversi figli, e anche dopo la rottura con de Candolle continuò i suoi viaggi e le sue raccolte, visitando sia il Texas (fu di nuovo a Goliad nel 1834) sia altre aree del paese. La sua profondissima conoscenza dei territori di frontiera divenne una risorsa strategica nel 1846, quando scoppiarono le ostilità tra Messico e Stati Uniti. Arruolato nell'esercito messicano con il grado di capitano, servì come cartografo e aiuto di campo del generale Mariano Arista (futuro presidente del Messico), disegnando le carte preparatorie della battaglia di Palo Alto (8 maggio 1846, la prima del conflitto), Terminata la guerra nel febbraio 1848 con la sconfitta messicana, nel 1850 Berlandier fu di nuovo nominato membro della commissione (questa volta internazionale) che doveva definire la frontiera tra i due stati nordamericani. Ma un incidente tragico mise fine alla sua vita nella primavera del 1851: annegò infatti mentre attraversava il fiume San Fernando. Una sintesi della sua vita, che conosciamo in realtà molto poco, nella sezione biografie. Con la sua morte, l'importantissimo materiale di cui era stato raccoglitore e custode rischiò di andare perduto. A salvarlo dall'oblio fu un ufficiale americano, Darius Nash Couch, che aveva partecipato alla guerra messicano-americana e nel 1853 era ritornato in Messico per contro dello Smithsonian Institute per esplorare la flora e la fauna del nordest messicano. Attraverso uno degli aiutanti di Berlandier, ne rintracciò la vedova, Beatriz María Concepción Villaseñor, e riuscì ad acquistare la collezione per 500 dollari per conto dello Smithsonian. Tuttavia, poiché l'istituzione statunitense era in un momento di difficoltà finanziaria e non si trovarono altri finanziamenti (un appello rivolto a Asa Gray cadde nel vuoto, poiché il celebre botanico condivideva i pregiudizi dei de Candolle sulla cattiva qualità degli esemplari di Berlandier), egli ne consegnò solo una parte allo Smithsonian - le note meteorologiche, le collezioni di minerali, piante e animali, nonché i manoscritti - rivendendo il resto a privati. Di grande importanza storica, oltre agli scritti di storia naturale, le osservazioni sulle tribù indiane, che fanno di Berlandier uno dei precursori dello studio etnografico di quelle culture; saranno pubblicate solo nel 1969 con il titolo The Indians of Texas in 1830. Un fiore dal profumo di cioccolato Nonostante le critiche, i de Candolle furono abbastanza generosi da dedicare all'infaticabile esploratore della flora texana il genere Berlandiera (nel quinto volume del Prodromus, 1836). A ricordare il botanico franco-messicano è anche il nome specifico di piante come Echinocereus berlandieri o Vitis bertlandieri e di animali come Gopherus berlandieri, la tartaruga del Texas. Il genere Berlandiera, della famiglia Asteraceae, comprende otto specie (inclusi tre ibridi naturali) di erbacee perenni o suffrutici distribuiti nelle aree aride degli Stati Uniti sudorientali e del Messico nordorientale. Morfologicamente molto variabili per dimensioni (da pochi centimetri a un metro) e forma delle foglie, sono caratterizzati da capolini i cui flosculi ligulati solitamente gialli contrastano con il disco di colore scuro. La specie più nota e più coltivata è B. lyrata, nota come chocolate flower per i suoi capolini gialli intensamente profumati di cioccolato. Molto decorativi sono anche i boccioli verde chiaro, il calice persistente dopo la caduta dei fiori e i frutti secchi. Qualche informazione in più nella scheda. L'abbé Nolin (così viene per lo più chiamato) è la primula rossa della botanica francese del Settecento. Direttore dei vivai reali dal 1765 al 1794, consigliere botanico di Luigi XV e Luigi XVI, con un ruolo di primo piano in grandi progetti come il reimpianto del parco di Versailles e la creazione della stazione sperimentale di Rambouillet, corrispondente di Franklin e di molti altri, il suo nome salta sempre fuori nelle vicende botaniche dell'epoca; eppure fu ben presto dimenticato e di lui sappiamo pochissimo. Doveroso omaggio di un botanico al quale cambiò la vita, rimane a ricordarlo il genere Nolina. Un direttore innovativo per i vivai reali Un piccolo aneddoto, riferito dal grande botanico Petit-Thouars, che a sua volta avrebbe diretto quell'istituzione, ci racconta come l'abate Pierre-Charles Nolin fu nominato sovrintendente dei vivai del re. Nolin era un modesto canonico del convento parigino di Saint-Marcel, ma si era fatto una discreta fama di naturalista e di agronomo; nel piccolo giardino annesso al convento coltivava piante rare e nel 1755 ne aveva pubblicato il catalogo nell'opuscolo Essai sur l'agricolture moderne, scritto a quattro mani con un confratello, l'abate Blavet. Nel 1764, Mme de Pompadour volle visitare quel giardino; l'abate gliene offrì i più curiosi prodotti; la favorita, colpita, lo introdusse presso il re che poco dopo lo nominò controllore dei vivai reali. Le Pépinières du Roi erano preposte alla coltivazione di alberi, arbusti, bulbose e perenni da fiore destinati alle residenze reali. Un primo piccolo vivaio era stato creato a Parigi nel 1640, ma l'enorme numero di essenze necessarie per il parco di Versailles (inizialmente prelevate in natura o acquistate da privati), lo rese insufficiente, spingendo a creare una serie di vivai anche a Versailles. Istituiti nel 1693, inizialmente occupavano appena tre arpenti, cioè poco più di un ettaro; una trentina di anni dopo, erano progressivamente cresciuti, fino a estendersi su 142 arpenti (ovvero un sessantina di ettari), divisi in 14 parcelle. Il loro scopo principale era la coltivazione degli alberi destinati ai viali e ai boschetti di Versailles e Marly: olmi, tigli, ippocastani, frassini, castagni, querce, carpini, aceri, e "épines", ovvero arbusti spinosi, in particolare prugnoli e biancospini; importanti erano anche i bossi, che formavano le bordure delle aiuole formali. Al vivaio parigino, spostato più a nord nel 1720 e da quel momento denominato Pépinières du Roule, continuò ad essere affidata la produzione di perenni da fiore, bulbose, arbusti da fiore, arbusti da potare in forme geometriche (in particolare agrifogli), esotiche. A presiedere questo complesso sistema l'ispettore dei vivai reali (controleur des Pépinières du Roi); il primo fu Noël Baudet de Morlet, che mantenne l'incarico fino alla morte, nel 1725, trasmettendolo poi al figlio, Charles-Nicolas Beaudet de Morlet, che aveva collaborato con il padre fin da giovanissimo e diresse i vivai per un quarantennio, fino al 1764, quando gli subentrò appunto l'abate Nolin. Nolin era un agronomo e un botanico innovatore, in corrispondenza con colleghi di molti paesi stranieri; proprio in Essai sur l'agricolture moderne aveva espresso apertamente le sue critiche al giardino formale alla francese e il suo desiderio che anche i giardini della sua patria si aprissero alle specie esotiche e al nuovo gusto naturale. Nelle prime righe della prefazione, leggiamo: "L'abbondanza e la varietà sono il principale merito di un grande giardino; tuttavia, osservando la maggior parte dei giardini di questo paese, sembra che l'immensa e ammirevole fecondità della Natura ci sia estranea, e che non sia fatta per noi. Gli Inglesi, gli olandesi, e anche altri, non la pensano così, e i loro giardini non sono meno ben disegnati dei nostri, e in più hanno il vantaggio di unire molte specie di alberi e arbusti. [...]. Le diverse forme date da un abile architetto non possono evitare la noiosa uniformità del nostro modo di piantare; e infatti, che cosa si trova nelle varie parti di un vasto giardino? Viali di tigli, di olmi e di ippocastani, eternamente fiancheggiati da carpini, salici e boschetti piantati allo stesso modo". Come cambiare, lo spiega qualche pagina dopo: "Piantare un vasto giardino in modo simmetrico con le stesse specie di alberi è un errore, e non lo è meno usare la stessa simmetria nell'organizzazione delle singole parti che lo compongono. Un'aria di disordine, di capriccio, quasi di trascuratezza, vuol dire dare un aspetto di verità, un'aria campestre, più analoga alla Natura e che meglio ne imita l'amabile bizzarria". Queste idee innovative, che probabilmente erano in consonanza con i gusti e i desideri del re Luigi XV, poterono realizzarsi solo in parte: non nei vivai di Versailles, il cui compito era per natura conservativo, ma piuttosto in quello parigino, che riforniva le piante per la residenza preferita del sovrano, il Trianon. La gestione dei vivai reali Infatti, i vivai reali di Versailles e di Parigi avevano compiti differenti, ed erano affidati, sulla base di un appalto, a due diversi imprenditori privati. In base ai contratti che ci sono pervenuti, quelli di Versailles avrebbero dovuto essere in grado di fornire annualmente una quantità enorme di piante: 25.000 alberi di tutte le specie e dimensioni; 9.000 alberi da frutto; 270.000 carpini di tutte le dimensioni; 450.000 olmi, aceri, "épines" e altri; 90.000 querce e castagni; 500 scatole di bossi (cioè quasi un milione di pianticelle). Di fatto, le richieste erano molto inferiori: ad esempio, tra il 1762 e il 1772, vennero forniti 8483 alberi da frutto, cioè in dieci anni meno della produzione fissata per un singolo anno. All'inizio di ogni anno, il controllore degli edifici reali redigeva una lista delle piante necessarie per la manutenzione, da consegnare nell'autunno per l'impianto; Nolin, nella sua veste di controllore dei vivai, ratificava l'ordine e lo trasmetteva all'imprenditore, che avrebbe curato la fornitura. Mediamente, per la manutenzione di Versailles, questa ammontava per ciascun anno a circa 3300 alberi, cui si aggiungevano 630 carpini, una cinquantina di scatole di bossi e altrettanti agrifogli. Ai vivai giungevano anche richieste di privati, in particolare membri della corte, che venivano accettate solo se le piante erano disponibili una volta soddisfatti gli ordini reali. In teoria, dunque, la produzione eccedeva enormemente i bisogni; in pratica, i problemi non erano pochi. Ripetutamente, Nolin lamenta che i vivai vengono devastati dai cervi, dai caprioli e dai daini, penetrati dagli accessi lasciati aperti da cacciatori e viandanti; gli animali fanno strage anche delle pianticelle trapiantate nel parco reale, decimate pure dalla mancanza di cure e dal trapianto in terreni poco adatti e ormai troppo sfruttati; l'ombra è eccessiva e toglie luce a molte piante. Si aggiunga una crescente crisi finanziaria; gli imprenditori non vengono pagati e vogliono stracciare i contratti; a loro volta non possono pagare i lavoratori, che sono ridotti alla fame. Un anno, le piante, pur disponibili nei vivai, non vennero piantate perché a Versailles mancavano i giardinieri che avrebbero dovuto occuparsi del trapianto. Il degrado divenne tale che, come vedremo, nel 1774-75, all'avvento di Luigi XVI, fu necessario un reimpianto totale. Essendo le piante destinate alla manutenzione ordinaria (i cosiddetti regarnis) e non a nuovi impianti, nessuna innovazione era in questione. Dunque oggetto delle richieste erano gli eterni e tanto deprecati olmi, carpini, querce ecc. Diverso il discorso per il vivaio parigino, destinato a coltivazioni più specializzate e aperto alla sperimentazione; su una superficie di circa 5 arpenti (un ettaro e mezzo) comprendeva venticinque quadrati, venti grandi e cinque piccoli, ciascuno con una destinazione specifica: nei cinque piccoli si coltivavano i bulbi, dei grandi uno era destinato alle margotte, quattro agli agrifogli (predisposti per la successiva potatura formale), tre alle conifere, uno ai sempreverdi, due ai lillà, sette agli arbusti da fiore (in particolare ai rosai), due alle erbacee da fiore. A parte gli agrifogli (destinati a Versailles), la produzione era rivolta ad altre residenze reali, in particolare al parco del Trianon. Qui Luigi XV, sordo alle richieste di Nolin per quanto riguarda Versailles (per lui, nulla di più che un terreno di caccia) aveva fatto costruire il Nouveau Jardin du Roi, cui non lesinava denaro e attenzioni; oltre a un piccolo zoo, comprendeva anche un frutteto modello dove si coltivavano esotiche ancora poco note in Francia e si sperimentavano sempre nuove varietà (particolarmente di moda le fragole coltivate da Duchesne). A partire dal 1759, si aggiunse un orto botanico che, sotto la direzione di Claude Richard, divenne uno dei più importanti d'Europa, con oltre 4000 varietà. Dunque, le innovazioni di Nolin qui erano benvenute. Grazie ai suoi contatti internazionali (che spaziavano dai missionari in Cina ai collezionisti britannici ai primi venditori americani) egli poteva procurarsi piante rare, da mettere a disposizione del Jardin des Plantes, dell'orto botanico del Trianon e anche dei viavai provinciali che forse vennero creati per sua iniziativa; in tal modo, secondo Petit-Thouars, la Pépinière du Roule "divenne una specie di metropoli che forniva ai vivai delle province alberi esotici utili e piacevoli". Secondo la testimonianza di Thomas Blakie, volle anche creare un giardino di acclimatazione nei pressi di Tolone o Marsiglia, dove venivano coltivate le piante ritenute inadatte agli inverni parigini; tra di esse, uno dei primi Ginkgo biloba coltivati in Francia. Nel 1774 Luigi XVI succedette al nonno; il suo regno, che si sarebbe concluso tanto tragicamente, venne salutato con speranza come una nuova era anche in campo botanico. Nolin mantenne il suo ruolo di consulente reale e fu coinvolto direttamente nei principali progetti botanici del giovane sovrano, in primo luogo il reimpianto del parco di Versailles. Attuato nell'inverno 1774-75, comportò l'abbattimento di alberi e arbusti risalenti all'epoca di Luigi XIV; le siepi che formavano le pareti delle "sale verdi" furono soppresse e sostituite con boschetti. A Nolin fu affidato il compito di indicare le specie più adatte; con l'aiuto di Leroy e Thouin, l'abate redasse una lista dettagliata, scegliendo le specie anche in base alla natura del terreno e all'esposizione. Niente costose esotiche, comunque. La preferenza andò a tigli, ippocastani e soprattutto querce. A Rambouillet, acquistato dal re nel 1773, venne invece creato un centro sperimentale che comprendeva anche un vivaio per la sperimentazione, la moltiplicazione e l'acclimatazione di essenze esotiche, soprattutto alberi forestali americani che si sperava potessero rinvigorire il patrimonio forestale nazionale. Di nuovo Nolin fu coinvolto e mise a disposizione i suoi contatti americani (tra cui Franklin, con il quale scambiava semi e pianticelle) per assicurare il successo della missione di André Michaux, inviato nel 1785 negli Stati Uniti per cercare piante adatte ad arricchire le foreste e i giardini francesi. Negli ultimi anni della sua vita, Nolin volle essere affiancato da un nipote, Louis de Lezermes. Forse il suo ultimo contributo fu la trasformazione di un giardino donato allo stato nell'isola di Hyères in giardino di acclimatazione. Qui, a partire dal 1782, Nolin creò un aranceto modello, che assicurava l'indipendenza finanziaria dell'istituzione, e un giardino destinato alla coltivazione delle specie esotiche. Scoppiata la rivoluzione, nel 1792 ebbe il dispiacere di vedere questo gioiello messo in vendita come bene nazionale, nonostante il tentativo di Broussonet di salvarlo trasformandolo in una sezione del Jardin des Plantes riservata allo studio delle piante dei paesi caldi. Nolin morì poco dopo, nel 1794 o nel 1795. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Piante che non hanno mai sete Proprio ad André Michaux, che Nolin aveva contributo a inviare negli Stati Uniti, si deve la dedica del genere Nolina (nel primo volume di Flora boreali-americana, 1803). Oggi assegnato alla famiglia Asparagaceae nel sistema APG III, è stato precedentemente assegnato alle Ruscaceae oppure a una famiglia propria, Nolinaceae (con i quattro generi Nolina, Beaucarnea, Calibanus e Dasylirion). Comprende circa 25 specie xerofile del Messico e degli Stati Uniti meridionali (dal Texas alla California), caratterizzate da una rosetta di centinaia di foglie nastriformi, coriacee, con margini seghettati, ruvidi al tatto, che in alcune specie nascono al livello del terreno, in altre coronano un tronco legnoso più o meno alto. L'infiorescenza, eretta, molto decorativa, comprende migliaia di piccoli fiori crema; a differenza di specie affini come le agavi, sono policarpiche e dioiche. Poco noto da noi (mentre è notissima Beaucarnea recurvata, spesso ancora conosciuta con il vecchio nome Nolina recurvata), comprende specie molto decorative, tutte resistentissime alla siccità, alcune delle quali sorprendentemente rustiche. Tra le più interessanti, la messicana N. nelsonii, dall'aspetto di una piccola palma, con una corona di strette foglie grigio-azzurre che si dipartono da un tronco che in un esemplare maturo può raggiungere tre o quattro metri; N. longifolia, originaria del Messico, con fusto ingrossato alla base, portamento arboreo, dimensioni imponenti, foglie molto lunghe che ricadono a cascata e infiorescenze irregolarmente ramificate che superano il metro. N. bigelowii, priva di tronco, si presenta come un grande ciuffo d'erba; originaria degli altipiani degli Stati Uniti sudoccidentali e del Messico, è rustica. Qualche approfondimento nella scheda. Non risulta che Claude Aubriet abbia mai dipinto una Aubrieta, ovvero un'aubrezia. Ma sicuramente queste piante dai colori accesi sarebbero piaciute a questo pittore, disegnatore dal tratto severo quando illustrava le opere dei suoi committenti botanici, ma colorista dai colori fin troppo esuberanti quando poteva scatenarsi nelle più decorative tavole su pergamena destinate al gabinetto reale o ai suoi clienti privati. Del resto, originario soprattutto dei Balcani e dell'Anatolia, questo genere è perfettamente adatto a celebrare il pittore che accompagnò Tournefort in Levante e disegnò per lui tante piante greche e anatoliche. Nasce l'illustrazione botanica scientifica Con tante avventure da raccontare, parlando del viaggio al Levante di Tournefort, c'è un aspetto che non ho potuto sufficientemente valorizzare: il fatto che della spedizione facesse parte anche un pittore naturalista, l'abilissimo Claude Aubriet. Prima di allora, erano stati piuttosto alcuni naturalisti, versati anche nell'arte del disegno, ad accompagnare la raccolta di piante con i propri disegni dal vivo (il caso più notevole è quello di Charles Plumier); diverso ancora il caso di Mark Catesby, pittore trasformatosi in cacciatore di piante, al servizio di una clientela avida di novità. Il viaggio al Levante è invece la prima spedizione scientifica in cui c'è una divisione dei compiti: i due botanici Tournefort e Gundelsheimer raccolgono, riconoscono e preservano gli esemplari (al primo spetta anche di descriverli), mentre il pittore li disegna. Per ora si tratta di schizzi veloci, in inchiostro di china, con poche sommarie note sui colori (quando i primi arriveranno a Parigi, Fagon si dirà deluso della loro qualità); più tardi, nell'agio del laboratorio di pittore, con l'ausilio degli esemplari essiccati, si trasformeranno in illustrazioni e quindi in incisioni. In effetti i tempi stanno cambiando: i botanici ora lavorano con l'occhio al microscopio e sono spesso i particolari più minuti a permettere di distinguere una specie dall'altra. Le tavole botaniche incominciano a prendere l'aspetto che conservano ancora oggi: c'è l'esemplare completo di tutte le sue parti, radice compresa, al momento della fioritura (per le angiosperme); a fianco, in scala ingrandita, quei particolari che permettono l'identificazione, spesso in dissezione (il fiore, l'ovario, le antere, i semi, il frutto, il rovescio di una foglia, e così via). Un momento importante di questa evoluzione è proprio la collaborazione tra Tournefort e Aubriet. Tournefort sta lavorando ai suoi Elements de botanique e si convince che "senza l'arte del disegno è impossibile che una descrizione sia perfettamente intellegibile". Gli serve un bravo illustratore. Tra le persone che ruotano attorno al Jardin des Plantes c'è anche il "miniaturista del Re" Jean Joubert che, per contratto, deve eseguire ogni anno 24 tavole di soggetti naturalistici per il gabinetto reale. Tournefort nota il talento del suo aiutante, il giovane Claude Aubriet. E' a lui che affida le illustrazioni degli Elements, guidando, si può dire, il pennello e l'occhio del giovane artista: Aubriet osserva, schizza, disegna, Tournefort spiega, indirizza l'osservazione, corregge. Nascono così le 451 tavole che corredano gli Elements e, più tardi, l'edizione latina, Istitutiones rei herbariae. Pur non mancando di pregi estetici, esse colpiscono soprattutto per la naturalezza, l'accuratezza del disegno, l'estrema precisione dei particolari utili alla classificazione. L'illustrazione botanica ha raggiunto la maturità, le esigenze estetiche sono passate in secondo piano rispetto all'esattezza scientifica. Dal contatto quotidiano e dal lavoro comune è nata anche un'amicizia, testimoniata dagli scambi epistolari tra i due. Quando a Tournefort viene ordinato di recarsi in Levante, scegliere Claude come compagno di viaggio è quasi automatico. Sarà un'esperienza estremamente formativa per il giovane pittore: educato come miniaturista, deve invece allargare i suoi soggetti anche alle mappe, ai paesaggi, alle architetture, alle medaglie e ai reperti archeologici, alle figure umane (con le quali, confessa al maestro Joubert, si trova a disagio). Deve anche imparare a schizzare in fretta, a china, finché le piante sono fresche, annotando con un sistema in codice i colori. Ne disegna moltissime (al Musée National d'Histoire Naturelle sono conservate più di 500 sue tavole di piante del Levante, più una quarantina di animali); solo alcune andranno a illustrare la Relation du voyage du Levant di Tournefort: sono quelle delle specie più notevoli, quelle che il botanico ha deciso di descrivere dettagliatamente. Di molte altre ha indicato solo il nome (progettava di scrivere una Histoire des plantes du Levant, che non poté neppure cominciare, a causa della morte precoce); e sono proprio i disegni accuratissimi di Aubriet a permettere di identificarle. Al servizio del Re e della scienza Al rientro a Parigi, Aubriet è impegnato a trasformare gli schizzi fatti durante il viaggio in tavole in bianco e nero e a colori (dipinge a tempera sia su carta sia su vélin, la pergamena più fine e di più alta qualità). Nel 1706, alla morte di Joubert, gli succede come miniaturista del Re. Al titolare dell'incarico spetta un alloggio nel Jardin des Plantes e un villino a Passy, in cambio di 24 tavole all'anno, dipinte su vélin (ce ne sono rimaste 394). Insomma, quasi una sinecura che permette a Aubriet di continuare a collaborare con i botanici del Jardin des Plantes e anche di dipingere per collezionisti privati. Per il re dipinge piante (327 tavole), ma anche soggetti zoologici, tra cui alcune farfalle (forse scoprendo così la sua vocazione di entomologo). Dopo la morte di Tournefort, collabora con Sébastien Vaillant, per il quale esegue 354 tavole per Botanicon parisiense (pubblicato in Olanda nel 1727). In quest'opera spinge ancora oltre la precisione miniaturista delle immagini, che possiamo pienamente apprezzare in piante minute come le briofite, di cui ritrae i minimi particolari servendosi di un microscopio. Per Antoine de Jussieu dipinge 166 tavole originali, 123 delle quali dedicate ai funghi (un soggetto all'epoca relativamente poco studiato). Tra i collezionisti privati che acquistano i suoi lavori, il più notevole è Michel Bégon, per il quale esegue 106 disegni, 59 dei quali su vélin; tra di essi, molte farfalle. Ma intanto Aubriet, collaborando con tanti naturalisti, ha scoperta un'altra vocazione; quella di entomologo. Da una parte collabora con Réaumur con alcune tavole per Mémoires pour servir à l'Histoire des insectes, dall'altra incomincia a allevare farfalle e a annotare metodicamente il momento della schiusa, la durata delle fasi della metamorfosi, le piante nutrici, il momento del volo, disegnando gli insetti in tutte le fasi della loro vita. Frutto di trent'anni di lavoro, le sue osservazioni dovrebbero trasformarsi in una grande opera che, al momento della morte dell'artista, è ancora allo stadio di manoscritto; l'unica testimonianza che ce n'è rimasta è il catalogo di un libraio olandese che lo mise in vendita nel 1765, molti anni dopo la morte di Aubriet; era una grossa raccolta di 2000 fogli di diverso formato, cui si univano 158 tavole di farfalle contenenti 1350 figure. Se tutto ciò è andato perduto (o giace, chissà, dimenticato in qualche collezione privata), c'è rimasto un centinaio di tavole di farfalle disegnate per Bégon e una trentina per il re Luigi XV. Anche in queste tavole, l'intento di documentazione scientifica è in primo piano, anticipando i criteri attuali: invece di dipingere le farfalle su uno sfondo naturale, in mezzo a fiori e piante, come facevano tutti i suoi contemporanei (la più nota è Maria Sybilla Merian), Aubriet monta le specie con le ali aperte, viste sia dall'alto sia dal basso, nelle due forme sessuali; disegna in dettaglio uova, bruchi e crisalidi. E' una disposizione sistematica, che si ripete con rigore in tutte le tavole. A chi fosse interessato a saperne di più, segnalo questa pagina del blog di Jean-Yves Cordier, dove sono riportate anche tutte le tavole di Aubriet sulle farfalle conservate al Musée National de Sciences Naturelles. Per qualche informazione in più sulla vita di Aubriet, che morì in età veneranda nel 1742, rimando alla sezione biografie. Aubrieta o la forza degli errori: errare humanum est? Come abbiamo anticipato, a Aubriet è legato uno dei generi più popolari, ovvero l'aubrezia, regina indiscussa di giardini rocciosi e muretti primaverili. A dedicargli questo omaggio fu Michel Adanson (che sicuramente conobbe Aubriet di persona, quando entrambi collaboravano con Réaumur), che nel 1763, in Familles des plantes, creò il genere Aubrieta staccandolo da Alyssum. Ma per chissà quale malignità della sorte, alla forma corretta si sono affiancate e sovrapposte grafie errate quali Aubrietia o Aubretia; da quest'ultima deriva il nome comune aubrezia. Errore tenace, direi travolgente: digutandi in Google il corretto Aubrieta ho ottenuto 646.000 risultati contro i 738.000 dell'erroneo Aubretia. Appartenente alla famiglia Brassicaceae. il genere Aubrieta comprende una dozzina di specie di piccole erbacee perenni rupicole con foglie persistenti grigio-verdi e fiori sgargianti, soprattutto nelle tonalità del blu, del porpora e del viola. Originario del Mediterraneo orientale, è presente soprattutto in Anatolia e nella penisola balcanica: zone esplorate anche da Tournefort, Gundelsheimer e Aubriet, che però probabilmente ne mancarono la fioritura, visto che i fiori sbocciano all'inizio della primavera. Due specie (A. deltoidea e A. columnae) fanno anche parte della flora spontanea italiana (entrambe sono molto rare da noi e endemiche di piccole aree). L'identificazione delle diverse specie pone molti problemi ai botanici, sia per l'alto grado di variabilità delle singole specie, sia per le differenze poco nette tra una specie e l'altra. Un vero rebus è poi l'origine delle decine e decine di varietà orticole che rallegrano i nostri giardini: commercializzate a volte semplicemente come Aubrieta, a volte come A. deltoidea, a volte come A. x cultorum, sono probabilmente il frutto di ripetuti incroci non documentati tra varie specie, iniziati fin dal 1700 quando la pianta incominciò a diventare popolare. Il risultato è una scelta vastissima, con una ricca gamma di colori (dal lilla chiaro al viola intenso, dal rosa al malva, dal carminio al rosso profondo; c'è anche qualche varietà bianco puro), con portamento più o meno compatto, strisciante o ricadente, foglie talvolta variegate in bianco, argento e panna; non manca qualche forma a fiore doppio. In più la coltivazione è semplice: basta avere un muretto al sole e si può dire che fanno tutto da sé. Qualche approfondimento e una lista delle cultivar più interessanti nella scheda. Nel corso di quella che è considerata la prima spedizione scientifica dell'età moderna, Joseph Pitton de Tournefort, insieme ai suoi compagni Andreas Guldelsheimer e Claude Aubriet, esplora le isole greche del mare Egeo, visita Costantinopoli, per poi raggiungere Trebisonda navigando lungo la costa meridionale del mar Nero, e di qui l'Armenia ottomana, la Georgia e l'Armenia persiana. Ovunque, raccoglie preziose informazioni geografiche, archeologiche, etnografiche. E, ovviamente piante. Alla fine il bottino ammonterà a oltre 1300 specie, di cui un terzo ignote alla scienza, e 25 nuovi generi. Uno sarà dedicato al compagno di viaggio Gundelsheimer, ribattezzato alla latina Gundelius per fare da padrino a Gundelia. Quanto a Claude Aubriet e al genere che lo celebra, aspettate il prossimo post. In viaggio per la gloria del Re Sole E' con entusiasmo che, sul finire del 1699, Joseph Pitton de Tournefort accoglie l'ordine reale di partire per il Levante. Tuttavia, due preoccupazioni lo convincono che è meglio trovare dei compagni di viaggio: da una parte, la prospettiva di cadere malato lontano da casa, in un paese di cui non conosce la lingua, dove vengono praticate chissà quali barbare cure; dall'altra, la consapevolezza che, tra le sue tante abilità, non c'è quella del disegno. Ad accompagnarlo saranno uno dei suoi allievi, il medico tedesco Andreas Gundelsheimer, e Claude Aubriet, il pittore che aveva illustrato i suoi Elements de botanique. A volere fortemente il viaggio e a convincere il re sono stati il protomedico Fagon, protettore e estimatore di Tournefort, e il segretario di stato, il conte di Pontchartrain; e qualche parte nel progetto l'ha giocata anche l'abate Bignon, nipote del ministro e segretario dell'Accademia delle scienze. Il principale obiettivo scientifico è identificare sul campo le specie descritte da Teofrasto e Dioscoride, ancora così importanti per la medicina del tempo; ma si dovranno anche raccogliere ogni genere di notizie sulla geografia antica e moderna, gli usi e i costumi, la religione, i commerci, a maggior gloria del re e a beneficio degli interessi anche economici della Francia. Le informazioni raccolte, insieme al resoconto del viaggio, raggiungeranno periodicamente la Francia sotto forma di 22 ampie lettere inviate da Tournefort al ministro; è su questa base che al rientro in patria egli stenderà Relation d'un voyage du Levant fait par ordre du roy . Anche nella redazione finale questo bellissimo racconto di viaggio mantiene in molte sue parti la freschezza della forma epistolare, che, al là di un certo sovraccarico di erudizione, trasmette viva al lettore la personalità del suo autore, osservatore attento e lucido, ma anche uomo di spirito sempre pronto a ironizzare in primo luogo su stesso. Alla scoperta delle isole greche Il tre amici il 9 marzo 1700 si mettono in viaggio alla volta di Marsiglia; il 23 aprile si imbarcano sulla nave commerciale L'Esprit, che con una navigazione fortunata e rapidissima, senza scali, in una settimana li porta a La Canea, nell'isola di Creta. All'esplorazione dell'isola (celebrata nei testi antichi per la sua ricchezza di specie officinali) dedicano tre mesi, per poi spostarsi nell'arcipelago delle Cicladi. Seguendo in itinerario condizionato dagli imbarchi (approfitteranno anche di una nave corsara) e dalle condizioni meteorologiche, in circa otto mesi visiteranno ben 34 tra isole e isolotti, quasi tutte quelle all'epoca permanentemente abitate. E' un viaggio naturalistico (raccolgono centinaia di piante, esplorando anche montagne e luoghi impervi, interrogano la popolazione sui nomi locali, nella speranza di ritrovare qualche traccia delle denominazioni antiche), un'esplorazione geografica (non mancano mai di ascendere alla cima più alta di ciascuna isola, per fare il punto e correggere le carte), un viaggio turistico e archeologico (visitano ogni curiosità degna di nota, dai resti della civiltà greca ai monasteri, dal presunto labirinto di Gortyna a Creta alla splendida grotta di Antiparo). Tournefort raccoglie notizie sulle produzioni locali (come la resina di terebinto e il ladanum, una sostanza usata in profumeria estratta dal Cistus ladanifer), sulle risorse economiche, sull'amministrazione turca, sulla religione ortodossa, sulla composizione delle comunità locali e persino sugli abiti delle donne; non mancano mai informazioni sul cibo e sui vini. E' la prima vasta ricognizione delle isole greche di epoca moderna: con il viaggio di Tournefort, all'immagine idealizzata della Grecia sorta dalla lettura dei classici, incomincia a sostituirsi quella della Grecia reale, un mondo spesso miserabile, ignorante, superstizioso; Tournefort osserva con occhio impietoso e giudica lucidamente con un pizzico di sciovinismo l'arroganza e la rapacità dei funzionari turchi, la passività dei greci, la sporcizia, le campagne devastate dalla guerra, la miseria che regna quasi ovunque, in contrasto con la ricchezza della Chiesa che, grazie alla manomorta, possiede quasi sempre le terre migliori. Gli intrepidi viaggiatori sopportano con buon umore le vicissitudini del viaggio: a Thermia, scambiati per banditi, rischiano il linciaggio; a Raclia, poco più di uno scoglio, rimangono bloccati senza né cibo né acqua; a Stenosa sono ridotti a nutrirsi di lumache di mare; a Joura non osano chiudere gli occhi per il terrore che i topi che infestano la cappella dove si sono ritirati per la notte gli mangino le orecchie; a Zia il loro sonno è interrotto da lamenti angosciosi (non sono né fantasmi né pirati, ma una colonia di foche); a Nio sono abbandonati dai marinai, timorosi di una presunta incursione corsara; più volte rischiano il naufragio. Dall'Anatolia all'Armenia e ritorno Nel marzo 1701, dopo aver svernato tre mesi a Mykonos, si rimettono in viaggio verso Istanbul. Qui, grazie all'ambasciatore francese, si aggregano alla carovana di un pasha turco diretto a Erzrum, capitale dell'Armenia ottomana. Navigando lungo la costa meridionale del mar Nero (ma i pernottamenti a terra e le lunghe soste permettono di erborizzare e di fare qualche puntata all'interno) dopo un mese esatto (23 maggio 1701) raggiungono Trebisonda. Mentre la carovana riposa, i tre infaticabili botanici vanno alla ricerca di piante rare al monastero di Sumela: costruito su uno strapiombo che "metterebbe in difficoltà il più abile dei funamboli", nonostante le vertigini li delizia con le sue foreste di conifere che non hanno nulla da invidiare a quelle delle Alpi. Ma non possono trattenersi, perché il visir è già ripartito alla volta di Erzrum; si affrettano a raggiungerlo: viaggiare da soli sarebbe troppo pericoloso, perché le strade sono infestate dai briganti. Superando le montagne della Catena Pontica, penetrano nell'Armenia ottomana. Per la prima volta, Tournefort ha l'impressione di essere davvero in Levante. E' un paesaggio aspro e roccioso dove, nonostante la stagione avanzata, domina ancora la neve. Durante la marcia, suscitando lo stupore e l'ilarità dei mercanti che seguono la carovana, scendono spesso da cavallo per raccogliere ogni erba interessante; capita persino di erborizzare al lume della luna. Il 15 giugno sono a Erzrum, dove si fermeranno tre settimane. Le sorgenti dell'Eufrate, dove si sono spinti in compagnia di un vescovo armeno, nonostante l'area sia infestata da bande curde, fanno da scenario all'avventura più esilarante; mentre bevono quelle freschissime acque, mescolate con il vino per mitigarne il gelo, i temuti curdi si manifestano e sembrano moltiplicarsi. Sarà vero o sono loro che ci vedono doppio, tanto più che la paura spinge a replicare le bevute? I curdi ci sono davvero, ma sono amici del vescovo e tutto finisce bene. Quando sentono che una carovana di mercanti è in partenza per Tiflis, la capitale della Georgia, allora sotto l'impero persiano, afferrano l'occasione al volo e, muniti di un salvacondotto dell'amico pasha, si aggregano. A Kars, la frontiera tra i due imperi, sono trattenuti per due giorni da un funzionario che li scambia per spie russe; superato quest'ultimo ostacolo, entrano in territorio persiano, dove sono deliziati dalla disponibilità degli abitanti, tanto diversi dai sospettosi e rigidi turchi. Le ubertose e ben coltivate campagne georgiane, tanto in contrasto con la rocciosa e spoglia Armenia ottomana, fanno loro pensare di essere nel più bel paese della Terra, anzi in un lembo del Paradiso terrestre. Da Tiflis proseguono per l'Armenia: a Echmiadzin rendono omaggio al patriarca armeno, poi continuano fino a Erevan. A dominare il paesaggio è la cima dell'Ararat: secondo le voci che raccolgono, è negata all'uomo per volere divino perché, sotto cumuli di neve, ancora vi giace l'arca di Noè. Ma la montagna sembra a due passi, e come potrà resistere al suo richiamo quell'alpinista ante litteram che è Tournefort? I tre, concordi, giurano che devono arrivare almeno a toccarne le nevi; e, nonostante una scalata difficilissima, ci riusciranno. Sulla strada del ritorno, diretti di nuovo a Erzrum dove hanno lasciato quasi tutti i bagagli, poco dopo aver superato la frontiera turca, al passaggio di un guado Tournefort rischia di annegare. Dopo un breve soggiorno a Erzrum, dedicato soprattutto alla raccolta di semi, è ora di tornare a casa. Il cammino sarà lungo, ma a Tournefort pare già di vedere i campanili della dolce terra di Francia. Partiti a fine settembre, dopo aver attraversato l'intera Anatolia, passando da Tokat, Ankara e Bursa, arriveranno a Smirne a metà dicembre. L'inverno è dedicato a escursioni archeologiche e alla visita di alcune isole del Dodecanneso. E' soltanto il 23 aprile 1702 che si imbarcano sulla Soleil d'oir: al contrario di quello d'andata, il viaggio di ritorno sarà reso lungo e penoso dal maltempo; costretti prima a uno scalo a Malta, dopo 40 giorni di navigazione devono sbarcare a Livorno, da cui una feluca li porterà a Marsiglia. E' il 3 giugno 1702. Il bottino botanico (per tacere dell'enorme mole di notizie di altro genere) è immenso: 1356 specie, un terzo delle quali non ancora descritte, e 25 nuovi generi. I semi di molte germineranno e prospereranno al Jardin des plantes; vorrei ricordarne almeno tre, oggi molto amate nei giardini: i due rododendri originari delle rive del mar Nero, Rhododendron ponticum e R. luteum, e il popolarissimo Papaver orientale. Gundelsheimer e la Gundelia Tra i generi nuovi c'è anche Gundelia, e questa è la storia del suo "battesimo". Durante la marcia da Trebisonda a Erzrum, i tre botanici sono colpiti da un bellissimo cardo; il primo a segnalarlo è Andreas Gundelsheimer. E' dunque giusto che la nuova pianta porti il suo nome. Ma come trasformare il suo barbarico cognome in un accettabile nome latino? Gli amici discutono un po', finché si convincono che il nome giusto è Gundelia. E proprio mentre i musicisti che accompagnano il pasha intonano una marcia (certo di buon auspicio) si brinda al nuovo genere, ma solo con acqua: cosa opportuna e benvenuta, aggiunge Tournefort, per una pianta che vive nei luoghi più aridi e rocciosi. Prima di congedarci dai tre allegri viaggiatori, due parole su Gundelsheimer. Bavarese, aveva studiato in Olanda e in patria, dove si era laureato in medicina. Aveva vissuto per qualche tempo anche in Italia, per trasferirsi a Parigi proprio per frequentare le lezioni di Tournefort. Dopo il viaggio in Oriente, divenne medico militare e servì dapprima nell'esercito francese (combatté anche in Piemonte durante la guerra di successione spagnola). Tornato in Germania, divenne medico personale dell'elettore di Brandeburgo. Fu tra gli ideatori del Museo di anatomia di Berlino. Morì in ancora giovane età durante l'assedio di Stettino. Qualche informazione in più nella biografia. Ma torniamo a Gundelia (il genere è stato accettato e ufficializzato da Linneo in Species plantaurm 1753). Anche se in epoca recente sono state avanzate altre proposte, la maggior parte degli studiosi lo considera un genere monotipico con una sola specie molto variabile, G. tournefortii. E' un'Asteracea spinosa che assomiglia molto a un cardo, diffusa in una vasta area che dal Medio Oriente arriva all'Asia centrale e all'Afghanistan. In primavera germoglia da una rosetta di foglie; poi, man mano che la stagione avanza, la pianta ingiallisce e diventa sempre più spinosa; quando è quasi secca, basta un soffio di vento per staccarla dalle radici: è una strategia per favorire la diffusione dei semi. Per questa particolarità, in Palestina è soprannominata "cardo che rotola". I germogli giovani e i capolini immaturi sono molto apprezzati nella cucina di diversi paesi; il sapore viene descritto come intermedio tra l'asparago e il carciofo. Nella medicina tradizionale, le sono attribuite anche diverse proprietà officinali. Qualche approfondimento nella scheda. Quanti personaggi diversi è stato Joseph Pitton de Tournefort, il più importante botanico francese del Seicento! Seminarista scavezzacollo che scala muri per "rubare" piante; viaggiatore intrepido che sfida gli elementi, i briganti, fatiche di ogni genere, percorrendo le strade della Francia, della penisola iberica e le rotte del Levante; a soli 27 anni, professore carismatico di botanica al Jardin des plantes, forse il primo botanico professionista della storia; teorico e creatore del più diffuso sistema tassonomico prelinneano; autore rinomato per la chiarezza delle sue descrizioni, che impose definitivamente il concetto di genere; vittima di un incidente tragico che anticipa la sorte di Pierre Curie. E, ovviamente, dedicatario del linneano genere Tournefortia. Le trasformazioni del Giamburrasca della botanica Basta osservare i ritratti di Joseph Pitton de Tournefort per capire che ci troviamo di fronte a uno spirito anticonformista. In un'epoca in cui Luigi XIV aveva imposto a cortigiani e funzionari pompose parrucche e abolito barba e baffi, ostenta corti capelli ricciuti, baffi e una barba che, in alcune versioni che lo ritraggono al ritorno del viaggio in Levante, si allunga a ventaglio fino a metà petto. Non aveva paura di sfidare le convenzioni, come non aveva esitato a affrontare la verga paterna, i banditi dei Pirenei o i disagi di un viaggio dal porto di Marsiglia alle pendici dell'Ararat. Come cadetto di una famiglia della nobiltà di toga di scarse fortune, il padre lo destina al sacerdozio. Tuttavia, alle lezioni di latino e teologia impartite nel seminario dei gesuiti di Aix, sua città natale, Joseph preferisce di gran lunga la botanica, cui è stato iniziato dal farmacista Jacques Daumas. Grazie a quest'ultimo, trova un compagno di avventure in un altro allievo del collegio, di poco più giovane, Pierre Garidel. Da solo o con l'amico, sfidando le punizioni paterne marina le lezioni per battere la campagna alla ricerca di nuove piante, senza farsi intimorire da recinzioni, staccionate e muri. Un bel giorno il nostro Giamburrasca della botanica, scambiato per un ladro mentre scavalca il muro di un frutteto, viene preso a sassate dai contadini. Altrettanto proibita è la sua passione per Cartesio, un autore considerato poco ortodosso, che studia di straforo nella biblioteca paterna. Nel 1676, la morte del padre lo libera da una carriera ecclesiastica senza vocazione. Ma prima di iniziare studi seri, per festeggiare la liberazione, parte con Garidel per la prima delle sue lunghe scorribande botaniche. Sul loro cammino incontrano un altro appassionato, il frate minimo Charles Plumier, che diverrà ben presto il loro mentore e li accompagnerà nelle montagne del Delfinato e in Savoia. Nel 1679 Pitton va a studiare medicina, anatomia e botanica a Montpellier, dove rimane due anni e si lega con Pierre Magnol. Ma allo studio libresco preferisce l'esplorazione sul campo: percorre la Linguadoca, poi i Pirenei e la Spagna, che visiterà a più riprese tra il 1681 e il 1689. Nel corso di questi viaggi, compiuti ora da solo, ora con altri studiosi spagnoli e francesi, affronta disagi e pericoli di ogni tipo: rimane sepolto dal crollo del tetto di una baita, prima di essere tratto in salvo dai paesani; più volte, incontra i banditi che infestano la regione. Per non farsi derubare, nasconde il poco denaro che porta con sé in una pagnotta di pane nero, rustico e ben poco appetibile (in seguito dirà che il cibo pessimo era stato una prova peggiore dei briganti di strada). Ma intanto la sua fama di botanico ha raggiunto Parigi, e Guy Fagon, all'epoca medico della regina, lo chiama nella capitale ad assumere la cattedra di botanica al Jardin des Plantes. E' un insegnante carismatico, che richiama allievi non solo dalla Francia, ma dall'intera Europa; tra di essi, i britannici Hans Sloane e William Sherard. Non per questo cessa di viaggiare: nei mesi estivi torna in Spagna, va in Portogallo, poi in Olanda (qui gli viene offerta una cattedra alla prestigiosa università di Leida, che rifiuta) e in Inghilterra. Viaggia per studio, ma anche per incarico del re, che, impressionato dalla sua sapienza botanica, gli chiede di raccogliere esemplari per arricchire il Jardin des plantes. Intanto Tournefort progetta la stesura di una Histoire naturelles des plantes, catalogo monumentale di tutte le specie conosciute. Per incoraggiarlo in questo intento, il cancelliere Pontchartrain e suo nipote, l'abate Bignon, ne favoriscono la nomina all'Accademia delle scienze (1690); è la prima volta che questo onore tocca a un botanico, per altro privo della prescritta laurea in medicina. Per evitare di creare un precedente, Tournefort ritorna sui banchi e in due anni consegue la laurea. Il sistema di Tournefort Nel 1694 l'Accademia abbandona il costoso progetto dell'Histoire naturelle; Tournefort ripiega su un'opera più breve, destinata ai suoi studenti: Elemens de botanique ou méthode pour connaitre les plantes; proprio come l'ammirato Discours de la méthode di Cartesio, è scritto in francese, con una scelta rivoluzionaria che allarga il pubblico anche ai semplici appassionati. Corredata da 451 ottime tavole disegnate da Claude Aubriet e caratterizzata da uno stile limpido, veramente cartesiano, l'opera ottiene un enorme successo, che spinge Tournefort a tradurlo egli stesso in latino per metterlo disposizione degli studiosi europei; con il titolo Institutiones rei herbariae l'edizione latina esce a partire dal 1700. In queste opere Tournefort espone il suo sistema di classificazione delle piante, il più diffuso prima di quello di Linneo. Proprio come quest'ultimo, si tratta di un sistema artificiale, che non pretende di ricostruire l'ordine naturale del mondo vegetale (cui mirava il contemporaneo John Ray, che del sistema di Tournefort fu uno dei maggiori critici) ma di offrire un metodo "chiaro e distinto" per riconoscere e classificare le piante. Assumendo come criterio di classificazione principalmente la struttura della corolla e del frutto, il botanico provenzale descrive più di 10000 piante, raggruppandole in 22 "classi" e in 698 generi. Proprio la precisa definizione di genere (un concetto non nuovo, ma fino ad allora mai utilizzato in modo così chiaro e sistematico) è il maggiore merito di un sistema che, comunque, per la sua chiarezza e semplicità ottenne grande successo, imponendosi anche in altri paesi. Nello stesso 1694, Tournefort che ormai è il vero direttore scientifico del Jardin des plantes (Fagon, ormai divenuto primo medico del re e intendente, gli lascia mano libera), fa ripiantare le parcelle didattiche dell'orto in base al proprio sistema (che continuerà ad essere usato al Jardin des plantes fino al 1773, ovvero ancora vent'anni dopo l'uscita di Species plantarum di Linneo). Ormai il destino dell'irrequieto botanico viaggiatore sembrerebbe quello di un tranquillo accademico: ma nel 1700, su proposta di Pontchartrain, riceve l'ordine del re di partire per il Levante. Ha 44 anni, una solida posizione accademica, ma come potrebbe rifiutare un ordine del re, tanto più che risponde ai suoi più profondi desideri? E così si rimette in viaggio. Ma questa è una storia così bella che merita un post tutto per sé. Dopo due anni avventurosi, Tournefort è di nuovo a casa, con un immenso bottino. Pubblica un supplemento agli Elements aggiungendo le specie raccolte in Levante (una conferma del suo sistema, perché le nuove specie vanno tutte a inserirsi nei generi già determinati). Nel 1706 ottiene la cattedra di medicina e botanica al Collège royal; intanto attende alla revisione del resoconto del viaggio in Levante (uno dei libri di viaggio più belli e tuttora appassionanti del secolo). Ma dopo tanti viaggi, tante avventure, il destino lo attende a pochi passi dal Jardin des plantes: mentre vi si reca, viene urtato violentemente da un carretto che lo schiaccia contro un muro; perde moltissimo sangue e, dopo qualche mese di sofferenza, si spegne a 52 anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La sfuggente Tournefortia Nel 1700, in Institutiones rei herbariae, Tournefort aveva reso omaggio all'amico e maestro Plumier dedicandogli il genere Plumeria. Nel 1703, il frate ricambiò il favore, battezzando Pittonia uno dei nuovi generi scoperti nei suoi viaggi nelle Antille. La dedica fu accolta da Linneo in Species plantarum (1753) che tuttavia mutò il nome in Tournefortia, facendo notare che se in Francia il botanico provenzale era noto anche con il cognome, all'estero tutti lo conoscevano con il titolo nobiliare. Tournefortia è un grande genere della famiglia Boraginaceae (o Heliotropiaceae, secondo proposte recenti), affine ad Heliotropium; a quest'ultimo tradizionalmente vengono assegnate le specie erbacee, mentre a Tournefortia le specie arbustive e i rampicanti legnosi. Una distinzione semplice, di evidenza cartesiana, ma purtroppo semplicistica, che negli ultimi anni è stata messa in discussione dalle ricerche basate sul DNA. Allo stato attuale (molto rimane da chiarire) a Tournefortia sono assegnate 100-150 specie di arbusti, alberelli e rampicanti legnosi per lo più neotropicali (dagli Stati Uniti meridionali fino al Perù); a distinguerlo da Heliotropium, più ancora che il portamento, sono l'habitat (le foreste aride per Tournefortia, le zone aride aperte e per lo più sabbiose per Heliotropium), alcune particolarità dei fiori, le infiorescenze sparse e non allargate, e soprattutto i frutti, drupe che non si dividono in mericarpi. Come non di rado avviene, le specie più note sono ora transitate in altri generi: la più diffusa, T. argentea, è ora Helitropium fortherianum. Nonostante qualche incertezza, la maggior parte delle fonti continua ad assegnargli T. gnaphalodes, un arbusto dal portamento espanso delle aree costiere della Florida e delle Antille, noto come lavanda di mare. Tra le specie più comuni T. hirsutissima, una liana ricoperta di una densa peluria che si arrampica sugli alberi delle foreste aride, diffusa in Florida, Messico, America centrale, Venezuela, Perù e Bolivia. Qualche informazione in più nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
March 2024
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